28 March, 2024
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Sabato 16 marzo si è tenuto all’Hotel Regina Margherita il Convegno “Heart Cagliari 2024 – Conversazioni e riflessioni attorno al cuore” (sessione infermieristica) che ha visto la partecipazione di infermieri delle cardiologie e cardiochirurgie di tutta la Sardegna.
Il Convegno Cardionursing 2024 nasce dall’esigenza di fornire un approfondimento e confronto tra le competenze specifiche e le competenze tecnologiche in ambito cardiologico e cardiochirurgico.
La giornata, suddivisa in tre sessioni, ha affrontato tematiche di presa in carico del paziente con scompenso cardiaco, lo sviluppo delle nuove tecnologie e della telemedicina, che rappresentano un vero e proprio cambiamento di paradigma nella professione infermieristica. È stata inoltre dedicata, in sessione plenaria, uno spazio alla condivisione delle linee di ricerca infermieristica ambito cardiologico, come punto fondamentale di riflessione, condivisione e crescita professionale.
L’obiettivo del convegno è stato quello di fornire un aggiornamento di elevata qualità scientifica, finalizzato al miglioramento della pratica clinica con un’attenzione particolare per l’appropriatezza e la costo/efficacia degli interventi, denso di messaggi da applicare nella quotidianità per rendere più agevole e sicura la pratica professionale.
Alla prima sessione, dedicata alla “Governance dello scompenso cardiaco” e moderata da Barbara Collu (Oristano) e Antonello Cuccuru (Carbonia), hanno partecipato due coordinatrici infermieristiche della ASL Sulcis Iglesiente: Brunella Porcu, incaricata di funzioni organizzative della Struttura complessa di Cardiologia e UTIC del Presidio ospedaliero Sirai, e Mirka Tola, incaricata di funzioni organizzative del Poliambulatorio del Distretto socio sanitario di Iglesias.
Lo Scompenso cardiaco (Sc) cronico rappresenta una delle principali cause di mortalità, morbilità ed assorbimento di risorse nei paesi occidentali. La prevalenza, pari circa al 2% della popolazione, cresce in maniera esponenziale con l’età ed è in continuo aumento per l’invecchiamento generale.
Il DRG 127 “insufficienza cardiaca e shock” è numericamente al secondo posto dopo il parto non complicato e rappresenta la prima causa di ricovero negli over 65 anni.
I pazienti con scompenso cardiaco hanno in genere più condizioni morbose, vanno incontro ad esacerbazioni imprevedibili, sintomi invalidanti, stato funzionale limitato e una scarsa qualità della vita. Il fenomeno che gli anglosassoni chiamano “revolving door syndrome”, ovvero “sindrome della porta girevole”, cioè il continuo passaggio tra ospedale e domicilio, caratterizza fortemente questa patologia.
Diventa pertanto fondamentale, a fronte della dimensione del fenomeno e del peso economico generato dallo Scompenso cardiaco, garantire percorsi diagnostici terapeutici assistenziali (PDTA) inclusivi di efficaci interventi di “case management” infermieristico.
In tale prospettiva, l’intervento di Mirka Tola, ha illustrato l’esperienza dell’Ambulatorio dello scompenso cardiaco del distretto di Iglesias nella prevenzione della ri-ospedalizzazione, a 9 anni dalla sua attivazione. L’attività condotta in questi anni ha consentito di diminuire sensibilmente il ricorso ai nuovi ricoveri attraverso l’implementazione di un PDTA aziendale caratterizzato da interventi di presa in carico infermieristica precoce e follow-up strutturati al fine di ridurre i tassi di riammissione e migliorare gli outcomes.
Il follow-up telefonico viene condotto seguendo una check list che include diversi items: condizioni del paziente, necessità di chiarimenti specifici, aderenza alla terapia farmacologica, monitoraggio dei parametri (pressione arteriosa, diuresi, peso). A supporto degli interventi di educazione terapeutica individuali si sono prodotti materiali informativi/educativi (cartacei) con strategie “health literacy” al fine di potenziare l’empowerment del paziente e del caregiver (qualsiasi persona esterna o interna alla famiglia che si prende maggiormente cura della persona malata in modo informale).
L’ambulatorio per lo Scompenso cardiaco è gestito direttamente da un gruppo dedicato costituito da un cardiologo e da infermieri altamente specializzati, che lavorano in stretta collaborazione tra loro.
Il secondo intervento, presentato dalla coordinatrice della Cardiologia, Brunella Porcu, ha illustrato il lavoro svolto dalla Struttura complessa di Cardiologia del Presidio ospedaliero Sirai nell’adozione del processo di self care.
Il self-care è un “processo decisionale messo in atto dal paziente per preservare la salute e gestire la malattia cronica” (Riegel et al., 2018).
Il self-care è anche un fenomeno di interesse infermieristico perché include comportamenti di vita quotidiana modificabili su cui l’infermiere può agire durante l’intero processo assistenziale.
Si compone di tre dimensioni:
– self-care maintenance: comportamenti volti a migliorare il benessere e mantenere la salute (es. praticare attività fisica, aderenza alla terapia);
– self-care monitoring: comportamenti di sorveglianza di segni e sintomi della malattia (es. monitoraggio della pressione arteriosa, della glicemia);
– self-care management: comportamenti di gestione di segni e sintomi della malattia (es. modificare l’attività fisica o la dieta).
Diversi studi internazionali hanno dimostrato che se i pazienti con Scompenso cardiaco effettuano un efficace self-care, si riducono i loro accessi in pronto soccorso come pure il numero di ricoveri impropri.
L’esperienza condotta nella Cardiologia del Presidio ospedaliero Sirai ha permesso inoltre di sviluppare e validare strumenti specifici di misura per identificare i pazienti con deficit di self-care e concentrare gli interventi educativi sui pazienti a rischio, con il coinvolgimento del caregiver prima della dimissione.

Sollecitato dalla recente pubblicazione del sapiente Mario Marroccu, past Direttore della Struttura Complessa di Urologia del Presidio ospedaliero Sirai, dal titolo: “in sanità siamo tutti colpevoli”, volevo contribuire alla discussione sui diversi attori che governano la sanità con un’ulteriore riflessione sul ruolo del manager in sanità, con o senza precedente esperienza clinica. Illuminato.
Senza voler delimitare gli ambiti delle mie responsabilità (ed eventuali colpe) di dirigente sanitario (con provenienza da una professione tecnico specialistica di infermiere), riprendendo alcune illuminanti considerazioni tratte dal libro di Annalisa Pennini, “10 brevi lezioni per manager in sanità”, provo a sollecitare alcune riflessioni.
Manager in sanità si diventa partendo spesso da una professione clinica e iniziando a svolgere una funzione manageriale come coordinatore, dirigente, responsabile o direttore.
Il passato come clinico è sicuramente una grande ricchezza ma, affinché non diventi un ostacolo alla nuova prospettiva, deve essere considerato un aspetto da gestire: lo scenario è cambiato e ci si trova a svolgere un lavoro totalmente diverso da prima, si tratta del passaggio dal lavoro in “prima linea” al lavoro “dietro le quinte”.
Il manager in sanità è quasi sempre un ex clinico. Anche nella nostra ASL (ex USL, ASSL), a parte alcuni ex Direttori Generali (il compianto Giuseppe Ricciarelli, Emilio Simeone, Maurizio Calamida, Maddalena Giua, per citarne alcuni) che non possedevano una formazione di tipo sanitario e quindi non provenivano dall’attività clinica, i restanti avevano tutti un passato di pregresse esperienze in ambito clinico e questo ne ha influenzato l’identità e le modalità di interazione con l’organizzazione.
Parlare di chi oggi ricopre funzioni di dirigenza e si è trovato in passato a svolgere attività clinica e a vivere il passaggio fra essere un clinico e gestire i clinici, richiede alcune precisazioni preliminari.
Quando si utilizza il termine clinico, si intende qualsiasi ambito dell’attività sanitaria, dove il professionista svolge una funzione operativa a contatto con le persone assistite o con processi di lavoro in prossimità di esse. Parlando di clinici, non si fa distinzione di professione e si vogliono includere tutte le comunità professionali che operano in sanità. I termini non vengono utilizzati come sinonimi di medico o medici, ma come suggerito dall’etimologia della parola, che spiega che il termine clinico deriva dalla parola “letto” (Kline in greco) o che si fa presso il letto (klinikòs). Nella presente riflessione si farà quindi riferimento estensivo e inclusivo di ogni attività o funzione di “prima linea” o strettamente collegata con essa, come ad esempio le attività diagnostiche di laboratorio o di radiologia.
La seconda precisazione riguarda l’utilizzo del termine manager che, in questa valutazione, viene riferito a chiunque all’interno dell’organizzazione conduca qualcosa o qualcuno. Anche in questo caso, l’etimologia della parola sostiene questa scelta. Infatti, dal latino “manu agere” deriva l’attuale “condurre con la mano”. Dal successivo passaggio attraverso la lingua francese si trova la vicinanza con “maneggio” o “maneggiare”. Pertanto, il riferimento può essere allargato a tutti coloro che, a vario titolo, contratto, investitura formale o meno, svolgono funzioni di “conduzione” e non di “prima linea”. Un tempo in sanità c’erano i coordinatori e i dirigenti ( o meglio i caposala e i primari), ora ci sono i manager di vario livello ed estrazione professionale (in diverse ASL, ex infermieri ricoprono oggi il ruolo di Direttore Generale o Direttore di Distretto), intrecciati in matrici gerarchico funzionali diversamente rappresentate nelle organizzazioni.
L’ultima precisazione interessa il management, che deve essere ricondotto e contestualizzato alla tipologia di organizzazione che lo ospita. Queste organizzazioni, sono oggi aziende, e come tali necessitano di management e di manager. Ma cosa rende diverso il management delle aziende sanitarie rispetto a quelle che posizionano i loro prodotti e servizi sul libero mercato? Sicuramente non la catena di creazione del valore, che le accomuna, in considerazione del fatto che tutte utilizzano risorse (input), per lavorarle (processi), al fine di produrre risultati, come i prodotti o i servizi (output), indirizzati alla soddisfazione dei bisogni (outcome). Alcune differenze sono:
– tipologia di funzioni svolte: le aziende sanitarie si occupano di attività di interesse collettivo (tutela della salute), nomate e protette da leggi dello stato e ciò le rende più distanti dalle regole del mercato puro.

– configurazione organizzativa: le aziende sanitarie sono configurabili come burocratiche professionali, che mettono al centro il potere della competenza e l’autorità di tipo professionale, in quanto si fondano, per funzionare, sulle competenze dei professionisti in prima linea, cioè i clinici. Il meccanismo di coordinamento prevalente di questa tipologia di organizzazione è standardizzazione degli input, cioè standard che vengono definiti all’esterno dell’organizzazione stessa, nelle strutture formative e associative ai quali i professionisti appartengono ancora prima di inserirsi nell’organizzazione sanitaria. Sono organizzazioni perlopiù conservatrici, stabili e al tempo stesso complesse, poco propense all’innovazione e all’integrazione fra gruppi professionali.

– sistema di finanziamento e di gestione economica: il modo in cui le aziende sanitarie si finanziano prevede che vi sia un contatto indiretto fra i clienti e l’azienda, dal punto di vista del pagamento del servizio. Fatte salve le prestazioni pagate direttamente dalle persone assistite, il sistema sanitario si basa ancora, in larga misura, su finanziamenti che non vengono erogati direttamente dalle persone che usufruiscono del servizio. Le differenze descritte sottolineano alcune delle caratteristiche delle organizzazioni sanitarie che ne condizionano il modo in cui il management viene interpretato e i manager svolgono le loro funzioni. Le specificità sopraindicate rischiano di essere dei fattori predittivi di scarsa efficienza ed efficacia, di cui il management deve tener conto e deve far fronte.
Salvatore Nieddu, professore a contratto di Organizzazione Aziendale presso la Facoltà di Economia dell’Università di Torino e Responsabile della Struttura Controllo di gestione dell’ASL 4 di Torino, nell’interessante e piacevole libro intitolato: «Un week end con… il management sanitario», Centro Scientifico Editore di Torino, ricorda che il management è la cura prescritta per le patologie chiamate inefficienza e inefficacia, ma che l’esito di tale terapia non è certo, perché si tratta di un trapianto che potrebbe avere un rischio di rigetto, in ragione degli aspetti storici, culturali e organizzativi del contesto in cui si opera.
Per rispondere alla domanda iniziale, è importante chiederci se il passato clinico rappresenta davvero una ricchezza o piuttosto un limite.
Rispetto al passato da clinico, alcuni autori hanno evidenziato come il beckground di riferimento rappresenti una solida base per leggere la realtà e agire in essa in modo competente ed efficace. Uno dei più illustri studiosi di management al mondo, il famoso economista canadese Henry Mintzberg, studioso di scienze gestionali, ricerca operativa, organizzazione aziendale, ha affermato che “ i manager devono sapere molte cose, soprattutto sul contesto specifico in cui operano, e devono prendere decisioni sulla base di queste conoscenze” (Henry Mintzberg, Il lavoro manageriale, Franco Angeli, 2010).
Per poter affermare che il passato da clinico rappresenta una ricchezza e non un limite, è opportuno sottolineare che affinché sia un vero vantaggio è necessario spostare la posizione e la motivazione con cui lo si utilizza. In altri termini, l’obiettivo del lavoro in sanità è di proprietà sia del clinico che del manager, quello che cambia è la prospettiva con cui vengono usate le conoscenze e le competenze. Il clinico lo utilizza per risolvere i problemi di salute delle persone, il manager per risolvere o migliorare i problemi organizzativi dei clinici.
Le conoscenze cliniche del manager sono un livello soglia in grado di fare la differenze per la comprensione del contesto, per entrare nei problemi sollevati dai clinici, per orientare una unità operativa e un team verso outcome (risultati) significativi per le persone assistite.
Ciò che viene a cambiare, tra la linea clinica e quella manageriale è la profondità della conoscenza e la profondità di utilizzo. Più profonda e orientata al singolo problema per il clinico, più trasversale e orientata all’insieme per il manager, come se si immaginasse una visione verticale e orizzontale delle cose.
Il clinico usa la conoscenza clinica in modo diretto e come strumento basilare per la sua attività che è la clinica. Il manager usa la conoscenza clinica in modo indiretto e come strumento importante per la sua attività che è la gestione.
Non è lo strumento in sé che cambia, è l’uso che se ne fa. Quindi è l’attività che cambia, non lo strumento. Se non viene interiorizzato questo passaggio concettuale e pratico fra attività e strumenti, il background clinico rischia di costituire un impedimento allo sviluppo di una identità manageriale, in quanto si confonde la funzione con lo strumento.
Il background clinico rappresenta una barriera quando la visione da clinico limita lo sguardo e non consente il passaggio verso livelli più ampi.
Partendo da alcuni riferimenti storici, oltre che culturali e paradigmatici, Pennini descrive tre modelli di manager (utilizzando le diciture 1.0 – 2.0 – 3.0 diventate di uso comune per indicare programmi, app e chat di ultima generazione, ma che si utilizza anche quando si vuole dire che qualcuno o qualcosa è “un passo avanti”) che hanno in comune caratteristiche e tratti essenziali e che si sono succeduti nei diversi anni.
La versione 1.0. del manager in sanità è riconducibile a un’organizzazione burocratica e gerarchica, dove il rispetto delle regole assume un posto di rilevo. Verosimilmente collocabile in modo prevalente fra gli anni 70 e 80 del secolo scorso, ha trovato fortuna nella figura del primario e del caposala che ricoprivano ruoli in organizzazioni verticali e conservatrici.
La realtà ospedaliera suddivisa in specialità, fungeva da volano a questo tipo di manager che pur con le dovute differenze in base alle professioni e posizioni, fondava la sua identità perlopiù sull’autorità. La normativa professionale del tempo, con la suddivisione in professioni sanitarie principali e ausiliarie, forniva una ulteriore base per mantenere relazioni gerarchiche e stratificate che necessitavano di ordine e ordini che dovevano essere eseguiti.
Per alcune professioni esistevano programmi formativi formali di tipo manageriali (Abilitazione a Funzioni Direttive -AFD- per la formazione dell’infermiere coordinatore), mentre per altre il passaggio da clinico a manager era sostenuto dall’elevato livello di competenze cliniche, tanto da collocarlo come un “primo fra pari” (primus inter pares) per altre professioni ancora, il passaggio al ruolo di manager avveniva per anzianità di servizio, affidabilità, capacità tecniche, buon senso applicato.

Pertanto, in molti casi l’identità manageriale poggiava su un primo tipo di competenze (cliniche) che non sulle seconde (manageriali). Infine, i modelli organizzativi delle organizzazioni sanitarie erano di tipo funzionale, con riferimento a compiti e giri che sostenevano ulteriormente la necessità e la possibilità di controllo e di comando. Erano modelli basati su una importante, a volte eccessiva, standardizzazione delle attività, che frenava l’assunzione di responsabilità professionali e l’orientamento al risultato delle cure.
La versione 2.0. in ambito sanitario è collocabile, invece, all’interno della spinta aziendalistica degli anni ’90 del secolo scorso. La normativa del periodo (D.Lgs 502/92 e seguenti) ha trasformato il sistema sanitario e le organizzazioni sanitarie (territoriali e ospedaliere) sono diventate aziende. A capo di queste non vi era più un Comitato di Gestione ma un Direttore Generale con potere di gestione e rappresentanza, Si sono create delle realtà che, pur mantenendo una connotazione pubblica, hanno sperimentato logiche gestionali nuove per il settore, Di conseguenza anche il management si è ridisegnato sulle caratteristiche di questi diversi contesti. Le iniziative formative degli anni ’90 e 2000, hanno sostenuto l’idea di un manager che per svolgere correttamente le funzione doveva in qualche modo allontanarsi dai contesti clinici, per gestire risorse. Si introducono termini, concetti e strumenti provenienti da altri ambiti, come la gestione del budget, i sistemi di qualità, il benchmarking, gli indicatori, gli standard e altri ancora. Le parole chiave sono dell’efficienza nella gestione delle risorse umane, materiali, tecnologiche ed economiche. Anche in sanità si era palesato il modello di manager per far fronte alle inefficienza (Gary Hamel, il futuro del management 2008): “in quanto manager, siamo schiavi di un paradigma che antepone il perseguimento dell’efficienza a tutti gli altri obiettivi. “Il futuro del
management” è un’analisi lucida dell’attuale mondo manageriale, ma senza piglio distruttivo, nonostante non faccia sconti; individua bene i problemi che hanno messo in crisi le aziende, troppo occupate a guardare i bilanci senza preoccuparsi del valore che avevano già in casa e che avrebbe consentito loro innovazioni a costo zero; propone soluzioni in modo realistico che partono da quello che l’impresa è ora, dalle persone che ha, dalle risorse su cui può fare affidamento. Hamel vede nel coinvolgimento delle persone la chiave per lo sviluppo, l’innovazione, la crescita e per una vita migliore sul luogo di lavoro.
La versione 3.0. del manager in sanità è infine, quella che si vuole collocare nel presente e nel futuro delle organizzazioni sanitarie. È l’idea di un manager contemporaneo, che persegue principalmente due orientamenti: all’autcome del servizio e alla gestione di un team di professionisti autonomi o potenzialmente autonomi. Rispetto al primo orientamento (all’autcome del servizio ) si pone come un garante della qualità del servizio che la sua unità organizzativa è in grado di assicurare alla persona assistita. Questo concetto di qualità è composto da altri termini
chiave: efficacia, appropriatezza, sicurezza, equità, eticità sostenibilità e non solo efficienza.
Il secondo orientamento (gestione del team) vede il manager come un leader e un coach impegnato nella costruzione e mantenimento di un team di lavoro, che ha attenzione sia ai compiti da svolgere che alle relazioni, il team è composto da professionisti autonomi o potenzialmente autonomi che necessitano di un leader che possa interloquire con loro in modo qualificato, I l manager come coach è sempre più una necessità delle attuali organizzazioni, in riferimento al crescente aumento di complessità organizzativa e della necessità di apprendimento continuo.
Più volte è stato affermato che il manager che proviene dalla clinica deve passare attraverso un cambio di prospettiva. Si tratta di una trasformazione necessaria per ricoprire un nuovo ruolo e funzionale per agire in esso. Questo cambio deve concretizzarsi su due principali livelli:

– diverso utilizzo delle conoscenze e competenze cliniche

– differente ampiezza e direzione della prospettiva.

Riguardo l’utilizzo delle conoscenze e competenze cliniche, è stato evidenziato come possano essere delle risorse per il manager. Esse divengono uno strumento di lavoro che può concretamente fare la differenza fra un manager autorevole ed efficace e chi non lo è. Questo diverso utilizzo delle conoscenze e competenze cliniche è un’evoluzione che il manager deve comprendere e gestire. Deve “elaborare il lutto” della perdita della profondità con cui possedeva e usava queste conoscenze e competenze e canalizzare su altri fronti la “nostalgia” della maggiore distanza dalle persone assistite e dai processi clinici.
Il secondo aspetto riguarda la differente ampiezza e direzione della prospettiva, che precedentemente è stata anche denominata: verticale e orizzontale. È verticale, cioè di profondità per il clinico; è orizzontale, cioè di superficie per il manager. Non vi è un meglio e un peggio, come non vi è un tutto-o-niente, in queste due direzioni. Per il manager non è funzionale andare cosi “a fondo” come è richiesto al clinico, perderebbe in ampiezza che è un elemento fondamentale per avere “la visione d’insieme”. Questa prospettiva deve essere temporaneamente significativa, cioè in grado di coniugare una concretezza del qui e ora, per avere il controllo del lavoro quotidiano, con una visione del futuro che conduca l’organizzazione verso nuove mete.
Per comprendere il processo di cambiamento fra il ruolo del clinico e quello manageriale, è importante riflettere su alcuni punti, con l’aiuto di Antonello Goi (Laurea in Filosofia, con un’esperienza trentennale nell’ambito Risorse Umane in una grande azienda leader nel settore delle telecomunicazioni) e del suo libro: “Professione manager Teoria e pratica della gestione strategica delle risorse umane”, Ed. Franco Angeli.
1. Il manager diviene un componente della linea intermedia o della direzione, provenendo da nucleo di base. Egli fa comunque parte dell’organizzazione ma si trova in posizione diversa. Antonello Goi afferma: «Chi manovra le leve del management è, infatti, un uomo che appartiene anch’esso all’organizzazione, si nutre al suo interno della stessa strategia e ne è il principale interprete e diffusore». Questo percorso lo pone in una zona di maggiore visibilità e al tempo stesso di invisibilità. Con questa affermazione si evidenzia che spostandosi, esso diventa sicuramente più esposto e visibile, ma che al tempo stesso, ciò che fa diviene agli occhi dei colleghi clinici, meno comprensibile a causa della sua lontananza dalla clinica e dell’intangibilità intrinseca del lavoro manageriale. D’altronde, questa incomprensibilità del ruolo, da parte del clinico che non ha mai fatto il manager, è una situazione che non lascia molte alternative in termini di soluzioni efficaci per la gestione: affidare il management a un esterno alla comunità professionale che non possiede un background clinico o “tollerare” la lontananza dai processi del manager- ex clinico che pur sempre possiede e mantiene un livello sufficiente di conoscenze per leggere i contesti.
2. Il manager diviene un rappresentante del lavoro liquido. Zygmunt Bauman, è stato uno dei più noti e influenti intellettuali del secondo Novecento, maestro di pensiero riconosciuto in tutto il mondo. A lui si deve la folgorante definizione della «modernità liquida». Secondo Zygmunt Bauman «la società liquido moderna nella quale viviamo, è caratterizzata da situazioni in cui gli uomini agiscono e che si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure”. È una realtà che crea: esperienze e “relazioni sociali segnate da caratteristiche e strutture segnate che si vanno decomponendo e ricomponendo rapidamente, in modo vacillante incerto, fluido e volatile» (https://www.treccani.it/vocabolario/societa-liquida_res-c0525b22-89ec ). Per Henry Mintzberg, il lavoro manageriale è affetto dalla “sindrome di superficialità”. Il termine superficiale non deve essere inteso con un’accezione negativa di approssimazione o inconsistenza, ma come uno stare su tante cose, passare da un momento all’altro con velocità ma al tempo stesso la necessaria seppur fugace attenzione.
Il manager è attratto dall’andare in profondità, come era abituato a fare nel lavoro di clinico, ma si trova a rispondere alla domanda: “come si può fare un’analisi approfondita, quando si è sempre sotto pressione?”
(Henry Mintzberg, Il lavoro manageriale in pratica, Franco Angeli, 2014).
3. Il manager diviene un professionista nuovo con una diversa identità. Se l’identità del clinico è un’identità basata sul sapere scientifico e sul “fare” come applicazione di questo sapere, quella del manager dovrà essere basata ancora sul sapere scientifico (gli argomenti del clinico) e sul “far fare” o “all’aiutare a fare” (Ugo Morelli, Maria Gabriella De Togni, coordinatori infermieristici. Competenze e qualità nelle relazioni di cura, 2010).
L’assunzione della nuova identità è come un cambio di pelle, è come la trasformazione crisalide-farfalla. È quindi u’identità che deve basarsi su nuove pratiche professionali e sull’asimmetria della relazione con le persone che si dirigono. Da clinici si operava in un gruppo di pari (i colleghi), da manager si è il leader di un gruppo di professionisti.
Dopo aver esplorato un possibile percorso della nuova identità del manager ex clinico, due battute volevo dedicarle a quelle che Pennini definisce le “possibili tentazioni” che il manager ex clinico incontra nel quotidiano.
Si tratta di “tentazioni” perche, in qualche modo, collegate al suo paradigma operativo e dalle quali può essere attratto in quanto rappresentano schemi conosciuti e nei quali “rifugiarsi” quando le cose non vanno come si vorrebbe o quando vi sono sfide e situazioni inconsuete da affrontare.
Secondo Marco Rotella, coach, counselor, mental trainer ed esperto di processi formativi, molti manager vivono oggi, pur avendo difficoltà a confessarlo, una vera e propria “sindrome da schiacciamento” (niente a che vedere con la rabdomiolisi post-traumatica o sindrome di Bywaters): si sentono affannati, impotenti, assolutamente non in grado di fronteggiare nel migliore dei modi tutto questo. Vivono momenti di ansia, a volte di vera e propria angoscia, l’irritabilità aumenta, le relazioni, professionali e soprattutto familiari, ne risentono in modo decisivo. In altre parole, si crea una situazione di stress permanente.
Questo scenario ha spinto Marco Rotella a scrivere il libro: “Manuale di sopravvivenza manageriale. Breve guida per manager, imprenditori, professionisti intrappolati”, Di Marsico libri, Bari. Un testo veramente pratico, semplice, leggibile, che potrebbe essere usato come “kit di sopravvivenza”.
Operare in contesti complessi e mutevoli, per Marco Rotella, implica imparare ad essere continuativamente attenti ai segnali che pervengono dall’esterno. Per poter gestire questi sistemi è necessario comprenderli e governarli. La tentazione in questo caso, è quella di trattare il sistema come se fosse semplice, reclamando risposte certe e percorsi lineari.
Il concetto di complessità viene declinato in diversi settori secondo forme e modalità conoscitive proprie. […] Esso assume un preciso significato a seconda dei numerosi campi scientifici in cui si applica (Gualandi R, Tartaglini D., Le organizzazioni sanitarie come sistemi complessi, in A. Pennini Modelli organizzativi in ambito ospedaliero McGraw-Hill 2015).
L’etimologia della parola complesso, fa riferimento a cum plexus, cioè con nodo o intreccio. Quest’ultimo non si può facilmente “sbrogliare “senza perderne la sua natura intrinseca, la sua interezza. Infatti: a differenza di un meccanismo, che seppur complicato […] può essere smontato nelle sue parti per poter agire su di esse e poi successivamente ricomposto, nel fenomeno complesso ci si deve concentrare sull’intero sistema, considerato nel suo insieme come qualcosa di indivisibile (Gualandi R., Tartaglini D. 2015).
Sempre secondo i due autori, gli elementi che contribuiscono a rendere complessi i sistemi sono (Gualandi R., Tartaglini D. 2015):

– la struttura del sistema: può essere composta da diverse parti, numerose e variabili, che si mettono in relazione tra loro in modo non lineare;
– il comportamento del sistema: può cambiare nel tempo e rispetto all’ambiente di riferimento;
– le proprietà emergenti del sistema: cioè comportamenti che si presentano a un certo livello di complessità, che non erano presenti agli stadi precedenti e che fanno in modo che il sistema non torni più allo stato originario.
Un testo che non dovrebbe mancare nella biblioteca di un manager e che consentire una più facile diagnosi della complessità, è sicuramente quello di Roberto Vaccani, docente senior di comportamento organizzativo della SDA Bocconi: “Riprogettare la sanità. Modelli di analisi e sviluppo”. Carocci Faber 2012.
A tale proposito, Vaccani identifica i seguenti criteri diagnostici enunciandoli come livelli:
– livello di incertezza/imprevedibilità che il sistema deve amministrare,
– livello di pluralità e diversificazione dei beni/servizi prodotti;
– livello di discrezionalità decisoria decentrata indotto dai beni/servizi prodotti; dimensione organizzativa.
Per Edoardo Manzoni, Direttore Generale Istituto Palazzolo (Bergamo) e autore del libro “l’identità delle professioni sanitarie per far fronte alla complessità, 2015″, che ho avuto la fortuna di conoscere nel 2014, in una tavola rotonda organizzata dall’OPI di Carbonia Iglesias, «non possiamo contrapporci alla complessità ma la dobbiamo accettare coniugando tre parole chiave: accogliere, vivere e integrare».
Accogliere, così da: «Rendere intero e ottenere un risultato che è maggiore e diverso dalla somma dei risultati dei singoli elementi che compongo l’intero medesimo» (Edoardo Manzoni 2015). Convivere con la complessità significa fare lo sforzo di “non ridurre i fenomeni, di non scomporli necessariamente verso un impoverimento interpretativo” (Edoardo Manzoni 2015). Integrare, come accezione allarga, che va al di là della sola costruzione di relazioni e alleanze, ma deve intendersi come accoglienza di punti di vista, conoscenze, domande. Nel mondo sanitario, integrare e accogliere, sono un’importante sfida per tutti i professionisti, ma soprattutto per chi è chiamato a gestire l’organizzazione. Oggi la sfida della complessità comprende la necessità di integrare i saperi , superando la disintegrazione, pur riconoscendo il valore della specializzazione.
Oltre tali aspetti concettuali legati alla complessità, in generale e in particolare in sanità, sempre secondo A. Pennini, diventa importante indirizzare l’atteggiamento del manager verso alcuni percorsi che consentano di governare nella complessità e che per semplicità vengono riportati nel seguente elenco.
1. Ampliare la visuale all’interno del sistema.
2. Avere e sviluppare una visione.
3. Programmare in progress.
4. Stabilire poche e semplici regole.
5. Dare spazio e al significato espresso da chi fa le cose.
6. Adottare stili di conduzione negoziali e autorevoli.
7. Concentrarsi sugli obiettivi.
8. Creare piani e programmi che anticipino i fenomeni.
9. Consentire (la reale) partecipazione.
10. Far convivere sistemi formali e informali.
11. Sviluppare la creatività.
12. Creare e sostenere reti di relazioni.
13. Imparare ad imparare.
Queste semplici indicazioni (che necessitano di essere sviluppate), sulla modalità di gestire le organizzazioni complesse,
sicuramente non esauriscono tutte le possibili strategie, ma costituiscono un punto di partenza per il manager che si
trova, soprattutto all’inizio del suo incarico, a vivere dentro la complessità in sanità.
Carissimo Mario, nei miei 39 anni di servizio, 23 dei quali passati da professional clinico e 16 da dirigente/direttore delle professioni sanitarie, ho conosciuto numerosi manager – ex clinici che vantavano una notevole casistica di attività sanitaria ma che, una volta promossi manager, non sono stati in grado di costruire e guidare un team di professionisti con i quali condividere obiettivi e strategie di sviluppo, perché prigionieri di schemi mentali rigidi e convinti di poter replicare l’esperienza di direzione della ex unità operativa nella gestione di un’azienda.
Concordo con te sul fatto che questa sanità vada rivista e che nessuno di noi è immune da colpe o responsabilità, ma ho ritenuto opportuno delineare il cambio di prospettiva, illustrato in modo eccellente da Annalisa Pennini, necessario per tutti i clinici (me compreso) che vogliono diventare manager.
I manager della sanità si trovano oggi in una posizione scomoda: devono affrontare il dilemma di coniugare il bisogno di salute con la sostenibilità economica e la restrizione di risorse. Devono inoltre, fare i conti con la gestione della rete dei portatori di interesse (sindaci, sindacati, professionisti, etc.), sia interni che esterni. Gran parte del loro tempo è dedicato a gestire incontri con interlocutori istituzionali e non, dentro e fuori le mura dell’azienda. Proprio per questo, l’attuale manager deve essere in grado di coniugare la capacità di esprimere una visione e di condividerla con i suoi interlocutori.
Deve tradurre poi la visione in orientamento strategico, sapendo tenere il focus su obiettivi, aspettative e risultati.
Un ruolo che ha necessità di essere supportato da percorsi di formazione e di sviluppo professionale allineati alle aspettative del nuovo ruolo, che non può limitarsi alla frequenza di un corso regionale di qualche weekend al mese, pur tenuto da autorevoli docenti. Il percorso dovrebbe combinare la formazione tradizionale con il confronto tra pari e la condivisione delle esperienze e delle buone pratiche, contemperando attività di lavoro, apprendimento sul campo e opportunità di networking e ampliamento dei propri orizzonti, come sta facendo da qualche anno, la ASL di Nuoro.

Antonello Cuccuru

Bibliografia
A. Goi, Professione manager Teoria e pratica della gestione strategica delle risorse umane, Franco Angeli 2004
A. Pennini, Dieci brevi lezioni per manager in Sanità, Franco Angeli 2020
E. Manzoni, l’identità delle professioni sanitarie per far fronte alla complessità, Casa Editrice Ambrosiana 2015
H. Mintzberg, Il lavoro manageriale in pratica, Franco Angeli, 2014
M. Rotella, Manuale di sopravvivenza manageriale. Breve guida per manager, imprenditori, professionisti intrappolati, Di Marsico libri, Bari 2016
R. Vaccani Riprogettare la sanità. Modelli di analisi e sviluppo, Carocci Faber 2012.
S. Nieddu, Un week end con… il management sanitario”, Centro scientifico editore di Torino 2005
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G. Hamel, Il futuro del management ETAS, Milano 2008
Z. Bauman, Vita liquida, Laterza Bari 2005

Una giornata di studio sulle responsabilità professionali nella gestione della cartella clinica, organizzata dalla Direzione medica dei Presidi Ospedalieri, si è svolta a Carbonia negli spazi della Grande Miniera di Serbariu, Sala conferenze Sotacarbo, il 30 ottobre 2023.

Alla giornata di studio, moderata dal dirigente medico legale e risk manager Andrea Della Salda, sono intervenuti il dirigente medico della Direzione del Presidio Sirai Cristiana Cardia, il professore ordinario Francesco De Stefano, medico legale dell’Università degli Studi di Genova, il dirigente delle professioni sanitarie Antonello Cuccuru, il dirigente medico legale Maria Maddalena Mele, il Tecnico di Radiologia Medica e Specialista in DIS/MIS-PACS Management, Tecnologie in Diagnostica per Immagini e Telemedicina Alessio Urgenti e la Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza Paola Massidda.

Il tema, di stretta attualità e di largo interesse in una sanità sempre più multimediale, ha coinvolto oltre 100  professionisti, tra dirigenti medici, infermieri, ostetriche e fisioterapisti.

I lavori della I sessione sono stati introdotti dalla Direttrice sanitaria degli Ospedali di Carbonia e Iglesias Giovanna Gregu, che ha evidenziato come la cartella clinica, oltre ad una indubbia valenza medico-nosologica ed epidemiologica, ha poi anche un importante rilievo giuridico, sotto vari profili e non ultimo, negli ultimi anni, ha assunto grande valore amministrativo. La direttrice ha messo in risalto che, per migliorare la disponibilità di informazioni, snellire il lavoro dei sanitari e favorirne i processi decisionali, occorre una riconsiderazione estesa e approfondita dell’intera cartella clinica: lavoro impegnativo che può sortire positivi risultati solo a condizione che vi sia una convinta partecipazione delle molteplici professionalità interessate

Nel primo intervento, il dirigente medico Cristiana Cardia, ripercorrendo un singolare excursus storico della nascita della cartella clinica, ha spiegato che non esiste una normativa unitaria che disciplini i contenuti e chiarisca la modalità di compilazione della cartella clinica: esistono diverse indicazioni in differenti documenti quali DPR, DM, Circolari ministeriali , DPCM, inoltre i Codici deontologici di medici e infermieri sono intervenuti nel disciplinare la questione e anche la Corte di Cassazione si è pronunciata in materia, per definire quale deve essere il contenuto della cartella clinica e quali sono i requisiti di validità e le responsabilità ad essa connesse. Il Ministero della Sanità nel 1992, ha definito  la cartella clinica come uno ”Strumento informativo individuale finalizzato a rilevare tutte le informazioni anagrafiche e cliniche significative relative ad un paziente  e ad un singolo episodio di ricovero”.

Fatta salva questa definizione, la dirigente ha precisato che la cartella clinica è un insieme di documenti in cui è registrato da medici e infermieri un complesso eterogeneo di informazioni sanitarie, anagrafiche, sociali, ambientali, giuridiche  aventi lo scopo di rilevare il percorso diagnostico terapeutico di un paziente al fine di predisporre gli opportuni interventi sanitari e di poter effettuare indagini scientifiche, statistiche, medico legali.

Nell’ambito delle attività della Direzione medica dei due nosocomi del Sirai e CTO, il controllo delle cartelle ha evidenziato diverse criticità: per tale motivo si sta costruendo una scheda di verifica della compilazione della cartella clinica e un manuale operativo che potrà fungere da supporto per migliorare la qualità del documento.

Infatti, la legge 133/2008 capo IV art 79 prevede che: «Al fine di realizzare gli obiettivi di economicità nell’utilizzazione delle risorse e di verifica della qualità dell’assistenza erogata, secondo criteri di appropriatezza, le regioni assicurano, per ciascun soggetto erogatore, un controllo analitico annuo di almeno il 10 per cento delle cartelle cliniche».

I prossimi mesi vedranno la Direzione degli Ospedali di Carbonia e Iglesias impegnata in attività di controlli sanitari per verificare l’utilizzo corretto e migliore delle risorse del SSN al fine di ottenere i risultati migliori in termini di sicurezza, efficacia ai costi più bassi possibili.

I lavori sono proseguiti con l’intervento del dirigente delle professioni sanitarie della ASL Sulcis Iglesiente, Antonello Cuccuru,  che ha presentato un’analisi retrospettiva delle cartelle infermieristiche non compilate adottate dalle 15 UU.OO. Nel lavoro, sono state sottoposte a valutazione 15 cartelle infermieristiche non compilate, raccolte dall’Ufficio di Staff delle Professioni Sanitarie,  relative alle Unità Operative dei 2 Ospedali della ASL Sulcis Iglesiente.

L’audit retrospettivo sulla qualità delle cartelle adottate ha messo in evidenza diverse criticità. In particolare, è stato sottolineato che spesso non si raccolgono dati essenziali, che quelli che si raccolgono non vengono sempre utilizzati e che le informazioni importanti, quelle vere che servono per programmare l’assistenza e conoscere il paziente, continuano ad essere trasmesse a voce e far parte di quella memoria labile e soggettiva, che si esaurisce nello spazio di un turno.

Il dirigente infermieristico, ha quindi specificato che, se la cartella deve diventare uno strumento di documentazione che dimostra anche ciò che è stato fatto, non solo a fini amministrativi ma per aumentare la conoscenza sul paziente, va tenuto presente che spesso le informazioni importanti non si ricavano dalla somma degli interventi o dagli esami eseguiti, ma soprattutto dalle parole del paziente, dalle intuizioni, dalle reazioni, dalle impressioni espresse dagli infermieri e dai medici.

Per il dirigente infermieristico, uno di problemi principali dell’infermieristica è sicuramente la mancanza di un modello teorico di riferimento universale. Malgrado questo però, esistono delle informazioni che devono essere raccolte al fine di poter rilevare i bisogni assistenziali della persona. La diversità nei modelli infermieristici non impedisce la standardizzazione di un unico modello per l’accertamento infermieristico.

Alla luce di tale analisi, è stato proposto un nuovo modello di cartella infermieristica basato sul modello concettuale della teorica del nursing Marjory Gordon e l’adozione di una tassonomia condivisa di diagnosi infermieristiche.

Nel terzo intervento, il tecnico di radiologia Alessio Urgenti ha presentato uno possibile spaccato dove l’innovazione tecnologica che ha interessato la società moderna, negli ultimi vent’anni, ha apportato un enorme modificazione degli stili di vita, del modo di comunicare, del modo di studiare e recepire ma anche, soprattutto, nel modo di curarsi. In sanità, infatti, il passaggio dall’analogico al digitale ha messo stabilmente in moto il legame sinergico fra tecnologie e sistemi organizzativi, caratterizzati da un imprescindibile legame di interdipendenza funzionale nei processi di cura.

Secondo l’esperto di tecnologia sanitaria, la macchina della digitalizzazione all’interno della sanità ha prodotto finora risultati davvero ragguardevoli ma, data la natura della sfida, la strada è ancora molto lunga e presenta ancora, da certi punti di vista, diversi aspetti deficitari.

Nell’introdurre la cartella clinica elettronica (CCE), il tecnico ha precisato che se fino a qualche anno fa, la CCE sembrava partire solo ed esclusivamente dalle strutture ospedaliere e ai reparti, oggi si sta arrivando ad nuovo modo di integrare tutti dati di un processo di cura che riguarda i pazienti.

I vantaggi della CCE sono oramai noti, tuttavia, permangono molti freni alla sua adozione standardizzata e alcune funzionalità faticano a diffondersi. Se da una parte diagnostica per immagini e vari dati del paziente relativi a ricoveri e consulenze sono oramai la regola, dall’altra gli aspetti più legati alla dematerializzazione, si pongono come freno alla propulsione di questo prezioso strumento. Gli investimenti tecnologici, sempre in aumento, devono fare i conti, infatti, con l’immensa quantità di cartaceo presente che rappresenta ancora oggi il vincolo normativo maggiore che si contrappone al decollo della CCE.

Un ulteriore aspetto di notevole importanza, in evidenza come anti-propulsore del progetto CCE, è la resistenza dell’ “utente”. Il personale, infatti, abituato a gestire la cartella clinica tradizionale, lontano da concetti di paperless, è ancora molto restio all’uso del software. La resistenza al cambiamento, dunque, può tradursi in ostacolo e rappresentare un problema e un limite organizzativo soprattutto quando l’uso della CCE viene considerato come attività secondaria all’assistenza del paziente. La strada da percorrere è quella di un progetto di CCE bottom up che deve necessariamente contare su un gruppo multidisciplinare, coinvolto in tavoli di lavoro progettuali, lontano da dinamiche impositive e fondato su di un più largo principio di collaborazione in favore di progettualità condivise trasversalmente

La prima sessione si è conclusa con l’appassionato intervento del professor Francesco De Stefano, che ha polarizzato l’attenzione sulla cartella clinica come  “Atto pubblico di fede privilegiata”. (Art. 2699 e seg. c.c.), ricordando ai presenti che quanto riportato in essa fa fede fino a querela di falso. Per questa ragione, ha aggiunto il docente universitario, i fatti devono esservi annotati contestualmente al loro verificarsi. Ne deriva che tutte le modifiche, le aggiunte, le alterazioni e le cancellazioni integrano falsità in atto pubblico punibili in quanto tali né rileva l’intento che muove l’agente atteso che le fattispecie delineate in materia dal vigente codice sono connotate dal dolo generico e non specifico.

La seconda parte della relazione è stato dedicata alla conservazione della cartella riprendendo i contenuti della Circolare Ministeriale n. 61 del 19/12/1986, che asserisce:

“Le cartelle cliniche, unitamente ai referti vanno conservate illimitatamente poiché rappresentano un atto ufficiale indispensabile a garantire certezza del diritto, oltre a costituire preziosa fonte documentale per le ricerche di carattere storico sanitario”. Le radiografie e altra documentazione diagnostica vanno conservate per 20 anni. La cartella clinica ed i documenti ad essa connessi ed annessi può essere conservata su supporto informatico secondo quanto prescritto nel D Lgs 82/05, con le modalità ivi indicate.

Per quanto concerne i reati connessi alla compilazione della cartella, il docente universitario ha ricordato l’art Art. 476 c.p. – Falsità materiale commessa da pubblico ufficiale in atti pubblici: Il reato si realizza quando il compilatore è persona diversa da quella a cui competeva (cartella contraffatta) o quando contiene modifiche successive alla sua stesura definitiva (cartella alterata) e l’art. 374 bis – False dichiarazioni o attestazioni in atti destinati all’autorità giudiziaria.

In questo caso, si applica la pena della reclusione da due a sei anni se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale, da un incaricato di pubblico servizio o da un esercente la professione sanitaria.

La sessione pomeridiana, moderata dal medico legale Maria Maddalena Mele, è stata aperta con l’intervento della Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza (RPCT) Paola Massidda.

Nel suo intervento, la Responsabile  PCT ha voluto mettere in risalto l’importanza e la necessità di una corretta compilazione della Cartella Clinica, che rileva non solo come strumento fondamentale di lavoro per gli operatori sanitari ma come un fondamentale strumento di tutela. Proseguendo nella relazione, ha ricordato l’importanza di  una cartella clinica correttamente compilata come migliore difesa, in caso di contenzioso, contro la  persistente tendenza a ricorrere alla omissione “difensiva” di tutto ciò che può far emergere a posteriori una prassi tecnicamente censurabile.

Con l’analisi delle fattispecie di reati di falso in atto pubblico, dell’inversione dell’onere della prova a svantaggio del medico in caso di cartella clinica lacunosa, si è cercato di dimostrare come la correttezza, completezza e chiarezza nella compilazione della cartella clinica riveste grande importanza e diviene di conseguenza il perno su cui ruotano la formulazione e il giudizio di responsabilità medica.

In merito alla completezza della cartella clinica è stato sottolineato come la procedura sanitaria senza il consenso del paziente è in sé illecita e quindi produttiva di un’autonoma voce di danno non patrimoniale, che prescinde dall’accertamento delle modalità di esecuzione, dalla necessità clinica dell’esecuzione dell’esame e dal nesso di causalità fra lo stesso e il danno alla salute.

Infine, è stato evidenziato come la custodia e l’archiviazione della cartella clinica rappresentino momenti fondamentali per  una corretta gestione della stessa, stante la stretta implicazione che queste fasi presentano con la tutela dei dati sensibili.

L’ultimo intervento, non certo per importanza, è stato quello del dirigente medico legale Maria Maddalena Mele con un’interessante relazione su alcuni casi clinici e i contenuti lacunosi delle cartelle che hanno stimolato l’intervento in platea di diversi dirigenti medici e professionisti sanitari.

La “rana” di Noam Chomshy non può salvarsi. Se volessimo salvarla bisognerebbe fermare la mano del “cuoco”. Chi volesse salvare gli Ospedali di Carbonia e Iglesias potrebbe farlo leggendo l’articolo di Antonello Cuccuru nella versione online de “la Provincia del Sulcis Iglesiente” e il documento del “Movimento Sanità nel Sulcis” di Tore Arca che analizzano i fatti e propongono percorsi di recupero.
La metafora della rana che viene cotta lentamente affinché non scappi, è nota a tutti, tranne che alle rane. Per un semplice motivo: perché le rane messe in pentola dal cuoco muoiono tutte e nessuna sopravvive per svelare alle altre rane quanto sia subdolo l’inganno dell’acqua che viene scaldata lentamente. Il cuoco fa credere, a te rana, di volerti immergere a sguazzare in un laghetto tiepido, invece ti mette nell’acqua di una pentola e fa salire lentamente la fiamma fino a cucinarti per bene. Siamo tutti rane, bravi a cantare, ma non a reagire. Il cuoco si trova nell’apparato di potere centralizzato della Regione. Noi siamo le vittime, ma anche i colpevoli, perché abbiamo accettato distrattamente di tornare ad una cultura di sudditanza che ingannò i popoli fino al 1789. Fino ad allora ci avevano fatto credere che i re avessero il potere sovrano per incarico divino, e che quel potere non fosse criticabile. I francesi, accortisi dell’inganno, fecero la Rivoluzione, e da allora sono ancora a Place de la Concorde a ribellarsi. Il primo atto della presa di coscienza popolare fu la promulgazione della “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 26 agosto 1789″. Allo articolo 16 di quel documento che svegliò il mondo venne espresso un concetto illuminante: «Ogni società in cui la garanzia dei Diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri stabilita, non ha una Costituzione». Abbiamo sì il testo scritto della Costituzione Italiana del 1° gennaio 1948, ma il suo articolo 32 che dichiara che la Salute è un diritto del Cittadino e interesse della Nazione, pare sia solo formale. Così pure l’articolo 3 sull’uguaglianza fra i cittadini. Per la verità un tentativo eccellente di applicarlo venne fatto nel 1978 con la legge 833 proposta dalla Commissione presieduta da Tina Anselmi. Con quella legge venne garantito un uguale diritto alla Salute a tutti i cittadini indistintamente attraverso l’istituzione del Fondo Sanitario Nazionale e la redazione del primo Piano Sanitario Nazionale. Inoltre, secondo il principio giuridico fondamentale della separazione dei poteri nello Stato di diritto di una democrazia liberale, si stabilì che, riservato il potere legislativo allo Stato, si attribuiva il potere amministrativo esecutivo alle Aziende sanitarie locali (Asl) in qualità di “articolazioni dei Comuni”. Allora la Sanità nazionale fu concepita come una “federazione” di ASL controllate dai Comuni. Gli Italiani erano riusciti ad applicare alla Sanità pubblica lo spirito dell’articolo 16 della “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino” con la separazione dei poteri sul governo della Salute; il metodo fu: Decentralizzazione dei poteri dello Stato e Federazione delle ASL. In quegli anni tutti gli Ospedali delle ASL sarde brillarono per efficienza. Non si era visto mai in tutta la Storia un miglioramento della qualità delle cure al ritmo di allora. Poi noi rane siamo stati messi in pentola dalle leggi di marcia indietro che riformarono la Legge 833 e, infine, i cuochi della politica regionale, dal 2001, sollevarono lentamente la potenza della fiamma finché oggi, dopo 22 anni, siamo all’ebollizione, e le rane sono tutte lesse.
Seguendo l’evoluzione sembrerebbe che gli atti più gravi che hanno portato alla condizione attuale siano stati la legge 229/1999, che trasformava le ASL da articolazioni dei Comuni in articolazioni delle Regioni, e la riforma del Titolo V della Costituzione del 2001 che, messi insieme, ebbero l’effetto di accentrare nelle Regioni tutti i poteri, legislativo, amministrativo ed esecutivo. Venne fatto l’esatto contrario di quel principio della separazione dei poteri proclamato dalla Dichiarazione dei Diritti del Cittadino e poi accettato dalle Costituzioni di tutti gli Stati democratici e liberali. Il potere legislativo ed esecutivo furono assommati, in un unico Ente, la Regione, esattamente come li assommava in sé il re di Francia prima che nel 1789 il popolo glielo contestasse.
Per smontare la centralizzazione monarchica i francesi si rivolsero ad un medico geniale, il dottor Joseph Ignace Guillotin, che inventò uno strumento chirurgico per risanare i mali generati da quel conflitto di interessi legalizzato.
I documenti di Antonello Cuccuru e di Tore Arca vanno letti. Il primo analizza lo stato di grave disagio popolare in sanità riportato da articoli autorevoli. Il secondo, utilizzando le leggi regionali pubblicate dal BURAS, avanza proposte logiche sui provvedimenti riparatori da adottarsi nell’immediato, non cadendo nelle illusioni prospettate da piani sanitari regionali belli ma fantasiosi.
La fotografia dello stato sanitario pubblico che ne risulta è questa: annullamento quasi completo degli splendidi ospedali iglesienti di 20 anni fa; degrado fino all’impotenza funzionale dell’apparato ospedaliero di Carbonia; mancanza di un efficiente sistema sanitario pubblico nel territorio; impossibilità a realizzare il sogno della medicina di prossimità con case della salute e ospedali di comunità per la mancanza del personale che dovrebbe operarvi.
Chi pratica la professione sanitaria sa che, sia durante l’epidemia Covid che oggi, le uniche strutture ospedaliere che sono in grado di prendere in cura in tempi ragionevoli i malati sono le case di cura convenzionate. Per capire questo fenomeno esiste un motivo ben preciso: le case di cura non sono soggette al dovere di ricevere malati in stato di urgenza ed emergenza. L’urgenza assorbe totalmente le energie dell’ospedale pubblico e gli impone un impegno ad altissima intensità. E’ un impegno faticosissimo, fortemente coinvolgente sul lato emotivo e medico-legale, inoltre non è remunerativo. Le case di cura private invece hanno il vantaggio di potersi dedicare esclusivamente alle malattie d’elezione. Ciò consente una facile programmazione del lavoro con turni di piena attività nelle ore del mattino, mentre la sera, la notte e nei giorni prefestivi e festivi il lavoro si riduce alle guardie interne e al controllo. Per tale differenza di impegno del personale, ne consegue l’esistenza di organici più ridotti nelle case di cura. Inoltre i turni di lavoro così agevolati attirano i medici specialisti esperti, messi in quiescenza dagli ospedali pubblici, facendo loro guadagnare senza sforzo un capitale culturale e di esperienza impareggiabile. Detto questo si capisce il motivo per cui le case di cura private sono state una manna per la Sanità durante il Covid, quando gli ospedali pubblici erano in profonda crisi. Precisato l’aspetto positivo esiste tuttavia un altro aspetto che riguarda la Medicina in generale: il pericolo che si passi dalla attuale assistenza sanitaria pubblica ad una forma di Sanità del tutto privatizzata, all’americana, in cui, al posto dello Stato, si finisca nel dover acquistare a caro prezzo la salute dalle assicurazioni private. Questa sarebbe una svolta preoccupante.
Da queste osservazioni ne discende l’urgenza di risolvere il problema del cuoco instancabile che continua a immergere le rane in pentola. Il cuoco è l’apparato regionale che ha concepito un sistema sanitario duro da digerire in un regime democratico: il sistema di conduzione della sanità pubblica “centralizzato”, senza contrappesi politici a rappresentare gli interessi del territorio. La “centralizzazione”, per definizione, è quel fenomeno politico basato sull’accentramento dei poteri in un unico gruppo di entità governative e amministrative connesse fra di loro nel capoluogo, e ne esclude la provincia. La conseguenza della mancata separazione tra potere legislativo e amministrativo in Sanità si è tradotto in un comportamento da conflitto di interessi, che porta a vantaggi per abuso di potere, per cui assistiamo ad una vera e propria “obesità” sanitaria del capoluogo che è avvenuta per prosciugamento di risorse dal territorio provinciale. All’eccesso di posti letto, di ospedali, di medici e infermieri nel centro regionale, corrisponde un vistoso stato miserevole delle deperite strutture sanitarie della periferia. E’ stata un’operazione lenta durata vent’anni e le popolazioni si sono adattate al peggio non accorgendosi che, intanto, venivano svuotate del diritto d’accesso alla Sanità, alla Giustizia, e anche all’Istruzione, nelle città provinciali. Lo sbilanciamento è estremo.
E’ un fatto gravissimo ed è ancora più grave che i politici regionali siano ciechi davanti al fatto che l’accentramento dei poteri e dei servizi è la causa dello spopolamento del Sulcis Iglesiente, ed è gravissimo che nessuno dei governanti abbia prestato attenzione al fatto che nel nostro territorio stia avvenendo un crollo demografico per cui oggi, abbiamo un indice di invecchiamento del 293%, e mentre in Francia nascono 12 bambini ogni 1.000 abitanti, e in Nord Africa una media di 40 bambini ogni 1.000 abitanti, nel Sulcis Iglesiente sta avvenendo esattamente il contrario. Questo fatto gravissimo sta avvenendo a noi, e solo a noi, in tutta la Sardegna. Nessuno si assume la responsabilità della fuga delle giovani coppie in età fertile dal Sulcis Iglesiente, avvenuta per mancanza di servizi e prospettive per i figli, per cui nel 2021 abbiamo avuto 5,2 nati ogni 1.000 abitanti: la più bassa natalità del mondo. E’ talmente grave che il patron di Tesla e Twitter, il magnate Elon Musk, ha voluto rilasciare su tale anomalia una dichiarazione ai giornali sostenendo che di questo passo in pochi decenni scompariremo. Ci ha ridotto in questo stato demografico un tipo di cattiva politica molto simile a quella che venne applicata nella “fattoria degli animali” di George Orwell. Ricordiamoci a chi finì il potere.
Bellissimo il documento di Tore Arca che fa alcune considerazioni e perviene a conclusioni concrete. Le sue considerazioni mettono in dubbio le promesse di costruzione di un “ospedale unico” e il funzionamento di quelle strutture territoriali di medicina di prossimità proposte nel PNRR, nel piano ospedaliero regionale e nelle bozze rese pubbliche di atto aziendale della ASL 7. Molto concretamente, glissando le illusioni, egli propone:
– che si proceda alla definizione, con delibera, del numero esatto degli organici di medici e infermieri che servono per far funzionare davvero gli ospedali e le strutture distrettuali;
– che la nostra ASL sia libera di assumere senza interferenze regionali;

– che si deliberi l’entità della somma destinata ai lavori di adeguamento dell’ospedale Santa Barbara per tutti i servizi promessi;
– che si proceda ad istituire una scuola provinciale di formazione per infermieri professionali;
– che si metta a punto il piano operativo per la realizzazione delle strutture distrettuali descritte nel PNRR specificando l’entità dei finanziamenti realmente stanziati per le strutture, gli strumenti e il personale da assumere a tempo indeterminato;
– che il personale certamente destinato al Sulcis Iglesiente, non ci venga più sottratto a beneficio del capoluogo regionale già abbondantemente dotato;
– che si chieda l’immediata attivazione della Commissione provinciale sanitaria dei 23 sindaci per rapportare il nostro territorio direttamente con il centro di potere regionale.

L’esame sulla gravità in cui versa Il Sistema Sanitario dei tre distretti del Sulcis Iglesiente e le semplici ma efficaci proposte avanzate necessitano di un grande sostegno politico. Finora nessun politico del posto, delegato dai cittadini alla Regione, è riuscito a fermare il crollo degli ospedali delle due città.
Per le prossime elezioni regionali dovremmo contrattare bene il nostro voto con i candidati che verranno a chiedercelo. Non importa di quale parte politica saranno o quale sarà la città del Sulcis Iglesiente da cui proverranno. Ci servono tutti, Ci interessa che siano consapevoli della colpa che abbiamo tutti insieme indistintamente per non aver fermato la predazione attuata sui nostri reparti ospedalieri e sugli altri servizi pubblici essenziali. Il successo non è assicurato ma, se non ci riusciranno, il Sulcis Iglesiente si svuoterà, non per infertilità, ma per una penuria di sicurezza sanitaria, sistematicamente indotta dal centro che ci governa, che non vuole fermarsi.

Sabato 25 marzo si sono svolte presso la sede dell’Ordine Professionali delle professioni infermieristiche (OPI) Carbonia-Iglesias le elezioni del rinnovo del Coordinamento Regionale della Società Italiana per la Direzione e il Management delle Professioni Infermieristiche (SIDMI)
Dopo la relazione del presidente SIDMI, dott. Bruno Cavaliere, sull’importanza di gestire il cambiamento la leadership e la cultura infermieristica, sono state presentate alcune interessanti esperienze della ASL Gallura, Università degli Studi di Studi di Cagliari e ASL Sulcis.
Ai lavori erano presenti la presidente regionale del Coordinamento Caposala della Regione Sardegna, dott.sa Stefania Solinas, e diversi dirigenti delle professioni sanitarie della ASL Gallura, ASL Sassari, ASL medio Campidano, ARNAS Brotzu, ASL Sulcis e Azienda Ospedaliera Universitaria di Cagliari.
La giornata si è conclusa col rinnovo delle cariche di SIDMI Sardegna. È stato eletto coordinatore SIDMI Regione Sardegna Antonello Cuccuru della ASL Sulcis, che sarà coadiuvato dai due vice coordinatori dott.sa Ilenia Servetti della ASL di Cagliari e dott. PhD Aviles Gonzales Cesar Ivan dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di Cagliari.

Mentre una start-up olandese, SpaceLife Origins, ipotizza di inviare in orbita terrestre, a 400 km dal nostro pianeta, una donna con gravidanza a termine, per testare la possibilità, per la nostra specie, di riprodursi al di fuori del pianeta, e proseguire anche quando, della Terra, non rimarrà più nulla di abitabile, è importante rimanere con i piedi per terra e cercare di capire perché le donne del Sulcis Iglesiente, per partorire, scelgono altre strutture sanitarie.
Le strutture pubbliche o private accreditate che nella Regione Sardegna effettuano parti sono 13. Il 23,1% rispetta il valore di riferimento fissato a 1.000 parti mentre il 38,5% non rispetta il valore minimo di 500 parti l’anno.
Le 5 strutture che in Sardegna effettuano un maggior numero di parti sono oggi:
1. Policlinico di Monserrato di Cagliari
2. Ospedale SS. Trinità di Cagliari
3. Stabilimento Cliniche di San Pietro – AOU di Sassari
4. Ospedale Giovanni Paolo II di Olbia (SS)
5. Ospedale San Francesco di Nuoro
ll regolamento del ministero della Salute sugli standard quantitativi e qualitativi dell’assistenza ospedaliera fissa i valori massimi relativi ai tagli cesarei primari al 25% (per gli ospedali che eseguono più di 1000 parti annui) e al 15% (per gli ospedali che effettuano meno di 1000 parti annui).
Prima di poter affermare, sic et simpliciter, che le donne del nostro territorio non scelgono la nostra struttura perché non si pratica la parto analgesia, sarebbe utile condurre almeno un’indagine qualitativa più approfondita con i soggetti interessati (le donne che devono partorire e/o le donne che hanno già partorito).
Le donne, in genere, hanno aspettative precise riguardo al momento della nascita del loro bambino: c’è chi ci tiene a partorire nel modo più naturale possibile, chi vuole assolutamente contenere il dolore, chi desidera il neonato con sé 24 ore su 24 e chi chiede di conservare il sangue del cordone ombelicale. Non si può prescindere, poi, dall’andamento della gravidanza: se insorgono patologie a carico della donna o del nascituro durante l’attesa bisogna necessariamente puntare su un centro hub di II livello che disponga di strumentazione adeguata e di una Terapia Intensiva Neonatale. Invece, se la gravidanza è fisiologica, la futura mamma può scegliere di farsi seguire presso i consultori e di partorire negli ospedali spoke di 1° livello – ben collegati ai centri hub di 2° – purché vantino adeguati volumi di attività.
È fondamentale, quindi, informarsi per tempo per capire se la struttura prescelta risponde alle proprie esigenze: se dispone cioè di un servizio di analgesia epidurale gratuita h24 7 giorni su 7, di una vasca per il parto in acqua e di un servizio di rooming-in 24 ore su 24. E ancora: se è un centro di raccolta del sangue del cordone ombelicale o se è presente una Terapia Intensiva Neonatale.
Tutte queste informazioni sono oggi disponibili su www.doveecomemicuro.it, portale che vanta un database di oltre 2.300 strutture: tra ospedali pubblici, strutture ospedaliere territoriali, case di cura accreditate, poliambulatori, centri diagnostici e centri specialistici.
Per confrontare le strutture è sufficiente inserire nel “cerca” la parola desiderata, ad esempio “parto” e selezionare la voce che interessa tra quelle suggerite. In cima alla pagina dei risultati compariranno i centri ordinati per volume di attività, per vicinanza o in base ad altri criteri selezionabili. Il semaforo verde indica il rispetto delle soglie ministeriali mentre la barra di scorrimento mostra il posizionamento delle singole strutture nel panorama nazionale.
La valutazione viene fatta considerando indicatori istituzionali di qualità come volumi di attività (dati validati e diffusi dal PNE – Programma Nazionale Esiti gestito dall’Agenas per conto del Ministero della Salute). È possibile inserire nel “cerca” anche un trattamento (analgesia epidurale gratuita h24 7 giorni su 7, parto in acqua, centro raccolta sangue del cordone ombelicale), o un’area specialistica (Terapia Intensiva Neonatale), quindi restringere il campo alla regione o alla città di appartenenza. Per filtrare ulteriormente i risultati, basta spuntare le caselle della colonnina a sinistra relative, ad esempio, ai Bollini Rosa, il premio assegnato agli ospedali attenti alle esigenze femminili.
Per evitare di farsi prendere dallo sconforto è necessario procedere con un approccio interpretativo del fenomeno, nel suo contesto naturale, con i significati assegnati dalla gente. Una ricerca qualitativa fenomenologica potrebbe consentirci di comprendere i fenomeni e chiarire le percezioni di differenti gruppi, atteggiamenti, preferenze, opinioni.
Uno strumento di facile applicazione è costituito dalla tecnica del focus group. Si tratta di una forma di ricerca qualitativa, in cui un piccolo gruppo, omogeneo e informale di individui si riunisce per discutere un tema specifico sotto la guida di un moderatore.
I partecipanti da reclutare per il focus possono essere diversi: donne che devono ancora partorire, donne che hanno già partorito, operatori sanitari dei consultori, operatori dell’UO di Ginecologia e Ostetricia, ai quali vengono sottoposte una serie di domande sulle motivazioni che influiscono nella scelta del punto nascita.
Attraverso questa tecnica basata sulla libertà di espressione dei membri del gruppo può accadere che emergano aspetti del tema dibattuto non ancora considerati.
L’analisi dei dati emersi potrà portare a possibili modifiche organizzative e/o strutturali, compresa l’eventuale ricollocazione dell’attuale struttura di Ginecologia e Ostetricia in altro Presidio.

Antonello Cuccuru

Nel leggere con piacere l’illuminante articolo “L’anatra zoppa” del Sulcis Iglesiente, di Mario Marroccu, che richiama al “buon senso e all’unità”, contro “le surreali vicendevoli accuse di campanilismo”, sono più che mai convinto che sia necessario sperimentare un nuovo approccio strategico integrato, finalizzato a condividere, organizzare, rendere accessibile, utilizzare e capitalizzare il vasto patrimonio di competenze presenti nella ASL Sulcis, attraverso la creazione di Comunità di Pratica (CdP).
Il termine comunità di pratica, o “Community of practice“, compare agli inizi degli anni ’90, a opera di Étienne Wenger, ma la sua origine è molto più lontana nel tempo, basti pensare alle botteghe artigiane. Il fine della comunità è il miglioramento collettivo. Chi aderisca a questo tipo di organizzazione, mira ad un modello di intelligenza condivisa, non esistono spazi privati o individuali, in quanto tutti condividono tutto.
Chi ha conoscenza e la tiene per sé è come se non l’avesse. Le Comunità di Pratica tendono all’eccellenza, a scambiarsi reciprocamente ciò che di meglio produce ognuno dei collaboratori. Questo metodo costruttivista punta a costruire una conoscenza collettiva condivisa, un modo di vivere, lavorare e studiare, una concezione che si differenzia notevolmente dalle società di tipo individualistico, dove prevale la competizione.
L’idea di CdC è veramente rivoluzionaria. Siamo in un momento storico e in un territorio, dove ci si unisce per togliere ad altri i diritti acquisiti. Ci si unisce in manifestazioni non per la conquista di un diritto, per il mantenimento di un servizio. No. Ci si unisce per andare contro altro ed altri. L’identità degli assistiti della ASL Sulcis non può essere ancora quella dell’appartenenza a questo o a quel Comune.
Le Comunità di Pratica non sono un fenomeno nuovo. Già dalla fine del secolo scorso possono rilevarsi esperienze intese a costituire Comunità di Pratica in ambito sanitario.
Le CdP costituiscano un valido strumento per fronteggiare efficacemente le sfide della sanità moderna, caratterizzata da complessità, specializzazione e personalizzazione delle cure. Nelle CdP l’apprendimento si realizza attraverso l’esperienza sul campo (apprendimento situato) consentendo ai suoi membri, grazie alle interazioni reciproche, di acquisire competenze che possono essere immediatamente verificate nella pratica.
L’apprendimento nella CdP è sia processo individuale e mentale del singolo, che fenomeno sociale e di gruppo dell’intera comunità. La comunità è necessaria ed indispensabile per la condivisione della conoscenza e fornisce un ambiente sicuro dove cimentarsi nell’apprendimento, attraverso l’osservazione e l’interazione con i colleghi più esperti.
L’informalità nelle interazioni è l’elemento che più assicura una buona riuscita della collaborazione ed un atteggiamento propositivo, incoraggiando il confronto, migliorando la pratica e contribuendo a sviluppare nuove soluzioni per affrontare i problemi.
Nello specifico le dinamiche di interazione delle CdC sono riassumibili in quattro fasi essenziali:
• La comunicazione – fase in cui ci si scambia domande e risposte supportandosi reciprocamente nel lavoro quotidiano, solitamente ci si trova nello stesso ambito professionale con una certa eterogeneità del livello di esperienza. In questa fase iniziale si sviluppa un senso di “aiuto reciproco” nel breve periodo.
• La condivisione – fase in cui si hanno interessi comuni (ad es: problema di salute specifico) per i quali si hanno risorse comuni alle quali far riferimento per risolvere ciascuno i propri problemi, interagendo con persone che provengono da ambiti disciplinari simili si migliora la formazione personale. In questa fase si sviluppa l’“apprendimento individuale” nel lungo periodo.

• La collaborazione – fase in cui si ha un problema comune da risolvere separatamente (ad esempio: creare un percorso diagnostico terapeutico assistenziale (PDTA), percorsi integrati, etc.), ma avvalendosi del supporto reciproco, solitamente si è tutti attori dello stesso processo e la finalità è quella di migliorare continuamente le prestazioni del processo. In questa fase si sviluppa il “supporto ai processi” aziendali nel breve periodo.
• La cooperazione – fase in cui si lavora per produrre un unico “prodotto” (che può identificarsi in un prodotto, un servizio, un progetto, ecc.) e il risultato dovrà essere il migliore da ogni punto di vista, scartando le proposte inadeguate, così facendo si sviluppano le capacità innovative dell’impresa. In questa fase si sviluppa l’”apprendimento organizzativo” nel lungo periodo.
Per fare un esempio, le insufficienze riportate nel PNE 2022 (dati 2021 sugli indicatori di Colecistectomia laparoscopica: ricoveri con degenza post operatoria < a 3 giorni, Colecistectomia laparoscopica: interventi in reparti con volume > 90 casi/anno o sulla Frattura del collo del femore: intervento chirurgico entro 48 ore), per essere modificate potrebbero essere analizzate in una CdP condividendo le diverse competenze possedute da ortopedici, anestesisti, chirurghi e direzione strategica, pena la possibile riduzione di Unità Operative.
Per quanto concerne il governo della sanità territoriale e della cronicità, oltre gli adempimenti normativi previsti dal DM 71, sarà necessario costruire CdP attraverso la partecipazione dei MMG, PLS, Medici Specialisti Ospedale/Territorio, Specialisti della fragilità (Fisiatri e Geriatri), ADI, UVMD ed équipe itineranti, comunità protette, i referenti dei servizi di dimissioni ospedaliere, Assistenti sociali e Psicologi della ASL e dei Distretti Sociali/Ambiti territoriali, rappresentanti delle Associazioni dei malati.
Il Ruolo del Management (Direttori dei Distretti Sanitari e del Presidio Ospedaliero, gli altri Dirigenti delle strutture aziendali, Formazione, Professioni sanitarie, Controllo di Gestione, Farmacisti, e servizi informatici, etc.), dovrà essere quello di incoraggiare, supportare, incentivare e indirizzare la Comunità di Pratica verso il raggiungimento degli obiettivi aziendali, stimolando la creazione di un senso di appartenenza, facilitando la comunicazione e la condivisione di informazioni e conoscenze, incoraggiando l’utilizzo della tecnologia a disposizione per la comunicazione e agendo in collaborazione con i servizi degli Enti locali per una piena integrazione multidisciplinare.

Antonello Cuccuru

 

Antonello Cuccuru, dirigente delle Professioni sanitarie infermieristiche, Tecniche, della Riabilitazione, della Prevenzione e della Professione di Ostetrica, dipendente della Asl 3 di Nuoro, torna a lavorare presso la Asl Sulcis. Lo ha disposto su richiesta dell’interessato, con apposita deliberazione n° 385 del 23 agosto 2022, il direttore generale della Asl di Nuoro, Paolo Cannas.

Nel 1998 l’Organizzazione Mondiale della Sanità, riprendendo quando sviluppato da Nutbeam, nel Glossario di promozione della salute definisce l’health literacy come l’insieme delle capacità cognitive e sociali che determinano la motivazione e l’abilità degli individui per accedere, comprendere e utilizzare le informazioni, sì da promuovere e mantenere un buon livello di salute (World Health Organization. Health Promotion Glossary. WHO, Geneva, 1998).
La health literacy è legata al saper leggere e scrivere e riguarda le conoscenze, le motivazioni e le competenze delle persone ad accedere, comprendere, valutare e mettere in pratica le informazioni per esprimere giudizi e prendere delle decisioni nella vita di tutti i giorni, riguardanti l’assistenza sanitaria, la prevenzione e la promozione della salute per mantenere e migliorare la qualità della vita per tutto il corso della vita.
L’OMS inquadra, di fatto, il concetto nella dimensione delle life skills (Il termine di Life Skills viene generalmente riferito ad una gamma di abilità cognitive, emotive e relazionali di base, che consentono alle persone di operare con competenza sia sul piano individuale che su quello sociale. In altre parole, sono abilità e capacità che ci permettono di acquisire un comportamento versatile e positivo, grazie al quale possiamo affrontare efficacemente le richieste e le sfide della vita quotidiana), affermando che la health literacy implica il raggiungimento di un livello di conoscenza, abilità e consapevolezza utili a intraprendere azioni per migliorare la salute individuale e della comunità, promuovendo il cambiamento degli stili e delle condizioni di vita.
Il riferimento alla “salute della comunità” e alle “condizioni di vita” sottolinea quanto la health literacy sia rilevante non soltanto per la salute individuale, ma quanto eserciti un peso per la partecipazione della comunità a decisioni che hanno un impatto sulla salute della popolazione (la cosiddetta critical health literacy), aprendo definitivamente la strada allo sconfinamento di tale disciplina in ambito di prevenzione collettiva di promozione della salute (public health literacy).
Il primo articolo in cui si fa riferimento esplicito al concetto di public health literacy risale presumibilmente al 2005. In questo articolo Gazmarian e collaboratori si interrogano se sia etico che professionisti della salute forniscano informazioni troppo difficili o poco accessibili ai cittadini/clienti/pazienti, spesso incentrate sugli aspetti scientifici, comprensibili solo dagli esperti del settore (Gazmararian JA, Curran JW, Parker RM, Bernhardt JM, DeBuono BA. Public health literacy in America: an ethical imperative. Am J Prev Med 2005; 28 (3): 317-322)
Tale criticità, ripresa ed affrontata da numerosi altri autori, verrà descritta da Rowlands e Nutbeam come “the inverse information law” ossia come “la legge dell’informazione inversa” in base alla quale “quelli che hanno i più bassi livelli di health literacy hanno anche i più bassi livelli di informazione sanitaria” (Rowlands G., Nutbeam D. Health literacy and the “inverse information law”. Br J Gen Pract 2013; 63 (608): 120-121)
L’articolo di Gazmarian e dei suoi collaboratori prosegue affermando che, fino ad allora, l’attenzione alla health literacy era stata prevalentemente limitata all’ambito sanitario in senso stretto e, nello specifico, alla comunicazione tra i servizi sanitari e i pazienti, e proseguono lanciando una nuova sfida, quella della public health literacy, vista come un livello più elevato di alfabetizzazione sanitaria, nel quale gli individui siano in grado di comprendere non solo le informazioni sulla salute che li riguardano da vicino, ma anche quelle che interessano l’intera comunità.

In questo senso, le abilità di public health literacy sono essenziali e “spendibili” per comprendere, ad esempio, il ruolo di un fattore di rischio ambientale e per riconoscere le eventuali distorsioni nelle informazioni riportate dai media.
Affermando che «la qualità dell’informazione sanitaria che gli americani ricevono, la capacità di capire e usare quella informazione è la chiave per costruire un’America più sana e che colmare il gap in health literacy è una questione di etica e di equità, essenziale per ridurre le diseguaglianze nella salute», gli autori elencano sei passaggi per raggiungere l’obiettivo primario di una società maggiormente health literate:
– definire le caratteristiche di una popolazione health literate;
– sviluppare strumenti e indagini per misurare il livello di health literacy di una popolazione;
– valutare in modo critico gli sforzi comunicativi del personale sanitario;
– potenziare le capacità comunicative e di ascolto del personale sanitario;
– riconoscere che, a differenza della health literacy, possedere conoscenze teoriche su determinati argomenti di salute è condizione necessaria ma non sufficiente per impegnarsi a mantenere e promuovere comportamenti salutari;
– sviluppare collaborazioni estese tra sanità pubblica e altri professionisti per raggiungere l’obiettivo di mantenere e promuovere comportamenti.
Conoscenze, competenze e motivazioni costituiscono il cuore della definizione della health literacy, contraddistinguendola dalla singola acquisizione di conoscenze (aspetto meramente nozionistico) o di competenze (abilità raggiunte con l’addestramento), e sono finalizzate all’accesso, alla comprensione, alla valutazione e alla messa in pratica delle informazioni sulla salute durante tutto il corso della vita.
La health literacy influenza i comportamenti e l’uso dei servizi sanitari, con conseguenze in termini di outcome di salute e di costi per l’individuo e la collettività. Una bassa health literacy risulta associata a errori, esposizione a fattori di rischio, problemi di sicurezza del paziente, uso improprio dei servizi sanitari, mancata adesione a campagne di screening di popolazione, con conseguente peggioramento dello stato di salute, anche in termini di salute percepita.
In attesa di chiarire meglio i contenuti della riforma sanitaria e le funzioni di ARES e delle AASSLL, è bene ricordare a tutti gli operatori sanitari che è indispensabile garantire un aumento del livello di health literacy dei cittadini e della popolazione del Sulcis Iglesiente al fine di determinare un progressivo incremento dei livelli di autonomia e un empowerment maturo, fondato sulla conoscenza diretta dei fenomeni per realizzare l’autogestione della propria salute e la partecipazione attiva ai percorsi di cura.
A livello di ASL, le diverse strategie di coinvolgimento dei pazienti e di offerta di prestazioni e servizi devono essere appropriate in funzione del livello di alfabetizzazione sanitaria degli utenti. Affinché tale assunto si realizzi, è necessario che la direzione strategica includa la health literacy nelle politiche aziendali e che il personale sanitario sia formato sul ruolo della stessa come determinante di salute.
Nello specifico, soprattutto qualora non sia noto il livello di health literacy dei pazienti o della popolazione assistita, risulta indispensabile adottare alcune precauzioni universali (Agency for Healthcare Research and Quality, U.S. Department of Health and Human Services. Health Literacy Universal Precautions Toolkit. http://nchealthliteracy.org/toolkit/toolkit_w_appendix.pdf) per garantire che tutti i soggetti siano in grado di comprendere il messaggio di salute e di orientarsi all’interno del servizio sanitario.
Tra le precauzioni universali sono compresi gli interventi per migliorare la comunicazione orale o scritta, come la tecniche teach-back o brown bag medication review (Questo metodo consiste nel far ripetere al paziente, con parole proprie, quanto appena spiegato per testarne l’apprendimento, verificare l’efficacia della comunicazione e apportare le eventuali correzioni alle informazioni risultate inaccurate. La comprensione del paziente è confermata quando è in grado di ripetere correttamente quanto appena detto dal professionista), l’uso di materiale scritto semplice, con poche scritte e molte immagini, e incoraggiare i pazienti a fare domande.
Inoltre, considerando una prospettiva più ampia del sistema-salute, gli operatori sanitari devono tenere in considerazione il fatto che anche i caregivers dei pazienti, siano essi informali (familiari, amici) o formali (gli assistenti alla persona, ovvero i cosiddetti “badanti”), potrebbero presentare bassi livelli di health literacy.
L’alfabetizzazione sanitaria ci tocca tutti da vicino in maniera molto più concreta di quanto si possa pensare.
Ha a che fare con la nostra salute e con l’equità di accesso alle risorse, quindi con il perpetuarsi o l’aggravarsi delle disuguaglianze. Impatta non solo sulle possibilità di beneficiare pienamente delle risorse offerte dai diversi sistemi sanitari e dalla società in cui viviamo, ma compromette la capacità di reagire nelle situazioni di bisogno o di emergenza, coinvolgendo non solo i singoli interessati, ma le loro famiglie e le intere comunità.
Quest’ultimo aspetto risulta di particolare rilevanza alla luce dei cambiamenti dell’assetto del sistema sanitario regionale, che vede una sempre maggiore complessità e lontananza geografica di alcuni servizi e strutture di riferimento cagliaritane.

Bibliografia

Agency for Healthcare Research and Quality, U.S. Department of Health and Human Services. Health Literacy Universal Precautions Toolkit. http://nchealthliteracy.org/toolkit/toolkit_w_appendix.pdf

Health literacy e sanità pubblica https://www.saluteinternazionale.info/2018/02/health-literacy-e-sanita-pubblica

Freedman DA, Bess KD, Tucker HA, Boyd DL, Tuchman AM, Wallston KA. Public health literacy defined. Am J Prev Med 2009;36: 446-51.

Godlee F. Evidence based medicine: flawed system but still the best we’ve got. BMJ 2014;348:g440.

Hersh L, Salzman B, Snyderman D. Health Literacy in Primary Care Practice. American Family Physician 2015; 92(2): 118-24.

Ha Dinh TT, Bonner A, Clark R, Ramsbotham J, Hines S. The effectiveness of the teach-back method on adherence and self-management in health education for people with chronic disease: a systematic review. JBI Database System Reviews and Implementation Reports 2016; 14(1): 210-47.

3. Miller TA. Health literacy and adherence to medical treatment in chronic and acute illness: A meta- analysis. Patient Education and Counseling 2016; 99(7): 1079-1086.

Antonello Cuccuru

Il 18 dicembre 2001, alle 10.00, l’Aula consiliare del comune di Villamassargia ospiterà una conferenza di confronto, sui contenuti della bozza del Piano Regionale Servizi Sanitari presentata alle parti sociali e alle istituzioni, promossa dall’Ordine Professioni infermieristiche di Carbonia Iglesias (OPI).

La comunità del Sulcis Iglesiente deve essere grata al presidente dell’OPI, Graziano Lebiu, per l’attenzione riservata a questo territorio in questi ultimi anni, dove si è assunto spesso responsabilità attribuibili ad altri soggetti, mettendoci sempre la faccia.

Ciò premesso, oltre legittime rivendicazioni e senza entrare nel merito della ripartizione e collocazione delle strutture di assistenza appartenenti alla rete territoriale, in riferimento alla previsione di nuove Case della Salute e di Ospedali di Comunità, ritengo utile proporre alcune riflessioni.

Nel dicembre del 2020, il Dipartimento Affari Sociali del Servizio Studi della Camera dei Deputati ha inviato alla Conferenza delle Regioni una richiesta di informazioni relativa ai presidi delle cure intermedie (Case della Salute/Casa di comunità e Ospedale di comunità – OdC) attivi nei diversi sistemi sanitari regionali Tali strutture, infatti, hanno un ruolo centrale nella Missione Salute (n. 6) del PNRR.

Successivamente, sulla base della documentazione pervenuta, la Segreteria tecnica Area “Assistenza territoriale” ha elaborato la “Relazione sullo sviluppo delle Case della Salute e degli Ospedali di Comunità nelle regioni italiane (anno 2020)”, inviata nel febbraio 2021.

Nella relazione si chiarisce che, mentre la declinazione operativa degli Ospedali di Comunità si basa sui contenuti dell’Intesa Stato-Regioni n. 17 del 20 febbraio 2020, la declinazione operativa di Casa della Salute, in assenza di una impostazione condivisa a livello nazionale, è stata intesa come una struttura sanitaria territoriale in cui è prevista l’integrazione tra medici di medicina generale/pediatri di libera scelta ed i servizi sanitari delle Aziende Unità Sanitarie Locali [es. Case della Salute, Unità complesse di cure primarie (UCCP), Presidi territoriali di assistenza (PTA)].

Secondo la documentazione pervenuta alla Segreteria tecnica Area “Assistenza territoriale” e ai contenuti della Bozza del Piano Regionale Servizi Sanitari, nella Regione Sardegna risultano attive 14 Case di Comunità già finanziate con fondi europei, nazionali o regionali, mentre le altre 12 sono attualmente in fase di attivazione, per un totale di 26 strutture dislocate sul territorio regionale.

Nel territorio del Sulcis Iglesiente risultano attive (?) 4 Case di Comunità (Giba, Sant’Antioco, Carloforte e Fluminimaggiore) e nessun Ospedale di Comunità (anche se 1 era stato ipotizzato nella Rete Ospedaliera ad Iglesias nel PO Santa Barbara). Il documento della Regione Sardegna prevede per ogni distretto di circa 100.000 abitanti una Casa di Comunità hub e almeno 3 Case della comunità spoke, per favorire la capillarità dei servizi sul territorio ed un equo accesso alle cure. La tipologia delle CdC attribuite alla ASSL di Carbonia prevede una Casa hub a (Sant’Antioco) e 3 CdC Spoke (Giba, Sant’Antioco, Carloforte).

È importante ricordare che, dopo la diffusione delle cifre del riparto dei fondi tra le regioni per le Case della Comunità o CdC e gli Ospedali di Comunità (OdC), sono stati infatti rivisti anche gli standard per le nuove strutture, che modificano significativamente il documento AGENAS di luglio 2021 su “Modelli e standard per lo sviluppo dell’Assistenza Territoriale nel Sistema Sanitario Nazionale”.

Secondo il succitato documento Agenas, la Casa della Comunità è il luogo fisico di prossimità e di facile individuazione dove la comunità può accedere per poter entrare in contatto con il sistema di assistenza sanitaria e sociosanitaria. La CdC promuove un modello organizzativo di approccio integrato e multidisciplinare attraverso équipe territoriali. Costituisce la sede privilegiata per la progettazione e l’erogazione di interventi sanitari e di integrazione sociale.

Standard:

– almeno 1 Casa della Comunità hub ogni 40.000-50.000 abitanti;

– Case della Comunità spoke e ambulatori di Medici di Medicina Generale e Pediatri di Libera Scelta tenendo conto delle caratteristiche orografiche e demografiche del territorio al fine di favorire la capillarità dei servizi e maggiore equità di accesso, in particolare nelle aree interne e rurali. Tutte le aggregazioni dei MMG e PLS (AFT e UCCP) sono ricomprese nelle Case della Comunità avendone in esse la sede fisica oppure a queste collegate funzionalmente;

– almeno 1 Infermiere di Famiglia e Comunità ogni 2.000 – 3.000 abitanti.

Per rispondere alle differenti esigenze territoriali, garantire equità di accesso, capillarità e prossimità del servizio, si prevede la costituzione di una rete di assistenza territoriale formata secondo il modello hub e spoke.

Sia nell’accezione hub sia in quella spoke, la CdC costituisce l’accesso unitario fisico per la comunità di riferimento ai servizi di assistenza primaria e di integrazione sociosanitaria. Entrambe, quindi, propongono un’offerta di servizi costituita da medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, specialisti ambulatoriali interni, infermieri di famiglia e comunità, presenza di tecnologie diagnostiche di base.

La CdC hub garantisce l’erogazione dei seguenti servizi, anche mediante modalità di telemedicina:

– Équipe multiprofessionali (MMG, PLS, Continuità Assistenziale, Specialisti Ambulatoriali Interni (SAI) e dipendenti, Infermieri e altre figure sanitarie e sociosanitarie);

– Presenza medica h24 – 7 giorni su 7 anche attraverso l’integrazione della Continuità Assistenziale (ex Guardia medica);

– Presenza infermieristica h12 – 7 giorni su 7;

– Punto Unico di Accesso (PUA) sanitario e sociale;

– Punto prelievi;

– Programmi di screening;

– Servizi diagnostici finalizzati al monitoraggio della cronicità (ecografo, elettrocardiografo, retinografo, oct, spirometro, ecc.) anche attraverso strumenti di telemedicina (es. telerefertazione);

– Servizi ambulatoriali specialistici per le patologie ad elevata prevalenza (cardiologo, pneumologo, diabetologo, ecc.);

– Servizi infermieristici, sia in termini di prevenzione collettiva e promozione della salute pubblica, inclusa l’attività dell’Infermiere di Famiglia e Comunità (IFeC), sia di continuità di assistenza sanitaria, per la gestione integrata delle patologie croniche;

– Sistema integrato di prenotazione collegato al CUP aziendale;

– Servizio di assistenza domiciliare di base;

– Partecipazione della Comunità e valorizzazione della co-produzione, attraverso le associazioni di cittadini e volontariato.

– Relazione tra la CdC hub con il funzionamento delle strutture per le cure intermedie (es. assistenza medica nelle strutture residenziali territoriali come l’ospedale di comunità).

La CdC spoke garantisce l’erogazione dei seguenti servizi, anche mediante modalità di telemedicina:

– Équipe multiprofessionali (MMG, PLS, Specialisti Ambulatoriali Interni (SAI) e dipendenti, Infermieri e altre figure sanitarie e sociosanitarie);

– Presenza medica e infermieristica almeno h12 – 6 giorni su 7 (lunedì-sabato);

– Punto Unico di Accesso (PUA) sanitario e sociale;

– Alcuni servizi ambulatoriali per patologie ad elevata prevalenza (cardiologo, pneumologo, diabetologo, ecc.);

– Servizi infermieristici, sia in termini di prevenzione collettiva e promozione della salute pubblica, inclusa l’attività dell’Infermiere di Famiglia e Comunità (IFeC), sia di continuità di assistenza sanitaria, per la gestione integrata delle patologie croniche;

– Programmi di screening;

– Collegamento con la Casa della Comunità hub di riferimento;

– Sistema integrato di prenotazione collegato al CUP aziendale;

– Partecipazione della Comunità e valorizzazione co-produzione, attraverso le associazioni di cittadini, volontariato.

All’interno delle CdC possono essere ricompresi posti letto di cure intermedie (Ospedali di Comunità e post-acuti) e/o posti letto di hospice e/o servizi di riabilitazione e mantenimento funzionale.

In attesa della predisposizione e approvazione di “Linee guida regionali sulle Case della comunità” (si spera in ottemperanza a quanto stabilito da Agenas) con il dettaglio dei requisiti organizzativi, funzionali e strutturali, nonché i criteri di eleggibilità dei pazienti e le modalità di presa in carico, proviamo a capire meglio cosa sono le CdC e perché ancora oggi presentano diverse criticità nel nostro territorio.

Case della salute/Comunità (CdC)

Nel nostro SSN la crescita di attenzione alle forme di erogazione «fuori dall’ospedale» ha portato a un rinnovato interesse verso il modello della Casa della Salute dopo anni (quasi 15) di sviluppo variegato e disomogeneo nei vari contesti regionali.  Le Case della Salute/Case di Comunità, insieme ad altre tipologie di presidi territoriali, sono state infatti individuate dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) come luoghi cardine della Missione Salute (la numero 6) da consolidare e sui quali investire ulteriormente per potenziare l’assistenza socio-sanitaria a livello territoriale.

La stessa definizione e il significato di CdC sono cambiati nel tempo e continuano a evolvere. Se nelle fasi iniziali di introduzione delle nuove strutture ha concorso ampiamente la necessità di trovare una soluzione ai problemi posti dalla riconversione dei piccoli ospedali, negli anni più recenti l’evoluzione delle nuove configurazioni è sempre più accompagnata da altre spinte e motivazioni: esigenze politiche di rinsaldare i legami con la comunità, tensioni ideali ancorate all’affermazione di nuovi modelli di cura e anche tendenze di carattere più  manageriale focalizzate alla semplificazione dell’accesso e al miglioramento  dell’esperienza di consumo. Nei sistemi regionali dove il modello è maggiormente diffuso e consolidato (Emilia-Romagna e Toscana) le nuove linee guida segnano il passaggio da una fase che entrambi i disegni regionali definiscono «strutturalista» a una di maggior attenzione ai processi di integrazione nella rete di offerta (Per la regione Emilia Romagna si tratta della D.G.R. n. 2128 del 5 dicembre 2016 «Case della Salute: Indicazioni regionali per il coordinamento e lo sviluppo delle comunità di professionisti e della medicina d’iniziativa»; per la regione Toscana è la Delibera n. 770 del 22 giugno 2020 «Atto di indirizzo sulle Case della Salute»).

L’auspicata presenza di elementi di innovazione nelle soluzioni è comunque ancora frenata da vincoli e paradigmi che vengono dal passato, e non solo nel nostro territorio. La fisicità è la dimensione fondamentale rispetto alla quale si articolano le principali scelte progettuali (di localizzazione di funzioni, servizi e persone) e continua a rappresentare l’elemento fondante e caratterizzante delle nuove (o rinnovate) strutture territoriali e del ruolo che esse possono assolvere, come è accaduto per le strutture spoke di Giba e Fluminimaggiore, dove ci siamo limitati a fare un ampliamento strutturale delle sedi dei due Poliambulatori.

In prospettiva, tuttavia, come per molti ambiti della vita quotidiana, anche per i servizi ordinariamente erogati nelle strutture territoriali l’intervento di COVID-19 ha reso più evidente l’importanza della trasformazione digitale e delle nuove forme di erogazione dei servizi «a distanza» (per portare l’assistenza direttamente a casa delle persone, garantire continuità delle cure e ridurre al minimo gli spostamenti degli utenti e dei professionisti).

Prima di rivendicare l’attribuzione di una o più CdC per il nostro territorio, è importante approfondire quelle che sono le principali sfide e potenziali traiettorie di sviluppo che sottendono al modello della CDS oggi e per i prossimi anni, auspicabilmente a emergenza Covid-19 superata. Appare opportuno ricostruire il punto di partenza, e cioè l’attuale stato delle conoscenze sulle esperienze fin qui maturate nelle nostre 4 CdC.

Le nostre CdC sono state finora concepite e realizzate come contenitori fisici e luoghi di erogazione «isolati» rispetto ai sistemi di offerta delle aziende. Le opportunità offerte dalle tecnologie e le sfide poste da contesti di riferimento sempre più differenziati e interconnessi nella risposta agli utenti e comunità servite (soprattutto in aree urbane e a più alta densità d’offerta) portano a considerare profili evolutivi diversi per il modello atteso di CdC, non solo incentrati sulla dimensione fisica, collegati in rete e maggiormente ispirati a logiche e modelli propri del retail. Il dibattito sulle possibili evoluzioni (non solo fisiche) del modello è comunque appena iniziato e spero trovi spazio nella conferenza di sabato 18 dicembre a Villamassargia. I quadri normativi e concettuali sono ancora fortemente legati alle formulazioni delle origini e la concentrazione fisica continua a rappresentare l’elemento fondante e prevalente nei disegni delle regioni e condiziona ancora le realizzazioni. Non mancano tuttavia esperienze (e anche modelli e approcci che stanno affermandosi nel nostro come in altri sistemi sanitari) che potrebbero rappresentare un utile riferimento per far progredire le attuali e future progettualità delle Aziende.

Le analisi e considerazioni sviluppate da altre regioni evidenziano, in particolare, la necessità di guardare alle CdC (e al loro progetto di sviluppo):

-ponendo particolare attenzione alla esigenza di definire (e anche mantenere) un disegno unitario per le strutture e i modelli di servizio che compongono nel loro insieme l’offerta territoriale;

-superando la concezione di CdC come mero contenitore fisico nel quale le attività si svolgono e che spesso sono identificate con una funzione. La CdC è da intendersi piuttosto come l’integrazione di una specifica configurazione fisica e di un insieme di servizi che, da una parte, rende possibile l’erogazione delle attività direttamente collegate al soddisfacimento dei bisogni e, dall’altra, le qualifica e le connota, soprattutto nella dimensione della esperienza percepita dai destinatari;

-adattando (anche dinamicamente) il disegno delle reti, delle strutture e dei modelli di servizio incorporando l’innovazione ed eventuali cambi di scenario.

Nella definizione ri-definizione delle CdC da attribuire al nostro territorio e alla Regione Sardegna diventa imprescindibile l’esigenza di costruire una rete, come insieme unitario e riconoscibile, di strutture per i sistemi sanitari (siano essi di livello aziendale, o regionale) e non la messa disposizione di una semplice sommatoria di strutture e servizi di carattere locale. Indipendentemente dalla segmentazione, geografica o di altro tipo, che può essere posta alla base degli assetti istituzionali e organizzativi delle aziende e di quella operativa delle singole strutture, il cittadino dovrà avere la possibilità di ritrovarsi in ogni singolo punto e riconoscere la presenza di un sistema unitario

Il secondo e più complesso elemento da considerare, già tracciato da Agenas nel documento “Modelli e standard per lo sviluppo dell’Assistenza Territoriale nel Sistema Sanitario Nazionale”, attiene a quelle che potrebbero essere definite come le componenti di base del modello di servizio e che assumono rilievo ai fini della progettazione: (a) le funzioni, (b) i servizi/prestazioni e le attività e (c) le piattaforme operative.

Ospedali di Comunità (OdC)

Il contesto “as is” dei nostri Odc è desolante: non esiste un solo Odc attivato in tutta la Regione Sardegna. Guardando alla letteratura internazionale di riferimento, sono molteplici le definizioni elaborate per descrivere l’OdC: si tratta infatti di una struttura assistenziale che può assumere configurazioni (in termini di modello organizzativo, grado di integrazione nella filiera dei servizi, tipologie di prestazioni erogate, etc.) anche molto differenti a seconda del contesto di riferimento. In termini generali, l’OdC può essere definito come una struttura sanitaria:

a. che si connota per un legame diretto con il territorio di riferimento, da cui intercetta i bisogni dell’utenza: «community hospitals are local hospitals, units or centres whose role is to provide accessible health and associated services to meet the needs of a clinically defined and local population» (McCormack, 1983);

b. in cui la responsabilità clinica è generalmente affidata a medici di medicina generale supportati da un’equipe infermieristica, spesso anche multiprofessionale (data la presenza di operatori sociosanitari – OSS, fisioterapisti e altri professionisti sanitari) (Ritchie et al., 1998; Winpenny et al., 2016);

c. dotata di posti letto, in una misura limitata e comunque inferiore ai presidi che erogano assistenza ospedaliera;

d. che eroga, a seconda dei contesti e del processo evolutivo che ne ha caratterizzato la nascita e lo sviluppo, un insieme più o meno articolato di prestazioni sanitarie, riconducibili, in genere, all’ambito delle cure intermedie (Ashworth et al., 1996; CHA, 2008; Pitchford et al., 2017.

Benché non esista un limite stabilito a livello internazionale sul numero massimo di posti letto che è possibile prevedere in un ospedale di comunità, Davidson et al. (2019), sulla base di una review sistematica della letteratura internazionale di riferimento, indicano 100 posti letto per una popolazione di (massimo) 100.000 abitanti.

Ciò che maggiormente caratterizza le esperienze degli OdC, oltre alla forte connessione con il territorio, sono le professionalità presenti al loro interno: i medici di medicina generale sono spesso individuati come i responsabili clinici delle strutture, supportati da un’equipe infermieristica e da altri professionisti sanitari (fisioterapisti, terapisti occupazionali, OSS, dietologi, tecnici di riabilitazione). Il personale dell’OdC viene normalmente affiancato da specialisti che si recano in struttura per visite ad hoc con frequenza più o meno regolare (uno studio effettuato in Nuova Zelanda riporta ad esempio che un’equipe chirurgica visita gli OdC due volte alla settimana o che offrono consulenza e assistenza anche “a distanza” tramite strumenti di digital health, telemedicina e telemonitoraggio (un esempio è il servizio di teleoftalmologia previsto in alcuni OdC in Australia). Il limitato e/o remoto coinvolgimento di medici specialisti comporta la necessità che MMG e infermieri sviluppino in modo consolidato una serie di competenze non solo in campo strettamente clinico, ma anche manageriale e gestionale, di leadership, di comunicazione, di stakeholder management. In questo senso, l’OdC rappresenta un setting peculiare in cui il ruolo e le funzioni dell’equipe infermieristica vengono particolarmente enfatizzate: in alcuni casi, sono gli infermieri direttamente responsabili di alcune unità organizzative all’interno dell’OdC (O’Hanlon et al., 2010), in altri sono loro a seguire il patient flow nel suo complesso, dall’accesso alla dimissione, senza il diretto coinvolgimento di medici (Chen et al., 2010). Uno scenario, quest’ultimo, che difficilmente potrà essere sperimentato nella nostra Regione.

La storia degli OdC in Italia è invece recente. In data 20 febbraio 2020, la Conferenza Permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province Autonome di Trento e Bolzano, sancisce l’intesa sui requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi minimi dell’OdC, in adempimento a quanto previsto in una precedente intesa stipulata nella stessa Conferenza il 10 luglio 2014 (art. 5, comma 17) concernente il nuovo “Patto per la salute per gli anni 2014-2016”.

La nuova intesa stabilisce le caratteristiche generali e i requisiti minimi generali, strutturali e tecnologici specifici, organizzativi e gli standard minimi clinico-assistenziali degli OdC, sulla base delle indicazioni già contenute nel Decreto del Ministero della Salute del 2 aprile 2015, n. 70, art 10.1. L’OdC rappresenta una struttura intermedia tra le cure domiciliari e l’assistenza ospedaliera con funzioni diverse da quelle delle strutture residenziali extra-ospedaliere per malati cronici non autosufficienti, per disabili e per malati terminali, definite dal DPCM del 12 gennaio 2017 (artt. 29-35). L’OdC, infatti, è un presidio sanitario di assistenza primaria a degenza breve destinato ai pazienti che necessitano di interventi sanitari a bassa intensità clinica e di sorveglianza infermieristica continuativa. Nello specifico, si tratta di pazienti che, a seguito di un episodio di acuzie minore o per la riacutizzazione di patologie croniche necessitano di interventi potenzialmente erogabili a domicilio ma che vengono ricoverati nell’OdC in mancanza di idoneità strutturale e/o familiare del domicilio stesso.

Per quanto riguarda la gestione delle attività, essa è in capo all’organizzazione distrettuale e/o territoriale delle aziende sanitarie.

Logisticamente, l’OdC può avere una sede propria, oppure essere ubicato all’interno di presidi sanitari polifunzionali, strutture residenziali o ospedali per acuti, pur rimanendo riconducibile all’assistenza territoriale. Il numero di posti letto è di norma compreso tra 15 e 20, con possibilità di estensione fino a due moduli, con 15-20 posti ciascuno. I pazienti provengono dal domicilio, da altre strutture residenziali (es. Residenze Sanitarie Assistenziali, RSA), dai presidi ospedalieri per acuti o dal pronto soccorso, generalmente a seguito di una valutazione multidimensionale eseguita in fase di accesso. La responsabilità clinica dei pazienti è attribuita a un medico di medicina generale (MMG), un medico dipendente del SSN o un medico incaricato dalla struttura (per gli OdC privati). La responsabilità assistenziale è in capo ad un infermiere e l’assistenza infermieristica è garantita nelle 24 ore.

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), approvato dal Governo lo scorso aprile 2021 per il conseguimento delle risorse messe a disposizione dall’Europa nell’ambito del Next Generation EU, dedica al rafforzamento del servizio sanitario la Missione 6. Due sono i pilastri di innovazione e sviluppo: il potenziamento dell’assistenza territoriale e lo sviluppo del digitale legato al settore sanitario. In relazione al primo macro-obiettivo, ampio spazio viene dedicato all’OdC come struttura perno della rete complessiva: viene stanziato un finanziamento di 1 miliardo di euro per l’attivazione di circa 380 OdC in tutto il territorio nazionale.

A questo obiettivo si aggiunge una previsione ancora più ambiziosa contenuta nel documento di Agenas “Modelli e standard per lo sviluppo dei Servizi Territoriali nel Sistema Sanitario Nazionale”. A regime, l’Italia dovrebbe avere una dotazione di un OdC con 20 posti letto ogni 50.000 abitanti, pari a 0,4 posti letto ogni 1000 abitanti. Il documento fornisce anche alcune indicazioni specifiche sugli standard di personale e di attrezzature. Per un modulo di 20 posti letto ogni OdC dovrebbe avere una dotazione di 9 infermieri, 6 OSS e 4 ore giornaliere di un medico. L’OdC dovrebbe avere disponibili almeno le seguenti dotazioni tecnologiche: defibrillatore, elettrocardiografo portatile/telemedicina, saturimetro, spirometro, emogasanalizzatore, apparecchio per esami POC, ecografo; altre tecnologie da rendere disponibili potrebbero essere definite più avanti.

Complessivamente si tratta di una dotazione minima che appare coerente con la finalità dell’OdC di fornire assistenza di basso-medio livello. Viene inoltre specificato che i pazienti eleggibili devono necessitare di assistenza infermieristica e di assistenza medica programmabile o su specifica necessità. È prevista la possibilità che gli OdC abbiamo moduli protetti per pazienti con demenza o disturbi comportamentali come è anche prevista l’attivazione di posti letto pediatrici.

Sotto il profilo delle responsabilità, il documento di Agenas conferma i contenuti di precedenti disposizioni. L’OdC è a gestione multidisciplinare, multiprofessionale e interdisciplinare con responsabilità igienico-sanitaria in capo ad un medico, responsabilità clinica sui singoli pazienti in capo a medici dipendenti o convenzionati con il SSN e responsabilità organizzativo-assistenziale in capo ad un infermiere secondo le proprie competenze.

Tutti gli attori del sistema devono essere consapevoli che il PNRR e soprattutto il documento di Agenas propongono una straordinaria innovazione. Essi prefigurano che il servizio sanitario offra letti di medio-bassa assistenza a gestione infermieristica e sotto il controllo dell’assistenza distrettuale (e non dell’assistenza ospedaliera). Il piano è coraggioso perché le conoscenze sugli effettivi spazi di azione degli OdC sono molto limitate. Le esperienze italiane sono relativamente poche e non sono state studiate in modo sistematico. Anche la letteratura internazionale è abbastanza limitata e spesso non utile perché in diversi contesti l’OdC (o rural hospital o cottage hospital) risponde prioritariamente ad esigenze di presidio di contesti isolati in grandi paesi come il Canada o l’Australia o comunque a bassa intensità abitativa come la Finlandia o la Norvegia.

Il nostro Servizio Sanitario Regionale sta facendo una vera scommessa con gli OdC. L’auspicio è che questa scommessa, in sinergia con quella delle CdC, possa essere il volano per una profonda trasformazione del sistema sanitario verso un modello nettamente più centrato sulla comunità, la prossimità e la presa in carico olistica della persona. Si tratta di un’occasione unica che difficilmente si potrà ripetere in futuro vista l’eccezionalità delle misure introdotte, anche da un punto di vista economico. Per questo motivo è fondamentale che tutti i processi che verranno messi in essere nei prossimi mesi, dall’individuazione dei luoghi dove collocare gli OdC fino ai sistemi di finanziamento, vengano portati avanti con determinazione ma senza dogmatismi e/o provincialismi, nello spirito di una grande sperimentazione che potrebbe ridisegnare il nostro sistema sanitario regionale.

L’infermiere di famiglia e di Comunità (IFeC)

Se il documento Agenas dedica un intero paragrafo all’Infermiere di Famiglia e di Comunità, la bozza regionale del Piano Regionale Servizi Sanitari presentata alle parti sociali e alle istituzioni – che dovrebbe obbligatoriamente rifarsi al documento Agenas “Modelli e standard per lo sviluppo dell’Assistenza Territoriale nel Sistema Sanitario Nazionale”- non lo contempla nemmeno nelle CdC, nonostante una proposta di legge per l’istituzione e inserimento della figura dell’infermiere di famiglia nel servizio depositata dai consiglieri regionali della lega Mele, Piras, Giagoni, Saiu, Ennas , Manca, Canu.

L’introduzione dell’Infermiere di Comunità (IFeC) (DL n. 34/2020, art. 1 c. 5, convertito in L. 17 luglio 2020, n. 77, e le “Linee di Indirizzo Infermiere di Famiglia/Comunità” della Conferenza delle Regioni e delle Provincie Autonome) ha l’obiettivo di rafforzare il sistema assistenziale sul territorio, finalizzato a promuovere una maggiore omogeneità ed accessibilità dell’assistenza sanitaria e sociosanitaria, favorendo l’integrazione delle diverse figure professionali, compresa l’assistenza infermieristica di comunità. L’IFeC è un professionista che garantendo una presenza continuativa e proattiva nell’area/ambito o comunità di riferimento, assicura l’assistenza infermieristica ai diversi livelli di complessità in collaborazione con tutti i professionisti presenti nella comunità (MMG/PLS, assistente sociale, fisioterapisti, assistenti domiciliari ecc.) perseguendo l’integrazione interdisciplinare, sanitaria e sociale dei servizi e dei professionisti e ponendo al centro la persona.

L’Infermiere di Famiglia e Comunità è il professionista che mantiene il contatto con l’assistito della propria comunità in cui opera e rappresenta la figura professionale di riferimento che assicura l’assistenza infermieristica ai diversi livelli di complessità in collaborazione con tutti i professionisti presenti nella comunità, perseguendo l’integrazione interdisciplinare, sanitaria e sociale dei servizi e dei professionisti e ponendo al centro la persona. L’infermiere di comunità interagisce con tutte le risorse presenti nella comunità formali e informali. L’infermiere di comunità non è solo l’erogatore di cure assistenziali, ma diventa la figura che garantisce la riposta assistenziale all’insorgenza di nuovi bisogni sanitari e sociosanitari espressi e potenziali che insistono in modo latente nella comunità. È un professionista con un forte orientamento alla gestione proattiva della salute. È coinvolto in attività di promozione, prevenzione e gestione partecipativa dei processi di salute individuali, familiari e di comunità all’interno del sistema dell’assistenza sanitaria territoriale.

Standard:

– almeno 1 Infermiere di Famiglia e Comunità ogni 2.000 – 3.000 abitanti.

Ci auguriamo che la “scotomizzazione” iniziale venga rivista con l’inserimento nelle “Linee guida regionali sulle Case della comunità” di prossima emanazione.

Spero di aver fornito ulteriori spunti al dibattito del 18 dicembre sul piano dei servizi territoriali.

Antonello Cuccuru