19 April, 2024
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Vedere come sono stati ridotti i nostri Ospedali fa molto male. Adesso, dopo l’Urologia, il disastro può toccare alla Traumatologia. Una volta, quando gli ammalati ortopedici sardi andavano al Rizzoli di Bologna venivano accolti con frasi tipo «perché siete venuti qui? Avete chirurghi come il professor Italo Cao e il professor Giuseppe De Ferrari al CTO di Iglesias». Erano i tempi in cui gli americani ritenevano il Rizzoli il migliore ospedale ortopedico del mondo a causa dell’invenzione geniale del chiodo di Codivilla per allungare le ossa. Nell’immediato dopoguerra e nel Ventennio successivo molti malati sardi venivano al Sirai per farsi operare al rene o alla vescica dal famoso dottor Gaetano Fiorentino, il primo Specialista in Urologia in Sardegna. Certamente si può obbiettare che allora c’erano le miniere e che i Governi dotavano i nostri Ospedali dei migliori professionisti per curare i minatori che erano una delle componenti più pregiate della Nazione.
Oggi, dismesse le miniere, gli Ospedali sono nell’abbandono. Davanti a questo fallimento si contrappongono le città di Cagliari e di Sassari che, pur non avendo mai avuto né miniere né industrie pesanti, fioriscono di Ospedali. C’è di più. Nelle delibere di programma economico triennale (24-25-26) approvate dal Brotzu, dalla ASL 8, dalla AOU (Azienda Ospedaliero Universitaria) di Cagliari c’ è in programma l’ulteriore espansione delle specialità ospedaliere e del numero di dipendenti pubblici della Sanità (9.000 contro i 1.000 circa della ASL del Sulcis Iglesiente). Significa che per una popolazione della città metropolitana, che è 4 volte quella nostra, Cagliari ha 9 volte il personale ospedaliero destinato a noi. Se si va a vedere il programma della nostra ASL per i prossimi tre anni, si scopre che non c’è variazione apprezzabile del personale e delle spese programmate per la Sanità del Sulcis Iglesiente.
Ad Iglesias sono praticamente ridotte al lumicino tutte le specialità che conoscevamo un tempo. Al Sirai è stata praticamente chiusa l’Urologia, e ora è di fatto funzionalmente chiusa la Traumatologia. La Chirurgia, oberata da funzioni improprie, è in affanno. Di questo passo si arriverà a chiudere anche il Pronto Soccorso e Accettazione del Sirai. Del resto, se non ci saranno più i reparti specialistici, dove ricoverare i tumori, i traumi, gli infarti, le coliche renali, a cosa serve il Pronto Soccorso? Al contrario, nelle delibere cagliaritane si programma di aumentare il numero dei medici, e le spese per attrezzature.
Qui, nel Sulcis Iglesiente, non si progettano né nuove assunzioni oltre ai vecchi posti deliberati né nuovi impegni di spesa per le innovazioni tecnologiche. Il messaggio di tutte quelle delibere sui piani triennali è chiaro. Purtroppo, non è chiaro per i politici nostrani. Di qualunque colore essi siano. Scommettiamo che nei programmi che verranno propagandati per le future elezioni regionali e europee in questo territorio saranno previsti molti campi da gioco, tante luminarie, convegni, fiere e sciocchezze varie? Ormai anche le appartenenze politiche sono senza ideali: si dà il voto a chi esibisce il sorriso più smagliante e a chi dà più pacche sulle spalle al bar. Lì nasce l’errore e la nostra colpa personale. Abbiamo tutti la colpa personale di avere azzerato i nostri ospedali. Non si tratta di una colpa collettiva generica; quella serve soltanto a diluire il nostro rimorso e addirittura a dichiararci vittime del sistema. Invece è esattamente colpa di ognuno di noi. Ognuno di noi, in persona, è responsabile dell’esistenza delle lunghe liste d’attesa per i ricoveri  della carenza dei medici di famiglia e ospedalieri, dei tumori che vanno avanti e non c’è più nessuno che li sappia curare, e così via.
Il danno irreversibile ai nostri ospedali sta coincidendo con le elezioni regionali e europee, e bisogna approfittarne per pretendere pentimenti concreti e proponimenti concreti.
Iniziamo con l’ascoltare coloro che si addosseranno la colpa di avere inventato la ATS (Azienda Tutela Salute dei tempi di Pigliaru e Arru), e poi la ARES (Azienda Regionale Salute di Solinas e Nieddu poi Doria). La ARES è l’ultima nata. Si tratta di una macchina burocratica che governa la Sanità Sarda. E’ un tipo di struttura amministrativa che prima non esisteva e che è stata imposta prelevando da ciascuna ASL il cuore della sua amministrazione e trapiantandolo in un unico nuovo ente unificato. Tutte le funzioni che assomma in sé ARES sono state tolte non solo alle ASL (come la nostra) ma anche all’assessorato regionale della Sanità. Gli effetti della sua gestione sono sotto gli occhi di tutti e ormai è difficile capire quale sia il motivo della sua esistenza e che cosa giustifichi un costo di gestione annuale pazzesco, pari a 76 milioni di euro. Quell’apparato svolge di fatto una funzione pubblica ma è gestito con principi privatistici e come tale è inaccessibile al pubblico. Ha effetti pesantemente politici sulla Sanità generale ma non ha le responsabilità dei politici, perché nessuno dei suoi componenti è stato mai candidato né votato dai cittadini. E’ un’ossimoro con anima politica ma cuore privatistico. Considerato l’enorme costo e gli effetti negativi sui nostri ospedali agonizzanti, i candidati dovrebbero promettere di metterci in salvo da ARES riconoscendone la natura di errore madornale che necessita d’essere emendato. Tutto il suo personale e i fondi da essa gestiti dovrebbero essere redistribuiti nelle 8 ASL territoriali della Sardegna. Questo atto comporterebbe l’incarico di unica Autorità sanitaria alla Direzione generale della Sanità, come è sempre stato, all’interno dell’assessorato competente, escludendo ARES.
Una seconda proposta concreta consiste nel ricollocare i Sindaci nella cabina di regia per il controllo diretto delle rispettive ASL. In tal modo i Sindaci si farebbero nuovamente carico della responsabilità politica della Sanità. E’ l’unico modo per ridare al cittadino elettore il potere di indicare il nome di chi deve amministrarlo e interpretarne i bisogni; anche quelli sanitari.
Una terza proposta concreta consiste nel restituire ai medici direttori delle Unità Operative Complesse le funzioni di “Primari”. La differenza fra le due figure è enorme. Gli attuali direttori di Unità operativa, dopo aver vinto il concorso pubblico, ottengono l’incarico di direttore di durata quinquennale. Alla fine dei cinque anni, l’incarico può essere rinnovato oppure no. Dipende dalla valutazione discrezionale che ne darà la dirigenza amministrativa della ASL. Ciò significa che i direttori non diranno e non faranno mai nulla che dia dispiacere alla dirigenza della ASL e al partito di governo, in perfetta sottomissione.
Ne deriva che il destino di quella Unità operativa è legato alla linea politico-amministrativa dominante e non alla gestione dei medici. Al contrario, i primari del passato erano inamovibili e mantenevano sia la loro autonomia nella programmazione scientifica e culturale sia il potere di controllo sui medici dell’équipe. I medici giungevano in ospedale preparati culturalmente dall’Università ma venivano formati come professionisti dai loro Primari. Ogni Ospedale diventava una fabbrica di specialisti. Per questo motivo, i medici, una volta costruiti come professionisti dai lori maestri, spesso si trasferivano a vivere nella città in cui risiedeva l’ospedale e non se ne separavano mai più.
Queste tre proposte:
– Abrogazione della legge che ha istituito ARES;
– Il controllo diretto dei Sindaci del territorio sulla gestione della propria ASL;
– La ricostruzione della gerarchia e autonomia Primariale nei reparti.

Sono tre atti senza aggravio di spesa sul bilancio pubblico. Il personale di ARES non perderebbe il posto e verrebbe redistribuito nelle 8 ASL della Sardegna per svolgerci le funzioni per cui è stato assunto. I primari riprenderebbero le loro funzioni di direzione e di formazione di nuovi professionisti fidelizzati all’ospedale. La politica locale riprenderebbe il controllo della Sanità territoriale e ne risponderebbe ai propri elettori. L’assessore alla Sanità recupererebbe, in prima persona, le funzioni di programmazione e controllo.
Queste sono proposte concrete e facilmente realizzabili senza aggravio di spesa. Per realizzarle sarebbe sufficiente riconoscere gli errori commessi in passato contro la Sanità pubblica e accettare l’opinione degli cittadini nel momento in cui diventano elettori. In mancanza del rispetto della volontà popolare, la richiesta del voto non ha senso.
E’ inutile cercare di salvare l’Urologia o la Traumatologia o l’Ostetricia, facendo un’operazione a rate.
Bisogna salvare tutto in un colpo solo. Non con raccolta di firme ma con politici a raccolta, di qualunque colore siano, si salva la Sanità.

Mario Marroccu

Il dolore prodotto dalla colica renale è molto intenso. E’ alla pari col dolore da parto, dell’infarto e della pancreatite acuta. L’80% dei sardi avrà almeno un calcolo urinario nel corso della vita. In nessuna parte d’Italia o d’Europa la calcolosi urinaria è così diffusa come da noi. Ne consegue che noi sardi soffriamo di coliche renali più di tutti. Davanti a questa evidenza, bisogna che i nostri ospedali siano preparati a risolvere il dolore da colica. Fino agli anni ‘80 e per buona parte degli anni ‘90, la soluzione più semplice per trattare la colica renale consisteva nell’applicare una borsa d’acqua calda sul fianco. Una soluzione più avanzata era l’iniezione di Baralgina o Buscopan. Successivamente comparvero i FANS, con l’Orudis e il Voltaren. In genere, si aspettava che la colica cessasse spontaneamente. Bisogna sapere che in natura la colica cessa solo in due modi: uno consiste nella espulsione del calcolo; il secondo modo consiste nell’“esclusione funzionale” del rene che, se non trattata per tempo, si conclude con la “morte silenziosa”. Così, a fine colica, il paziente si ritrova con un solo rene superstite  Questa evoluzione era frequente. Bisogna anche sapere che chi produce un calcolo in un rene ha una forte tendenza a produrne anche nell’altro. Se ciò avviene, il problema è grande perché, nel caso in cui il calcolo renale si sposti dal rene e si infili nell’uretere occludendolo, anche quel rene, oltre a dare un dolore estremo, cessa di funzionare. Il poveretto va in blocco renale. Al blocco renale segue l’”uremia” (che è un’intossicazione) e poi seguono “il coma uremico” e la “morte”. Quindi la colica renale non è solo un violento dolore, ma è, soprattutto, una minaccia per la vita.

A fine anni ’70 comparve a Carbonia il primo rene artificiale. Con quello strumento filtrante era possibile salvare quel tipo di paziente con la dialisi, ma la dialisi era per pochi, perché i reni artificiali erano pochissimi e non sempre disponibili. A quei tempi, in Inghilterra, non si metteva in dialisi chi aveva un’età superiore ai 60 anni (era il triage). Lo si mandava a casa a morire d’uremia. Il nostro povero Sistema sanitario di allora era inferiore a quello inglese. Per salvare il malato vi era un metodo estremo: operare il paziente per rimuovere il calcolo dall’uretere e consentire il passaggio delle urine in vescica. Bisogna sapere che allora non esistevano ancora gli ecografi, le TAC e le Risonanze magnetiche. La strumentazione diagnostica era pochissima e la diagnosi di precisione era poco frequente, tardiva e spesso autoptica. Il destino dei calcolotici era pesante. Chi soffriva di calcoli renali era pressoché un invalido ed aveva problemi di lavoro e familiari. Il problema della calcolosi urinaria nel Sulcis Iglesiente era enorme. Avevamo però una grande fortuna. Nel dopoguerra fu primario di Chirurgia il dottor Gaetano Fiorentino che proveniva dall’Istituto di Patologia Chirurgica dell’Università di Cagliari. Egli fu il primo Specialista Urologo di tutta la storia dell’Urologia sarda. Il Primario chirurgo che venne a Carbonia dopo di lui fu il professor Lionello Orrù, anch’egli specialista urologo e professore di Anatomia Umana Normale e di Anatomia Chirurgica dell’Università di Cagliari. La loro presenza fu un grande vantaggio per il Sirai. Operavano molte calcolosi urinarie nelle forme gravi, però non potevano operarle tutte, a causa della numerosità dei casi. La procedura era molto invasiva e traumatizzante. Si metteva il paziente sul tavolo operatorio, su un fianco e “spezzato” (piegato a “V”), poi si praticava un’incisione detta “lombotomica”. Era un taglio che dall’addome saliva fino al fianco sotto, o tra le ultime coste. Si apriva la cute, la parete muscolare, poi si penetrava in profondità spostando l’intestino e si accedeva nel grande spazio retroperitoneale, esponendo l’uretere e il rene. Si incideva l’uretere o il bacinetto renale e si estraeva il calcolo incastrato nella via urinaria. Poi si suturava la ferita, si ponevano tubi di drenaggio e si richiudeva a strati la parete. La procedura era molto invasiva e la ferita, sia all’interno che in superficie, guariva con una sclerosi cicatriziale. Significa che si formava una cicatrice dura, fibrosa, che finiva per seppellire in un sarcofago fibroso sia l’uretere che il bacinetto renale. La cicatrice successivamente rendeva molto difficile eseguire un secondo intervento chirurgico nel caso in cui sfortunatamente si generasse un altro calcolo.

I “produttori” di calcoli, purtroppo, non finiscono mai di produrne. Spesso, dopo poco tempo, il paziente tornava in ospedale lamentando un’altra colica causata da un nuovo calcolo. Qui nasceva il problema. Operarlo subito con il rischio di danneggiare definitivamente il rene o aspettare? Se il paziente non aveva complicazioni, anche la seconda volta guariva, però correva il rischio di ripresentarsi dopo pochi mesi con un nuovo calcolo. Operando ripetutamente, alla fine il danno anatomico era tale che il paziente finiva per perdere il rene. Questa evoluzione non era la cosa peggiore. La peggiore sorte capitava a chi aveva una calcolosi infetta. Se non si procedeva rapidamente a rimuovere il calcolo, l’ostruzione evolveva in “idropionefrosi” (pus nel rene ostruito) che poteva condurre a morte il paziente per urosepsi (setticemia). Davanti al pericolo di sepsi mortale, poteva essere necessario asportare immediatamente il rene e l’uretere ormai trasformati in una sacca purulenta.

Sembra una storia da Medicina del Medio Evo, invece erano fatti che avvennero fino al 1990. Nel 1986 un Urologo geniale di Madrid, il dottor Enrique Perez Castro Ellendt, ebbe l’idea di far fabbricare alla ditta Storz tedesca uno strumento che chiamò “ureteroscopio”. L’idea era banale. Fece allungare un cistoscopio pediatrico di piccolo calibro (4 mm = 12 french) costituito da un tubicino d’acciaio contenente all’interno delle lenti, esattamente come un cannocchiale in miniatura. Egli mise a punto una tecnica per entrare con quello strumento nell’uretere passando dal basso, cioè attraverso l’uretra e la vescica fino a raggiungere il calcolo. L’idea geniale che ebbe fu il come farlo. Il problema che doveva risolvere stava nel fatto che l’uretere che sbocca in vescica portandovi le urine dal rene ha un calibro più stretto dei 4 mm della punta di quello strumento. All’uopo, si fece costruire una sottile sonda in plastica semirigida che aveva un palloncino gonfiabile in punta e procedeva in questo modo: introduceva la sottile sonda nell’uretra e, arrivato in vescica, la introduceva nell’uretere terminale; qui gonfiava il palloncino. Il palloncino apriva la strada dilatando l’uretere. Rimosso il palloncino introduceva immediatamente l’ureteroscopio nell’uretere dilatato quindi, sotto un forte getto d’acqua, dilatava anche l’uretere superiore. A questo punto il più era fatto: lo strumento giungeva facilmente a ridosso del calcolo. Ora Perez Castro poteva introdurre in un canale dell’ureteroscopio una sottile sonda ad ultrasuoni e metterla a contatto col calcolo per frantumarlo. Poi con una pinzetta a “bocca di caimano” (così l’aveva battezzata), asportava i frammenti uno per uno fino a liberare tutto il lume ureterale. Il calcolo era rimosso, le urine potevano passare e il rene riprendeva a funzionare. Il paziente era salvo e tornava a casa dopo un paio di giorni con i suoi reni risanati.
Nel caso in cui lo stesso paziente avesse prodotto altri calcoli, si poteva procedere allo stesso modo con l’identico brillante risultato. Questo metodo si poteva ripetere più e più volte.
La ureterolitotrissia endoscopica mise fine alle operazioni lombotomiche e alla morte dei reni. I medici del Sirai nel 1986 si precipitarono subito a Madrid e Perez Castro li addestrò nella tecnica. L’allora Presidente del Sirai, Pietro Cocco, capì al volo l’importanza di quel metodo e ordinò l’acquisto immediato dello strumentario tedesco.
In quella occasione si scoprì che il Direttore generale della Storz Italia, con sede a Torino, l’ingegner Boggio Marzet, non sapeva nulla degli strumenti che gli stavamo ordinando. Segno che eravamo i primi in Italia ad acquisirli. Ne fu entusiasta e partì per la Germania per farsi consegnare personalmente dalla Storz tedesca tutto lo strumentario. Quindi lo portò in Sardegna alla ditta Sanifarm di Cagliari, fornitrice del Sirai.
Il primo intervento al Sirai venne eseguito su una paziente di 60 anni in “anuria” (blocco totale di ambedue i reni). Aveva più calcoli ostruenti in ambedue gli ureteri I francesi chiamano quel quadro “impierremente urétéral” cioè “impietramento ureterale”. Espressione che definisce esattamente il quadro endoscopico che venne trovato. La paziente venne liberata da tutti i calcoli e fu dimessa dopo due giorni, viva e in ottima salute. Fu il primo intervento eseguito in Sardegna e, probabilmente, in Italia. Le riprese televisive della procedura vennero diffuse.
In un Congresso urologico, in era pre-Covid, venne affermato da un relatore: «I colleghi di Carbonia sono quelli che hanno disvelato a tutti noi urologi sardi la tecnica per entrare nell’uretere con l’ureteroscopio e asportare i calcoli».
Oggi questa tecnica è utilizzata in tutto il mondo.
La storia della ureterolitotrissia a Carbonia è continuata fino a pochi giorni fa.
Incredibilmente, fra poco tempo, proprio il Sirai di Carbonia, che fu l’iniziatore, non potrà più offrire quella tecnica terapeutica della colica renale a causa della mancanza di medici specialisti.
La situazione del reparto di Urologia a Carbonia è gravissima. Oggi ci sono solo due specialisti urologi che affrontano le urgenze urologiche che provengono dai 119.000 abitanti del Sulcis Iglesiente. Di fatto la nostra Urologia non potrà più lavorare come prima e forse ha finito di esistere.
Bisogna che il 23 sindaci del Sulcis Iglesiente reagiscano anche a costo di piazzare 23 tende all’ingresso dell’Ospedale Sirai e manifestino il loro dissenso, come venne fatto un paio d’anni fa per salvare il CTO di Iglesias.

Mario Marroccu

In passato, davanti ad un paziente con mal di stomaco, si pensava a 6 possibilità diagnostiche:
– che fosse una gastrite
– un’ulcera gastroduodenale
– un cancro dello stomaco
– una colecistite calcolosa
– un calcolo del coledoco
– un tumore della testa del pancreas
– una pancreatite
Ma poteva essere anche un aneurisma dell’aorta o un infarto del miocardio, o tutt’altro, come un Herpes Zooster del settimo-ottavo nervo toracico. Era una trappola diagnostica che richiedeva molto tempo, impegno e fortuna.
Oggi la diagnosi esatta è abbastanza veloce e precisa. Si può capire molto con l’esame obiettivo e l’ecografia, seguite da elettrocardiogramma e gastroscopia, e si può raggiungere una ragionevole certezza diagnostica con la TAC e la Risonanza Magnetica Nucleare.
Prima del 1980, erano pochissimi in Sardegna ad avere un gastroscopio ed un ecografo, e nessuno sapeva fare le colangiografie endoscopiche. In quel tempo non esistevano ancora né la TAC, né la Risonanza Magnetica. La diagnosi era affidata all’ascolto del paziente, e all’esame fisico dell’addome. Poi si continuava lo studio eseguendo la “gastrografia con mezzo di contrasto” facendo bere al paziente un bicchiere di liquido radio-opaco. Il radiologo studiava le “lastre” cercando l’ulcera, o il cancro, ma i dubbi diagnostici erano molti.
In rarissimi casi, si eseguiva un primordiale esame endoscopico con uno strumento rigido, che si introduceva attraverso la bocca fino allo stomaco, costituito da un tubo d’acciaio cromato, del diametro di 2-3 centimetri che si chiamava esofagogastroscopio e aveva in punta una lampadinetta ad incandescenza per far luce nel buio delle cavità interne. L’esame era difficile, pericoloso e raramente utile.
Quindi, restava a disposizione per la diagnosi soltanto la gastrografia fatta dal radiologo. Se neppure il Radiologo riusciva a vedere l’ulcera o il cancro allora restava una sola opzione: addormentare il paziente sul tavolo operatorio, aprire la pancia col bisturi dallo sterno all’ombelico; esplorare con gli occhi e con la palpazione lo stomaco, il duodeno, la testa del pancreas, le vie biliari. Se si vedeva un’area sospetta per ulcera si procedeva, seduta stante, alla resezione di tre quarti dello stomaco e alla sua anastomosi col digiuno.
Il dottor Gaetano Fiorentino, a Carbonia, nella sua carriera aveva fatto circa 3.000 di queste procedure. Il professor Mario Sebastiani della Patologia Chirurgica della Università di Cagliari raccontava d’averne fatte 2.000.
Le complicazioni di tale chirurgia avevano una certa frequenza e, non raramente, il paziente moriva.
Quegli iter diagnostico-terapeutici persistettero fino alla prima metà degli anni ‘70. Nell’anno 1973 venne messa in commercio in Italia la “Cimetidina”, nome commerciale “Tagamet”. Fu il primo inibitore capace di bloccare la produzione dell’acido cloridrico nello stomaco. Bloccando l’acido, curava l’ulcera. Era nato il progenitore di tutti i gastroprotettori attuali.
Nel 1979 entrarono definitivamente in commercio i “gastroscopi a fibre ottiche” ed il Sirai ne comprò uno. L’associazione fra Cimetidina e Gastroscopio fu una rivoluzione. Si imparò a diagnosticare con rapidità e certezza le ulcere e a distinguerle dal cancro; il chirurgo endoscopista poteva finalmente vedere con i propri occhi la fonte delle emorragie gastriche , e a trattarle per tempo. Si vide che il “Tagamet” funzionava e si poteva seguire col gastroscopio la guarigione delle ulcere. Immediatamente l’incidenza dell’intervento chirurgico esplorativo per cercare l’ulcera crollò e le resezioni gastroduodenali scomparvero.
Quel primordiale gastroscopio a fibre ottiche acquistato dalla Chirurgia del Sirai, salvò migliaia di vite nel Sulcis e l’ulcera, da dramma, si trasformò in un “fastidioso bruciore allo stomaco” curabile con una pastiglietta.
Nell’Ospedale di Carbonia, in Chirurgia, si formò un’èquipe di chirurghi che si perfezionò nell’endoscopia digestiva. Contemporaneamente, la tecnologia offerta dall’industria migliorò e comparvero i gastroduodenoscopi a “visione laterale” che furono essenziali per condurre lo studio della “papilla di Vater” nel duodeno. Questa piccolissima struttura anatomica, posta in un luogo veramente difficile da raggiungete, rappresenta un incrocio letale: è lo sbocco comune della bile e del succo pancreatico. La sua ostruzione è una tragedia: provoca sia l’ittero ostruttivo sia della pancreatite acuta.
La bile è un liquido giallognolo, denso, viscoso, ricco di “bilirubina”, che ha molte funzioni come: digerire i grassi, mobilizzare la peristalsi intestinale, e adsorbire la vitamina K, che è essenziale per la coagulazione del sangue.
Il fegato produce e riversa nel duodeno 600-800 cc di bile al giorno.
Se la papilla si ostruisce succede che la bile ristagna nelle vie biliari intraepatiche. Il fegato se ne imbibisce tanto che ad un certo punto la bilirubina trabocca nel sangue e si diffonde ovunque nel corpo.
Allora avviene un cambiamento nel colore della cute e degli occhi che diventano gialli: è l’ittero colostatico. Le urine diventano scure come Coca-Cola per eccesso di bilirubina, mentre le feci diventano chiare per mancanza della bile nell’intestino.
Man mano che cresce la quantità di bile nel sangue, il colore giallo della cute e degli occhi diventa sempre più intenso, mentre gli organi nobili come il cervello i reni e il midollo osseo se ne impregnano intossicandosi. Il danno cerebrale porta al coma; il danno renale porta alla insufficienza renale acuta; il danno midollare porta al blocco di produzione di sangue, mentre i muscoli, compreso il cuore vanno incontro alla degenerazione delle fibre e allo scompenso. L’arresto di assorbimento della vitamina K provoca emorragie spontanee.
I microbi si accorgono del grave degrado dell’organismo e del sistema immunitario e partono all’attacco provocando infezioni. Questo disastro totale di tutti gli organi (MOF) innesca la CID (coagulazione intravasale disseminata) e compaiono sia tromboembolie che emorragie irrefrenabili e mortali. Si scatena una “tempesta citochinica” simile a quella che abbiamo sentito tanto descrivere per i malati terminali di Covid-19. Il paziente non ha scampo: l’ittero ostruttivo è una via senza ritorno. Un intervento chirurgico di salvataggio eseguito tardivamente è spesso senza risultati.
Fino al 1980 gli ospedali videro moltissimi pazienti morire così, sia a Carbonia che in tutto il mondo. Tali malati muoiono anche oggi, però in certi casi si riesce a prevenire questa evoluzione, a rallentarla e, qualche volta, a fermarla. Questo vero e proprio miracolo, è avvenuto con l’impiego tempestivo del “gastroduodenoscopio” a visione laterale che ha consentito la disostruzione precoce delle vie biliari con l’impiego di sonde, elettrobisturi endoscopici e stent per il coledoco. I colleghi chirurghi endoscopisti all’arrivo di un paziente itterico si allertavano come ci si allerta all’arrivo di un grande traumatizzato per incidente della strada. Immediatamente, con l’assistenza esterna di un apparecchio radiologico portatile procedevano alla introduzione del gastroduodenoscopio, individuavano la via biliare ostruita, introducevano al suo interno sonde per gli esami radiologici di dette vie ed estraevano i calcoli dal coledoco. In altri casi, dilatavano la stenosi della via biliare dovuta ad un tumore, e sistemavano uno Stent per tenerla aperta e consentire lo sbocco della bile nell’intestino. Una volta messo lo Stent, col passare delle ore e dei giorni, tutta la bile che impregnava gli organi veniva ripresa dal fegato e scaricata nell’intestino. Il paziente tornava alla vita.
Il dramma descritto è avvenuto migliaia di volte e continuerà ad avvenire in futuro. Chiunque è candidato a simili eventi.

Oggi l’Ospedale di Carbonia non ha più in sede specialisti per l’Endoscopia Digestiva, né per le gastroscopie e le colonscopie, né per la colangiografia retrograda ed il trattamento dell’ittero ostruttivo da calcoli o da tumore della testa del Pancreas. E’ necessario costruire l’équipe di chirurghi endoscopisti esattamente come si fece nel 1980. Allora, sotto la spinta di una politica sanitaria gestita dai Sindaci, avevamo raggiunto livelli tecnologici sul trattamento delle più gravi patologie ostruttive biliari e pancreatiche, che ancora oggi sarebbero all’avanguardia. In quegli anni nella Chirurgia Generale del Sirai era stata messa a punto una tecnica svedese-americana per trattare la patologia biliare ostruttiva: la “colangiografia transepatica e il drenaggio biliare transepatico”. Era una tecnica radioguidata in anestesia locale. Sotto i raggi-X i chirurghi infiggevano un ago di 20 centimetri nella base toracica destra, fino a penetrare in un vaso biliare dilatato nella profondità del fegato. Attraverso quell’ago si introduceva un lungo tubino che pescava nella via biliare estraendone la bile accumulata. Già dopo poche ore il paziente migliorava.
Uno di questi pazienti fu poi operato dal professor Dante Manfredi, Direttore Chirurgo dell’Istituto dei Tumori Regina Elena di Roma. Questi aveva lavorato nella clinica chirurgica di Hanoi col collega vietnamita professor Thou That Tung. Il chirurgo vietnamita aveva inventato la tecnica della resezione dei tumori epatici con le dita (“digitoclasia”) e Manfredi l’aveva importata a Roma. Era l’unico in Europa capace di affrontare il caso del paziente di Carbonia. Lo operò e l’intervento andò benissimo, ma dopo 10 giorni di perfetto decorso postoperatorio vi fu una deiscenza delle anastomosi e il paziente morì. Il professor Manfredi attraverso il figlio del paziente fece pervenire ai chirurghi di Carbonia un suo commento: era stupito che in un ospedale sardo così piccolo si facessero procedure così avanzate.
Questo era lo stato delle cose sulla endoscopia digestiva e la diagnostica e trattamento delle ostruzioni biliari a Carbonia 40 anni fa.
Purtroppo, oggi un servizio così felice non esiste più.
Solo chi finisce nel tunnel delle suddette patologie sa quanto sia ingiusto costringere questi malati gravissimi e le loro famiglia a migrare in ospedali lontani che , in assoluto, non garantiscono nulla di più di quanto hanno sempre ottenuto a Carbonia negli ultimi 40 anni.
Il dottor Enrico Pasqui, grande esperto di storia della Medicina, raccontava che fino a 50 anni fa la gente del Sulcis curava l’ulcera gastroduodenale ingoiando lumache vive, e usava trattare l’ittero immergendo il malato nel letame.
Il salto in avanti dalla Medicina dal Medio Evo ad oggi è durato 50 anni.
Prima che si faccia un salto indietro, dobbiamo pensare molto bene a come prevenirlo.

Mario Marroccu

 

L’incidenza della calcolosi urinaria fra noi sardi è altissima. Sarà la genetica, o il metabolismo, o l’alimentazione, o l’esposizione solare e la produzione di vitamina D? Fatto sta che, soprattutto noi del Sud Sardegna, abbiamo un’incidenza di calcolosi come non si vede in nessuna parte d’Italia. Per tale ragione i chirurghi sardi sono stati sempre esperti nel trattamento delle malattie ostruttive delle vie urinarie provocate da calcoli. Già ai primi del 1900, al San Giovanni di Dio, i chirurghi avevano grande esperienza in questo campo. Durante la Prima Guerra Mondiale ebbero stretti rapporti professionali negli ospedali da campo, con i colleghi di Trento, Trieste e Udine che erano di scuola austriaca. Il chirurgo triestino Giorgio Nicolich, specializzato a Vienna attrezzò il primo reparto d’Urologia in Italia. Tra i chirurghi sardi che operavano in quel fronte vi era il dottor Nino Lasio di Serramanna, che proveniva dal San Giovanni di Dio; questi fu molto apprezzato per le sue capacità professionali nel trattamento delle malattie urinarie e, alla fine della Guerra, venne trattenuto all’Università di Milano dove gli venne conferito l’incarico di direttore della nuova scuola di specializzazione in Urologia. Tale specialità ancora non esisteva come branca indipendente in nessuna Università italiana. Dopo Milano la scuola di specializzazione di Urologia venne aperta anche a Cagliari. Un primo caposcuola fu il professor Rodolfo Redi, direttore patologo chirurgo. I suoi aiuti erano il dottor Gaetano Fiorentino ed il dottor Mario Sebastiani.
Il dottor Gaetano Fiorentino fu il primo sardo a specializzarsi in quella scuola.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, il dottor Gaetano Fiorentino fu arruolato nell’Armir e destinato alla campagna di Russia. Tornò con un’enorme esperienza maturata operando traumi di guerra. Per le sue doti chirurgiche, il dottor Gaetano Fiorentino venne precettato dal Governo ed inviato a dirigere la Chirurgia Generale dell’Ospedale Sirai di Carbonia, dove affluivano i minatori traumatizzati dagli incidenti nel sottosuolo.
Quando Gaetano Fiorentino occupò il suo posto nella nuova sede dell’Ospedale Sirai, ebbe l’opportunità di conoscere il comandante della Sesta Flotta americana che gli fece dono dell’intera sala operatoria di una corazzata. I vari strumenti vennero utilizzati fino agli anni ‘80; tra questi vi erano un letto operatorio, una lampada scialitica, un respiratore automatico complesso, un broncoscopio, un esofagogastroscopio rigido, un sigmoidoscopio, l’attrezzatura da craniotomia, un cistoscopio ed un rarissimo elettroresettore, prodotti dalla ACMI del Minnesota, illuminati in punta da una minuta lampadina ad incandescenza. In quei tempi, all’ospedale Sirai le operazioni urologiche e, soprattutto, quelle per calcolosi urinaria, erano all’ordine del giorno.
Con l’andata in pensione del dottor Gaetano Fiorentino, il posto di primario chirurgo venne occupato dal professor Lionello Orrù, urologo, professore di Anatomia Umana normale all’Università di Cagliari, professore di Anatomia Chirurgica nella scuola di specializzazione. Anche col professor Lionello Orrù le operazioni per calcolosi urinaria furono molto frequenti. Il motivo di tale frequenza, era dovuto sia all’alta incidenza di calcolosi nel Sulcis Iglesiente, sia al fatto che, quando la calcolosi dell’uretere era irrimediabilmente ostruente, si doveva sempre procedere all’asportazione chirurgica del calcolo, pena la morte del rene. In quei tempi non era raro trovare pazienti con un solo rene funzionante, perché l’altro aveva cessato di funzionare a causa di un calcolo. Dato che chi produce un calcolo in un rene, prima o poi, potrà produrlo anche nell’altro rene, poteva capitare che all’improvviso, con una nuova colica dal lato opposto, anche il rene superstite cessasse di funzionare. Allora non esisteva la dialisi sostitutiva della funzione renale ed i poveretti morivano se non si procedeva ad una nuova operazione. Questo valeva in tutto il mondo.
Le cose cambiarono nella Primavera del 1986, quando comparve un articolo nella rivista francese “Le Journal d’Urologie”, a cui venne dato poco risalto dalle riviste italiane. L’autore del lavoro si chiamava Enrique Perez Castro Ellendt. Egli sosteneva d’aver messo a punto un metodo endoscopico per asportare i calcoli dagli ureteri senza ricorrere all’operazione classica di lombotomia, con grande taglio dalla base del torace prolungato in basso in addome. Ciò che descriveva era fantascienza. Sosteneva d’aver costruito con la ditta Storz tedesca, uno strumento ottico molto lungo, fatto come un sottilissimo cannocchiale d’acciaio di 55 centimetri, diametro 4 millimetri, che, passando dall’uretra e dalla vescica, poteva penetrare nell’uretere fino a raggiungere il calcolo per romperlo, asportare i frammenti, e liberare il passaggio alle urine, arrestando così le coliche e salvando il rene. Tutto questo senza operazione.
Nel mese di luglio, avvenne un fatto che segnò il cambiamento nella storia della calcolosi per l’ospedale di Carbonia.

In quel mese dell’estate del 1986 si presentò nel reparto Chirurgia, al secondo piano del Sirai, un elegante signore attempato che riferì d’aver urinato sangue. Venne sottoposto a cistoscopia e fu diagnosticato un tumore maligno della vescica. Il signore aveva un problema: la premura di rientrare nella sua città di residenza, Madrid. Ci chiese consiglio sul centro madrileno a cui rivolgersi e ne approfittammo per indirizzarlo alla clinica “La Luz”, dove operava il dottor Enrique Perez Castro Ellendt. La clinica era peraltro già famosissima in tutto il mondo, perché vi era stato operato il “caudillo” Francisco Franco, e lì era deceduto per complicazioni emorragiche. Enrique Perez Castro Ellendt fece, al nostro paziente, una resezione vescicale asportando tutto il tumore con successo. Incuriosito dal racconto del paziente inviato da Carbonia, indagò sul nostro interesse per lui. Il paziente gli riferì che i chirurghi di Carbonia erano a conoscenza del nuovo metodo per asportare i calcoli dagli ureteri inventato da lui e gli trasmise il nostro desiderio di conoscerlo. Enrique Perez Castro Ellendt immediatamente ci invitò a Madrid nella sua Clinica. Fino ad allora aveva mostrato la procedura di asportazione dei calcoli ureterali, senza operazione, soltanto ad altri due italiani: il dottor Francesco Rocco dell’Università di Milano, ed il dottor Michele Gallucci dell’Università di Roma. Il nostro paziente-intermediario generosamente si offrì di ospitare noi chirurghi di Carbonia nella sua casa a Madrid e decidemmo di partimmo. All’arrivo, avemmo una prima sorpresa: la casa si trovava in “Calle Urola”, la via delle ambasciate. Si scoprì in quel momento che il nostro ospite era stato ambasciatore d’Italia in Spagna. La casa, ora di sua proprietà, era una villa divisa in due parti. L’altra metà era appartenuta al presidente argentino Juan Peron e alla moglie Evita Peron. Si capì allora il motivo della grande disponibilità del chirurgo madrileno ad accoglierci nella sua clinica e mostrarci i segreti della sua metodica. Il nostro ospite in Spagna era un personaggio illustre. Così pure lo erano la moglie spagnola ed il cognato che facevano parte dello staff medico della famiglia reale.
Furono giorni densi di studio ed esperienza. Carpimmo i segreti della tecnica di “ureterolitotrissia endoscopica” che consentiva, per la prima volta nella storia, di polverizzare i calcoli dentro l’uretere ed estrarli senza operazione.
Tornati a Carbonia, facemmo un accurato rapporto al presidente dell’Ospedale: il sindaco Pietro Cocco. Egli ascoltò con molta attenzione e accolse la nostra richiesta di acquistare l’attrezzatura necessaria. L’ordine partì pochi minuti dopo il colloquio.
Il materiale richiesto era tanto e costoso. Si trattava di un ureteroscopio Storz da 12 Charrière (3 Ch = 1 mm) quindi del diametro di 4 mm, progettato da Enrique Perez Castro Ellendt e realizzato dalla ditta tedesca. Ad esso si associava un’ottica lunga 55 centimetri. Dentro la camicia d’acciaio vi erano tre canalicoli paralleli destinati ad ospitare l’ottica, costituita da una serie di microscopiche preziosissime lenti, una via per l’acqua, una via per introdurre le sonde da ultrasuoni per rompere i calcoli, e le pinzette per estrarne i frammenti. L’acqua che si pompava dentro il canalicolo serviva a creare una camera liquida che consentiva di dilatare il sottile lume ureterale, penetrarvi, e procedere dentro l’uretere fino a raggiungere il calcolo.
L’operazione più difficile era la penetrazione della punta dello strumento nel meato ureterale. Il meato è il punto in cui l’uretere, che arriva dal rene, penetra in vescica. Per fare questa procedura, fino ad allora ritenuta impossibile alle ottiche in uso in quel tempo, il dottor Enrique Perez Castro Ellendt aveva pensato di aprire la strada utilizzando una sottile sonda flessibile che aveva in punta un palloncino gonfiabile. Introdotta la sonda nel meato ureterale e gonfiato il pallone, si otteneva l’apertura del tratto finale dell’uretere e del suo sbocco in vescica, sufficiente per introdurvi l’ureterorenoscopio. La progressione dello strumento dentro l’uretere veniva agevolata dal getto d’acqua ad alta pressione, prodotto dalla pompa Ureteromat inventata, anch’essa, da Enrique Perez Castro Ellendt.
Una volta giunti sul calcolo si procedeva alla sua frammentazione con la sonda ad ultrasuoni; i frammenti venivano asportati con la pinza a “bocca di caimano”. Tutta la procedura veniva controllata al monitor di un apparecchio radioscopico; era, pertanto, inevitabile che l’intera équipe medica e infermieristica presente, assumesse notevoli quantità di radiazioni nonostante i grembiuli piombati. Furono tante le procedure eseguite, e tante le radiazioni assunte dagli operatori che i fisici nucleari della Commissione regionale di controllo definirono l’Ospedale di Carbonia la “zona nera” dei raggi X della Sardegna. Oltre al monitoraggio radiologico l’intervento veniva controllato da una telecamera endoscopica Storz che mostrava le immagini della procedura in uno schermo televisivo.
Quando il presidente Pietro Cocco, nel 1986, fece l’ordine d’acquisto dell’ureterorenoscopio per ureterolitotrissia alla ditta Sanifarm di Cagliari, nessuno ancora lo possedeva in tutta Italia. Lo stesso direttore della Storz Italia, che aveva sede a Torino, l’ingegner Boggio Marzet, non ne conosceva ancora l’esistenza.

Da quell’anno 1986, a Carbonia, i calcoli ureterali non vennero più operati con il taglio lombare o addominale, e molte centinaia di pazienti vennero trattati col nuovo metodo endoscopico. I pazienti entravano in ospedale con le coliche renali ed i reni ostruiti, e ne uscivano entro 24-48 ore sani e pronti a riprendere la vita normale. A Carbonia arrivavano pazienti da ovunque. Venne prodotto un filmato endoscopico che mostrava il difficile metodo usato per introdurre lo strumento nell’uretere. Dopo cinque anni di attività, mostrammo le immagini endoscopiche alla fine di un convegno tenutosi a Cagliari, sulla calcolosi urinaria, nell’aula convegni posta al sesto piano del Banco di Sardegna. Nessuno degli astanti aveva mai visto immagini del genere. Dopo quella data altri iniziarono ad apprendere la tecnica.
Quanto raccontato avvenne quando l’Ospedale di Carbonia cresceva in efficienza, qualità e passione. Era il tempo in cui quasi 2.000 bambini l’anno nascevano nel suo reparto di Ostetricia, quando si eseguivano più di 1.000 interventi chirurgici l’anno, in Chirurgia vi erano 84 posti letto ed esistevano due reparti di Medicina Interna; l’Ospedale allora aveva 384 posti letto, contro gli attuali 120, e non vi erano ancora le liste d’attesa mostruose che oggi affliggono gli ospedali italiani.
Perché vi fu tanta crescita professionale e tecnologica in quel periodo? Certamente avvenne per coincidenze storiche. L’avere avuto ricoverato nel 1986 un signore che in tempi lontani era stato ambasciatore italiano in Spagna, mentre a Madrid si metteva a punto quel metodo rivoluzionario fu fortuito. Un elemento sicuramente determinante fu l’avere in quel momento come presidente della ASL un uomo come il sindaco Pietro Cocco. Erano anche gli anni in cui nascevano la Dialisi, la Cardiologia, la Medicina Nucleare, la Psichiatria, l’Endoscopia Digestiva. La coincidenza di più elementi eccezionali, coerenti con la missione pubblica data agli Ospedali dalla legge di Riforma Sanitaria 833 del 1978, produsse il terreno adatto per far sviluppare quelle particolari crescite professionali in quella particolare generazione di medici e di infermieri.
Successivamente, cosa è cambiato? I cambiamenti che hanno portato gli ospedali allo stato attuale, avvennero in progressione. Nel 1987 Il ministro Carlo Donat Cattin iniziò ad intaccare il potere di controllo dei Sindaci sulle ASL, abolendo l’istituto delle Assemblee Generali che rappresentavano i Consigli comunali del territorio. Poi nel 1992 il ministro Francesco di Lorenzo introdusse il concetto dell’“Aziendalizzazione delle ASL”, con principi gestionali privatistici. Come primo atto di quella riforma, i presidenti delle ASL, nominati dai Sindaci, vennero affiancati dai “Commissari straordinari”, nominati dalla regione. In seguito  con le riforme del 1995 e 1999, nel periodo del ministro Rosi Bindi, i presidenti delle ASL vennero eliminati e sostituiti dai manager. Questi erano nuove figure di amministrativi indipendenti dai sindaci e rientranti nella stretta gerarchia della burocrazia regionale.
Con questo atto i sindaci vennero totalmente estromessi dal controllo politico e amministrativo delle ASL. Dopo i manager, negli anni 2000, comparvero i direttori generali di nomina regionale. Così, con la centralizzazione politica ed amministrativa arrivò a compimento la “centralizzazione” dei servizi sanitari. Il centro fisico della Sanità cominciò a coincidere con le sedi del potere regionale: le città di Cagliari e Sassari. L’idea di centralizzare i servizi sanitari di altissima specializzazione, come la cardiochirurgia, la neurochirurgia, i trapianti d’organo, è corretta. Invece, non è corretta la centralizzazione del servizio sanitario di base che la legge assicura equamente a tutti i cittadini, proporzionalmente alla consistenza demografica delle popolazioni provinciali. Purtroppo, però, nel nostro caso, è avvenuta la centralizzazione anche della sanità di base, con il conseguente svuotamento del territorio provinciale.
Oggi, l’unificazione di tutte le ASL in un’unica ASL regionale, ha creato un unico centro di potere amministrativo. Ciò ha sottratto anche ai nuovi direttori generali delle ASL quella libertà di gestione che avevano i presidenti ai tempi di Pietro Cocco. Ora che gli ospedali provinciali sono usciti dal centro del potere sanitario stiamo vedendone gli effetti: i cittadini sono scontenti e si rivolgono ai propri sindaci che, per essi, incarnano lo Stato; ormai tutti i giorni vediamo nei notiziari, immagini di sindaci che prendono dure posizioni nei confronti di quella struttura burocratica centralizzata che li ha sostituiti.

Mario Marroccu

La data di “ Una giornata particolare”, il film di Ettore Scola con Sofia Loren e Marcello Mastroianni, è il 6 maggio 1938. Roma si preparava ad accogliere Adolf Hitler in visita a Benito Mussolini e andavano prevenuti le eventuali manifestazioni di dissenso. Tra i preparativi di neutralizzazione dei problemi vi era compreso anche un rastrellamento di omosessuali e intellettuali dissenzienti. I catturati vennero portati a Civitavecchia e imbarcati per Cagliari, destinati ad un confino temporaneo a Carbonia.

Il 17 novembre 1938 l’Italia approvò le “leggi razziali”. Il 18 dicembre 1938 venne inaugurata l’avvenuta fondazione di  Carbonia. Allora l’ospedale Sirai era in costruzione e fungeva da ospedale provvisorio un edificio in piazza Cagliari.

Nello stesso periodo i nazisti preparavano un piano per dare il dominio del mondo ad una “razza superiore” e liberarlo da zingari, disabili, testimoni di Geova, ebrei, omosessuali ed oppositori politici. Si andava strutturando una rete di campi di detenzione e lavori forzati estesa e capillare: tra Germania e suoi alleati si contarono poi  ben 42.000 campi di concentramento. Dachau, Aushwitz e Bukenvald erano solo la parte emersa dell’iceberg.   

Sappiamo come andò a finire la teoria della “razza superiore”. Per porvi fine, ci volle una Guerra terrificante.

Nel 1946 si celebrò il Processo di Norimberga. La seconda parte del processo venne dedicata ai crimini medici perpetrati contro disabili e omosessuali. Queste due forme di disagio sociale, messe sotto la lente d’ingrandimento della opinione pubblica mondiale, ottennero un forte incremento dell’interesse e della solidarietà popolare per le vittime.

Fino ad allora, lo studio dei disagi sessuali da parte di sociologi, psicologi, giuristi, medici e chirurghi era pochissimo diffuso. In Italia il primo centro specialistico pubblico di chirurgia dell’apparato urinario e genitale maschile fu costituito a Trieste ai primi del 1900 sotto la guida del professor Carlo Nicolich, un chirurgo che si era formato a Vienna. Per coincidenze storiche i sardi ne furono influenzati.

Durante la Prima Guerra Mondiale ad assistere i feriti delle Battaglie sull’Isonzo erano stati chiamati  in forza numerosi chirurghi sardi provenienti dall’Ospedale San Giovanni di Dio di Cagliari. Lo scambio culturale fra medici austriaci e medici sardi vi fu nonostante la trincea, e fu proficuo. Alla fine della guerra, uno di questi, il dottor Nino Lasio, di Serramanna, venne trattenuto dall’Università di Milano per organizzarvi e dirigere un reparto di Chirurgia uro-genitale specialistico. I colleghi cagliaritani del San Giovanni di Dio mantennero fitti rapporti col professor Lasio e, alla fine degli anni ’30, venne istituita a Cagliari la Scuola di specializzazione in Chirurgia uro-genitale sotto la direzione del professor Rodolfo Redi, Patologo Chirurgo. Risulta dai registri dell’Università che il primo specialista sardo in quella branca fu il dottor Gaetano Fiorentino che era anche il primo Aiuto universitario di Redi. Il dottor Gaetano Fiorentino assolse al suo obbligo militare nell’ARMIR e fece tutta la campagna di Russia operando feriti assieme ai colleghi chirurghi tedeschi ed austriaci. Al ritorno dalla Guerra, nel 1945, venne comandato a dirigere il reparto di Chirurgia generale dell’ospedale Sirai di Carbonia. Qui si dedicò moltissimo alla chirurgia uro-genitale degli adulti e dei bambini, tanto che il 33% della sua chirurgia era rappresentato da questa branca. Dopo di lui, il primario subentrante fu il professor Lionello Orrù, anch’egli specialista in quel genere di chirurgia e, in quegli anni si produssero pubblicazioni scientifiche. Vennero allora pubblicati studi internazionali che, per la prima volta dimostrarono, con pesanti dati statistici, la gravità del disagio sessuale maschile che risultava essere alla base di un numero di vittime per suicidio 8 volte superiore alla media della popolazione. Dal 1983 quella chirurgia non si fece più a Carbonia, perché divenne competenza della Chirurgia pediatrica dell’ospedale Crobu ad Iglesias.

La sentenza di Norimberga fu fondamentale per elaborare il dramma del razzismo e della discriminazione, e ad essa si devono vari articoli in tutte le Costituzioni del mondo. In Italia, contro i crimini generati dall’istigazione all’odio, la Costituzione contiene gli articoli 3 e 32.

L’articolo 3 recita: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E’ compito della Repubblica rimuovere ostacoli…»

Dopo l’approvazione di quell’articolo, ci vollero 45 anni per dare norme applicative all’articolo 604 bis del codice penale, finalizzato a sanzionare i reati di discriminazione razziale. Ci pensò il senatore Nicola Mancino (DC, oggi PD) con la legge n. 205 del 1993, che recita: «E’ vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi».

La storia dell’uomo assomiglia alla Fisica quantistica in cui il tempo, come comunemente lo concepiamo, non esiste. L’invenzione del motore endotermico e della dinamo per la corrente elettrica hanno cambiato  la qualità della vita ma la natura umana, in fondo, non è cambiata. L’Uomo ha sempre bisogno di leggi e di sanzioni che lo inducano a riconoscere la dignità del suo simile. Tutt’oggi siamo alle prese con le incomprese regole della Genetica e con la ideologia novecentesca del “razzismo”. Ecco come iniziò il malinteso.

Nel 1843 il monaco Gregor Mendel pose le basi della Genetica e ne dettò le regole. Dapprima venne ignorato, poi ai primi del 1900 sbocciò la teoria del Neo-mendelismo e, con l’evoluzione del microscopio e della Biochimica, si scoprirono i “cromosomi”. L’ideologia di quegli anni esaltò il significato della parola “razza” e concepì l’esistenza di una “razza superiore” dominante su una “razza inferiore”. Questa distinzione fu il primo atto  che portò alla “discriminazione razziale”, e alla sua degenerazione, riassunta in un unico termine: “razzismo”.

Il razzismo sociale, basato su principi genetici, portò all’istituzione di regimi politici che ebbero come conseguenza la persecuzione delle cosiddette razze inferiori fino alla pratica dello sterminio. In seguito per distinguere gli aspetti fisici diversi (somatici) secondo le provenienze geografiche, si pensò di utilizzare il termine “etnia” al posto di razza. Anche questo termine, come abbiamo visto nelle recenti guerre balcaniche, è stato utilizzato per formulare il concetto di “pulizia etnica”.

In realtà, il concetto di “razza” è oggi destituito di qualsiasi validità scientifica perché tutti gli esseri umani hanno lo stesso corredo genetico. Allora, perché ci sono umani dalla pelle nera, coi capelli ricci, il naso camuso, ed umani bianchi con capelli lisci, chiari ed il naso piramidale? La scienza ha spiegato questo fenomeno con la esistenza dei “ Fenotipi”. In biologia il “fenotipo” è l’aspetto che assume un organismo vivente a causa delle influenze dell’ambiente sul genotipo, cioè sul corredo genetico conservato nei cromosomi. Questo significa che l’aspetto che assume ognuno di noi dipende non solo dai cromosomi ma anche dalla influenza che ha su di essi l’ambiente in cui si vive.  E‘ una scoperta che aiuta a capire che nei cromosomi, in realtà, esistono moltissimi geni diversi fra di loro, e che l’ambiente fa esprimere i geni più adatti e, intanto, mette in sonno i geni non utili in quel momento.

Questa straordinaria capacità di cambiamento nel comportamento dei cromosomi viene resa ancora più complicata dalla Epigenetica.  Questa scienza ha dimostrato che l’aspetto fenotipico che assumiamo, e che è ereditabile, è dovuto alla produzione di nuove proteine che l’ambiente ci ha indotto a produrre.

Ciò spiega perché, in base alle influenze ambientali, abbiamo uomini bianchi e uomini neri senza che vi sia stato cambiamento di razza. Cioè:siamo tutti della stessa razza genetica.

Considerato l’enorme numero di fattori genetici e epigenetici che si combinano fra di loro (come 1-2-x di una schedina del totocalcio) si capisce l’immensa variabilità di aspetti che possono assumere gli organismi viventi pur avendo lo stesso corredo genetico.

Gli Umani hanno 23 coppie di cromosomi (cioè 46 in tutto). la ventitreesima coppia è formata dai cromosomi sessuali: X-X per le femmine; X-Y per i maschi.

I cromosomi sessuali X e Y possono avere anch’essi variazioni strutturale e anche di numero. Per esempio la ventitreesima coppia può avere 1 cromosoma, 3 cromosomi, o anche 4 (X0, XXY, XYY, XXX, XXXX). Tali variazioni spesso si associano a infertilità.

Gli umani possono anche avere variazioni del fenotipo; cioè possono subire cambiamenti nell’aspetto o nelle funzioni fisiologiche a causa di influenze provocate dall’ambiente.

L’aspetto fisico del sesso di appartenenza può essere variato da altri fattori come: l’effetto di ormoni, le influenze ambientali, le mutazioni geniche, gli effetti farmacologici. Ne può derivare la comparsa delle cosiddette ambiguità sessuali anatomiche e funzionali, con conseguente difficoltà a capire il sesso di appartenenza del soggetto.

Un esempio di influenze ambientali sulla biologia sessuale è il seguente. Negli ultimi 80 anni abbiamo avuto una progressiva riduzione della fertilità maschile. Questa è una delle cause della ridotta natalità. Si è scoperto che tale fenomeno è andato di pari passo con cambiamenti drastici dovuti all’attività dell’Uomo con effetti sull’ambiente. Ne è conseguita anche un forte aumento dei tumori delle gonadi maschili (da 8 a 15 volte). Si è scoperto che l’insetticida DDT utilizzati negli anni successivi al 1950 nelle campagne antimalariche  ha un forte effetto estrogenico femminilizzante. Un tale effetto nell’embrione può provocare una lesione del sistema ormonale di mascolinizzazione se è geneticamente maschio. Così pure si è visto che gli anticrittogamici usati in agricoltura hanno effetti ormonali femminilizzanti. Gli anticrittogamici entrano nella catena alimentare animale e li possiamo assumere attraverso il latte e le carni in quanto gli erbivori si nutrono di erba e foraggi potenzialmente trattati, così pure li possiamo assumere attraverso i vegetali della dieta. Le stesse creme per la pelle in genere contengono sostanze ad effetto estrogenico. Insomma: siamo circondati da sostanze ad effetto ormonale femminilizzante e nessuno può ritenersi al sicuro dalla loro influenza.

Fortunatamente le normative sul controllo delle sostanze chimiche presenti negli alimenti, distribuiti nella rete commerciale europea, sono le più rigorose al mondo. Basti pensare che la guerra sui dazi avviata da Trump era in buona parte dovuta al rifiuto dell’Europa alla commercializzazione di carni di bovini americani proprio perché la loro qualità chimica non è sempre conforme alle nostre regole. Le regole italiane sono le più rigide in Europa.

Fatte queste premesse si capisce quanto l’argomento sulla identificazione del sesso di appartenenza sia messa in pericolo e spesso sia difficile.

Nella pratica clinica si differenziano i sessi in :

  • sesso genetico
  •     somatico (l’aspetto fisico)
  •    ormonale
  •    psicologico

Il sesso genetico si individua con la ricerca dei cromosomi X e Y.

Il sesso somatico si basa sui caratteri sessuali esterni e interni.

Il sesso ormonale si classifica con il dosaggio delle Gonadotropine, Testosterone , Estrogeni.

Il  sesso psicologico si identifica con i test comportamentali sessuologici.

Le ambiguità sessuali anatomiche possono essere  modificate chirurgicamente, a richiesta, in senso maschile o femminile tenendo conto del sesso psicologico che si è maturato, indipendentemente da quello genetico. Cioè se il soggetto è geneticamente maschio ma ha un orientamento sessuale femminile si procede a eliminare chirurgicamente i caratteri sessuali maschili e costruirne, per quanto possibile, femminili. Ciò però dipende dalla entità della disforia di genere a dalla richiesta avanzata.

Il sesso psicologico, cioè la manifestazione esteriore del comportamento sessuale, è ritenuto dominante sul sesso genetico e somatico, e si procede a migliorare il benessere del soggetto sia con tecnica chirurgica che ormonale.

Questo è quanto già avviene nella chirurgia delle ambiguità sessuali.

Vi sono poi i soggetti che non richiedono alcuna correzione e scelgono il fenotipo prevalente nella personalità.

La chirurgia di questo tipo viene garantita dai Lea (Livelli essenziali di assistenza) e pagata a spese dello Stato con sentenza di un giudice, su parere di una Commissione di esperti.

Questo stato di cose è noto agli specialisti a sfugge al pubblico in generale. Su queste procedure non esistono conflitti perché sono già regolamentate dalle leggi italiane.

Secondo la legge, l’attribuzione del sesso di appartenenza di una persona avviene in questo modo.

1  – Al momento della nascita viene redatta una “dichiarazione di nascita” da parte dell’Ostetrica o del Medico che ha assistito. In tale dichiarazione viene attribuito il sesso del neonato in base all’anatomia genitale.

2 – Il genitore registra all’Anagrafe l’evento e allega la “dichiarazione di nascita”. Qui avviene l’attribuzione del sesso anagrafico. Nessuno può modificare il sesso assegnato dall’Anagrafe.

3 – Soltanto l’Autorità Giudiziaria può ordinare all’Ufficiale dell’anagrafe la variazione dell’attribuzione di sesso (L. 164/1982).

4 – Per il d.lgs n. 150/2011 il legislatore affida all’Autorità giudiziaria il controllo della rettificazione anagrafica del sesso. La competenza in materia è affidata al Tribunale in composizione collegiale e il procedimento deve essere richiesto dall’interessato e notificato al coniuge e ai propri figli.

5 – L’intervento chirurgico di cambiamento di sesso deve essere autorizzato dal Giudice.

6 – La Corte Costituzionale con pronuncia n.221/2015 non riconosce più il trattamento chirurgico quale presupposto indispensabile per il mutamento di sesso, tuttavia affida sempre al Giudice la valutazione finale sull’effettiva necessità dell’intervento operatorio sull’interessato.

7 – Il Giudice a questo punto autorizza l’intervento chirurgico qualora esista conflittualità fra anatomia e identità di genere (causa di Disforia di Genere).

8 – Nel caso in cui non esista conflittualità il Giudice autorizza la rettifica del genere all’Anagrafe senza che si sia proceduto all’intervento chirurgico di modifica. In questo caso è sufficiente un certificato del medico o dello psicologo clinico che attesti l’esistenza di dissociazione fra sesso morfologico e identità di genere. Tale certificato viene rilasciato dopo un “percorso di transizione” con trattamento medico e psicologico. Quindi è necessario un congruo arco temporale per l’iter di accompagnamento alla transizione.

9 – Con la sentenza di autorizzazione il Giudice ordina all’ufficiale di Stato civile e Anagrafe la rettifica del sesso dell’interessato.

Il DDL Zan è un tentativo di concretizzare lo scopo voluto dai Padri costituenti quando, ispirati dalla Sentenza di Norimberga, formularono l’articolo 3 della Costituzione allo scopo di proteggere i cittadini  dalle discriminazioni per motivi sessuali.

Tale proposta di legge contro l’omo-trans-fobia contiene anche nuovi elementi, come l’ininfluenza del percorso di transizione, che fino ad oggi è ritenuto fondamentale per accompagnare il soggetto al cambiamento consapevole, e la totale autonomia decisionale del richiedente. Queste due condizioni rendono di fatto inutile il controllo dell’Autorità Giudiziaria. Tale evoluzione è stata ultimamente raggiunta dalla Spagna  dove non sono più necessari i due anni del percorso di transizione come era previsto nella precedente legge; è sufficiente avere 18 anni d’età per decidere autonomamente o 12 anni se c’è il consenso dei genitori. Non è più contemplato il ricorso al Tribunale, e inoltre è sufficiente la richiesta dell’interessato all’Ufficiale dell’Anagrafe e di Stato civile per la rettifica di genere.

L’articolo n. 1 del ddl Zan definisce l’identità sessuale apportando modifiche alla classificazione della clinica, alle funzioni del giudice del tribunale e a quelle dell’Ufficiale di stato civile. Nei particolari, la definizione di sesso così viene espressa:

  • SESSO: sesso biologico o anagrafico.
  • GENERE: qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso.
  • ORIENTAMENTO SESSUALE: l’attrazione sessuale o affettiva nei confronti di persone di sesso opposto, dello stesso sesso, o di entrambi i sessi.
  • IDENTITA’ DI GENERE: si intende l’identità percepita o manifesta di sé in relazione al genere, anche se non corrisponde al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione.

Considerata l’enorme variabilità dei fenotipi sessuali che possono presentarsi, l’articolo 1 del ddl Zan.

1°) riconosce l’esistenza di una varietà di sessi indefinita sia nel numero e nelle forme, così come si presentano in natura in base alle combinazioni genetiche e fenotipiche,

2°) riconosce la fine di un sesso prevalente, come potevano essere “maschio”, “femmina”  e l’esistenza di una “sessualità” generale di pari dignità.

Si può immaginare che tutti i cittadini saranno coinvolti e coobbligati ad un cambiamento delle attuali convenzioni sociali e dei costumi come oggi sono comunemente intesi e, in particolare:

  • famiglia
  • matrimonio
  • figli
  • educazione scolastica
  • sport
  • lavoro
  • giustizia
  • anagrafe
  • rapporti con le religioni.

Questi descritti sono alcuni argomenti di riflessione e di preparazione al probabile cambiamento.

E’ stata diffusa nei giorni scorsi l’intervista che il Direttore di “La Provincia del Sulcis Iglesiente”, Giampaolo Cirronis, ha raccolto dal dr. Rinaldo Aste il giorno della sua andata in pensione. Fino a pochi giorni fa, Rinaldo Aste era il Primario del reparto di Cardiologia dell’Ospedale Sirai di Carbonia. Ha lasciato l’Ospedale l’ultimo dei suoi Fondatori. In ordine storico, tra i “Primari fondatori” della Medicina Interna, si annoverano il dr. Enrico Pasqui, il dr. Cesare Saragat, il dr. Giorgio Mirarchi ed il dr. Rinaldo Aste.
I medici illustri che hanno fatto crescere il capitale di valore umano e scientifico del Sirai, sono molti, ma i componenti di questo elenco hanno generato, ognuno per la sua parte, nuove unità operative specialistiche che ora sono patrimonio definitivo della Comunità di Carbonia e del Sulcis: la Medicina Interna, la Cardiologia, la Neurologia, il Laboratorio, il Centro Trasfusionale, la Pediatria, la Nefrologia e Dialisi.
Come diceva il dr. Gaetano Fiorentino, primo Direttore Sanitario dell’Ospedale Sirai, «i Medici sono come l’acqua. Quando c’è, trovi naturale che ci sia e la ignori; quando manca ti accorgi della sua importanza». Ora stiamo facendo i conti con questa mancanza.
La politica di contabilità sanitaria degli ultimi 20 anni ha spogliato gli ospedali di personale, servizi ed attrezzature. L’Ospedale Sirai ha avuto un duro colpo che si è riflesso sul benessere fisico ed esistenziale del territorio; esso, infatti, non è soltanto una struttura muraria contenente Medici, Infermieri e Impiegati, è anche un luogo dell’identità collettiva. Nella visione popolare è il luogo sicuro, dove si registrano le fasi più importanti della vita, è cioè il luogo dove:
– si nasce in sicurezza,
– si curano le malattie,
– si muore in modo civile.
L’Ospedale è un luogo carismatico che appartiene alla sfera del sentimento popolare del conforto solidale nel momento della sofferenza. E’ ben distante dall’idea di Centro gestionale della Sanità, la cui separazione dal popolo è colmata dall’incomunicabilità burocratica.
L’Ospedale di cui qui si tratta, ha due nature, quella fisica e quella immateriale. Ognuna è rappresentata da soggetti diversi: la burocrazia da una parte, l’apparato assistenziale dall’altra.
Una è radicata nel sentimento popolare, l’altra no.
Dall’incapacità di capire la differenza tra queste due diverse nature deriva, in generale, il degrado della comunicazione tra la politica amministrativa di questi ultimi 20 anni e l’apparato sanitario. Gli effetti sono ricaduti sui cittadini e ne abbiamo avuto una potente prova durante l’epidemia di Covid-19.
L’uscita di figure carismatiche dal nostro Ospedale esalterà il danno identitario e ciò avrà conseguenze pratiche. E’ come se da un corpo uscisse la mente, come avviene in certe malattie degenerative del sistema nervoso centrale che distruggono le famiglie. Così pure l’Ospedale è diventato un corpo a sé stante che obbedisce correttamente a logiche giuridico contabili ma che ha perso l’anima popolare solidale idealizzata nell’articolo 32 della Costituzione. La perdita di anima della Nuova Sanità è coerente con gli algoritmi rigorosi e ben schematizzati, per il funzionamento di una macchina teorica, ma lontani dal bisogno popolare di fiducia nei suoi curanti e di conforto.
Il contatto con il popolo è interrotto. L’isolamento dell’Ospedale durante l’Epidemia ne ha esaltato la distanza. Oggi, sentita anche la protesta dei Sindaci della Sardegna che chiedono di partecipare al nuovo progetto di sanità finanziato dal Next Generation EU (prossima generazione europea), abbiamo la prova certa che esiste il bisogno diffuso di costruire quel luogo della mente del Sirai in cui deve tornare a rispecchiarsi l’alleanza sociale.
Se ciò non avvenisse, ne nascerebbe la delusione, la tristezza, il distacco. Togliendo l’Ospedale dalla città di Carbonia si annullerebbe l’idea stessa di città, e al suo posto si creerebbe la necessità di identificarsi in un altro luogo ideale a cui appartenere. Per i nostri giovani quel luogo potrebbe essere Cagliari, Sassari o Milano; cioè un luogo dell’immaginario collettivo dove i servizi essenziali esistono e funzionano. Ne nascerebbe la ricerca di un altro luogo dove andare a nascere, a farsi curare e a morire.
Non è strano che quest’anno, sino ad oggi, siano nati nella nostra ASL solo 133 bambini. Nel 1970 al Sirai nacquero 2.000 bambini, e altri 1.000 nacquero ad Iglesias. Mancano al conto 2.867 nuovi nati. Questo numero non si spiega con la curva demografica. Si spiega con lo spostamento delle giovani coppie in altri luoghi più serviti.
Lo spopolamento inizia così: con l’idealizzazione di un luogo in cui migrare alla ricerca di più sicurezza, cultura, solidarietà, giustizia, lavoro.
Queste sono le conseguenze pratiche della perdita delle istituzioni identitarie e dei carismi che vi risiedono.
L’uscita di scena di figure sanitarie, con il carisma di Fondatore dell’Ospedale, obbliga a riflettere sul fatto che la macchina sanitaria pubblica non è solo il luogo del padrone contabile del momento, ma è proprietà identitaria della popolazione, e la popolazione non si identifica con i manager ma con gli operatori sanitari che essa stessa ha generato. La Nuova Sanità non si può costruire solo con complessi algoritmi ma con l’introduzione di nuovo Personale che apporti umanità, creatività, passione e competenza.

Note biografiche e professionali del dr. Rinaldo Aste

E’ nato a Carloforte, 67 anni fa, dal mitico Maestro e Compositore di Opere musicali Angelo Aste. Questi era figlio di un altro Rinaldo, anch’esso musicista, ed era un artista talmente apprezzato che lo stesso papa Paolo VI lo investì del cavalierato dell’Ordine di san Silvestro.
La certificazione del DNA musicale del dr. Rinaldo Aste, cardiologo, è importante. Forse proprio per questo era destinato, nella vita professionale di Medico, ad accordare il ritmo cardiaco con i Pacemakers ai pazienti cardiologicamente fuori tempo.
Fu acquisito all’équipe del dr Enrico Pasqui a Carbonia nel 1983 e, nonostante fosse già specialista in Malattie Infettive, non resistette al richiamo dell’elettrofisiologia applicata alla Cardiologia. Nel 1988 applicò il primo PaceMaker nel Reparto Medicina dell’Ospedale di Carbonia quando era appena fresco di specializzazione. Erano tempi in cui, per la patologia della conduzione del ritmo cardiaco, bisognava rivolgersi alla Clinica Aresu di Cagliari, a Milano o a Londra. Chi lo vide eseguire l’intervento ricorda con quale precisione e freddezza introdusse una grossa cannula nella vena succlavia sinistra del paziente, ottenendo un iniziale impressionante fiotto di sangue. Per chi non lo sapesse quel metodo percutaneo era allora praticato in Italia da pochissime persone e l’abilità manuale, che ne riduceva la pericolosità, si acquisiva dopo un training di anatomia chirurgica molto severo.

Da precursore del metodo, Rinaldo Aste si trasformò in abituale impiantatore di stimolatori cardiaci e visse più tempo sotto le radiazioni degli intensificatori di brillanza in sala operatoria che alla luce del sole. Da allora, ha impiantato l’importante numero di oltre 2.500 pacemakers e defibrillatori biventricolari. Da alcuni anni aveva iniziato ad impiantare anche sistemi di controllo digitale a distanza del ritmo cardiaco nei pazienti a rischio. Per capirci, se il giocatore, della nazionale di calcio danese, Christian Eriksen, fosse passato all’Ospedale di Carbonia prima della partita Danimarca-Finlandia, il dr. Rinaldo Aste gli avrebbe impiantato sottocute l’antenna del rilevatore di anomalie del ritmo e l’arresto cardiaco sarebbe stato prevenuto.

Mario Marroccu

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Nulla sarà come prima. Man mano che le settimane passano, tutte quelle morti e la paura di morire scivoleranno nell’oblio. Eppure, nei rapporti sociali, fatti di politica, economia, cultura, questo incidente sanitario durato tre mesi modificherà gli schemi della convivenza. Avverrà lentamente. All’inizio questi incidenti sembrano piccoli episodi della storia, successivamente si manifestano nella loro grandiosità.

Capitò a Cristoforo Colombo quando scoprì l’America pensando di aver trovato solo una nuova strada per il commercio delle spezie e della seta. Invece aveva messo il seme di: Canada, Stati Uniti eAmerica Latina.

Esistono tre fili guida su cui corre la Storia: la cultura umanistica, la ricerca del benessere e l’astrazione religiosa. Sono le tre direttrici dell’identità. Poi esistono direttrici peculiari dei luoghi:

  • Sant’Antioco si identifica col suo porto ed il mare;
  • Carloforte nella sua insularità;
  • Il Sulcis nelle sue vigne ed allevamenti;
  • Carbonia e Iglesias nei loro ospedali e nelle attività industriali.

Inoltre queste città riconoscono una identità comune nella storia del loro “Sistema sanitario”.

La Sanità di Carbonia iniziò esattamente il 18 dicembre 1938 con il discorso di Benito Mussolini dalla Torre Littoria, nel tripudio popolare.

Allora esisteva a Carbonia un piccolo ospedaletto in piazza Cagliari. La storia di quei primi anni è scarsa. Abbiamo più notizie nel 1941. Siamo in pieno fascismo e in piena guerra. Le miniere producevano la materia prima per il consumo bellico di energia. 

I primi  professionisti sanitari vennero assunti, con regolare delibera, nel 1941.

La prima figura di Sanitario dipendente fu la signora Liliana Casotti, infermiera ostetrica. Venne assunta il 16 agosto 1941. Lei  da sola, fece nascere migliaia di bambini dalle donne della vasta città di 65.000 abitanti appena sorta.

Il 16 Settembre 1944 venne assunto il dottor Renato Meloni, chirurgo, urologo, ematologo, oncologo, ostetrico e ginecologo. Aveva 25 anni.

Questi due personaggi furono i progenitori del futuro mondo Sanitario.

Esiste su Youtube un bellissimo film documento con immagini di Carbonia in quegli anni. “Fascism in the family”. Interessantissimo. E’ stato girato da Barbara Serra, la famosa corrispondente da Londra di Al Jazeera. Racconta del Podestà di Carbonia di quegli anni: Vitale Piga. Era il nonno di Barbara. Nel film è ben tratteggiato l’ambiente umano di cui si prendeva cura l’Ospedale di piazza Cagliari.

Alla fine della guerra l’Ospedale nuovo, sorto fuori città, venne utilizzato dalle truppe Inglesi. Poi nel 1956, finito il dopoguerra, tutto il personale di piazza Cagliari si trasferì al Sirai. L’Ospedale era diventato “Ente Ospedaliero Comunale”, ed era classificato come “Ospedale zonale”. Al di sopra dell’ospedale zonale vi era l’”Ospedale Provinciale di Cagliari”, il San Giovanni di Dio. Nel passaggio tra anni ’60 e ’70 il Sirai, per il suo volume di attività, stava per essere riclassificato come Ospedale “Provinciale”. Era Sindaco Pietro Cocco. La procedura non andò a conclusione.

Intanto la compagine Sanitaria era cresciuta:

  • Nel 1945 venne assunto il nuovo primario chirurgo, proveniente dalla Patologia Chirurgica dell’Università di Cagliari, dottor Gaetano Fiorentino. Era un  reduce della campagna di Russia come chirurgo dell’ARMIR.    
  • Nel 1951 venne assunto il dottor Luciano Pittoni, chirurgo, pediatra, ginecologo, ostetrico, traumatologo, neurochirurgo e, soprattutto, anestesista. Fu il primo specialista in Anestesiologia in Sardegna. 
  • Nel 1953 fu assunto il dottor Giuseppe Porcella, chirurgo, traumatologo, proveniente da Sassari.
  • Nel 1954 venne assunto il dottor Enrico Pasqui che, all’età di 25 anni, iniziò a dirigere la Medicina Interna e la Pediatria.
  • Nel 1955 fu assunto il dottor Pasquale Tagliaferri: oculista.
  • Nel 1956 fu assunto il dottor Mario Casula: farmacista.
  • Nel 1956 fu assunto il dottor Enrico Floris: nuovo primario internista.

Nell’anno 1956 il corpo sanitario era formato da 9 persone di cui: di cui 7 medici, 1 ostetrica, 1 farmacista.

Da quel primordiale crogiolo fu generata la complessa organizzazione Sanitaria successiva.

L’Ospedale fu governato, negli anni di crescita, dal Sindaco Pietro Cocco. L’Amministratore era Dioclide Michelotto. Il “Consiglio di Amministrazione” era lo stesso “Consiglio Comunale di Carbonia”. Il Sindaco della città, era il Presidente dell’Ente Ospedaliero.

Il numero degli ammalati messi nelle mani di questi pochi medici era immenso. Si consideri che Carbonia agli albori degli anni ’60, aveva 60.000 abitanti; Sant’Antioco ne aveva 14.000; Carloforte ne aveva 7.000.

L’Ospedale aveva 384 posti letto, tre volte tanto gli attuali  posti letto per acuti. Vi erano due reparti di Medicina Interna, uno di pediatria, uno di Chirurgia Generale, uno di Traumatologia, uno di Ostetricia e Ginecologia, il Pronto Soccorso, la Radiologia, un attrezzato Laboratorio, un Centro Trasfusionale, un ambulatorio chirurgico oculistico per le operazioni di cataratta e rimozione dei corpi estranei dall’occhio, un ambulatorio di Otorinolaringoiatria, le cucine per i ricoverati , la Lavanderia, la falegnameria, le caldaie per il riscaldamento, la squadra di elettricisti, l’officina, la squadra di operai tecnici. Vi erano residenti in Ospedale le Suore Orsoline e i medici (dottor Gaetano Fiorentino, dottor Renato Meloni, dottor Luciano Pittoni). I chirurghi erano immediatamente presenti per le urgenze.

Si eseguivano 1.600 interventi chirurgici l’anno, contro gli 800 circa attuali.

Nascevano 2.000 bambini l’anno, contro gli attuali 300 circa di Carbonia e Iglesias assieme.

Le prestazioni sanitarie venivano pagate dalle Casse Mutue. Il Bilancio dell’Ente era sempre attivo e Il surplus veniva utilizzato per le opere pubbliche nella città di Carbonia. Attualmente invece i bilanci annuali sono in debito per milioni di euro.

Poi arrivò la crisi delle miniere, ma l’Ospedale sotto la guida del Comune, aumentò la consistenza numerica dei suoi dipendenti, e distribuì stipendi che tennero viva la rete commerciale locale. Pertanto, il buon funzionamento della Sanità si traduceva anche in un beneficio economico per il territorio.

Era sempre Presidente Pietro Cocco quando venne promulgata la legge più importante della storia Repubblicana: la legge 833 del 1978. Era la “Legge di Riforma sanitaria”. Fu una grandiosa rivoluzione. Nacquero le ASSL. Quella di Carbonia fu la n. 17; quella di Iglesias fu la n. 16. Scomparvero gli Enti Ospedalieri Comunali e comparvero le “Aziende Socio Sanitarie Locali”. Tutti i Comuni dell’hinterland, cioè il Sulcis, nominarono nel 1982 i Delegati Comunali per il “Comitato di Gestione della ASSL”. Tra i consiglieri comunali eletti, venne formato il Consiglio di Amministrazione della ASSL. Il primo Presidente, dopo Pietro Cocco, fu Antonio Zidda; il vicepresidente fu Andrea Siddi, che era anche Sindaco di Sant’Antioco.

Le deliberazioni della ASSL venivano assunte dopo confronti serrati sia fra i consiglieri comunali del territorio, sia fra Amministrazione e Sindacati.

L’epoca dei Comitati di Gestione fu un fermento di idee e di partecipazione popolare. Furono prese allora le decisioni di miglioramento dei Servizi Ospedalieri fino ad oggi.

Il numero dei Sanitari aumentò e le istanze dei Medici furono rappresentate, in Amministrazione, dal “Consiglio dei Sanitari”. Il parere dei Medici fu fondamentale per qualsiasi decisione di tipo sanitario. La collaborazione fu proficua.

La Direzione Amministrativa Sanitaria della Sardegna era attribuzione dell’Assessore regionale della Sanità che agiva come super-presidente delle ASSL.

In questa scala gerarchica della catena direzionale la volontà popolare del territorio era genuinamente rappresentata.

Negli anni ’90 il corso della storia della Sanità Ospedaliera cambiò bruscamente direzione.

Arrivarono i “Tecnici”. Tristi figure di scuola bocconiana che stravolsero il senso del “prendersi cura dell’Altro”. Gli Ospedali cambiarono nome: si chiamarono “Stabilimenti”. Anche i “pazienti” cambiarono nome: si chiamarono “clienti”. Il prodotto dello “Stabilimento” doveva essere gestito con le stesse regole con cui si producono e si vendono i prodotti industriali. L’obiettivo non era più il benessere sanitario ma il “bilancio”. Il numero di posti letto per mille abitanti fu portato da 6 a 3. Il “bilancio” fu l’ossessione contabile prevalente e si pretendeva di conservare “efficienza e efficacia” pur tagliando posti letto, organici e spese per aggiornamento strumentale e strutturale. Le dinamiche decisionali non derivavano più dal confronto fra i bisogni popolari e la parte politica, ma dalla sequenza rigida di azioni dettate dalla scaletta di un algoritmo. L’algoritmo spodestò lo “spirito di servizio” e la “mediazione” con le “forze sociali” attraverso un retinacolo di passaggi burocratici, impenetrabile al cittadino comune. Il cittadino comune, e anche il più alto rappresentante sanitario della città, il Sindaco, vennero tecnicamente espulsi dal luogo dove si formulano le proposte programmatiche e si prendono le decisioni. Questo fu il frutto delle continue rielaborazioni fino al totale sovvertimento della legge 833.

Il centro del nuovo mondo sanitario venne occupato dallo “apparato burocratico”. I pazienti e i medici vennero posti alla periferia di quel mondo o, più frequentemente, al di fuori.

Il dominio del puro risultato “contabile”  sulla mission di tutela sanitaria della 833 produsse:

  • L’annullamento dei Medici nelle dinamiche decisionali sanitarie,
  • L’annullamento degli Infermieri,
  • La riduzione degli Organici,
  • La conseguente chiusura di reparti medici e chirurgici,
  • La contrazione delle spese per attrezzature ed aggiornamenti,
  • L’accorpamento di reparti deteriorati,
  • La mancata sostituzione dei primari e personale andati in pensione,
  • La insoddisfazione della popolazione costretta a cercare assistenza altrove generando mobilità passiva,
  • L’accentramento della Sanità nelle città capoluogo,
  • L’impoverimento dei Servizi,
  • Le scandalose liste d’attesa.

E ne sono conseguiti:

  • La mobilità passiva verso Cagliari, Sassari ed il Continente,
  • Il trasferimento di somme enormi del Bilancio per pagare i Servizi Sanitari comprati dal capoluogo e dalle Case di Cura private.
  • La perdita, lenta, di circa 1.000 posti di lavoro tra Carbonia e Iglesias a vantaggio di Cagliari.
  • Le 1.000 buste paga scomparse in progressione dal Sulcis Iglesiente, tra la fine degli gli anni ’90 ed oggi, corrisponde a oltre un milione e mezzo di euro di stipendi al mese che manca alla rete commerciale locale.
  • In un anno mancano al circuito di danaro nel Sulcis Iglesiente almeno 18 milioni di euro.
  • La mancanza di soldi dal nostro territorio a vantaggio di territori già traboccanti di privilegi e servizi come Cagliari genera: povertà.
  • La povertà e la mancanza di lavoro chiudono il cerchio e si autoalimentano.
  • La fuga delle giovani coppie che ne consegue si traduce in spopolamento ed invecchiamento relativo.
  • I meno giovani restano in balia di un sistema che non è più “accogliente” come ai tempi dei “Comitati di Gestione” ma “respingente”.
  • Le lunghissime “liste d’attesa” sono la rappresentazione grafica perfetta del “respingimento” in atto.

Durante il “lockdown” abbiamo assistito ad un fenomeno impensabile: il “silenzio” dei Medici Ospedalieri.

Nessuno parla, nessuno informa, né partecipa alle ansie della gente. Muti lavorano, distogliendo lo sguardo.  Il “silenzio” dei Medici Ospedalieri è il sintomo chiaro della loro esclusione dalla Sanità.

Ora è il momento.

Se è vero che nulla sarà come prima, dobbiamo stare attenti. Il cambiamento può essere in meglio o anche in peggio.

Per tutto ciò che ho detto in premessa, questo è un momento storico: sul cavallo in corsa della nostra Storia Sanitaria è stato cambiato il cavaliere. Bisogna verificare chi è, e in quale direzione intende correre questo cavaliere post-Covid.              

Mario Marroccu         

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La storia del Sistema Sanitario del Sulcis Iglesiente è legata intimamente all’evoluzione dello spirito di appartenenza a questa terra. Per raccontarla, è necessario partire da lontano ed arrivare fino al 2020. Pazienza! E’ una rapida passeggiata un po’ letteraria e molto storica.

Il più antico “Popolo sardo” organizzato politicamente fu quello dei “Nuragici”. Tutto iniziò nel 1800 avanti Cristo. Nel 1100 avanti Cristo i sardi cessarono di costruire nuraghi e iniziarono a scomparire. Mistero storico. Fu a causa di un’epidemia? Oppure fu l’effetto di una crisi di mercato, perché si stava passando dall’età del bronzo a quella del ferro?
Al tempo dei nuraghi la Sardegna era totalmente popolate e dedita ad attività minerarie e metallurgiche. La densità delle sue torri sono il segno certo che era ricca. Lucrava sul commercio di qualcosa che produceva in abbondanza: il bronzo. L’ottimo bronzo sardo era molto richiesto in tutto il Mediterraneo per forgiare armi.
Praticamente nel 1.200 avanti Cristo, il bronzo sardo armò la Prima Guerra Mondiale della storia: la Guerra di Troia. E dove c’è guerra ci sono medici.
Guardate le armi di bronzo nuragico che sono esposte nel Museo Archeologico “Giovanni Antonio Sanna” di Sassari. Sembrano fatte ieri. Hanno la forma della “foglia di ulivo”. Esattamente simili sono state riprodotte dai consulenti storici per il film “Troy” con Brad Pitt.
La Guerra di Troia iniziò male: con un’epidemia. Morirono di febbre, e infezione alle vie aeree, tanti guerrieri greci che Agamennone, per motivi di “igiene pubblica” dovette far cremare sulle pire allestite davanti alla marina di Troia.
Nell’Iliade vengono descritti 148 tipi diversi di traumi da spada, lancia, o freccia. I chirurghi che in quel conflitto bellico curavano i feriti erano nientedimeno che i figli di Esculapio: Macàone e Podalirio.
Allora la chirurgia era arte divina. Pindaro, parlando di quei Medici nel settimo secolo avanti Cristo, scriveva nelle “Odi”: «E quanti vennero da lui….feriti nelle membra dal lucido bronzo o dal getto di pietre,… fasciando le membra…altri con azioni chirurgiche rimise in piedi».
Durante la Guerra di Troia, il medico Macàone fu ferito da freccia troiana e subito venne soccorso da due Re: Idomeneo e Nestore, perché, come dice Omero: «Uomo guaritore vale molti uomini a estrarre dardi, e spargere blandi rimedi».
Nei millenni la considerazione del Medico rimase sempre elevata. Ebbe un crollo solo durante la peste del 1347-48, quando i medici fallirono i risultati sperati. La peste prevalse su tutti ed il poeta Francesco Petrarca, offeso per la morte dell’amata Laura De Sade, scrisse libelli feroci contro tutta la categoria.

La professione medica fin dall’inizio si specializzò. Vi furono gli specialisti nel “taglio della pietra” (urologi), gli specialisti della cataratta( oculisti), gli specialisti delle “malattie interne”, gli specialisti in “craniotomia” (neurochirurghi), e poi i “raddrizzatori di bambini storpi”. Quest’arte si chiamava “ortho” (raddrizzo), “peideia” (bambino). Da cui l’origine del nome “Ortopedia” per la specialità che aggiusta lo scheletro.

Non sappiamo quasi nulla sulla medicina dell’Alto Medio Evo nel Sulcis Iglesiente. Sappiamo che gli ammalati peregrinavano verso la tomba del Santo Medico Antioco e che attorno alla basilica vi erano tante casette per ospitare i malati richiedenti la guarigione: le “cumbessias” o “muristenes”.
Troviamo tracce di attività medica nella chiesetta bizantina altomedioevale di San Salvatore, ubicata nella periferia di Iglesias. Si sa che ospitava viandanti richiedenti cure per cui si spiega la presenza dell’”orto dei semplici”. Era il luogo dove i monaci (Benedettini o Basiliani) coltivavano le erbe medicamentose per produrre unguenti e pozioni galeniche. Nel terreno circostante sono state trovate tracce di inumazioni in terra nuda.
A San Giovanni Suergiu, vi è una chiesetta edificata dopo le Crociate dai monaci Giovanniti. Ricordiamo che i Giovanniti fondarono l’ospedale di San Giovanni Battista di Gerusalemme col permesso del Sultano del Cairo, e vi curarono i pellegrini cristiani che venivano dall’Europa. Alla fine delle Crociate vennero allontanati dalla Palestina e si insediarono in loro possedimenti in Sardegna. Qui nel Sulcis continuarono la loro missione di curare gli “infirmi et pauperes Christi”. Sulla facciata della chiesetta di San Giovanni si riconoscono le incisioni di “croci di Malta” e i fregi che ricordano le cupole delle moschee di Omar e di Al Aqsa, della spianata dei templi di Gerusalemme.
Queste sono le poche tracce di attività medica nel Sulcis Iglesiente nel Medio Evo.
La crescita della Chirurgia in Europa rimase bloccata, a causa dell’altissima mortalità, fino alla seconda metà del diciannovesimo secolo. Solo allora, dopo la scoperta dell’esistenza dei “microbi”, si capì la necessità della “disinfezione” e, dopo la scoperta dell’“anestesia”, si poté operare “senza dolore”. I chirurghi cominciarono ad operare, per la prima volta, l’addome e la pelvi femminile temendo meno le setticemie mortali perioperatorie. Contemporaneamente iniziò lo sviluppo moderno degli Ospedali. Il più grande impulso allo sviluppo della chirurgia, soprattutto traumatica, avvenne con la Prima Guerra Mondiale. Lì si formarono i primi chirurghi dei nostri primi Ospedali.

Con la chirurga addominale e pelvica, decollò la chirurgia degli arti. Questa fu promossa in Italia da Alessandro Codivilla (m. 1912) che fu direttore dell’Ospedale Ortopedico Rizzoli di Bologna. Tutt’oggi il Rizzoli appare al visitatore con tutta la sua vecchiezza strutturale di fine ‘800. Da lì passò l’ortopedia mondiale, e la migliore ortopedia italiana in assoluto. Codivilla fece una invenzione rivoluzionaria: il “Chiodo di Codivilla”.
Si trattava di un’anima metallica da introdurre nel canale dell’osso fratturato. Attorno ad esso si sarebbe formato il “callo osseo”. Ciò comportava la guarigione con ossa ben raddrizzate (fatto raro) e consentiva l’eventuale allungamento dell’osso accorciato da un callo osseo venuto male. Il nuovo obiettivo dell’Ortopedia insegnato da Codivilla al mondo, era il “recupero funzionale” dell’arto.
Con la tecnica di Codivilla, si iniziarono a trattare le folle di portatori di deformità congenite ed acquisite: piedi torti, ginocchi valghi e vari, lussazioni dell’anca, paralisi infantili, tare eredoluetiche, gibbi cifoscoliotici, colli torti. A questi si aggiungeva il numero enorme di deformi procurati dalle due piaghe sociali dell’epoca: la tubercolosi ossea e il rachitismo; malattie incurabili e dal destino triste.

Già ai primi del ‘900 avevamo in Italia ben 40 “Ospedali marini” per la cura medica e chirurgica della TBC ossea. Lo sviluppo minerario dell’Iglesiente aveva introdotto la necessità di fornire un’adeguata assistenza ortopedico-traumatologica ai minatori. Quando esplose la protesta dei minatori nel settembre 1904, a Buggerru esisteva un ospedale per i traumi da miniera. L’organico comprendeva tre Medici con competenze chirurgiche ortopediche, e personale femminile per l’assistenza al parto. L’ospedale era molto attivo anche nell’assistenza alla popolazione civile; vi erano allora circa 8.000 abitanti, quando Cagliari ne contava circa 50.000. I casi più gravi venivano trasportati ad Iglesias in carrozza. Iglesias prima di questo periodo aveva avuto una struttura ospedaliera basso-medioevale citata da documenti dell’epoca: si trattava dell’ospedale di “Santa Lucia”, che poi prese il nome di “Santa Chiara”.
Tra le due Guerre Mondiali del ‘900, dopo la Guerra d’Etiopia e le “Inique Sanzioni” fu evidente che l’Italia doveva dotarsi di una sua fonte autarchica di energia, così prese vita il progetto di sviluppo del  bacino carbonifero del Sulcis. Le miniere metallifere dell’Iglesiente e le carbonifere del Sulcis furono la nuova frontiera del lavoro in Italia. Il numero complessivo di abitanti delle due città sfiorava i centomila. L’età media era molto giovane ed era costituita da una moltitudine di minatori del sottosuolo e operai di superficie. Gli incidenti sul lavoro erano molto frequenti. L’Inail nel 1946 inaugurò l’Ospedale CTO di Iglesias e lo rafforzò di Traumatologi e Chirurghi generali a costituire un avanzato “Trauma Center” dove si affrontavano tutti gli effetti di un trauma: dalle fratture dello scheletro alla rottura di milza e di fegato ed i traumi cranio-encefalici. Doveva essere una Traumatologia a tutto campo. Il Governo dispose che negli ospedali minerari di Iglesias e Carbonia operassero i migliori chirurghi traumatologi della Nazione. A Carbonia il Chirurgo generale con competenze neurochirurgiche arrivò dalla Patologia chirurgica dell’Università di Napoli: il professor Ignazio Scalone. Rimase un anno a dirigere l’ospedale di piazza Cagliari, a Carbonia. Di lui restano testi di chirurgia del cervello e del cervelletto, per la cura di lesioni craniche provocate da arma da fuoco, scritti alla fine della Prima Guerra Mondiale. Con l’uscita del dottor Scalone, il primariato di Chirurgia generale venne conferito al dottor Gaetano Fiorentino; egli affidò l’Ortopedia e Traumatologia al dottor Schirru. Questi era un medico di eccezionale valore. Dopo una quindicina d’anni di esperienza in traumi a Carbonia, si trasferì negli Stati Uniti. Dopo 30 anni, il dottor Schirru tornò in Italia e si presentò al nuovo primario del Sirai, il prof. Lionello Orrù, a cui raccontò la sua storia americana: era diventato Direttore sanitario di un enorme ospedale di 3.000 posti letto a Washington, e ne dirigeva il reparto di Ortopedia. Arrivato alla pensione, gli era comparsa un’ernia inguinale. Per tale motivo pensò di tornare in Sardegna, a Carbonia, per farsi operare. Non si fidava del modo di operare l’ernia degli americani. Voleva essere operato da un chirurgo italiano. Una volta operato a Carbonia tornò a Washington.
Ad Iglesias, il primario chirurgo generale era il dottor Falqui. Al CTO vennero inviati chirurghi ortopedici di vaglia formati al Rizzoli di Bologna.
Dopo Codivilla, fu direttore del Rizzoli il professor Vittorio Putti (m. 1940). Fu chirurgo eccellentissimo che già nel 1919 veniva conteso all’Italia dalle maggiori istituzioni medico-chirurgiche statunitensi. Quando andava in America veniva, per i suoi miracoli ortopedici, ricevuto solennemente, come si conveniva alla sua fama.
Con la scomparsa del professor Putti, la direzione della chirurgia ortopedica del Rizzoli venne affidata al professor Francesco Delitala, nato a Orani in provincia di Nuoro, che aveva insegnato Ortopedia all’Università di Napoli, poi in quella di Padova e, infine, diresse il Rizzoli. Fu grande esperto della chirurgia dell’ernia del disco intervertebrale e della spalla. Morì a Bologna nel 1983.
Fu un allievo di Delitala il professor Cabitza di Cagliari. Questi, successivamente, diresse la Clinica Ortopedica Universitaria di Cagliari e l’ospedale Marino del Poetto.

Contemporaneamente, studiavano e operavano al Rizzoli, sia il dottor Giuseppe de Ferrari sia il dottor Italo Cao. Ambedue divennero professori di Ortopedia e Traumatologia e diressero il CTO di Iglesias. Il CTO (Centro Ortopedico Traumatologico) di Iglesias riprodusse in Sardegna le altissime competenze chirurgiche del Rizzoli di Bologna costituendo, nel Sistema Sanitario del Sulcis Iglesiente, un pilastro fondamentale della Sanità.
I successori di questi Maestri, diressero poi il CTO e l’Ortopedia di Carbonia e di Iglesias fino ai giorni nostri.
Il seme prezioso di quei grandi ortopedici è ancora tra noi.
Come si vede la discendenza di scuola è di altissimo livello.
Non può essere perduta.
Questa ricostruzione tratta dai libri di storia della Medicina è una conoscenza che deve costituire patrimonio dei cittadini del Sulcis Iglesiente. Tale eredità deve essere protetta dall’operazione “contabile” che sta trasferendo il nostro patrimonio sanitario in città lontane.

E’ incredibile. Quando eravamo “poveri” eravamo molto più “ricchi” in Sanità.

Mario Marroccu

Nella fotografia, da sinistra: dottor Giuseppe Porcella, dottor Renato Meloni, il sig. Cuccuru capo degli infermieri, dottor Gaetano Fiorentino, don Luigi Tarasco e dottor Luciano Pittoni.

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Il 22 dicembre 2016, a quasi due anni di distanza dal convegno regionale svoltosi alla Grande Miniera di Serbariu, sulla progettazione dell’Ospedale del III millennio, la Sala Gaetano Fiorentino del Presidio Ospedaliero Sirai ha ospitato una giornata di studio dal titolo: “L’organizzazione per intensità di cura e complessità assistenziali: quale modello?”, organizzata dalla Direzione dell’Ospedale Sirai in collaborazione con la Direzione delle professioni sanitarie. Alla giornata di studio, moderata dal direttore del Dipartimento Chirurgico Antonio Tuveri e dal presidente del Collegio IPASVI Graziano Lebiu, sono intervenuti il commissario straordinario Antonio Onnis, il Direttore del P.O. Sirai Sergio Pili, il Direttore del SPS Antonello Cuccuru, il Direttore del DEA Viviana Lantini e il consigliere nazionale della Federazione IPASVI Pierpaolo Pateri.

I lavori sono stati introdotti dal presidente del Collegio IPASVI Graziano Lebiu e dal direttore del Dipartimento di Chirurgia Antonio Tuveri, che hanno delineato il possibile scenario del nuovo modello organizzativo dell’Ospedale Sirai, osservando che tale sperimentazione richiederà ai professionisti sanitari di lavorare in team multidisciplinari e multi professionali. Un ospedale che non sarà più strutturato in unità operative, in base alla patologia e alla disciplina medica per la sua cura, ma organizzato in aree che aggregano i pazienti in base alla maggiore o minore gravità del caso e al conseguente livello di complessità assistenziale. I due moderatori hanno successivamente, puntualizzato che il nuovo modello assistenziale, mentre consentirà al medico di concentrarsi meglio sulle proprie competenze distintive e di esercitarle in diverse piattaforme logistiche, intende utilizzare e valorizzare appieno le competenze professionali degli infermieri. Nel primo intervento, il commissario straordinario, Antonio Onnis, ha illustrato la novità più rilevante dell’edizione 2016 del Piano Nazionale Esisti (PNE) – un’area tematica dell’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali (AGENAS), un Ente pubblico che si occupa di attività di supporto tecnico-operativo alle politiche di governo dei sistemi sanitari di Stato e Regioni, all’organizzazione dei servizi e all’erogazione delle prestazioni sanitarie – che riguarda il nuovo strumento di valutazione sintetica, cosiddetta “Treemap”. Sul Treemap – ha precisato Onnis – si baserà il monitoraggio delle strutture per Piani di rientro ospedali. Questo nuovo strumento di valutazione consentirà alle Regioni di individuare e monitorare le strutture da sottoporre a piani di efficientamento e riqualificazione, come previsto dal DM del 21 giugno 2016 sui “Piani di efficientamento e riqualificazione” attuativo della legge di stabilità 2016. Il manager, ha specificato ancora, che le strutture saranno chiamate a presentare alla propria Regione di appartenenza il piano di riqualificazione qualora presentino una o più aree cliniche rientranti nella classe molto bassa di valutazione (colore rosso) corrispondenti al 15% dell’attività totale, oppure qualora rientrino in una o più aree nella classe bassa di valutazione (colore arancione) corrispondenti al 33% dell’attività complessiva. Nel presentare uno scenario ospedaliero a tinte fosche, con diverse aree cliniche di colore rosso che riguardano principalmente le patologie respiratorie, la chirurgia generale, la chirurgia oncologica, la gravidanza e parto e le patologie osteomuscolari, il commissario ha sottolineato come l’organizzazione per intensità di cure possa rappresentare una possibile opportunità da non perdere, per superare le criticità del sistema e per consolidare i miglioramenti del servizio già conseguiti. Il direttore del Sirai, Sergio Pili, in un intrigante viaggio storico sulla storia dell’ospedale, ha presentato quell’universo sanitario in cui, ieri come oggi, i “fatti” medici e i “fatti” sociali si intersecano con quelli architettonici e tecnologici, con quelli legislativi ed organizzativi determinando un poliedrico insieme, caratteristico di ogni tempo e di quel tempo specchio fedele. Un pezzo di storia per nulla statico ma in un costante fermento vitalizzato dagli interessi dei protagonisti: i curanti, i pazienti, gli amministratori, e in tempi più recenti, tutto quel mondo economico e produttivo che intorno all’ospedale ha costruito il suo legittimo business; ciascuno intento ad immaginare e realizzare un ospedale “migliore”, almeno dal suo punto di vista. L’ospedale per intensità di cura è il modello organizzativo che si colloca in continuità nel lungo processo di cambiamento della storia dell’ospedale, volto a caratterizzare sempre di più l’ospedale come luogo di cura delle acuzie. Secondo il Direttore del Sirai, la graduazione dell’intensità delle cure permetterà di rispondere in modo diverso e appropriato con tecnologie, competenze, quantità e qualità del personale assegnato ai diversi gradi di instabilità clinica e complessità assistenziale.

Un altro aspetto di grande rilevanza sarà poi costituito dall’ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse tecnologiche e strutturali (gli ambienti di degenza, le sale operatorie, gli ambulatori, i servizi di diagnosi, in una parola tutte le strutture assistenziali potranno essere utilizzate da più professionisti, senza divisioni e senza dispersioni) e delle risorse umane (i diversi professionisti saranno chiamati a un confronto quotidiano e questo renderà più difficile l’affermarsi di stili di lavoro particolaristici). Permetterà inoltre di diminuire i posti letto non utilizzati (superando il non pieno utilizzo dei posti letto dei diversi Reparti) e di impiegare meglio le risorse infermieristiche (da mettere a disposizione non più in base al numero di posti letto di un reparto, ma in base alla intensità dei bisogni assistenziali dei pazienti di quella piattaforma logistica di ricovero). Nel terzo intervento, il presidente del Collegio IPASVI di Cagliari e coordinatore regionale dei Collegi IPASVI della Sardegna e consigliere nazionale della Federazione IPASVI, Pierpaolo Pateri, ha esposto il modello delle competenze avanzate per l’infermiere proposto dalla Federazione Nazionale IPASVI. Nel modello indicato sono posizionati su due assi – clinico e gestionale – i livelli di competenza che l’infermiere acquisisce attraverso specifici percorsi formativi. Il primo livello corrisponde all’infermiere generalista, “cuore” del sistema, in possesso di laurea triennale, che rappresenta, in ogni caso, la matrice “cuore” della competenza da cui originano i successivi livelli di approfondimento o di espansione. C’è poi l’infermiere con perfezionamento clinico o gestionale, che ha seguito un corso di perfezionamento universitario che lo ha messo in grado di sviluppare le sue competenze avanzate applicate a un’area tecnico operativa molto specifica. Il terzo livello è quello dell’infermiere esperto clinico o coordinatore con master, formato con un master universitario di primo livello, in grado di approfondire le sue competenze in un settore particolare dell’assistenza infermieristica ed esperto di parti di processo assistenziale, di peculiari pratiche assistenziali settoriali o con capacità di governo dei processi organizzativi e di risorse in unità organizzative. Infine, al quarto e più avanzato livello c’è l’infermiere specialista con laurea magistrale, formato con laurea magistrale in Scienze Infermieristiche con orientamento clinico o gestionale/formativo. Chiudendo lo spaccato degli interventi sulla complessità assistenziale, il Direttore delle professioni sanitarie, Antonello Cuccuru, ha immaginato la possibile integrazione tra professionisti e il superamento dell’approccio funzionale, che si può concretizzare attraverso il passaggio da un’organizzazione gerarchico-strutturale a un’organizzazione a matrice per intensità di cura e assistenza. In questa nuova organizzazione, ha precisato Cuccuru, la persona è ricoverata e assistita secondo il livello della sua patologia o pluripatologia: alla continuità ci pensa l’infermiere e i medici vanno al suo letto in base alla specialità per assisterlo nei singoli bisogni e dettare tutto ciò che riguarda diagnosi, clinica e terapia. La nuova organizzazione dell’ospedale per intensità di cura e assistenza richiederà un ripensamento della presa in carico della persona, perché sia il più possibile personalizzata, univoca, condivisa attraverso tutti i livelli di cura. In una organizzazione per intensità di cura e assistenza viene meno la suddivisione dei posti letto per specialità tipica degli ospedali tradizionali, in modo da superare la frammentazione e favorire l’integrazione tra i professionisti che si prendono cura delle persone assistite. Il dirigente delle professioni sanitarie ha, infine, presentato alcuni strumenti, di facile applicazione, che possono aiutare l’infermiere a classificare i bisogni e la complessità assistenziale del paziente. L’ultimo intervento del Direttore del Dipartimento di Emergenza Urgenza (DEU), Viviana Lantini, ha spiegato come questo nuovo modello determina la necessità di introdurre modelli di lavoro multidisciplinari per percorsi e obiettivi, con definizione di linee guida e protocolli condivisi, e presuppone la creazione di un team multidisciplinare capace di operare secondo tale impostazione concettuale. In base a tale approccio, medici e infermieri saranno chiamati a una funzione di primissimo piano nello sviluppo di tutte le attività comprese nel percorso diagnostico-terapeutico assistenziale del paziente. Il Dirigente medico si è poi soffermata sul ruolo del Dipartimento di E/U, dove risulta fondamentale stabilizzare e stratificare clinicamente il paziente, avviandolo al livello di degenza più appropriata, e sulla presentazione di alcuni casi clinici. In tale ottica, metodologie e strumenti riferiti alla definizione di percorsi clinico-assistenziali rappresentano una valida opportunità a disposizione dei diversi professionisti in termini di autonomia organizzativa e professionale. In conformità a questi elementi chiave, un Percorso Diagnostico Terapeutico Assistenziale (PDTA) deve essere inteso come un metodo di management del percorso di cura e/o assistenza, elaborato a livello locale, per un gruppo di pazienti ben definito e con specifiche condizioni cliniche, durante un altrettanto ben definito periodo di tempo, costruito sulla base di elementi di cura e/o assistenza basati su evidenze scientifiche riconosciute, best practice ed aspettative del paziente. Il dibattito conclusivo ha registrato la partecipazione di diversi interventi di dirigenti medici, compresa l’inaspettata presenza del Direttore dell’AOU di Cagliari Nazareno Pacifico, e di alcuni infermieri e coordinatori che hanno sottolineato come un’organizzazione dell’ospedale per intensità di cura richieda l’introduzione di nuovi ruoli professionali, nuovi strumenti e un ripensamento della presa in carico del paziente, perché sia il più possibile personalizzata, univoca, condivi-sa a tutti i livelli di cura.

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Cerimonia commemorativa il pomeriggio di venerdì 18 marzo, all’ospedale Sirai di Carbonia… a 70 anni di vita dalla sua costruzione, è stata dedicata una sala al dottor Gaetano Fiorentino, un professionista che tanto si spese per la vita di questo polo ospedaliero.

Il Sirai nasce in una città di nuova costruzione: Carbonia, abitata da tanti, tantissimi uomini, provenienti da tutta Italia, lavoratori che dovevano stare bene in salute per poter produrre e garantire allo Stato i giusti introiti derivati dal loro duro lavoro. E tanti operai fanno sì che a Carbonia, nel giro di poco tempo, arrivino tante famiglie, basti pensare che, in quegli anni i registri arrivano a vedere numeri che raccontano di una città di circa 60.000 abitanti.

Raggiungere Cagliari era davvero difficile, i treni erano lenti e le strade sterrate. Quando c’era un problema di salute, questo diventava più grave per via della distanza da un luogo di cura.

Così comincia il pomeriggio al Sirai, presenti il commissario straordinario della Asl 7, Antonio Onnis, e il direttore della Struttura Complessa del P.O. Sirai Sergio Pili, con le parole dette dal dottor Mario Marroccu che, con enfasi, precisione ed eleganza traccia, con la sua esposizione, le linee della nascita di quello che diventerà un grande ospedale, dove veniva curato il minatore e tutta la sua famiglia.

Intorno al dottor Gaetano Fiorentino, prosegue Mario Marroccu, ruotava una squadra che dedicava tanta passione al proprio lavoro: Meloni, Floris, Pittoni, Pasqui, Porcella e Tagliaferri.

A seguire, prende la parola il dottor Enrico Pasqui, che, racconta del dottor Fiorentino come di un medico dal curriculum eccezionale, con un enorme bagaglio di conoscenze, un chirurgo generale che sapeva trattare “dall’unghia al cervello”.

E ricorda il caso in cui il dottor Fiorentino ricostruì la testa di un uomo dal cranio spappolato, in seguito ad un brutto incidente: «Profonda stima per questo eccezionale medico che mi ha fatto assistere, tra il 1949 e il 1950, a cose incredibili. Ma non era solo un grande medico, il dottor Fiorentino era anche un uomo che sapeva ascoltare, sapeva dare consigli e suggerimenti, incoraggiava a mettere in atto le idee, era la giusta figura del dirigente… il suo compito era, così come dovrebbe essere ancor oggi, caldeggiare le idee.»

Nel 1956 nasce la pediatria, ben 30 letti all’ultimo piano dell’ospedale, ma tra intubazioni e tracheotomie, i letti non bastano e si inizia a costruire la pediatria, che negli anni a venire noi tutti abbiamo conosciuto a fianco del grande ospedale, proprio dove oggi viene intitolata la sala al dottor Fiorentino. Si avranno da quel momento 60 posti letto nella sola pediatria.

Tra il 1960 ed il 1963, nascono la ginecologia e l’ostetricia e le nascite arrivano a toccare punte di 2.000 bambini in un anno, contro i circa 300 dei giorni nostri. Le famiglie in quel periodo contavano dagli 8 ai 12 figli.

E’ poi intervenuto Antonello Pilloni che ha parlato dell’uomo Gaetano Fiorentino.

Quindi prendono la parola anche gli altri ospiti e poi si passa alla svelatura della targa e alla consegna, da parte del sindaco Giuseppe Casti, degli attestati di merito a chi, lavorando all’ospedale, si è distinto per merito e devozione.

Emozione e commozione hanno regnato sovrani nella sala, nel ricordare persone ormai scomparse e momenti di vita lontani, storie di una città che oggi patisce il fenomeno dell’abbandono da parte dei giovani impossibilitati a trovar lavoro. Una città che ricorda con nostalgia tempi faticosi e difficili ma anche di speranza per un domani più florido.

E per concludere nel migliore dei modi la serata, non si poteva certo fare a meno della presenza della chitarra di Roberto Olla che, con le sue dolci e suadenti note, ha dato la giusta dimensione al tutto, regalando armonia e forza ad un pubblico attento che ha mostrato di gradire l’esibizione, gratificando il musicista con ripetuti applausi.

Di seguito gli scatti della cerimonia.

Nadia Pische

Ospedale Sirai

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