19 April, 2024
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Il castello dei valori umani su cui si basava la Sanità Ospedaliera del Medioevo si sgretolò durante l’epidemia del 1347-48 : l’etica del sistema di mutua assistenza si era infranta davanti all’incapacità di affrontare la peste. La gente moriva in massa nelle proprie case, nelle campagne e per le strade.
L’apparato sanitario, governato dagli Ufficiali di Sanità, gestì il problema dei morenti e dei morti con metodi spicci. Li caricava sui carretti e li smaltiva in fosse comuni. Questo fu il massimo del “prendersi cura”. I medici , pochi, spaventati e impotenti, seguivano i consigli di Galeno: «Fuge, longe, tarde» («fuggi lontano e torna il più tardi possibile»). L’inconsistenza del sistema di sicurezza prodotto dai governanti generò, nel popolo, odio contro i medici. Il disprezzo per i medici fu tale che per un secolo persero credibilità e scomparvero dalla storia. Nel 1348 il più grande odiatore dei medici fu Francesco Petrarca, il poeta. La sua amata, la bella Laura De Sade, morì di peste, nonostante le cure dei migliori specialisti di Avignone. Per offendere i medici del tempo li chiamò “maccanici”. Con questo termine, che di per sé non è offensivo, voleva dire: «La vostra professione è senza spiritualità; curate i corpi malati come se fossero macchine rotte e non vedete che dentro hanno un’anima carica di valori etici».
La medicina era caduta talmente in disgrazia che per un secolo i malati trovarono conforto soltanto in ricoveri gestiti da personale di assistenza, fratres et sorores, che agivano autonomamente e si mantenevano con le donazioni dei benefattori. Tali strutture erano destinate al ricovero dei vecchi non autosufficienti, dei poveri, dei folli, dei bambini abbandonati e degli infettivi. Anche in questi ricoveri la spiritualità si deteriorò davanti alla tentazione di arricchimenti personali con le donazioni incamerate.
A Milano un secolo dopo, nel 1448, vi fu un duro intervento di  ri-spiritualizzazione” degli ospedali caritativi del tempo. L’arcivescovo della città degli Sforza, Enrico Rampini, sostenuto dal Papa Nicolò V, fece demolire 16 di questi infami ricoveri e costruì il Grande Ospedale dell’Annunciata che poi venne chiamato  Ospedale Maggiore”. Fu una rivoluzione. La gestione sanitaria dell’ospedale venne affidata ai medici, per la prima volta assunti in pianta stabile, e quella amministrativa fu affidata ad una commissione cittadina di persone di fiducia. Con l’intervento dell’architetto Filarete fu progettato un ospedale in cui i letti erano singoli, avevano un armadietto esclusivo per ogni malato e un sistema igienico di scarichi che allontanava i residui di umanità direttamente nei navigli. Si concordò che quello fosse l’“Ospedale per acuti”, da dove i malati dovevano essere dimessi dopo poco tempo guariti o morti. Alle porte di Milano fu costruito l’“Ospedale per i cronici”, destinato ai vecchi, ai folli e agli incurabili. Non se ne usciva mai se non da morti.
L’Ospedale Maggiore di Milano era costruito a “crociera”. Due ali della croce erano destinate alle donne; le altre due agli uomini. Al centro, dove si incrociavano le quattro corsie dell’ospedale, era posto un altare col Santissimo esposto, a significare: «Noi vi curiamo ma è Lui che vi salva». Fu chiara a tutti l’equa divisione delle responsabilità.
Il Sistema Sanitario Milanese attirò la curiosità di tutta l’Europa e molti Governi inviarono i loro medici e architetti per copiarlo. Così si diffusero gli “Ospedali Maggiori” nel mondo occidentale.
La Riforma Sanitaria dell’arcivescovo Rampini fu fondamentalmente una “ riforma etica©. Quella concezione di Ospedale, in Italia e in Europa, rimase fino alle riforme sanitarie sperimentate dopo la Seconda Guerra Mondiale.
La stessa eticità venne ripresa nella Riforma Sanitaria allestita dalla Commissione ad hoc presieduta da Tina Anselmi. Fu lei a presentare il testo della legge n° 833 del 1978 alle Camere. In un’intervista raccontò al giornalista che le idee fondanti erano emerse dalle discussioni fra partigiani nei bivacchi di montagna. Raccontò che fu lì che si decise di introdurre nella riforma i tre valori guida: l’Universalità delle cure, l’Equità e l’Uguaglianza. Lo slogan che sintetizzava lo spirito della nuova sanità fu: «Dalla culla alla tomba, gratuita per tutti». Fu il trionfo della solidarietà.

Recentemente uno dei massimi chirurghi viventi in Italia ha ricevuto l’incarico da un’importante rivista medica americana, di scrivere un articolo sulla “spiritualità” nella chirurgia del cancro in stadio avanzato. Per chi opera negli ospedali di questo tempo, l’articolo commissionato al chirurgo, è stupefacente.
L’obiettivo di chi ha commissionato l’articolo è quello di ridare all’ospedale il significato di “luogo etico” in qualità di contenitore di “valori”. Ciò contrasta con l’idea dell’ospedale come semplice luogo di produzione aziendale secondo calcoli economici di tipo privatistico. Quel chirurgo sicuramente esplorerà l’angoscia di chi non ha più speranza e che non si sente ancora pronto alla fine, e discuterà la “compassione” del medico in questo passaggio. Nella stessa “compassione” che letteralmente significa “sentire la sofferenza insieme all’altro” è coinvolto il personale infermieristico e chi svolge il ruolo di care-giver.

Oggi lo Stato, con il PNRR missione 6, certifica un altro “valore”: il diritto del malato alla “prossimità” del luogo di cura e di chi lo cura. Il luogo più prossimo è la propria casa, poi vengono la
Casa della salute e gli Ospedali.
Negli Atti aziendali di varie ASL qualcuno ha cercato di definire quanto deve essere vicina questa “prossimità”. Vi è chi suggerisce che i luoghi di cura debbano essere distanti non più di un chilometro e mezzo dal luogo in cui sorge l’improvviso bisogno di cure; vi sono altri che invece quantificano la distanza in tempi di percorrenza non superiori ai 15 minuti. Secondo questa visione della “prossimità” si esclude l’accentramento esasperato dei servizi ospedalieri nelle grandi città e cresce l’idea che l’ospedale debba tornare alla sua dimensione etica mantenendo il suo radicamento nel territorio.
Il problema è come fare a tornare allo spirito della legge 833 di Tina Anselmi superando le riforme fallimentari che si sono succedute.
In questo periodo storico di indeterminatezza della percezione del senso del diritto, della giustizia e della politica, è stata citata una dichiarazione del giurista Carlo Arturo Jemolo. Egli ha sostenuto che la Carta costitutiva dell’ONU, così come la Costituzione Italiana, pur piene di buoni principi, sono destinate a rimanere “pezzi di carta” se non esiste un’Istituzione che le faccia rispettare.
La differenza tra quella prima riforma e le successive sta nel fatto che la 833/78 conteneva al suo interno un Istituto di controllo con funzioni assimilabili all’idea di Jemolo.
L’Istituzione in oggetto era rappresentata dal Presidente della ASL e dal Comitato di gestione. Nella nostra esperienza i componenti erano tutti consiglieri comunali delle 23 città del Sulcis e dell’Iglesiente. Gli assistiti allora erano abbastanza soddisfatti dei loro ospedali. Eppure allora avevamo meno medici di oggi. Al Sirai c’erano una trentina di medici contro il centinaio degli attuali. Ad Iglesias i rapporti erano simili. Si dovrebbe concludere che quei consiglieri comunali fossero dei geni del management sanitario. Invece no. Non avevano alcuna formazione in sanità, però avevano una grande capacità politica di interpretare i bisogni del personale sanitario e dei malati. Essi non si sostituivano al personale dell’apparato amministrativo ma facevano rispettare i valori umani di cui erano rappresentanti: la dignità, la sicurezza, la speranza, la condivisione, il coraggio, la compassione e, soprattutto, avevano l’umiltà di ascoltare. Quella capacità di “ascolto” in seguito si attenuò fino a scomparire. Dall’umanizzazione della Sanità pubblica si passò all’ingegnerizzazione della Sanità.
La lettura accurata delle leggi sanitarie di oggi fa emergere la centralità di un nuovo complicatissimo apparato burocratico. Vi si possono leggere centinaia di pagine che descrivono processi, uffici e commissioni, senza mai incontrare le parole: medico, infermiere, malato. Queste tre figure che dovrebbero essere centrali, si trovano invece alla periferia dei programmi; talvolta non sono neppure alla periferia, sembra che proprio non ci siano.
La sede di comando del potente apparato burocratico centrale è un luogo indefinibile della mente, impenetrabile, distante fisicamente e psicologicamente. E’ avvolto da una forma di indeterminatezza e di estraneità per cui è difficile instaurare quei sentimenti empatici che invece con i politici locali erano la norma. La sensazione che ne risulta è che il nuovo sistema sia respingente, come se si trattasse di una corazzata impenetrabile che non lascia spiragli per accedervi.
Leggendo gli atti, si ha la sensazione che tale apparato sia inaccessibile ed escludente pure per i Direttori generali, a cui sono preclusi tutti i poteri essenziali per la reale gestione della ASL, come la facoltà di assumere personale ed acquistare strumentazione con decisioni indipendenti.
Perdendo i nostri sindaci e i nostri politici locali alla guida della sanità, abbiamo perso la cinghia di trasmissione che ci faceva entrare in contatto con i vertici. Ormai siamo al di fuori della possibilità di controllo di questa entità superiore.
Sicuramente non è un’esperienza nuova nella storia dell’uomo.

Nel 15° secolo un rappresentante dell’Aragona davanti alla Cortes catalana espresse al re un giuramento di obbedienza in questi termini: «Noi che siamo leali come lo sei tu, giuriamo a te, che non sei migliore di noi, di accettarti come nostro re e signore sovrano, purché tu rispetti le nostre libertà e le nostre leggi; ma se non le rispetti, non ti riconosciamo». Da “La Spagna imperiale. 1469-1716” di John Elliott.

Mario Marroccu

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La storia del Sistema Sanitario del Sulcis Iglesiente è legata intimamente all’evoluzione dello spirito di appartenenza a questa terra. Per raccontarla, è necessario partire da lontano ed arrivare fino al 2020. Pazienza! E’ una rapida passeggiata un po’ letteraria e molto storica.

Il più antico “Popolo sardo” organizzato politicamente fu quello dei “Nuragici”. Tutto iniziò nel 1800 avanti Cristo. Nel 1100 avanti Cristo i sardi cessarono di costruire nuraghi e iniziarono a scomparire. Mistero storico. Fu a causa di un’epidemia? Oppure fu l’effetto di una crisi di mercato, perché si stava passando dall’età del bronzo a quella del ferro?
Al tempo dei nuraghi la Sardegna era totalmente popolate e dedita ad attività minerarie e metallurgiche. La densità delle sue torri sono il segno certo che era ricca. Lucrava sul commercio di qualcosa che produceva in abbondanza: il bronzo. L’ottimo bronzo sardo era molto richiesto in tutto il Mediterraneo per forgiare armi.
Praticamente nel 1.200 avanti Cristo, il bronzo sardo armò la Prima Guerra Mondiale della storia: la Guerra di Troia. E dove c’è guerra ci sono medici.
Guardate le armi di bronzo nuragico che sono esposte nel Museo Archeologico “Giovanni Antonio Sanna” di Sassari. Sembrano fatte ieri. Hanno la forma della “foglia di ulivo”. Esattamente simili sono state riprodotte dai consulenti storici per il film “Troy” con Brad Pitt.
La Guerra di Troia iniziò male: con un’epidemia. Morirono di febbre, e infezione alle vie aeree, tanti guerrieri greci che Agamennone, per motivi di “igiene pubblica” dovette far cremare sulle pire allestite davanti alla marina di Troia.
Nell’Iliade vengono descritti 148 tipi diversi di traumi da spada, lancia, o freccia. I chirurghi che in quel conflitto bellico curavano i feriti erano nientedimeno che i figli di Esculapio: Macàone e Podalirio.
Allora la chirurgia era arte divina. Pindaro, parlando di quei Medici nel settimo secolo avanti Cristo, scriveva nelle “Odi”: «E quanti vennero da lui….feriti nelle membra dal lucido bronzo o dal getto di pietre,… fasciando le membra…altri con azioni chirurgiche rimise in piedi».
Durante la Guerra di Troia, il medico Macàone fu ferito da freccia troiana e subito venne soccorso da due Re: Idomeneo e Nestore, perché, come dice Omero: «Uomo guaritore vale molti uomini a estrarre dardi, e spargere blandi rimedi».
Nei millenni la considerazione del Medico rimase sempre elevata. Ebbe un crollo solo durante la peste del 1347-48, quando i medici fallirono i risultati sperati. La peste prevalse su tutti ed il poeta Francesco Petrarca, offeso per la morte dell’amata Laura De Sade, scrisse libelli feroci contro tutta la categoria.

La professione medica fin dall’inizio si specializzò. Vi furono gli specialisti nel “taglio della pietra” (urologi), gli specialisti della cataratta( oculisti), gli specialisti delle “malattie interne”, gli specialisti in “craniotomia” (neurochirurghi), e poi i “raddrizzatori di bambini storpi”. Quest’arte si chiamava “ortho” (raddrizzo), “peideia” (bambino). Da cui l’origine del nome “Ortopedia” per la specialità che aggiusta lo scheletro.

Non sappiamo quasi nulla sulla medicina dell’Alto Medio Evo nel Sulcis Iglesiente. Sappiamo che gli ammalati peregrinavano verso la tomba del Santo Medico Antioco e che attorno alla basilica vi erano tante casette per ospitare i malati richiedenti la guarigione: le “cumbessias” o “muristenes”.
Troviamo tracce di attività medica nella chiesetta bizantina altomedioevale di San Salvatore, ubicata nella periferia di Iglesias. Si sa che ospitava viandanti richiedenti cure per cui si spiega la presenza dell’”orto dei semplici”. Era il luogo dove i monaci (Benedettini o Basiliani) coltivavano le erbe medicamentose per produrre unguenti e pozioni galeniche. Nel terreno circostante sono state trovate tracce di inumazioni in terra nuda.
A San Giovanni Suergiu, vi è una chiesetta edificata dopo le Crociate dai monaci Giovanniti. Ricordiamo che i Giovanniti fondarono l’ospedale di San Giovanni Battista di Gerusalemme col permesso del Sultano del Cairo, e vi curarono i pellegrini cristiani che venivano dall’Europa. Alla fine delle Crociate vennero allontanati dalla Palestina e si insediarono in loro possedimenti in Sardegna. Qui nel Sulcis continuarono la loro missione di curare gli “infirmi et pauperes Christi”. Sulla facciata della chiesetta di San Giovanni si riconoscono le incisioni di “croci di Malta” e i fregi che ricordano le cupole delle moschee di Omar e di Al Aqsa, della spianata dei templi di Gerusalemme.
Queste sono le poche tracce di attività medica nel Sulcis Iglesiente nel Medio Evo.
La crescita della Chirurgia in Europa rimase bloccata, a causa dell’altissima mortalità, fino alla seconda metà del diciannovesimo secolo. Solo allora, dopo la scoperta dell’esistenza dei “microbi”, si capì la necessità della “disinfezione” e, dopo la scoperta dell’“anestesia”, si poté operare “senza dolore”. I chirurghi cominciarono ad operare, per la prima volta, l’addome e la pelvi femminile temendo meno le setticemie mortali perioperatorie. Contemporaneamente iniziò lo sviluppo moderno degli Ospedali. Il più grande impulso allo sviluppo della chirurgia, soprattutto traumatica, avvenne con la Prima Guerra Mondiale. Lì si formarono i primi chirurghi dei nostri primi Ospedali.

Con la chirurga addominale e pelvica, decollò la chirurgia degli arti. Questa fu promossa in Italia da Alessandro Codivilla (m. 1912) che fu direttore dell’Ospedale Ortopedico Rizzoli di Bologna. Tutt’oggi il Rizzoli appare al visitatore con tutta la sua vecchiezza strutturale di fine ‘800. Da lì passò l’ortopedia mondiale, e la migliore ortopedia italiana in assoluto. Codivilla fece una invenzione rivoluzionaria: il “Chiodo di Codivilla”.
Si trattava di un’anima metallica da introdurre nel canale dell’osso fratturato. Attorno ad esso si sarebbe formato il “callo osseo”. Ciò comportava la guarigione con ossa ben raddrizzate (fatto raro) e consentiva l’eventuale allungamento dell’osso accorciato da un callo osseo venuto male. Il nuovo obiettivo dell’Ortopedia insegnato da Codivilla al mondo, era il “recupero funzionale” dell’arto.
Con la tecnica di Codivilla, si iniziarono a trattare le folle di portatori di deformità congenite ed acquisite: piedi torti, ginocchi valghi e vari, lussazioni dell’anca, paralisi infantili, tare eredoluetiche, gibbi cifoscoliotici, colli torti. A questi si aggiungeva il numero enorme di deformi procurati dalle due piaghe sociali dell’epoca: la tubercolosi ossea e il rachitismo; malattie incurabili e dal destino triste.

Già ai primi del ‘900 avevamo in Italia ben 40 “Ospedali marini” per la cura medica e chirurgica della TBC ossea. Lo sviluppo minerario dell’Iglesiente aveva introdotto la necessità di fornire un’adeguata assistenza ortopedico-traumatologica ai minatori. Quando esplose la protesta dei minatori nel settembre 1904, a Buggerru esisteva un ospedale per i traumi da miniera. L’organico comprendeva tre Medici con competenze chirurgiche ortopediche, e personale femminile per l’assistenza al parto. L’ospedale era molto attivo anche nell’assistenza alla popolazione civile; vi erano allora circa 8.000 abitanti, quando Cagliari ne contava circa 50.000. I casi più gravi venivano trasportati ad Iglesias in carrozza. Iglesias prima di questo periodo aveva avuto una struttura ospedaliera basso-medioevale citata da documenti dell’epoca: si trattava dell’ospedale di “Santa Lucia”, che poi prese il nome di “Santa Chiara”.
Tra le due Guerre Mondiali del ‘900, dopo la Guerra d’Etiopia e le “Inique Sanzioni” fu evidente che l’Italia doveva dotarsi di una sua fonte autarchica di energia, così prese vita il progetto di sviluppo del  bacino carbonifero del Sulcis. Le miniere metallifere dell’Iglesiente e le carbonifere del Sulcis furono la nuova frontiera del lavoro in Italia. Il numero complessivo di abitanti delle due città sfiorava i centomila. L’età media era molto giovane ed era costituita da una moltitudine di minatori del sottosuolo e operai di superficie. Gli incidenti sul lavoro erano molto frequenti. L’Inail nel 1946 inaugurò l’Ospedale CTO di Iglesias e lo rafforzò di Traumatologi e Chirurghi generali a costituire un avanzato “Trauma Center” dove si affrontavano tutti gli effetti di un trauma: dalle fratture dello scheletro alla rottura di milza e di fegato ed i traumi cranio-encefalici. Doveva essere una Traumatologia a tutto campo. Il Governo dispose che negli ospedali minerari di Iglesias e Carbonia operassero i migliori chirurghi traumatologi della Nazione. A Carbonia il Chirurgo generale con competenze neurochirurgiche arrivò dalla Patologia chirurgica dell’Università di Napoli: il professor Ignazio Scalone. Rimase un anno a dirigere l’ospedale di piazza Cagliari, a Carbonia. Di lui restano testi di chirurgia del cervello e del cervelletto, per la cura di lesioni craniche provocate da arma da fuoco, scritti alla fine della Prima Guerra Mondiale. Con l’uscita del dottor Scalone, il primariato di Chirurgia generale venne conferito al dottor Gaetano Fiorentino; egli affidò l’Ortopedia e Traumatologia al dottor Schirru. Questi era un medico di eccezionale valore. Dopo una quindicina d’anni di esperienza in traumi a Carbonia, si trasferì negli Stati Uniti. Dopo 30 anni, il dottor Schirru tornò in Italia e si presentò al nuovo primario del Sirai, il prof. Lionello Orrù, a cui raccontò la sua storia americana: era diventato Direttore sanitario di un enorme ospedale di 3.000 posti letto a Washington, e ne dirigeva il reparto di Ortopedia. Arrivato alla pensione, gli era comparsa un’ernia inguinale. Per tale motivo pensò di tornare in Sardegna, a Carbonia, per farsi operare. Non si fidava del modo di operare l’ernia degli americani. Voleva essere operato da un chirurgo italiano. Una volta operato a Carbonia tornò a Washington.
Ad Iglesias, il primario chirurgo generale era il dottor Falqui. Al CTO vennero inviati chirurghi ortopedici di vaglia formati al Rizzoli di Bologna.
Dopo Codivilla, fu direttore del Rizzoli il professor Vittorio Putti (m. 1940). Fu chirurgo eccellentissimo che già nel 1919 veniva conteso all’Italia dalle maggiori istituzioni medico-chirurgiche statunitensi. Quando andava in America veniva, per i suoi miracoli ortopedici, ricevuto solennemente, come si conveniva alla sua fama.
Con la scomparsa del professor Putti, la direzione della chirurgia ortopedica del Rizzoli venne affidata al professor Francesco Delitala, nato a Orani in provincia di Nuoro, che aveva insegnato Ortopedia all’Università di Napoli, poi in quella di Padova e, infine, diresse il Rizzoli. Fu grande esperto della chirurgia dell’ernia del disco intervertebrale e della spalla. Morì a Bologna nel 1983.
Fu un allievo di Delitala il professor Cabitza di Cagliari. Questi, successivamente, diresse la Clinica Ortopedica Universitaria di Cagliari e l’ospedale Marino del Poetto.

Contemporaneamente, studiavano e operavano al Rizzoli, sia il dottor Giuseppe de Ferrari sia il dottor Italo Cao. Ambedue divennero professori di Ortopedia e Traumatologia e diressero il CTO di Iglesias. Il CTO (Centro Ortopedico Traumatologico) di Iglesias riprodusse in Sardegna le altissime competenze chirurgiche del Rizzoli di Bologna costituendo, nel Sistema Sanitario del Sulcis Iglesiente, un pilastro fondamentale della Sanità.
I successori di questi Maestri, diressero poi il CTO e l’Ortopedia di Carbonia e di Iglesias fino ai giorni nostri.
Il seme prezioso di quei grandi ortopedici è ancora tra noi.
Come si vede la discendenza di scuola è di altissimo livello.
Non può essere perduta.
Questa ricostruzione tratta dai libri di storia della Medicina è una conoscenza che deve costituire patrimonio dei cittadini del Sulcis Iglesiente. Tale eredità deve essere protetta dall’operazione “contabile” che sta trasferendo il nostro patrimonio sanitario in città lontane.

E’ incredibile. Quando eravamo “poveri” eravamo molto più “ricchi” in Sanità.

Mario Marroccu

Nella fotografia, da sinistra: dottor Giuseppe Porcella, dottor Renato Meloni, il sig. Cuccuru capo degli infermieri, dottor Gaetano Fiorentino, don Luigi Tarasco e dottor Luciano Pittoni.