19 March, 2024
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Il disastro sanitario ed economico del Sulcis Iglesiente non è nato dal nulla. Ha radici nei fatti politici del 1992. E’ utile fare un viaggio nella storia di quegli eventi sia per capire e, forse, per porre qualche riparo.
Lo stato di salute della sanità pubblica è oggi talmente grave e la sua gravità è talmente complessa che, a questo punto, è difficile anche il solo sospettare che veramente esista fisicamente qualcuno che abbia programmato tanto degrado. Dovrebbe essere un genio fornito di una maligna intelligenza superiore.
Ammesso che esista un soggetto del genere, a che scopo lo avrebbe fatto? C’è chi sostiene che il danno al servizio sanitario nazionale sia stato progettato da un’ignota organizzazione al fine di favorire la sanità privata. Sarebbe un’organizzazione di matti veramente sciocchi perché sostituirsi del tutto alla Sanità pubblica non conviene a nessuno. Per esempio: a chi converrebbe accollarsi i malanni di tutti i vecchi d’Italia, soli, inguaribili e con in tasca i pochi soldi per la sopravvivenza? A chi converrebbe l’onere di assistere tutti i malati di cancro, debilitati nel fisico, nella famiglia e, soprattutto, nel conto in banca? Chi glielo farebbe fare ad assumersi l’impegno di prendersi in cura i pazienti in Rianimazione in uno stato di coma più o meno profondo? Perché dovrebbero pagare le ingenti spese dei trapianti d’organo a pazienti senza speranza e non solvibili? E gli infarti del miocardio? E tutti i casi di diabete ai limiti della invalidità? E i tossicodipendenti? E le malattie rare? I morti sul lavoro? E gli psichiatrici? E gli incidenti stradali? Chi glielo farebbe fare ad assumersi il compito costosissimo di affrontare le epidemie tipo Covid-19 o le campagne vaccinali, o le spese dell’Inail e dei Pronto soccorso?
Gli imprenditori privati non sono matti. A sé riservano le cliniche dove si curano le malattie, tutto sommato, più semplici, facili, guaribili e, soprattutto, di pazienti solventi. Ciò che compete alla Sanità pubblica è diversissimo da ciò di cui si occupa la sanità privata.
E’ assolutamente vero che negli Stati Uniti d’America esistono le assicurazioni private costosissime che si limitano a poche malattie e per tempi di cura molto limitati; in genere non pagano le spese del pronto soccorso o fanno dimettere i malati dopo tre giorni da un intervento a cuore aperto, per risparmiare sulla degenza in ospedale. Bisogna sapere che in America esiste anche una Sanità pubblica, che si chiama “Medicare”, a beneficio di chi non può pagarsi l’assicurazione privata e che, oltre ad essere molto carente, costa allo Stato il doppio di quanto costa il Sistema sanitario italiano. A questo punto, oltre al sospetto che dietro ci sia l’interesse di qualcuno, potremmo anche considerare il sospetto che dietro il nostro disastro sanitario ci sia in realtà qualche grosso errore commesso da politici poco accorti. Può anche essere accaduto che la grande Riforma sanitaria varata col DPR 833 del 1978 si sia inceppata a causa di leggi successive fatte male; può anche darsi che quelle nuove leggi non siano state lette con attenzione e che i votanti abbiano votato senza vedere gli errori che hanno prodotto queste conseguenze.
Anche questo sospetto, paradossalmente, è sommamente ingiusto, perché è anche vero che i politici italiani furono i primi al mondo a riconoscere nella Costituzione del 1948, all’articolo 32, il diritto di tutti alla salute. Quell’articolo, nella sua semplicità e completezza, fu uno degli elaborati intellettuali più geniali che un Costituente potesse generare: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti». Fu una frase rivoluzionaria contenente due principi: l’inviolabilità assoluta del diritto alla salute e la certificazione che tale bene è di rilevanza collettiva. Così fu sancita la solidarietà nazionale. Altro che privatizzazione! Altro che svantaggio a danno dei molti che non possono permettersela! Tutte le leggi che vanno contro questo principio sono incostituzionali e, se qualcuno avesse votato nuove norme contrarie a questo principio per disattenzione, sarebbe gravemente colpevole.
Esaminiamo cosa è avvenuto nella storia delle Riforme sanitarie italiane. Nell’anno 1968 la legge Mariotti istituì gli “Enti ospedalieri” che sostituirono gli ospedali caritativi provenienti dalla tradizione ospedaliera medioevale. La stessa legge istituì il “Fondo ospedaliero nazionale” e attribuì la competenza di gestione degli ospedali alle Regioni. Quel Fondo e quella legge ospedaliera furono la base su cui si costruì la Grande Riforma sanitaria con la legge 833 del 1978, concepita dalla Commissione parlamentare di Tina Anselmi. Ella raccontò in quei giorni che quell’idea era nata da discussioni e progetti formulati da gruppi partigiani riuniti intorno ai fuochi dei bivacchi di montagna. La legge 833/78 rappresentò un’utopia che si concretizzava in un documento scritto. Il sogno prese forma nella premessa della legge nel cui testo sta scritta la frase: «…Il Sistema sanitario nazionale è costituito dal complesso delle funzioni, delle strutture (ospedali), dei servizi e delle attività destinate alla promozione, al mantenimento, e al recupero della salute fisica e della salute psichica di tutta la popolazione». In nessuna legge del mondo era mai stata scritta questa premessa.
Mentre gli ospedali, dal medioevo al ‘900, erano stati sempre amministrati da comitati caritativi religiosi o filantropici, nella nuova legge si volle che gli ospedali fossero amministrati da rappresentanti popolari democraticamente eletti. Fu una rivoluzione. I cittadini, dopo 1.500 anni dall’istituzione degli ospedali dai tempi di San Benedetto e San Basilio, divennero per la prima volta i proprietari e gestori diretti degli ospedali. La comunicazione fra cittadino e gestore divenne immediata perché il Sistema venne dato in mano ai sindaci e ai consiglieri comunali. Essi avevano il compito di eleggere l’”Assemblea generale” che era formata da consiglieri comunali e l’Assemblea eleggeva il presidente della Usl (Unità sanitaria locale). Furono gli anni più produttivi della storia sanitaria italiana.
Scomparvero le Casse mutue e comparve il Ssn (Sistema sanitario nazionale), finanziato dal sistema fiscale universale. Ne conseguì anche che ai grandi miglioramenti si associò il crescere della spesa pubblica dello Stato. Per contenerla il ministro Carlo Donat Cattin nel 1987 abolì l’Assemblea generale ma mantenne il presidente della Asl e il Comitato di gestione, eletto dai sindaci dei Comuni del territorio.
Secondo gli indicatori economici internazionali, l’Italia godeva di un generale benessere economico tanto che nell’anno 1991 venne dichiarata quarta potenza industriale del mondo e il PIL pro capite risultava superiore a quello dell’Inghilterra.
Appena un anno dopo, la Repubblica entrò nel suo “annus horribilis”: il 1992. La commissione governativa presieduta dall’economista Piero Barucci rivelò che l’economia era al collasso a causa di un imponente debito pubblico causato dalle Partecipazioni statali. Eni, Enel, Iri, Ina, Efim, stavano portando al tracollo lo Stato. L’indebitamento aveva messo in crisi il Governo espresso dal CAF (Craxi-Andreotti-Forlani). Caduto il Governo Andreotti II e dimessosi Francesco Cossiga, si andò a nuove elezioni sotto l’effetto dell’esplodere dello scandalo di Tangentopoli. A febbraio era iniziata l’indagine della procura di Milano diretta da Francesco Saverio Borrelli e condotta da Antonio di Pietro, in seguito alle rivelazioni di Mario Chiesa, il direttore del Pio Albergo Trivulzio. Oscar Luigi Scalfaro, sostenuto dalla corrente dei “moralizzatori”, venne eletto presidente della Repubblica e immediatamente indisse le nuove elezioni; queste avvennero ad aprile contemporaneamente all’esplosione della sfiducia popolare nei partiti storici, in un clima di forte instabilità politica. I partiti tradizionali crollarono ed emerse la Lega Nord che passò da 2 a 80 deputati. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiutò di concedere incarichi di Governo a Bettino Craxi e nominò presidente del Consiglio il deputato Giuliano Amato. La Prima Repubblica era finita con un’ondata di arresti e di avvisi di garanzia. A maggio, ad opera della mafia, avvenne la strage di Capaci, seguita due mesi dopo da quella di via d’Amelio. Lo Stato era preso fra molti fuochi. Giuliano Amato si trovò ad affrontare una condizione di dissesto economico più grave dal dopoguerra ad allora. Si correva il rischio di non poter pagare gli stipendi pubblici. La Nazione si sarebbe fermata.
La Banca d’Italia fu costretta a vendere 48 miliardi di dollari per difendere il cambio e la lira fu svalutata del 30%. La lira uscì dallo Sme (Sistema monetario europeo); era il 16 settembre 1992, il “mercoledì nero”. Giuliano Amato per sostenere le casse dello Stato procedette al “prelievo forzoso” retroattivo del 6 per mille dai conti correnti degli italiani e, in base alle indicazioni del ministro del Tesoro Piero Barucci, dette avvio ad una grande operazione di privatizzazione delle Partecipazioni statali (banche, energia elettrica, trasporti pubblici, Alitalia, industrie manifatturiere, industrie dell’acciaio, comunicazioni, poste, idrocarburi, assicurazioni, agroalimentare, etc.). Lo Stato si spogliava di tutte le sue pregiate proprietà, nell’intento di allontanare la politica dalla gestione delle imprese statali. Su tutta la gestione pubblica, sotto l’effetto delle indagini di Tangentopoli, cadde il sospetto di possibile collusione con la corruzione e vennero varate leggi e norme fortemente restrittive nell’intento di arginare l‘idea che il malaffare fosse in agguato ovunque ci fosse la gestione del politico. In questo crollo finirono anche le miniere del Sulcis Iglesiente e le industrie di Portovesme espressione dell’Eni. Gli operai di Portovesme, per fermare i licenziamenti in massa di oltre 20mila operai promossero la famosa “Marcia per lo sviluppo”. Gli operai iniziarono a marciare il 19 ottobre e, al suono di tamburi di latta, saltarono il mare. Raggiunta Civitavecchia, percorsero a piedi le vie del Lazio fino a Roma, dove vennero accolti da Papa Woytila ma non da Giuliano Amato.
A fine anno, il vortice autodistruttivo coinvolse anche il Sistema sanitario nazionale quando il ministro della Sanità Francesco di Lorenzo il 31 dicembre varò il decreto che iniziò la “privatizzazione” del Sistema sanitario pubblico col DPR 502/1992. Le Unità sanitarie locali (Usl), rette dai sindaci, vennero trasformate in entità rette dai “Direttori generali con autonomia gestionale di diritto privato” nominati dalla Regione all’interno di un elenco di idonei. La “mission” del Sistema sanitario cambiò in modo radicale per due motivi. Primo, i sindaci, che rappresentavano la parte politica, vennero espulsi dalla gestione del sistema sanitario locale; secondo, l’obiettivo dei nuovi amministratori non fu più quello di soddisfare le richieste della popolazione locale ma venne sostituito dall’“equilibrio di bilancio”.
Questo dava ai direttori generali l’opportunità di poter modificare la risposta alle richieste provenienti dal territorio, ignorandone la soddisfazione globale e mettendo al centro il calcolo ragionieristico della salute che doveva ora attenersi a un nuovo criterio: i Livelli essenziali di assistenza (Lea). Oggi, a distanza di 32 anni, sappiamo che tutte le premesse alla legge, che promettevano Uguaglianza, Equità e Prossimità dell’assistenza sanitaria in tutto il territorio nazionale non sono state rispettate. Ciò avvenne a causa della mancanza del “controllore”, cioè la parte politica elettiva rappresentata dai sindaci. Al ministro Francesco di Lorenzo, seguirono le ministre Maria Pia Garavaglia e Rosy Bindi che perfezionarono l’“aziendalizzazione delle Asl”.
Nell’anno 2003 il Governo Berlusconi dettò regole per ridurre la spesa sanitaria dello 0,5% l’anno; ciò comportò il blocco del turn-over del personale andato in pensione e portò all’assottigliamento e disgregazione dei reparti ospedalieri. Col Governo Monti, il ministro Balduzzi emanò norme restrittive per i reparti ospedalieri che, ridotti in povertà di personale dalle norme precedenti, non potevano più funzionare. Ne conseguì la chiusura di ospedali.
Nel 2015 il DM 70 del Governo Renzi pose regole stringenti, basate anch’esse sul risparmio; ne conseguì un peggioramento ulteriore degli ospedali provinciali che portò alla desertificazione del sistema sanitario territoriale a vantaggio della centralizzazione della Sanità. In Sardegna la Sanità pubblica venne centralizzata a Cagliari e Sassari.
Nel 2017 la regione Sardegna, presidente Francesco Pigliaru e assessore della Sanità Luigi Arru, istituì la Ats (Azienda tutela salute). Con tale legge le 8 Asl sarde vennero ridotte a 1 soltanto, che assunse tutte le funzioni delle altre 7. Sopravvissero:
– l’Ats (a Cagliari e Sassari)
– il Brotzu di Cagliari
– il Policlinico Universitario di Cagliari
– il Policlinico Universitario di Sassari
Alle altre 7 Asl venne tolto il nome di “Azienda” e divennero “Aree sanitarie locali”. Erano diventate periferie sanitarie e persero l’autonomia programmatoria e amministrativa precedente. Ne conseguì l’esplosione delle “liste d’attesa” e l’insoddisfazione popolare. Alle elezioni del 2019 la popolazione sarda mandò a casa la Giunta Pigliaru e promosse una nuova maggioranza guidata dalla “Lega” di Matteo Salvini che, capeggiata da Christian Solinas, prometteva di restituire le vecchie ASL alle 8 province sarde. In effetti, la Giunta Solinas produsse rapidamente una sua riforma sanitaria regionale e l’assessore Mario Nieddu varò la legge regionale 24/2020 con cui istituì la Ares (Azienda regionale salute). In realtà però le vecchie Asl non vennero integralmente ricostituite; al posto delle “Aree territoriali sanitarie” vennero identificate le Asl 1-2-3-4-5-6-7-8 che, a parte il nome, non hanno nulla delle precedenti Asl; infatti, non hanno il diritto né di assumere personale, né di far acquisti e programmare. In sostanza non esistono; l’unica vera Azienda capace di programmare e gestire, centralizzando tutti i poteri gestionali, è la Ares di Cagliari e Sassari. Oggi lo stato di degrado direzionale e amministrativo nelle Province è ulteriormente peggiorato e l’insoddisfazione e infelicità dei cittadini sono esplose nelle elezioni regionali del 25 febbraio 2024 con la bocciatura del Governo regionale sardo.
Recentemente un politico esperto ha suggerito di cercare nella legge 833/78 gli strumenti per uscire dalla crisi sanitaria. Quale può essere lo strumento?
Lo strumento che si deve utilizzare nella pubblica amministrazione è sempre lo stesso: il rispetto delle regole democratiche. Queste regole prescrivono che la volontà popolare sia affidata ai propri rappresentanti eletti e, nel territorio, i rappresentati ufficiali dello Stato sono i sindaci. E’ certo che i sindaci non possono entrare nel merito di tutto, ma possono essere i “custodi” degli interessi della gente. Fra questi, oggi, l’interesse più sentito è la Sanità. Dare un nuovo ruolo ai sindaci nelle Asl è fortemente indicato.

Mario Marroccu

La storia che ha preceduto la firma del Piano Sulcis è ampiamente conosciuta, un susseguirsi di vicende che ci ha consegnato il triste primato di provincia più povera d’Italia (allora e forse ancora oggi). Presidente della Regione Sardegna era Ugo Cappellacci e con il Piano voleva «salvaguardare le realtà esistenti e rendere competitivo territorio». Come? Con una commistione di interventi, molti provenienti dal passato, che sin da subito avevano fatto capire che si stava partendo con il piede sbagliato. Insomma un piano senza piano.

Per questo motivo fu duramente criticato dal Governo Monti che invece suggeriva l’indizione di un bando internazionale di idee per il Sulcis, per poi selezionare le migliori per raggiungere il vero obiettivo del Piano di Sviluppo per il Sulcis.

Tra i vari interventi sbandierati in pompa magna c’era il potenziamento delle infrastrutture viarie e portuali, con in testa la riqualificazione del porto di Sant’Antioco quale volano di sviluppo per la nautica d’eccellenza, la cantieristica e la ricettività.

L’invidiabile e strategica posizione al centro del Mediterraneo permette a questo porto di innescare una ripresa socio-economica senza uguali nella storia del nostro territorio. Il settore della nautica è in forte crescita, soprattutto ora che si aggiunge il settore green. Ricordiamo, inoltre, che questo settore lavora e fa lavorare l’indotto 12 mesi l’anno.

Cosa ha fatto il Piano Sulcis dopo 10 anni per viabilità e portualità? Zero riporto zero. Ad oggi ci sono ancora inutilizzati circa 50 milioni di euro recuperati dalla sonora bocciatura del famoso Nuovo Ponte di Sant’Antioco, inventato perché l’attuale stava per crollare (severissime prove di carico, ripetute più volte nel corso degli anni, hanno smentito le voci maligne).

Cosa c’è come progettazione per il porto di Sant’Antioco? Solo una pianificazione studiata 60 anni fa, ovviamente finalizzata al settore industriale e minerario dell’epoca. Nulla che si possa neppure avvicinare alle esigenze attuali. Progetti vecchi, pagati profumatamente con soldi nuovi. Per quanto riguarda la bonifica delle aree ex Sardamag attigue al porto, non si muove uno spillo e la pianificazione urbanistica va contro le aspettative del territorio. Se continua l’attuale indirizzo politico, in queste aree non potranno sorgere la ricettività ed i servizi per il nuovo porto.

L’aspetto positivo di tutta la vicenda è che è ancora tutto risolvibile. Sia chiaro, con la volontà politica di far del bene a questo territorio.

In conclusione, ringrazio di cuore i tre presidenti della Regione Sardegna che di anno in anno si sono fatti scivolare via le redini del Piano Sulcis.

Grazie Presidenti Ugo Cappellacci, Francesco Pigliaru, Christian Solinas e a scendere a tutti i soggetti che, a vario titolo, hanno contribuito a questo clamoroso fallimento tripartisan.

Rolando Marroccu

Portavoce del Comitato Porto Solky – Sant’Antioco

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«Per il Santa Barbara di Iglesias si prevedono importanti interventi strutturali che consentiranno di rispondere all’esigenza di rilanciare un presidio in cui sono stati individuati 12 posti letto in terapia intensiva e 8 di sub-intensiva. All’interno della struttura verranno svolti lavori edili, attività sugli impianti ed è prevista un’importante implementazione delle dotazioni di strumenti ed attrezzature. Un investimento complessivo di circa 3 milioni e 800mila euro. Tutto questo, garantendo il prosieguo di tutti gli altri servizi presenti e ove previsto coinvolgendo l’altro presidio ospedaliero cittadino CTO.»

Lo ha detto il consigliere regionale Michele Ennas (Lega) commentando l’approvazione, da parte del ministero della Salute, del Piano di riorganizzazione della rete ospedaliera in emergenza Covid-19.

«Il Santa Barbaraha aggiunto Michele Ennasè il simbolo della politica fallimentare sulla sanità della sinistra a livello cittadino e a livello regionale. Durante la legislatura del presidente Francesco Pigliaru, PD come il governo cittadino, è passato da ospedale di riferimento del territorio ad ospedale periferico nella rete disegnata da Luigi Arru, completamente abbandonato in termini di manutenzioni nonostante ospiti ancora diversi servizi. Uno scippo, nel silenzio generale. Oggi diventa il simbolo della centralità del nostro territorio nel fronteggiare l’emergenza in atto, inserito assieme ai presidi principali della Sardegna tra quelli destinati a fronteggiare questa importante emergenza sanitaria cominciando a riacquisire un ruolo centrale nella sanità regionale. Ringrazio il presidente Christian Solinas e l’assessore Mario Niedduha concluso Michele Ennascon coerenza stiamo dimostrando di perseguire l’obiettivo di valorizzare la nostra sanità, guardando a tutti i territori.»

 

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«E’ una situazione di profonda emergenza, quello che la Sardegna sta attraversando in questo inizio 2020.» Ad affermarlo è Tore Piana, coordinatore regionale di Energie Per l’Italia, movimento politico che alle ultime elezioni regionali ha sostenuto la coalizione di centrodestra del presidente Christian Solinas, con proprie liste.

«Anche se sono passati ad oggi 9 mesi dall’insediamento di questa maggioranza, non mi sento – aggiunge Tore Piana -, muovere alcuna accusa al presidente Christian Solinas, perché la situazione disastrosa è la piena eredità, lasciata dalla precedente maggioranza di Centro Sinistra a guida Francesco Pigliaru. Da questo mese però le emergenze vanno risolte, sia con provvedimenti di Giunta regionale sia con l’approvazione di specifiche leggi regionali di settore. Il tempo della ricreazione è terminato. La riforma della Sanità è un provvedimento legislativo da portare immediatamente all’approvazione, il giorno dopo l’approvazione della finanziaria regionale. Così come è da definire urgentemente la situazione della continuità territoriale e dei collegamenti sia aerei che navali, la stagione turistico balneare è alle porte e non può in nessun modo regnare l’incertezza di questo momento. La vertenza latte, doveva essere chiusa in tempi precedenti all’inizio della nuova stagione produttiva, invece non si sa per quali motivi, nulla è stato deciso, se non riunioni per decidere il nulla, con rimpalli fra la regione ed il Governo nazionale. Che fine ha fatto Oilos? – chiede Tore Piana -. Perché non si riesce a sapere quali programmi si stanno promuovendo? Così come la definizione della spendita dei fondi in agricoltura previsti dal PSR Sardegna, dove esistono migliaia di pratiche inevase. Ma a preoccupare Energie per l’Italia Sardegna, è anche l’assoluto silenzio sul piano regionale dei rifiuti, dove le discariche principali si stanno esaurendo senza che nessuno abbia idee su cosa fare fra pochi anni. La stessa Legge Regionale sull’Urbanistica, tanto attesa da tutti, dovrà avere una immediata accelerazione ed il varo del “Piano Casa”, da noi ritenuto valido, non potrà colmare a lungo il vuoto legislativo. Insomma un presidente della Regione, che dovrà calzare le scarpette da tennis già dai prossimi giorni, perché da oggi è vietato distrarsi  nella politica del dire ma bisognerà applicare la politica del fare.»

«Come EPI Sardegna, pur non avendo avuto eletti, avevamo pienamente fornito la nostra piena disponibilità a collaborare dall’esterno e lo stesso presidente Christian Solinas aveva promesso una speciale cabina di regia formata da tutte le forze politiche che avevano partecipato alla vittoria, con il compito di discutere e confrontarsi su tutti i maggiori temi e problematiche dell’Isola. Spiace constatare, a noi di Energie per l’Italia Sardegna che a oggi nessuna riunione in tal senso ci ha visto invitati e coinvolti, spiace constatare anche che il presidente Christian Solinas non ha raccolto nostre sollecitazioni formulate via mail e per telefono. Aspetteremo pazienti e fiduciosi sino all’approvazione della legge regionale Finanziaria, passato quel periodo – conclude Tore Piana – ne trarremo le conclusioni e ci renderemo liberi di esprimerci secondo le situazioni che di volta in volta si renderanno opportune.»

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«Dove sono finite le risorse Saremar? Ricordate la flotta Sarda? Ricordate chi era l’assessore regionale dei trasporti ai tempi di quella strabiliante proposta? Ricordate gli effetti disastrosi per i dipendenti Saremar? Noi ricordiamo tutto. L’allora assessore regionale, Cristian Solinas, oggi presidente della Regione, annunciò con giubilo il ritorno della “Regione Armatrice”. Questo sogno si infranse poco dopo non solo con il fallimento di quest’epica avventura ma anche, cosa ancor più grave, con il fallimento della Saremar e la messa a terra di circa 170 dipendenti.»

Lo scrive, in una nota, Luca Pizzuto, segretario regionale di Articolo 1.

«Questo “regalo” se lo trovò tra le mani la Giunta guidata da Francesco Pigliaru che si impegnò per salvaguardare tutti i lavoratori – aggiunge Luca Pizzuto -. L’ultima partita rimasta aperta la passata Giunta la chiuse con la deliberazione 8/30 del 19 febbraio 2019 che integrava precedenti delibere del 2018. Questa delibera permetteva di salvare i “dipendenti con ruolo dirigenziale, operatori delle biglietterie e titolati impiegati nei servizi esterni, lavoratori precari con almeno dieci anni di anzianità presso la ex SAREMAR”. Per ottenere questo ci si avvaleva dell’Agenzia Sarda per le politiche attive – ASPAL, con un finanziamento superiore ai 355mila euro

«Ad oggi tutto tace e ci chiediamo che intenzioni abbiano l’attuale Giunta ed il presidente della Regione. É assurdo che un piano trovato pronto per dare dignità ai lavoratori non venga portato a compimento – conclude il segretario regionale di Articolo 1 -. Chissà, forse i problemi legati alle nomine li sta impegnando troppo distraendoli da quello che per noi rimane il tema più importante di tutti: il lavoro.»

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Continuare e rinsaldare il proficuo dialogo avviato nella precedente amministrazione regionale tra la Regione Autonoma della Sardegna e la Conferenza Episcopale Sarda. Questo l’obiettivo comune di entrambe le Istituzioni che ha caratterizzato il cordiale incontro avvenuto a Cagliari nei locali del Seminario regionale, martedì 10 dicembre, tra il Presidente della Regione Autonoma della Sardegna, Onorevole Christian Solinas e la Conferenza Episcopale Sarda, in occasione della sua riunione ordinaria.

Il confronto è stato introdotto dal Presidente della CES, Monsignor Arrigo Miglio: «Grati al Presidente Solinas – ha detto – per la pronta disponibilità offerta, i Vescovi della Sardegna intendono farsi interpreti presso il massimo organismo amministrativo della Regione di alcune istanze emergenti in questo momento dalle comunità cristiane della Sardegna. Contestualmente, i Vescovi sono interessati ad ascoltare quanto l’Amministrazione regionale si attende da parte della Chiesa sarda, in termini di apporto alla società e alle Istituzioni».

Piatto forte dell’incontro è stato il Protocollo d’intesa siglato il 22 settembre 2016, tra la Regione Sardegna nella persona dell’allora Presidente Francesco Pigliaru e la Conferenza Episcopale Sarda, nella persona del Presidente Monsignor Arrigo Miglio. Il protocollo è articolato attorno a tre ambiti: patrimonio ecclesiastico e beni culturali – inclusione sociale e sanità – formazione professionale, istruzione e lavoro. Il Protocollo prevede, sul piano operativo, una cabina di regia bipartisan, supportata da tre tavoli di lavoro per i rispettivi ambiti. Altri temi affrontati sono stati quello delle scuole paritarie cattoliche, quello delle scuole professionali, il cui ridimensionamento ha lasciato ai margini una folta schiera di ragazzi e giovani, che non intendono proseguire gli studi superiori e universitari e che, per contro, non hanno alcuna possibilità di prepararsi ad alcuna professione. Non è mancato nemmeno un accenno all’attuale situazione della sanità, alle lunghe liste d’attesa, alla mancanza di personale e di servizi essenziali, soprattutto nelle zone più disagiate geograficamente ed economicamente. Da ultimo si è pure accennato ai servizi assicurati dalla Chiesa sarda, attraverso la Facoltà Teologica, gli Istituti Superiori di Scienze Religiose di Cagliari e Sassari-Tempio.

Il Presidente Solinas ha preso nota di tutti gli interventi e dei temi affrontati, esponendo un’ampia e articolata informazione su quanto la Regione sta mettendo in atto per dare risposte adeguate ai problemi esposti. In particolare, si è detto disponibile a «mantenere fermo e costante il rapporto con le Diocesi sarde affinché tutti gli interventi realizzati attraverso la collaborazione con la Regione siano adeguati e produttivi per la nostra gente».

Circa il Protocollo d’intesa si è detto disponibile a concordare con la CES gli aggiustamenti necessari per snellire le procedure e dare piena attuazione agli obiettivi prefissati. Grande interesse, ha aggiunto, vi è nell’Amministrazione regionale per il ruolo sociale e formativo degli oratori parrocchiali, nonché per quel ricco patrimonio culturale, storico e artistico della Chiesa, dai notevoli risvolti sulla cultura e sull’economia della Sardegna. Dicendosi soddisfatto dell’incontro, alla fine, il Presidente Solinas ha chiesto ai Vescovi e alla Chiesa sarda «un fattivo contributo per contrastare lo spopolamento, per restituire dignità al lavoro e per una riscrittura del sistema della formazione professionale che sia in grado di contrastare l’abbandono scolastico».

Sebastiano Sanguinetti

Segretario CES

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«Nessuna proroga alla Sinergest per la gestione della stazione marittima e delle aree portuali di Olbia che, a partire dal nuovo anno, ritorneranno in capo esclusivamente all’”Autorità di sistema portuale del mare di Sardegna” che opererà tentando di coinvolgere i lavoratori della ormai ex concessionaria, partecipata al 51% da Moby, dal comune di Olbia (circa 20%) e da altri operatori privati.»

È questa, in sintesi, la posizione espressa dal presidente della Port Authority, Massimo Deiana, nel corso della audizione davanti alle commissioni Lavoro e Trasporti, riunite in seduta congiunta, per approfondire la situazione creatasi nello scalo marittimo gallurese all’indomani della mancata partecipazione all’”avviso esplorativo di sollecitazione al mercato per proposte di finanza di progetto”, bandito lo scorso 10 giugno. L’ex assessore dei trasporti nell’esecutivo guidato da Francesco Pigliaru nella passata Legislatura, ha quindi ribadito la volontà dell’ente di ricercare “proposte progettuali di parternariato pubblico-privato” ma ha sottolineato che le eventuali proposte di project financing dovranno essere in linea con “i parametri indicati nell’avviso esplorativo” e rispettare le disposizioni in materia ad incominciare da quelle che riguardano i cosiddetti diritti di porto che, al contrario di quanto è accaduto all’Isola bianca (sono incassati da Sinergest e quindi trasferiti in minima parte all’autorità portuale) dovranno essere direttamente introitati dall’Authority. Il professor Massimo Deiana ha inoltre spiegato che per la gestione dei servizi di interesse generale ai passeggeri e dei parcheggi, non è escluso, a partire dal Primo gennaio 2020,  il coinvolgimento di operatori esterni e, sollecitato anche dagli interventi dei consiglieri Roberto Li Gioi e Desirè Manca (M5S), Giuseppe Meloni (Pd) e Antonio Piu (Progressisti), ha confermato però l’impegno a salvaguardare il futuro occupazionale dei lavoratori della Sinergest («si tratta di personale formato e competente nel lavoro in banchina»).

Il presidente dell’Autorità portuale ha quindi comunicato di aver avuto un incontro con i sindacati ed ha confermato l’appuntamento del prossimo 28 novembre richiesto dalla Sinergest: «La società resterà fuori dalla gestione dello scalo ma siamo pronti ad ascoltare eventuali proposte progettuali, allo stesso modo di come valuteremo quelle di altri operatori, in vista di ulteriori procedure ad evidenza pubblica».

A conclusione dell’audizione del professore Massimo Deiana, le due commissioni, sempre in seduta congiunta, hanno ascoltato il direttore facente funzioni dell’agenzia Forestas, Salvatore Mele, che ha ribadito le difficoltà nell’attivazione delle procedure per la chiamata dei cosiddetti trimestrali nei cantieri ricadenti nei territori dei comuni di Bono, Bottida, Alà dei Sardi e Monti. Contrariamente a quanto sostenuto dai sindaci dei quattro paesi nel corso di una precedente audizione, il dottor Mele ha escluso la possibilità di un ricorso ai trimestrali, per effetto della sentenza emessa dal tribunale di Nuoro lo scorso agosto che, riferendosi ai lavoratori semestrali, ha stabilito “l’illegittimità dei contratti a termine nei contratti di lavoro” stipulati da Forestas.

A conclusione degli interventi dei presidenti Giuseppe Talanas e Alfonso Marras e dei consiglieri, Francesco Stara (Italia Viva), Daniele Cocco (Leu), Giuseppe Meloni (Pd), Desirè Manca (M5S) e Giovanni Satta (Psd’Az) si è ipotizzato un intervento normativo ad hoc, così da consentire il ripristino delle chiamate a tempo determinato.

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«La battaglia per l’insularità si vince a Bruxelles con al fianco il governo italiano e costruendo un’alleanza strategica che coinvolga le isole del Mediterraneo, ad incominciare dalla Corsica e le Baleari.»

Lo ha affermato l’ex presidente della Regione, Francesco Pigliaru, ascoltato questa mattina dalla commissione speciale “per il riconoscimento dell’insularità”, presieduta dal capogruppo dei Riformatori sardi, Michele Cossa. «Non serve reclamare ulteriori stanziamenti – ha spiegato il professore dell’Università di Cagliari – ciò che serve alla Sardegna è la modifica dei regolamenti comunitari che la penalizzano, ad esempio nel settore dei trasporti e dell’energia, e che riguardano, principalmente, i cosiddetti aiuti di Stato».

«L’isola però non parte da zero – ha aggiunto Francesco Pigliaru – perché dallo scorso febbraio il presidente del Consiglio dei ministri, Giuseppe Conte, ha nella sua disponibilità la lettera che il sottoscritto, insieme al presidente della Corsica, Simeoni e a quello delle Baleari, Armengol, ha trasmesso ai capi di governo di Italia, Francia e Spagna, per richiedere all’Unione Europea la piena applicazione all’articolo 174 del trattato di funzionamento dell’Ue e consentire così alle regioni insulari di mitigare gli svantaggi che ci derivano dalla discontinuità territoriale.»

L’ex presidente del centrosinistra in Regione, sollecitato anche dagli interventi dei consiglieri Nico Mundula (FdI), Antonello Peru (Cambiamo!), Giuseppe Meloni (Pd) è Francesco Agus (Progressisti) ha quindi avuto modo di illustrare le principali azioni condotte nella passata legislatura ed ha evidenziato alcuni positivi risultati del “Patto per la Sardegna”, a suo tempo siglato con l’allora premier Matteo Renzi («gli stanziamenti per l’energia con il metano, per la continuità territoriale e la rete ferroviaria, sono ispirati dal concetto di insularità») nonché la necessità «di ribadire la richiesta di deroghe al livello europeo nell’applicazione delle stringenti norme in materia di aiuti di Stato».

«I documenti dell’Unione europea – ha concluso Francesco Pigliaru – dovrebbero avere sempre una valutazione oggettiva delle conseguenze che producono nelle isole e dobbiamo agire tenendo sempre a mente che i costi dell’insularità si riferiscono sempre a costi di servizi erogati a rete.»

Il presidente della Commissione speciale, Michele Cossa, dopo aver ringraziato il professor Francesco Pigliaru e ribadito la linea di azione del parlamentino per l’insularità («l’obiettivo principale resta il riconoscimento in Costituzione ma dobbiamo incidere su tutte le norme e i regolamenti italiani ed europei per vedere riconosciuti i diritti dei sardi») ha preannunciato l’invito alla partecipazione in audizione anche per gli altri ex presidenti della Giunta regionale e per i Parlamentari eletti nell’Isola.

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La sala conferenze del Centro Ricerche Sotacarbo, nella Grande Miniera di Serbariu, ha ospitato stamane un seminario di approfondimento sullo stato di avanzamento del Piano Sulcis, per delegati e dirigenti delle federazioni territoriali del Sulcis Iglesiente, organizzato dalla CISL Sulcis Iglesiente.

I lavori, dopo la proiezione di un filmato sulla nascita di Carbonia e di quella del polo industriale di Portovesme, seguita alla chiusura delle miniere, sono stati aperti dalla relazione introduttiva del commissario UST Sulcis Iglesiente, Piero Ragazzini. Tore Cherchi, ex coordinatore del Piano Sulcis, ha svolto un’ampia relazione sullo stato di avanzamento dell’importante strumento che con uno stanziamento di oltre un miliardo e 200 milioni di euro, 805 milioni dei quali di fondi pubblici, prevede una lunga serie di interventi in vari settori: dai programmi destinati  alla salvaguardia dell’area industriale metallurgica ed alla diversificazione e all’innovazione del modello di sviluppo – quelli con maggiore impatto in termini di occupazione -, alla fiscalità di vantaggio per le micro e piccole imprese; dai bandi per incentivi alle imprese agli interventi nella filiera dell’agroalimentare, dal rilancio del Parco Geominerario al progetto ARIA; dalle bonifiche delle ex aree minerarie, dell’ex Sardamag e dell’area industriale di Portovesme, alle infrastrutture di porti, approdi e viabilità, tra i quali l’intervento più rilevante è quello previsto a Sant’Antioco, al centro da alcuni anni di un acceso dibattito; e, infine, l’interconnessione dei bacini del Sulcis Iglesiente.

Tore Cherchi ha sottolineato i ritardi accumulati ma, al tempo stesso, la rilevanza degli interventi in itinere e di quelli ancora in cantiere che vanno seguiti con grande attenzione. Il coordinatore del Piano Sulcis è il presidente della Regione Christian Solinas che, contrariamente a quanto fece il suo predecessore Francesco Pigliaru con Tore Cherchi, non ha ancora affidato la delega ad un esterno.

Nel corso di un breve dibattito, sono intervenuti, tra gli altri, l’ex segretario regionale della FSM Cisl, Rino Barca, ed Antonello Pirotto, leader della RSU Eurallumina, che ha rimarcato la necessità di una forte mobilitazione a difesa della realtà industriale, indispensabile per dare un futuro al territorio. L’attenzione principale è stata dedicata alle ormai note vicende legate al processo di decarbonizzazione che prevede il phase-out entro il 2025, termine ritenuto non attuabile in Sardegna, unica regione in Italia priva del metano, per la quale il Governo non intende concedere né deroghe per il phase-out né il via libera alla realizzazione della dorsale del gas, sostenendo in alternativa la realizzazione di un cavidotto per l’approvvigionamento dalla Sicilia e di piccoli depositi di accumulo costieri.

E’ poi intervenuto Gavino Carta, segretario generale USR Sardegna, che ha rimarcato la necessità di una forte mobilitazione a difesa di ciò che resta dell’industria in Sardegna e in particolare nel Sulcis Iglesiente, con una forte sensibilizzazione, e sollecitazione alla Giunta regionale, perché faccia pressione sul Governo affinché modifichi la sua rigida posizione su phase-out e dorsale del gas, per evitare il tracollo del polo industriale e quindi dell’intero territorio.

I lavori sono stati conclusi dall’intervento di Luigi Sbarra, segretario generale aggiunto della CISL, che ha svolto un’ampia relazione, partendo dal Piano Sulcis, spaziando poi per le emergenze nel polo industriale, con particolare riferimento alla vertenza energetica, e ai rapporti con il nuovo Governo, sui temi della politica energetica ed industriale.

I lavori sono stati preceduti da una visita guidata al Museo del Carbone.

Alleghiamo alcune fotografie e, a breve, stralci degli interventi di Gavino Carta e Luigi Sbarra.

                                 

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L’Autonomia differenziata nel modello proposto da alcune Regioni del Nord determina effetti nettamente negativi sull’insieme della Repubblica. Infatti, è dimostrato che le risorse finanziarie pubbliche verrebbero destinate in misura crescente verso quelle aree a discapito del finanziamento dei servizi pubblici essenziali (istruzione, sanità, assistenza, trasporti, etc.) delle altre Regioni. I diritti di cittadinanza fondamentali verrebbero compromessi. Quel modello è la negazione del federalismo solidale di cui la Repubblica ha necessità.

Anche la Sardegna ne sarebbe direttamente colpita. La sua speciale Autonomia non è, infatti, una garanzia assoluta dal taglio delle risorse disponibili. Inoltre, il finanziamento dei servizi essenziali per i cittadini residenti nell’Isola non è realizzabile con il solo gettito fiscale interno: sono necessarie ulteriori risorse anche considerando che non è mai stata attuata la norma della legge sul federalismo fiscale (la 42/09) che dispone la risoluzione del deficit infrastrutturale derivante dall’insularità.

L’ambiguità del sardoleghismo nell’approccio verso queste questioni è irrisolvibile. Su questa ambiguità grava un velo di sostanziale silenzio.

Sarebbe peraltro un grave errore non contrastare la deriva neocentralista ed il pervasivo antifederalismo, affermatisi in questi anni, che non risparmiano nessun dei soggetti costitutivi della Repubblica, Regioni e Comuni, innanzitutto, ma anche altre autonomie come l’Università. La domanda di autonomia presente in molte aree del Paese deve essere raccolta dalle forze riformatrici che condividono la prospettiva del federalismo cooperativo e solidale riprendendo per completarne il percorso, la strada tracciata con la riforma del Titolo V della Costituzione entrata in vigore nel 2001.

Sono questi in estrema sintesi i contenuti emersi nell’affollata assemblea svoltasi ieri a Cagliari sul tema “Autonomie differenziate o secessione del Nord?”. Il dibattito, organizzato dall’associazione “Sinistra, Autonomia, Federalismo” è stato coordinato dalla sindaca di Pula, Carla Medau, e dall’avvocato Roberto Murgia. Gli interventi introduttivi sono stati svolti da Gianmario Demuro, ordinario di diritto costituzionale e da Tore Cherchi. Sono intervenuti Caterina Cocco, segreteria regionale Cgil, Piero Comandini, Benedetto Barranu, Antonio Cambus, Francesco Pigliaru, Francesco Sanna e l’insigne giurista Umberto Allegretti. Ha chiuso i lavori Giorgio Macciotta.

Alla riunione hanno preso parte, tra gli altri, amministratori locali, rappresentanti politici, la segreteria regionale della CGIL e numerosi docenti universitari.

Associazione Sinistra, Autonomia, Federalismo