5 December, 2025
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I pareri sulla Sanità che vengono quotidianamente diffusi agli italiani sono come i racconti di Storia: dipendono da chi li racconta. Da oltre 30 anni i pareri provengono dai burocrati e dai politici. Essi si limitano a fornire la descrizione dei guasti alla sanità pubblica e non forniscono mai progetti per risanarla. All’inizio non fu così: la Sanità pubblica fu un progetto esclusivo concepito da tre medici, deputati dell’Assemblea Costituente, che stavano preparando la nascita della nuova Repubblica.
Il 1° gennaio 1948 per la prima volta nella storia si parlò di Sanità pubblica a carico dello Stato. Nell’ articolo 32 della Costituzione sta scritto: «La Repubblica tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo…». L’articolo venne concepito e scritto da quei tre Medici che gli avevano dedicato l’intero anno 1947 con studi e discussioni. Essi erano  il dottor Giuseppe Caronia, clinico pediatra a Roma, democristiano; il dottor Mario Merighi, primario di medicina a Mirandola, socialista; il dottor Alberto Cavallotti, primario di un nosocomio milanese, comunista. Essi spiegarono che la qualifica di “diritto fondamentale” dato alla salute era giustificata dal fatto che qualunque essere umano si trovi in stato di malattia è equiparabile ad un essere in stato di schiavitù o di dipendenza da altri, correndo il rischio di perdere la dignità e di non poter esercitare i propri diritti. Da questa considerazione i Costituenti hanno derivato il principio che la Sanità Pubblica deve essere basata sulla “solidarietà” e nessuno deve vivere l’esperienza d’essere trascurato e offeso dall’abbandono sociale nel momento della sofferenza. Tina Anselmi, che fu ministro della Sanità nel biennio 1978/1979 costruì la sua legge 833/78 ispirandosi ai documenti lasciati ai posteri da quei tre medici nell’anno 1947. Nel ventennio tra il 1992 e il 2009 quel principio venne modificato a fondo. L’ultimo colpo gli venne dato dal tracollo economico internazionale iniziato con la crisi dei “subprime”, e il fallimento di Lehman Brothers negli Stati Uniti, che coinvolse anche l’Europa; l’Italia finì sull’orlo del fallimento. In quel ventennio i principi solidaristici dei tre medici costituenti italiani vennero radicalmente modificati. Si passò da una gestione della sanità basata sui valori umani della Costituzione ad una gestione basata sul diritto aziendale . Si passò dal principio della solidarietà al principio del bilancio fondato sull’interesse economico. Il cittadino passò dallo stato di titolare di un “diritto fondamentale “ allo stato di “cliente” di un’azienda (ASL).
In questa storia di sanità pubblica, iniziata dai tre medici Costituenti, le figure dei medici pubblici in qualità di programmatori vennero fatte drasticamente scomparire e in quella funzione vennero sostituiti da esperti burocrati. Perciò da circa 30 anni la Sanità è in mano ai “manager”. Essi sono liberi professionisti, abilitati a gestire aziende, incaricati dal potere politico regionale, e non sono tenuti a rendere conto del loro operato alle amministrazioni comunali e provinciali.
Dopo 33 anni di tale gestione, e dopo i risultati fallimentari conseguiti, dati i giganteschi problemi demografici ed economici che si prospettano, è lecito pensare di tornare ai valori dei tre medici costituenti.
Ciò implica il dover cambiare la visione attuale sulla Sanità pubblica e riprogrammarla secondo principi diversi da quelli adatti a gestire una impresa economica.

Ipotesi di proposta.

Il problema strutturale globale riguarda l’intero apparato sanitario “su campo”. Esso è costituito da:
– Gli ospedali per acuti,
– Gli ospedali per cronici,
– L’organico dei medici,
– L’organico degli infermieri e dei tecnici,
– La medicina di base,
– Le case della salute,
– Gli ospedali di comunità.

E’ necessario ridefinire la natura di ognuna di queste entità ridefinendo anche i rapporti fra di esse. Il nuovo contesto globale deve favorire la comunicazione fra: ospedali, apparato tecnico amministrativo, i professionisti, le loro gerarchie e la sanità territoriale.

Gli ospedali.

Le leggi emanate dal Governo Amato I e II , e la riforma del titolo V, parte II della Costituzione hanno avuto l’effetto di:
a – depotenziare e chiudere gli ospedali provinciali di I livello.
b – Accentrare le funzioni diagnostiche e terapeutiche negli ospedali regionali di II livello.
Il depotenziamento della sanità provinciale ha provocato l’iper-affluenza dei pazienti dalle province agli ospedali regionali.
Gli ospedali regionali di II livello (come Brotzu e Santissima Annunziata) furono concepiti per le ultraspecializzazioni mediche ma, a causa della riduzione del sistema sanitario nelle province, essi sono stati costretti ad assumersi anche le funzioni degli ospedali provinciali. La nota crisi che ne è nata, e che ha visto pochi mesi fa anche la necessità di chiudere temporaneamente il Brotzu, per sovraccarico, impone di restituire, gli ospedali regionali di II livello, alle funzioni ultraspecialistiche per cui erano nati.
Di conseguenza si devono restituire gli ospedali provinciali di I livello (come Carbonia e Iglesias) alle funzioni che avevano in passato a servizio dei malati del territorio.
Gli ospedali provinciali di I livello devono tornare ad occuparsi pienamente di tutte le patologie chirurgiche e internistiche, riservando a quelli di II livello (di Cagliari e Sassari) la cardiochirurgia, la
neurochirurgia, e i trapianti d’organo.
Negli ospedali di I livello provinciali vanno riattivate tutte le chirurgie di base e i Servizi di Anatomia Patologica, Radiologia, Endoscopia digestiva e respiratoria, Radioterapia, Chemioterapia. Se questa riattivazione degli ospedali avverrà contestualmente a una riorganizzazione della medicina di base, ne conseguirà il crollo immediato delle liste d’attesa per i ricoveri e gli interventi. Dato il quadro demografico attuale ne beneficerà l’utenza costituita da ultra-cinquantenni e, sopratutto, da anziani non autosufficienti. Per essi è urgente la rapida riattivazione dei centri ospedalieri vicini al fine di contrastare il fenomeno di rinuncia alle cure derivato dalla difficoltà e onerosità del trasporto dei malati.
Un beneficio collaterale certo sarà la ricostituzione di una efficiente rete di medici di base del territorio, ben supportata dalla disponibilità degli ospedali provinciali restituiti alla loro operatività.
Gli attuali ospedali provinciali, nati nel dopoguerra, destinano oggi i pochi posti letto rimasti (20-25 per U.O.) per i pazienti acuti.
Bisogna sapere che gli stessi ospedali vennero progettati per almeno il triplo dei posti letto. Questo fatto è purtroppo sconosciuto sia ai cittadini che ai politici.
Gli ospedali di Carbonia e Iglesias, ai quali il piano ospedaliero destina 250 posti letto, fino a 30 anni fa avevano 750 posti letto (500 in più).
Considerata la maggiore capienza potenziale, sarebbe possibile l’apertura di nuove Unità Operative per pazienti cronici (geriatrici), a fianco alle Unità Operative per acuti. Tale riutilizzo avrebbe importanti effetti sulle liste d’attesa e sulla famiglie.

Per avviare il progetto di nuova responsabilizzazione della politica locale territoriale all’interno della ASL e, contemporaneamente, valorizzare il personale si deve convenire su un punto fermo: la struttura sanitaria e la struttura amministrativa necessitano di due gerarchie fra loro indipendenti.

I medici.

I medici rappresentano la componente professionale essenziale per l’assistenza ospedaliera e territoriale. Sono irrinunciabili per il riavvio del Sistema sanitario. L’organico dei medici di ogni Unità Operativa ospedaliera deve avere una struttura gerarchica ben definita. La gerarchia è la catena di comando che muove simultaneamente tutti i pezzi del motore della Sanità.
Fino alla riforma di Francesco Di Lorenzo del 1992 gli organici dei medici ospedalieri erano formati da:

– un orimario: con funzioni di capo della scala gerarchica.
– due aiuti: medici esperti idonei ad assumere funzioni primariali, soggetti alla autorità del primario.
– setto-otto assistenti (medici soggetti all’autorità degli aiuti e del primario).
Il DPR 229/1992 di Francesco Di Lorenzo abolì la figura gerarchica del primario della Divisione ospedaliera e quella degli Aiuti. Scomparvero così la scala delle responsabilità e anche quella del merito. Prima d’allora il funzionamento della gerarchia dei medici era regolata dalla legge 128/69. Essa legge, all’articolo 7, definiva il ruolo del primario. Egli, oltre al compito di direttore della Divisione, aveva la funzione di legale responsabile della compilazione e della sorveglianza delle cartelle cliniche; aveva, inoltre, il compito di “vigilare” sul personale medico e infermieristico; era il responsabile del benessere e della cura dei malati. Per “compito di vigilanza” si intendeva l’obbligo di di fare verifiche sulla qualità dell’attività professionale dei medici e di sorvegliarne la disciplina. Curava con rigore la disciplina degli infermieri, dei tecnici, e del personale ausiliario. Egli era tenuto a prendersi cura della formazione continua e dell’addestramento dei medici. Essendo il responsabile della accuratezza delle cure ai malati, doveva sempre verificare:
1. L’esattezza delle diagnosi e approvarle;
2. L’appropriatezza delle cure e approvarle;
3. La conformità morale e professionale nei rapporti fra il personale e i malati.
Di fatto svolgeva la funzione di “Maestro” addestratore alla professione sanitaria.
La divisione ospedaliera (attuale Unità operativa) aveva funzioni di cure , e di scuola di formazione post-universitaria per i giovani medici.
Non esisteva il problema che oggi lamentano i medici ospedalieri : cioè l’assenza di prospettive di carriera. Era possibile avanzare di grado diventando prima aiuto e poi primario, acquisendo titoli professionali e idoneità nazionali ministeriali.
Gli ospedali che avevano in organico i primari migliori formavano i medici migliori. Essi erano la sede in cui nascevano e crescevano quei chirurghi e quegli internisti che nel tempo sarebbero subentrati ai medici anziani nelle funzioni di primari e vice-primari. All’uscita di scena di un primario non si creava mai il vuoto gerarchico. Il primario usciva di scena quando era pronto il suo sostituto, che era sempre un aiuto già formato per fare il primario. In Germania tutt’oggi il primario che si prepara alla pensione indica il successore due anni prima della sua uscita di scena, e per due anni concentra su di lui tutti gli sforzi per trasferirgli le sue competenze.
L’ospedale italiano fino al 1992 era, globalmente, una scuola di formazione continua. I medici che entravano in quella scuola ne ereditavano cultura, esperienza, professionalità, e avevano la possibilità di carriera primariale. Gli stipendi fra questi tre gradi (assistente, aiuto, primario) erano differenziati in progressione. Il miglioramento del trattamento economico era sincrono col miglioramento delle capacità professionali e dei titoli acquisiti con concorsi nazionali, fino alla posizione apicale.
Tutti i Primari erano componenti del Consiglio dei sanitari; fra di essi veniva eletto il Direttore sanitario.
Era un meccanismo di valorizzazione che consentiva ai medici di produrre le scelte programmatiche da affidare poi alla parte amministrativa perché potessero essere realizzate.
Attualmente non è così: oggi il Direttore sanitario viene scelto dal Direttore generale della ASL. Questa soggezione di nomina genera scarsa autonomia di giudizio; inoltre il parere espresso sia dal Direttore sanitario che dal Consiglio dei Sanitari non ha peso o non viene neppure richiesto. Questo meccanismo demotiva i medici che, sviliti ed estraniati dalle scelte, sono impediti dal partecipare attivamente alla programmazione.
Oggi il Direttore generale della ASL viene designato da organismi politici regionali lontani dai territori provinciali, mentre in passato veniva nominato, con incarico di presidente, dai Consigli comunali del territorio. Tale differenza comporta che le decisioni prese allora col sistema precedente corrispondevano alle istanze dei cittadini del territorio; oggi no.
Questa “estraneità” al territorio, dell’attuale Direttore generale rispetto ai precedenti presidenti di USL, è una delle cause del distacco fra cittadini e sanità pubblica, e anche fra medici dell’ospedale e medici del territorio. Dapprima i medici dell’ospedale e quelli del territorio erano in rapporto diretto fra di loro perché avevano al di sopra un’unica autorità territoriale locale unificante. Ne conseguiva che il medico di base che curava un paziente, di fatto, continuava a seguirlo attraverso i medici dei reparti che erano la proiezione ospedaliera della medicina di base. Questo “continuum” tra medici di base e ospedalieri era una garanzia di sinergia delle cure e di sostegno interno fra i due sistemi.
La legge di Francesco Di Lorenzo comportò tre trasformazioni:

1 – Tutti i medici vennero classificati allo stesso livello gerarchico; ne conseguì la scomparsa dello “avanzamento” nella carriera direttiva e da allora si ignorarono le diverse competenze professionali e il merito.
2 – La scomparsa degli aiuti comportò la scomparsa delle figure professionalmente autorevoli che potevano sostituire il primario in sua assenza.
3 – Colla scomparsa del primario (quello della legge 128/69) scomparve il capo-scuola ospedaliero, e cessò l’esistenza di chi doveva, per legge, formare i medici destinati a divenire i futuri primari.
L’esperienza che stanno vivendo oggi gli ospedali dimostra che l’uscita di scena del primario comporta la fine dell’Unità 0perativa. I medici più giovani che intendono continuare a lavorare ad un alto livello
professionale, una volta privati del primario, sono costretti a trasferirsi in altri ospedali ancora dotati di primari.
Da questa esposizione emerge l’evidenza che l’organico dei medici è vario ed è composto da diverse figure a diversi livelli di formazione. Esistono i medici appena laureati dalle Università, ed esistono i medici con un grado di formazione professionale più avanzato. Dal momento dell’uscita dall’Università i medici vanno considerati “medici in formazione per sempre”.
La formazione avviene per gradi solo all’interno degli ospedali. Qui essi vengono culturalmente costruiti attraverso l’esperienza nell’applicazione delle regole riconosciute dalle Società scientifiche. La loro esperienza avviene attraverso l’imitazione dei medici più anziani.
I medici vengono formati da altri medici e, una volta lasciata l’Università per l’ospedale, il nuovo campo di studio è costituito dal malato e dall’apparato che lo cura. L’apparato di cura ospedaliero è formato
dalla équipe di specialisti, dai servizi di laboratorio, Radiologia, Anatomia patologica, dal personale Infermieristico, dal Pronto soccorso, e dagli altri reparti ospedalieri. Ogni giorno di lavoro in ospedale è una giornata di studio e formazione. All’apice della piramide docente è il primario. Egli è il riferimento concreto per l’applicazione della scienza, per la formulazione della diagnosi definitiva e per la programmazione terapeutica.
Ne consegue che l’Amministrazione che programma l’assunzione di nuovi medici per le Unità operative non può esimersi dall’arruolare per primi i medici formatori di altri medici: i primari.

Infermieri.
Vengono distinti, in base alla formazione, in:
– Infermieri laureati,
– Infermieri diplomati,
– Capo sala.
L’infermiere Capo sala di un reparto di degenza è il capo di tutti gli infermieri della stessa Unità operativa. Deve avere competenza organizzativa e autorità professionale e disciplinare su tutto il personale infermieristico. La sua autorità gli deriva direttamente dal primario.
Agli infermieri vengono affiancati gli OSS.
Oggi si lamenta la scarsità di personale infermieristico. In realtà l’ospedale può risolvere il problema della carenza di personale assumendo le funzioni di scuola infermieristica e generare infermieri diplomati e anche OSS.
Gli infermieri che vogliono acquisire la laurea devono rivolgersi alle scuole di formazione in Scienze Infermieristiche dell’Università.
Quanto detto per i “medici in formazione per sempre” vale anche per gli infermieri. I nuovi infermieri diplomati e laureati, acquisiscono le capacità della professione pratica imitando gli infermieri professionalmente più anziani posti ad uno scalino gerarchico più elevato.
E’ necessario che anche tra di essi esista una rigorosa gerarchia in cui il capo è tenuto alla verifica costante della qualità delle prestazioni assistenziali e abbia autorità disciplinare e premiante.
Un capitale umano d’alto livello infermieristico diventa un capitale sociale che estenderà il beneficio professionale maturato anche ai malati del territorio extraospedaliero.

Conclusione.

E’ illogico che gli ospedali siano in mano a esperti di amministrazione che conoscono bene i conti ma non conoscono cosa sia la Sanità. Il pubblico che si lamenta coi suoi politici della Sanità di oggi non può perdere tempo nel piagnisteo quotidiano sui giornali ma deve fornire argomenti concreti che dimostrino lo stato di abbandono politico amministrativo persistente. Dalla nostra provincia devono nascere richieste concrete come il raddoppio dei posti letto nei nostri ospedali. Oggi gli ospedali hanno posti letto solo per “acuti”, come infartuati, emorragici o incidenti della strada. Per questo hanno pochissimi posti letto. In realtà è necessario che possano accogliere, in posti dedicati, anche i pazienti sub-acuti, per esempio: anemici, portatori di dolore cronico, sofferenti di deperimento per tumori avanzati. Pazienti, questi, che sono abbandonati alle famiglie. I casi di pazienti cronici non autosufficienti verranno seguiti dalle RSA. Abbiamo bisogno di primari da assumere, medici da mettere sotto la guida di Primari, personale medico e infermieristico sotto una chiara gerarchia. Ci servono soldi per aumentare le entrate del personale che si dedichi, senza lungaggini temporali, a diagnostica strumentale impegnativa come: le procedure radio ed ecoguidate, le colonscopie, le gastroscopie, le broncoscopie e le cistoscopie, e a far funzionare le sale operatorie, le radiologie, e tutti servizi tecnologici. Ci serve aggiornamento tecnologico come risonanza magnetica avanzata, anatomia patologica, virologia, PET e chirurgia robotica.
Vogliamo scommettere che ridurremo le fatiche compensatorie delle case di cura private e che i giovani medici faranno a gara per venire nei nostri ospedali a lavorare e imparare?

Mario Marroccu