20 April, 2024
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Il castello dei valori umani su cui si basava la Sanità Ospedaliera del Medioevo si sgretolò durante l’epidemia del 1347-48 : l’etica del sistema di mutua assistenza si era infranta davanti all’incapacità di affrontare la peste. La gente moriva in massa nelle proprie case, nelle campagne e per le strade.
L’apparato sanitario, governato dagli Ufficiali di Sanità, gestì il problema dei morenti e dei morti con metodi spicci. Li caricava sui carretti e li smaltiva in fosse comuni. Questo fu il massimo del “prendersi cura”. I medici , pochi, spaventati e impotenti, seguivano i consigli di Galeno: «Fuge, longe, tarde» («fuggi lontano e torna il più tardi possibile»). L’inconsistenza del sistema di sicurezza prodotto dai governanti generò, nel popolo, odio contro i medici. Il disprezzo per i medici fu tale che per un secolo persero credibilità e scomparvero dalla storia. Nel 1348 il più grande odiatore dei medici fu Francesco Petrarca, il poeta. La sua amata, la bella Laura De Sade, morì di peste, nonostante le cure dei migliori specialisti di Avignone. Per offendere i medici del tempo li chiamò “maccanici”. Con questo termine, che di per sé non è offensivo, voleva dire: «La vostra professione è senza spiritualità; curate i corpi malati come se fossero macchine rotte e non vedete che dentro hanno un’anima carica di valori etici».
La medicina era caduta talmente in disgrazia che per un secolo i malati trovarono conforto soltanto in ricoveri gestiti da personale di assistenza, fratres et sorores, che agivano autonomamente e si mantenevano con le donazioni dei benefattori. Tali strutture erano destinate al ricovero dei vecchi non autosufficienti, dei poveri, dei folli, dei bambini abbandonati e degli infettivi. Anche in questi ricoveri la spiritualità si deteriorò davanti alla tentazione di arricchimenti personali con le donazioni incamerate.
A Milano un secolo dopo, nel 1448, vi fu un duro intervento di  ri-spiritualizzazione” degli ospedali caritativi del tempo. L’arcivescovo della città degli Sforza, Enrico Rampini, sostenuto dal Papa Nicolò V, fece demolire 16 di questi infami ricoveri e costruì il Grande Ospedale dell’Annunciata che poi venne chiamato  Ospedale Maggiore”. Fu una rivoluzione. La gestione sanitaria dell’ospedale venne affidata ai medici, per la prima volta assunti in pianta stabile, e quella amministrativa fu affidata ad una commissione cittadina di persone di fiducia. Con l’intervento dell’architetto Filarete fu progettato un ospedale in cui i letti erano singoli, avevano un armadietto esclusivo per ogni malato e un sistema igienico di scarichi che allontanava i residui di umanità direttamente nei navigli. Si concordò che quello fosse l’“Ospedale per acuti”, da dove i malati dovevano essere dimessi dopo poco tempo guariti o morti. Alle porte di Milano fu costruito l’“Ospedale per i cronici”, destinato ai vecchi, ai folli e agli incurabili. Non se ne usciva mai se non da morti.
L’Ospedale Maggiore di Milano era costruito a “crociera”. Due ali della croce erano destinate alle donne; le altre due agli uomini. Al centro, dove si incrociavano le quattro corsie dell’ospedale, era posto un altare col Santissimo esposto, a significare: «Noi vi curiamo ma è Lui che vi salva». Fu chiara a tutti l’equa divisione delle responsabilità.
Il Sistema Sanitario Milanese attirò la curiosità di tutta l’Europa e molti Governi inviarono i loro medici e architetti per copiarlo. Così si diffusero gli “Ospedali Maggiori” nel mondo occidentale.
La Riforma Sanitaria dell’arcivescovo Rampini fu fondamentalmente una “ riforma etica©. Quella concezione di Ospedale, in Italia e in Europa, rimase fino alle riforme sanitarie sperimentate dopo la Seconda Guerra Mondiale.
La stessa eticità venne ripresa nella Riforma Sanitaria allestita dalla Commissione ad hoc presieduta da Tina Anselmi. Fu lei a presentare il testo della legge n° 833 del 1978 alle Camere. In un’intervista raccontò al giornalista che le idee fondanti erano emerse dalle discussioni fra partigiani nei bivacchi di montagna. Raccontò che fu lì che si decise di introdurre nella riforma i tre valori guida: l’Universalità delle cure, l’Equità e l’Uguaglianza. Lo slogan che sintetizzava lo spirito della nuova sanità fu: «Dalla culla alla tomba, gratuita per tutti». Fu il trionfo della solidarietà.

Recentemente uno dei massimi chirurghi viventi in Italia ha ricevuto l’incarico da un’importante rivista medica americana, di scrivere un articolo sulla “spiritualità” nella chirurgia del cancro in stadio avanzato. Per chi opera negli ospedali di questo tempo, l’articolo commissionato al chirurgo, è stupefacente.
L’obiettivo di chi ha commissionato l’articolo è quello di ridare all’ospedale il significato di “luogo etico” in qualità di contenitore di “valori”. Ciò contrasta con l’idea dell’ospedale come semplice luogo di produzione aziendale secondo calcoli economici di tipo privatistico. Quel chirurgo sicuramente esplorerà l’angoscia di chi non ha più speranza e che non si sente ancora pronto alla fine, e discuterà la “compassione” del medico in questo passaggio. Nella stessa “compassione” che letteralmente significa “sentire la sofferenza insieme all’altro” è coinvolto il personale infermieristico e chi svolge il ruolo di care-giver.

Oggi lo Stato, con il PNRR missione 6, certifica un altro “valore”: il diritto del malato alla “prossimità” del luogo di cura e di chi lo cura. Il luogo più prossimo è la propria casa, poi vengono la
Casa della salute e gli Ospedali.
Negli Atti aziendali di varie ASL qualcuno ha cercato di definire quanto deve essere vicina questa “prossimità”. Vi è chi suggerisce che i luoghi di cura debbano essere distanti non più di un chilometro e mezzo dal luogo in cui sorge l’improvviso bisogno di cure; vi sono altri che invece quantificano la distanza in tempi di percorrenza non superiori ai 15 minuti. Secondo questa visione della “prossimità” si esclude l’accentramento esasperato dei servizi ospedalieri nelle grandi città e cresce l’idea che l’ospedale debba tornare alla sua dimensione etica mantenendo il suo radicamento nel territorio.
Il problema è come fare a tornare allo spirito della legge 833 di Tina Anselmi superando le riforme fallimentari che si sono succedute.
In questo periodo storico di indeterminatezza della percezione del senso del diritto, della giustizia e della politica, è stata citata una dichiarazione del giurista Carlo Arturo Jemolo. Egli ha sostenuto che la Carta costitutiva dell’ONU, così come la Costituzione Italiana, pur piene di buoni principi, sono destinate a rimanere “pezzi di carta” se non esiste un’Istituzione che le faccia rispettare.
La differenza tra quella prima riforma e le successive sta nel fatto che la 833/78 conteneva al suo interno un Istituto di controllo con funzioni assimilabili all’idea di Jemolo.
L’Istituzione in oggetto era rappresentata dal Presidente della ASL e dal Comitato di gestione. Nella nostra esperienza i componenti erano tutti consiglieri comunali delle 23 città del Sulcis e dell’Iglesiente. Gli assistiti allora erano abbastanza soddisfatti dei loro ospedali. Eppure allora avevamo meno medici di oggi. Al Sirai c’erano una trentina di medici contro il centinaio degli attuali. Ad Iglesias i rapporti erano simili. Si dovrebbe concludere che quei consiglieri comunali fossero dei geni del management sanitario. Invece no. Non avevano alcuna formazione in sanità, però avevano una grande capacità politica di interpretare i bisogni del personale sanitario e dei malati. Essi non si sostituivano al personale dell’apparato amministrativo ma facevano rispettare i valori umani di cui erano rappresentanti: la dignità, la sicurezza, la speranza, la condivisione, il coraggio, la compassione e, soprattutto, avevano l’umiltà di ascoltare. Quella capacità di “ascolto” in seguito si attenuò fino a scomparire. Dall’umanizzazione della Sanità pubblica si passò all’ingegnerizzazione della Sanità.
La lettura accurata delle leggi sanitarie di oggi fa emergere la centralità di un nuovo complicatissimo apparato burocratico. Vi si possono leggere centinaia di pagine che descrivono processi, uffici e commissioni, senza mai incontrare le parole: medico, infermiere, malato. Queste tre figure che dovrebbero essere centrali, si trovano invece alla periferia dei programmi; talvolta non sono neppure alla periferia, sembra che proprio non ci siano.
La sede di comando del potente apparato burocratico centrale è un luogo indefinibile della mente, impenetrabile, distante fisicamente e psicologicamente. E’ avvolto da una forma di indeterminatezza e di estraneità per cui è difficile instaurare quei sentimenti empatici che invece con i politici locali erano la norma. La sensazione che ne risulta è che il nuovo sistema sia respingente, come se si trattasse di una corazzata impenetrabile che non lascia spiragli per accedervi.
Leggendo gli atti, si ha la sensazione che tale apparato sia inaccessibile ed escludente pure per i Direttori generali, a cui sono preclusi tutti i poteri essenziali per la reale gestione della ASL, come la facoltà di assumere personale ed acquistare strumentazione con decisioni indipendenti.
Perdendo i nostri sindaci e i nostri politici locali alla guida della sanità, abbiamo perso la cinghia di trasmissione che ci faceva entrare in contatto con i vertici. Ormai siamo al di fuori della possibilità di controllo di questa entità superiore.
Sicuramente non è un’esperienza nuova nella storia dell’uomo.

Nel 15° secolo un rappresentante dell’Aragona davanti alla Cortes catalana espresse al re un giuramento di obbedienza in questi termini: «Noi che siamo leali come lo sei tu, giuriamo a te, che non sei migliore di noi, di accettarti come nostro re e signore sovrano, purché tu rispetti le nostre libertà e le nostre leggi; ma se non le rispetti, non ti riconosciamo». Da “La Spagna imperiale. 1469-1716” di John Elliott.

Mario Marroccu