21 December, 2025
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Secondo i vari periodi storici, qui nelle coste del Sulcis, si succedettero varie etnie: i Nuragici, i Fenici, i Cartaginesi, i Romani. Questo luogo venne densamente abitato da Romani e Bizantini fino al 711 d.C. Poi si spopolò e, infine, si ripopolò parzialmente con il Giudicato di Arborea e poi ancora con la dominazione spagnola.

Il ripopolamento del Sulcis riprese vigore dalla metà del 1700 ad opera dei Savoia e di Lorenzo Bogino. Migliorò moltissimo nel 1936 col richiamo di nuovi abitanti per la coltivazione delle miniere di carbone. Nel 1938, duecento anni dopo l’inizio del ripopolamento sistematico del Sulcis, venne inaugurata Carbonia, la città di fondazione nata per contrastare le “inique sanzioni” imposte all’Italia per aver occupato l’Etiopia. Le sanzioni bloccavano sopratutto l’approvvigionamento energetico della Nazione. Carbonia divenne la centrale energetica dell’Italia attraverso l’estrazione del carbone Sulcis. Qui vennero attratte tutte le forze lavorative giovani d’Italia per farne eserciti di operai da calare in miniera inseguendo le vene del carbone. Per essi venne costruita la città e il suo ospedale. Il territorio del Sulcis fino ad allora aveva vissuto di economia agricola e di pesca, e non aveva ospedali. Nell’ospedale Sirai gli operai venivano curati per i frequenti traumi cranici, toracici, ossei e degli organi interni, dovuti a crolli di massi ed esplosioni in galleria. Successivamente venne aperto un servizio di ostetricia per farvi nascere i figli delle mogli degli operai. Fu allora che le donne, incoraggiate dalla sicurezza nell’assistenza sanitaria e dalla costruzione di asili infantili, produssero più figli. Presto si raggiunse il numero di 2.000 nascite l’anno. Alle mogli dei minatori si erano aggiunte le mogli di tutti gli altri abitanti della zona. Molte erano operaie cernitrici.

I chirurghi, spesso provenienti da esperienze di guerra, erano particolarmente competenti nell’operare cranii e toraci sfondati, ferite addominali e fratture multiple. Il Sirai fu subito una fabbrica di Sanità avanzata.
Nell’immediato dopoguerra l’ammiraglio della Sesta Flotta americana, che rimase a lungo alla fonda nel Golfo di Palmas, dopo aver conosciuto l’ospedale e i suoi chirurghi fece smontare la sala operatoria di una corazzata e la fece rimontare al Sirai. Ritenne che i ferri chirurgici e i lettini operatori fossero molto più utili al Sirai che nella nave da guerra.

A Carbonia e nel suo ospedale sono spesso approdati gli italiani emigrati in America che desideravano morire in terra italiana. Persone che, non sapendo dove andare per aver perso ogni rapporto e conoscenze familiari, sapevano che qui c’era la città nuova, aperta a chiunque volesse viverci e anche morirci. Vi sono stati molti italiani emigrati all’estero, e figli di emigrati, che identificavano Carbonia con l’Italia a cui tornare. Gli esempi sono tanti. Nel 1984 si presentò all’ospedale Sirai un signore, italiano, molto elegante, che veniva da Los Angeles. Erano i giorni delle Olimpiadi che lì si svolgevano. Nel centro di quella città egli era proprietario di un negozio di articoli sportivi. Proprio nei giorni delle Olimpiadi urinò sangue. Si convinse d’avere contratto un cancro alla vescica e che stesse per morire. Immediatamente vendette il negozio, fece i biglietti d’aereo e partì per Carbonia. Non conosceva la città ma sapeva della sua esistenza, della sua anima cosmopolita, e decise che questo era il luogo d’Italia in cui morire.

L’ospedale Sirai conobbe anche ex fuoriusciti politici che si erano schierati con la Repubblica di Salò, che erano scappati in Spagna e che erano poi tornati in territorio italiano, nel tardissimo dopoguerra, a Carbonia. Un personaggio interessante fu un famoso ballerino di tango, che era stato “sparring-partner” di Rodolfo Valentino. Costui, gran fumatore, e arteriosclerotico, invecchiando ebbe una gangrena agli arti inferiori. In America gli avevano proposto l’amputazione di ambedue le gambe. Rifiutò. Fatte le valigie venne in Italia, a Carbonia, all’ospedale Sirai dove morì continuando felicemente a fumare.

Nel 1936 le miniere di carbone avevano provocato nel Sulcis uno schok demografico unico nel suo genere: la nuova popolazione era costituita tutta da giovani sani e forti, abili al lavoro e prolifici. Mancavano i vecchi e i bambini. In breve, con le nascite e i nuovi arrivi, Carbonia superò i 60.000 abitanti, tutti giovani.

La fine del lungo periodo del dopo-Guerra Mondiale e l’arrivo di nuove fonti energetiche più convenienti condusse alla chiusura progressiva delle miniere. Fu la causa di un primo crollo della popolazione. Ne nacque un altro genere di schock demografico: la riduzione della popolazione a danno della componente giovane. Negli anni ‘70 iniziò il crollo progressivo delle industrie di trasformazione di Portovesme. Al crollo industriale si associò un’altra emigrazione in massa dei giovani e il calo marcato della natalità coinvolse sia Carbonia che tutto il Sulcis. La popolazione totale di Carbonia diminuì passando dai 60.000 dei primi anni cinquanta a meno di 30.000 negli anni ‘80. Mentre la popolazione giovane diminuiva, la popolazione anziana aumentava inducendo una inversione demografica. I primi due decenni del 2000 hanno visto l’ulteriore decrescita dei giovani e la crescita del 33% degli anziani. Oggi ogni coppia mette al mondo meno di un bambino (0,80 per coppia). Dati simili, così gravi, nel mondo sono equiparabili solo a quelli del Giappone; si è passati dalla iper-natalità degli anni ‘40-’50 alla denatalità estrema di oggi. La struttura sociale si è invertita in pochi decenni. L’ampiezza media delle famiglie formate da padre, madre e figlio si è assottigliata e oggi tendono a prevalere le famiglie “single”. Col nuovo paradigma delle famiglie mono-componenti sono necessariamente cambiati gli obiettivi della città. Gli obiettivi di oggi sono tesi a soddisfare i bisogni della nuova società risultante dalla inversione percentuale tra fasce d’età. Da qui è derivata la necessità della creazione di spazi urbani più attenti ai bisogni della fascia d’età anziana prevalente mentre la fascia giovane e fertile, tende a scomparire. Dentro questa nuova città si stanno creando sopratutto strutture specializzate nella assistenza e nella facilitazione della vita quotidiana agli abitanti, differenziandole secondo le capacità di autonomia. Questo è solo l’inizio di un futuro modello di rigenerazione urbana finalizzato a un diverso equilibrio sociale.
Il servizio fondamentale della città, ridisegnato intorno alla nuova società, è il Servizio sanitario. Qui entra in gioco l’ospedale Sirai. Esso venne concepito per un genere di società, oggi estinta, che era formata da persone in età fertile e lavorativa, che generava grandi famiglie prolifiche. Oggi il forte aumento degli anziani inattivi e i nuovi bisogni di assistenza sanitaria hanno fatto emergere il problema dell’invecchiamento della popolazione. Un diverso problema, certamente più serio, è il crollo della natalità derivato dalla percezione che i figli possano ostacolare l’ affermazione professionale ed economica delle giovani mamme. Per non avere ostacoli le giovani donne sono costrette a procrastinare l’inizio di una gravidanza. Ne consegue che il numero di anni di fertilità ancora disponibili viene ridotto considerevolmente. A ciò si aggiunge il crollo della popolazione femminile nella fascia d’età fra i 14 anni e i 49 anni, indicata dall’OMS come la parte più pregiata della popolazione, perché è quella che genera i figli. Oggi la curva demografica nel Sulcis ha due seri problemi accertati: l’eccesso di anziani e la scarsità di nuovi nati.

Il Sirai, l’unico ospedale del Sulcis, contiene nella sua storia le soluzioni per affrontare l’aspetto sanitario dei due problemi. Una prima risposta allo schock demografico dato dall’aumento percentuale degli anziani con scarsa autosufficienza, la trovò il dr Enrico Pasqui negli anni ‘70. Fu allora che iniziò ad essere evidente il problema sul come assistere i pazienti anziani che, dimessi dal reparto di Medicina, non potevano rientrare in famiglia per vari motivi. Il dottor Enrico Pasqui ideò la istituzione di un nuovo reparto: la Medicina Seconda. Si trattava di un padiglione esistente a lato del corpo maggiore del Sirai, dotato di 45 posti letto. Formò un’équipe costituita da un medico per turno e infermieri che riabilitavano questi pazienti non-dimessi. Il reparto era autonomo e autosufficiente. Esso godeva dei servizi della cucina ospedaliera, della Farmacia, del laboratorio e di quello religioso. Il dr Pasqui aveva inventato una RSA ante-literam. Le spese erano a carico del fondo Sanitario Pubblico. Si capiva già allora che la nuova società sulcitana si stava avviando verso una trasformazione demografica irreversibile. Fu allora che l’Ospedale intero iniziò a modificare la sua “mission” sanitaria per cui era stato costruito nel periodo minerario. Tutti i reparti specialistici furono ri-orientati verso la ultra-specializzazione in medicina e chirurgia geriatrica. La Medicina sviluppò un’area per la diagnosi e il trattamento dei tumori, delle leucemie, dell’immunologia, della Neurologia e della Cardiologia. Si iniziarono a impiantare i pace-maker e a curare gli infartuati con tecniche endovascolari invasive. Similmente avvenne in Neurologia, in Anestesia-Rianimazione e in Chirurgia. Qui si sviluppò la laparoscopia , tutta la branca di diagnostica endoscopica dello apparato digerente e iniziò quella per l’apparato respiratorio. Le fratture del femore , del bacino e della colonna vertebrale venivano assistite immediatamente con grande competenza nel reparto Traumatologia. Crebbero contemporaneamente la Nefrologia e l’Urologia. In questo reparto si eseguiva chirurgia microvascolare per gli accessi all’emodialisi e si eseguiva un numero di interventi endoscopici e a “cielo aperto” di prostata, vescica, ureteri e reni  con un volume di attività che pareggiò e superò altri importanti centri isolani. La Ginecologia-Ostetricia giunse a livelli assistenziali eccelsi nell’interesse del mondo femminile. Ad essa era affiancata un’ottima Pediatria. Fino a metà del secondo decennio degli anni 2000 l’ospedale Sirai era pronto e adeguato a gestire il futuro sanitario incombente. Poi la crisi sanitaria nazionale e sarda hanno provocato l’arresto dello sviluppo ospedaliero e il regresso.

Il secondo problema, quello dell’assottigliamento della componente femminile delle età comprese fra i 14 e 49 anni è enormemente più grave. Qui non basterebbe il genio di un dottor Enrico Pasqui. Ormai i demografi di tutte le Nazioni più evolute sono concordi che esista la forte necessità di una presa di coscienza della popolazione, e la preparazione seria della classe politica, per riuscire ad acquisire con decisione l’idea che la parte più pregiata della società è quella femminile nelle età fertili, soprattutto, fra i 20 e 40 anni, e che questa va protetta e supportata con nuovi programmi economici e sociali mai visti. Qui non basta costruire una” Medicina Seconda “ o fare “variazioni urbanistiche”. E’ urgente concentrare tutta l’attenzione della politica sul sostegno economico, lavorativo, universitario, etc. alla donne in età fertile assicurando loro il totale sostegno nella formazione al lavoro professionale, all’ottenimento e alla conservazione del posto di lavoro e sopratutto alla sorveglianza e accudimento alle necessità dei figli. Soltanto attraverso una assicurazione sulla certezza del loro futuro rivedremo ricrescere la natalità. Qui entrerebbe in gioco la collaborazione fattiva della terza età. Essa dovrebbe espandere il proprio impegno educativo ed economico nel sostenere e sostituire le mamme nell’educare, sorvegliare e assistere i nuovi nati. Se questi propositi venissero non solo garantiti ma anche imposti da una nuova organizzazione sociale e del diritto ad hoc, si chiuderebbe un cerchio fatto di impegni ma anche di ritorni vantaggiosi. L’aumento dei figli è l’unica garanzia per assicurarsi la futura crescita di nuovi produttori di reddito e di nuovi versamenti contributivi necessari per finanziare i fondi per le pensioni e per il wellfare.
Il futuro della città e del suo sistema sanitario sono legati, soprattutto, alla maturazione di una severa politica sociale che sia “generativa” di provvedimenti tesi, soprattutto, al miglioramento della condizione femminile e, di conseguenza, del progresso demografico.

Mario Marroccu

Rodolfo Valentino fu il massimo attore di film muto degli anni ‘20. Fu tanto amato da suscitare, nei suoi fans, il primo fenomeno di massa mai visto: la “divinizzazione”, essendo ancora in vita. Da quel fatto, ancora oggi deriva l’espressione “divo del cinema”.
La sua fama mondiale era esplosa col film “I quattro cavalieri dell’Apocalisse”, per effetto di una famosa scena in cui egli ballava il “tango argentino”. Morì a 31 anni nel più importante ospedale di New York, dopo un’operazione per appendicite acuta complicata da peritonite. In tutto il mondo, i suoi ammiratori dettero luogo a scene di disperazione isterica.
Nel 1977 si ricoverò nel reparto Chirurgia dell’ospedale Sirai di Carbonia il suo sparring partner. Anche costui era un pugliese che era emigrato in America da ragazzino. Aveva conosciuto Rodolfo Valentino a San Francisco e con lui aveva fatto squadra nelle gare di tango organizzate dalle balere americane. Erano gare pazzesche che duravano ininterrottamente per più giorni, senza dormire e senza fermarsi mai. Chi sopravviveva alla fatica vinceva cospicue somme di denaro. Quando costui si ricoverò al Sirai, a causa di una gangrena alla gamba destra, raccontò che talvolta in quelle gare vinceva Rodolfo Valentino e talvolta lui stesso. In valigia aveva articoli e fotografie di rotocalchi americani dell’epoca che lo ritraevano col “divino” e le mostrò con fierezza. Era tutto vero: era proprio il compagno di gare di Rodolfo Valentino. Invecchiando si ritrovò in solitudine e decise di tornare in Italia ma, non avendo più parenti in Puglie, decise di venire ad invecchiare a Carloforte.
Trascorreva le giornate fumando come aveva sempre fatto. In valigia, oltre ai rotocalchi americani degli anni ‘20, aveva stecche di sigarette americane. Il primario, professor Lionello Orrù, lo avvisò che per tentare di fermare la gangrena era necessario smettere di fumare lui, magrissimo, sempre sorridente e molto cortese, continuò a fumare nascondendosi in bagno o nei balconi. La suora ogni giorno gli sequestrava le stecche di sigarette ma l’indomani, sotto il materasso, si materializzavano altre stecche di Chesterfield e Pall Mall.
La gangrena peggiorò. I farmaci vasodilatatori erano chiaramente inutili e lui concordò: «Professore, non posso smettere di fumare e non posso più tollerare i dolori alla gamba. Me la tagli». Fu una scena incredibile. Lui, che aveva vissuto in virtù delle doti atletiche delle sue gambe nelle esibizioni di ballo col “divino”, preferiva rinunciare alla gamba destra piuttosto che alle sigarette. Il professore lo accontentò e dette disposizione ai suoi “aiuti” di eseguire l’amputazione a livello della coscia destra. Egli avrebbe seguito l’intervento. L’indomani il ballerino era sereno e sorridente. Continuò a fumare.
Non si capì mai chi gli portasse le sigarette: si trattava di un miracolo derivato dalla sua pensione in dollari americani. Dopo una settimana comparvero i segni della gangrena anche alla gamba sinistra. Il professor Lionello Orrù lo mise in guardia: «Se continua a fumare perderà anche l’altra gamba». Nei giorni successivi i dolori alla gamba sinistra peggiorarono e la gangrena salì dal piede alla caviglia. Nonostante tutto continuò a fumare e nessun discorso del Primario lo fece desistere. Fu lui stesso a risolvere il problema con questa proposta: «Professore mi tagli anche l’altra gamba perché io voglio continuare a fumare ma non tollero più i dolori che mi dà». Il professore lo accontentò e dette disposizione agli “assistenti” di eseguire l’intervento di amputazione, lui avrebbe seguito l’operazione. Il primario desiderava che tutti i chirurghi eseguissero correntemente quel tipo di intervento così come le operazioni per peritonite, per occlusione intestinale e per rottura traumatica di milza. Voleva che chiunque fosse presente in servizio, in sua assenza o in assenza degli “aiuti” più esperti, fosse in grado di eseguire con urgenza quel genere di operazioni salva-vita.
Era l’anno 1977 e l’ordinamento degli ospedali era ancora sotto le leggi Mariotti 132/ ‘68 e 128/ ‘69 ed esisteva nei reparti ospedalieri una struttura gerarchica dei medici ben definita; essa era formata dal primario, dagli “aiuti” e dagli “assistenti”. Tale struttura aveva un duplice fine. Primo creare una scala di responsabilità e di autorevolezza. Secondo: addestrare i medici e formarli alla professione.
La legge 128/’69 definiva esattamente, all’articolo 7, che il Primario aveva tutti i poteri, le responsabilità e tutti i doveri: doveva vigilare sul lavoro di medici ed infermieri e aveva la responsabilità di tutti i malati; era il giudice unico sui criteri diagnostici e terapeutici a cui dovevano attenersi gli “aiuti” e gli “assistenti”; formulava la diagnosi definitiva; doveva inoltre indicare la terapia medica o la tecnica chirurgica da adottarsi nel caso fosse necessaria un’operazione. Doveva eseguire personalmente sui malati gli interventi diagnostici e le operazioni chirurgiche curative che riteneva di non dover affidare ai suoi collaboratori; era l’unico che poteva autorizzare le dimissioni. Ne derivava che sui primari, con la loro responsabilità assoluta su tutto, ricadessero oneri ed onori; per tale ragione, i detrattori li definivano “baroni”. Un articolo successivo della legge 128 disponeva che il primario si impegnasse a mantenere elevato il livello culturale dei medici con una formazione continua sul campo. Egli era il caposcuola e la sua missione di insegnamento conferiva all’ospedale le funzioni di “ospedale di specializzazione”.
Insomma, per i medici il primario era il maestro e il parafulmine da tutti i guai. Gli “aiuti” venivano dopo il primario. Essi erano i medici più titolati, dotati di una certificazione di idoneità rilasciata da una commissione d’esame nazionale con sede a Roma. La legge disponeva che essi sostituissero il primario, in tutte le sue funzioni, ogni qualvolta fosse assente. Era come se la figura del “primario” fosse sempre presente e non se ne sentiva mai la mancanza. Al terzo livello erano classificati gli “assistenti”; si trattava dei medici più giovani, meno esperti, usciti da poco dall’Università, ma ancora da formare come professionisti specialisti.
Ogni Ospedale era una vera e propria scuola di formazione continua nella pratica medica. L’Università aveva fornito la cultura basilare portando gli studenti alla laurea in Medicina, e l’esame di Stato aveva garantito che il neonato medico fosse idoneo ad esercitare la professione come medico generico.
La costruzione professionale dei medici ospedalieri avveniva in ospedale ed era affidata al primario e agli “aiuti”. Mentre il primario era la figura carismatica autorevole che presiedeva la “scuola”, gli “aiuti” erano gli “istruttori” sempre disponibili e pronti a familiarizzare mentre addestravano gli “assistenti” alla professione.
La “scuola ospedaliera” di formazione alla professione di medico specialista (chirurgo, internista, ostetrico , traumatologo, pediatra, etc.) garantiva la costituzione di un perenne capitale culturale e umano all’interno dell’ospedale. Questo rapporto formativo continuo fra primario, “aiuti” e “assistenti” generava un rapporto di fidelizzazione tra medici, ospedali e territorio, e spesso induceva i medici venuti da lontano a trasferirsi nella città sede dell’ospedale, viverci tutta la vita e perfino formarvi le proprie famiglie. Le Amministrazioni ospedaliere favorivano e proteggevano questa funzione docente all’interno dell’ospedale perché così si garantiva la reputazione, la fiducia e il mantenimento di una sicura forza professionale che si sarebbe replicata, da una generazione all’altra di nuovi arrivati, senza temere mai l’abbandono degli ospedali da parte dei medici. Fin dall’inizio fu tale l’interesse che aveva l’Amministrazione ospedaliera a fidelizzare i medici e, soprattutto, i primari venuti da lontano, da costruire per essi, in prossimità dell’ospedale, degli appartamenti per la residenza loro e delle loro famiglie. Oggi non è più così.
Anche nella Medicina territoriale avveniva lo stesso fenomeno: i medici più anziani e più esperti contribuivano alla formazione professionale di altri medici, e anche lì si realizzava una catena solidale che assicurava la continuità.
Nell’ultimo decennio del secolo scorso, in conseguenza della grave crisi economica dello Stato, esplosa nel 1992, il Governo Amato tentò di arginarla con la privatizzazione delle Partecipazioni statali, ed avviò il processo di privatizzazione anche della Sanità pubblica. Le USL divennero ASL; i presidenti delle USL, che in genere erano sindaci del territorio, vennero sostituiti dai manager e tutto cambiò. Il ministro Francesco di Lorenzo fu l’artefice della legge 502 di controriforma; le ministre Maria Pia Garavaglia e Rosy Bindi modificarono l’assetto degli ospedali e abolirono le diversificate figure dei medici: gli “aiuti” e gli “assistenti” vennero posti ad uno stesso livello, dichiarati “dirigenti medici” e messi, praticamente, alle dipendenze del sistema burocratico. I primari vennero declassati a livello di precari, e ridefiniti col titolo di “direttori di Struttura complessa”, con incarico a termine della durata di 5 anni.
L’incarico poteva essere rinnovato previa valutazione dell’Amministrazione della ASL. Se non confermati venivano riclassificati ad un livello inferiore. Lo stipendio era uguale fra tutti i medici, corretto per anzianità, e con l’aggiunta di un’“indennità” di dirigenza per il direttore del reparto. I reparti e le Divisioni ospedaliere cessarono di esistere e furono sostituite dalla dizione “Unità operative complesse”. Terminologia usata anche per gli Uffici amministrativi. Era finita un’epoca. Del periodo che precedeva il 1992 ai medici era rimasta soltanto la “responsabilità medico-legale”. L’instabilità e l’incertezza, che ricaddero come una spada di Damocle sul loro futuro, ebbero conseguenze.
Il nuovo tipo di “direttore” non aveva più gli “aiuti” che lo coadiuvassero o lo sostituissero. Non aveva più le funzioni di “addestratore” delle nuove generazioni di medici e, in quanto sostituibile da chiunque ogni 5 anni, non aveva alcun interesse a crearsi un “competitor”.
Oggi l’improvvisa assenza del “direttore” per pensionamento o per trasferimento crea uno scompenso organizzativo, non esistendo più gli “aiuti”. Tale vuoto gerarchico e l’instabilità del primario “a tempo”, comportano un vuoto di autorevolezza e operativo.

Adesso stiamo assistendo alla crisi degli ospedali per mancanza di medici specialisti. Tale fenomeno non è dovuto solo alla “scarsità” di nuovi laureati; dipende anche dal fatto che nessun giovane medico si sente sicuro a lavorare in un reparto in cui manca il primario-direttore perché i rischi medico-legali che comporta ogni decisione, soprattutto, se presa in solitudine, sono molto, molto, molto pericolosi; meglio starsene nel territorio o nelle cliniche private. In passato la funzione del Primario era principalmente quella di prendere decisioni ad ogni momento della giornata; da essa derivava la salvezza o no del malato.
L’urgenza-emergenza era sempre in agguato. Il processo clinico che portava alla formulazione della diagnosi e del programma terapeutico costituiva di per sé lo strumento di addestramento dei nuovi medici alla professione ed era la base dalla “scuola-ospedale”. L’addestramento alle responsabilità medico-legali era una formazione imprescindibile: era l’esercizio che faceva la differenza tra il periodo dell’apprendimento universitario e il periodo della formazione professionale in ospedale.
Gli studiosi di “psicologia delle decisioni” nei dipendenti pubblici, hanno concluso ricerche che dimostrano come il sospetto che in tutto ci sia del “marcio”, dal 1992 in poi, ha indotto il ceto politico a produrre leggi che hanno generato un atteggiamento di alta avversione al rischio. Erano gli stessi anni in cui vennero soppresse e sostituite le figure gerarchiche dei primari e degli “aiuti” negli ospedali. Il timore dei dipendenti pubblici a prendere decisioni portò dapprima al rallentamento, poi alla quasi paralisi operativa. Questo è ciò che stiamo sperimentando. Gli illustri studiosi sostengono che l’alta percezione del rischio e delle conseguenze professionali genera il tipico comportamento di astensione prudenziale e il blocco decisionale.
Non è vero che la crisi sanitaria che stiamo vivendo sia da attribuirsi solo alla diminuzione dei nuovi laureati in medicina o ai pensionamenti. Questo fenomeno di decadenza dell’assistenza ospedaliera non ha solo motivazioni contabili.
Fra le cause assumono molta importanza il sovvertimento della politica sanitaria territoriale, sostituita dalla burocrazia e l’ inconsistenza delle gerarchie mediche negli ospedali, dominate anch’esse dalla burocrazia.
Prima o poi si prenderà atto che oltre al valore della contabilità esistono anche i professionisti e i loro principi etici. E’ auspicabile che venga agevolato il libero ritorno ai valori non contabili come: lo spirito critico, l’indipendenza dall’egocentrismo dei poteri centralizzati, lo spirito civico, la coscienziosità, l’altruismo, l’impegno e il sentimento di identità col territorio in cui si opera.
Adesso è urgente, per gli ospedali, ricostituire le figure dei “primari-guida” mancanti nelle Unità operative in crisi. Poi saranno loro ad attirare, con il loro prestigio, i nuovi medici.

Mario Marroccu