Esce oggi nelle sale il film della regista Petra Volpe “L’ultimo turno”, dedicato alla professione infermieristica
Esce oggi nelle sale il film della regista Petra Volpe “L’ultimo turno”, dedicato alla professione infermieristica, che prende le mosse dal saggio-romanzo intitolato “Il problema non è la nostra professione, sono le circostanze”, opera dalla giovane infermiera tedesca Madeline Calvelage. Pur essendo contestualizzato in un paese differente dal nostro, il film rappresenta uno spaccato della professione infermieristica, veritiero e senza alcuna retorica. La narrazione si snoda intorno alle attività tipiche di un turno lavorativo notturno, fatto di attività previste e di altre non prevedibili, descrivendo benissimo le dinamiche, interne ed esterne, senza tralasciare di dare rilevanza al valore dei gesti assistenziali espressi dalla protagonista, al netto delle difficoltà contingenti e dei limiti vari dei contesti. Il lungometraggio autoriale interamente dedicato alla professione infermieristica, dal primo all’ultimo fotogramma, si presenta quindi come una storia universale sulla condizione umana prima che lavorativa di una figura cardine per una società occidentale sempre più anziana, patologica, fragile, assediata da malesseri fisici e morali, narra di circostanze favorevoli, che non leniscono le sofferenze di una professione, celebra la professione infermieristica senza alcuna retorica. E’ anche da dire che ci sono professioni come la nostra che vivono nel rumore di fondo del mondo, che tengono in piedi le giornate degli altri, che hanno cura sia delle loro fragilità che delle loro emergenze. Spesso, però, restiamo fuori dal racconto collettivo popolare o, se ci entriamo, lo facciamo con maschere inadeguate.
Nel tempo ci sono stati molti tentativi di raccontare l’infermieristica, ma il linguaggio artistico è spesso malamente convinto che ci sia bisogno di elementi narrativi straordinari (l’eroe, il reietto, la vittima, il carnefice, il salvatore) o da immaginario collettivo (il missionario, la facilona). La professione infermieristica è invece straordinaria nella sua quotidianità e qui su “L’ultimo turno” è stato, finalmente?, ben compreso. Le storie da raccontare su infermieri ed infermiere sono infinite, ma nessuno aveva ancora avuto il coraggio di trasferire questa ordinarietà, che in quanto tale diventa avvincente storia, su pellicola, perché una delle cifre della nostra professione è che ha un valore così elevato e costante che, paradossalmente, rischia di diventare invisibile pur fondamentale: lo si nota solo quando manca. “L’ultimo turno” ha il merito di interrompere questo silenzio. Lo fa scegliendo di non ricercare l’episodio straordinario, la tragedia o l’eroismo, ma mettendo al centro l’ordinarietà fatta di corse continue, di gesti ripetuti, di dialoghi minimi, di decisioni che sembrano piccole ma non lo sono mai. È in questa ripetizione, in questo ciclo quotidiano, che si trova l’eccezionalità di una professione: essere il perno silenzioso senza il quale nessun sistema sanitario reggerebbe.
Il film mostra – senza proclami – che il valore degli infermieri non si misura soltanto in competenze tecniche, ma nella loro capacità di essere ancora radicati nella solidarietà, nella comunità, nella relazione umana, quando tutto il mondo intorno sembra perderla. Baluardi ostinati e contrari di valori che sembrano non interessare più a nessuno. In un’epoca in cui la sanità rischia di diventare sempre più prestazione e sempre meno relazione, questa è una presa di posizione politica, prima ancora che artistica. Il film fa emergere con forza che l’infermieristica, anche nel Sulcis Iglesiente per il nostro ambito di competenza, è visibile solo a chi ne ha bisogno: più sei lontano da un luogo di cura, meno ti rendi conto della sua importanza mentre più ne hai bisogno, più capisci che lì c’è qualcosa di essenziale che non puoi dare per scontato. Non dovrebbe servire una malattia, un incidente o una degenza per riconoscere il valore di chi vi sta accanto in quei momenti. E in questa narrazione, universale per chiunque lavori nella cura, si riconoscono le stesse dinamiche da un continente all’altro. Cambiano le lingue, i sistemi, gli stipendi, le competenze, le funzioni, ma la grammatica della cura e dell’infermieristica è la stessa: è fatta di ascolto, di contatto, di decisioni rapide, di interventi risolutivi, di gestione e organizzazione, di frustrazioni e soddisfazioni che si intrecciano.
Il cuore del film sta nel mostrare che dietro ogni gesto professionale c’è una persona che sceglie ogni giorno di esserci. Nonostante la fatica, nonostante i turni, nonostante la scarsa considerazione sociale che chi lavora nella cura conosce fin troppo bene. Guardando “L’ultimo turno” non si esce con un senso di pietà. Si esce con la consapevolezza che la cura e noi infermieri ed infermiere siamo un bene comune e che, quando ci logoriamo, si logora un pezzo di civiltà. La protagonista – con i suoi errori, le sue scelte, la sua stanchezza – non è un simbolo, è un essere umano. Ed è proprio questa umanità a renderla indimenticabile. Dopo i titoli di coda noi, infermieri ed infermiere e rappresentanza professionale anche in provincia di Carbonia Iglesias, siamo ancora disposti a scegliere, investire, sviluppare, proteggere e raccontare la cura, l’assistenza e la professione prima che tutto diventi un lusso raro, sia economicamente sia umanamente. Non solo è la leva economica a rendere un impiego più gradevole e attrattivo, a evitare episodi di burnout, ma tutto un insieme, appunto, di circostanze. Terminale di tutto e di tutti, l’infermiera Floria, interpretata dall’attrice tedesca Leonie Benesch, preparatissima e credibilissima: l’empatia del pubblico è sicuramente tutta dalla parte della protagonista, malgrado la sua corsa continua contro il tempo le faccia commettere anche dei gravi errori. Ma non si empatizza con gli infermieri per pietà, per compassione, per atteggiamento caritatevole. Le frasi e i dati che la regista porta in evidenza dopo l’ultima struggente inquadratura non lasciano spazio a dubbi: il problema degli infermieri è il problema di una intera collettività. Una piccola storia che contiene un enorme interrogativo posto a ciascuno di noi: è giusto che le professioni di cura siano così poco raccontate e valorizzate, in un mondo che avrà sempre più bisogno di loro?
Graziano Lebiu
Presidente OPI Carbonia Iglesias
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