20 April, 2024
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Enzo Jannacci era un medico ospedaliero specializzato in Cardiochirurgia che operava a Milano e qualche vola a Città del Capo con Christian Barnard. Fuori dall’ospedale suonava e cantava in un una band le sue canzoni comico-demenziali. Nel 1968 lanciò l’immortale canzone:
«Vengo anch’io?…no, tu no!». A dispetto del titolo un po’ fesso egli descriveva che razza di gente siamo noi italiani: bravi a curare l’apparenza in pubblico e a vivere come se la tragedia della morte riguardasse sempre gli altri e noi ne fossimo i disinteressati spettatori. Il verso principale della canzone descriveva un quadro fedele del nostro modo di partecipare alla disgrazia comune: «Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale… per vedere se la gente poi piange davvero…e sentire che per tutti è una cosa normale (la morte degli altri) …per vedere di nascosto l’effetto che fa…». E’ del tutto vero.

Ci basta presenziare al rito funebre e siamo assolti per la nostra indifferenza alla morte dell’interessato. Enzo Jannacci, dal suo osservatorio privilegiato di un reparto di cardiochirurgia ospedaliera, vedeva questo ossimoro: l’estraniazione-solidale alle disgrazie degli altri.
Oggi la situazione in Sardegna è identica. Siamo in uno stato di grave emergenza sanitaria dove la gente muore davvero ma non succede niente. Eppure servono decisioni rapide, efficaci e anche molto difficili, perché dopo il Covid-19 e la guerra Russo-Ucraina, il mondo è cambiato.
Lo stato di economia da guerra in cui ci troviamo da alcuni anni, indebolirà ulteriormente le nostre finanze e non siamo pronti al peggio. Oltre alla minaccia atomica proveniente dal fronte ucraino, e una simile minaccia dal vicino-medio Oriente, esiste un’altra minaccia: forse si sta preparando una nuova pericolosa epidemia di influenza aviaria. Alle guerre e alle epidemie seguono sempre gravi deterioramenti del sistema economico mondiale: carenza di carburanti, distruzione di fonti alimentari, emergenza energetica e dei trasporti, arresto della produzione industriale e manufatturiera, difficoltà nelle comunicazioni, perdita di valore della moneta, crollo della natalità e, soprattutto, povertà.
Si può immaginare cosa avverrà del nostro Sistema Sanitario già in crisi. Appare incredibile la mancanza di percezione dell’emergenza. I vincitori della recente battaglia elettorale sono schierati davanti al capo in attesa delle medaglie al valore da appuntare sul petto in un rituale obbligato ma l’esultazione è anzi tempo: la vera guerra è ancora all’inizio e ci sono provvedimenti importanti da prendere con urgenza.
Un ultimo articolo comparso recentemente sui quotidiani sardi, ha raccontato il dramma di una donna deceduta in un ospedale senza aver avuto il massimo delle cure a causa della carenza di personale.
E’ un fatto gravissimo. E’ un segno della compromissione della sicurezza sanitaria pubblica e i politici dovrebbero sobbalzare sulla sedia e concentrarsi su questa pista.
Attualmente, nei nostri ospedali, il pericolo per cui urgono provvedimenti si chiama: “Carenza di personale”. Il personale sanitario sottratto ai nostri ospedali dovrebbe essere urgentemente riportato indietro.
Questo provvedimento non verrà mai preso se il potere politico non lo imporrà. La concentrazione del personale sanitario nelle ricche strutture sanitarie delle città capoluogo ha impoverito drasticamente gli ospedali provinciali e nessuno adesso sa come compensare quelle perdite di specialisti. Questa situazione viene dal passato e venne generata da leggi scritte alla fine degli anni’90. Per effetto di quelle leggi si dette avvio alla costruzione di un nuovo Sistema logistico dell’apparato sanitario in cui i tecnici dominano assoluti e in cui politici sono esclusi. Ne consegue che manca, alla cinghia di trasmissione tra popolo e Burocrazia sanitaria, l’anello più importante: la “mediazione” del “politico eletto”.
Cosa è l’apparato logistico? E’ la struttura burocratica il cui compito è quello di mettere l’apparato operativo in condizioni di poter lavorare. Cos’è l’apparato operativo? È l’insieme dei medici e degli infermieri che operano negli ospedali e nel territorio. Cos’è l’apparto strategico? È l’apparato politico che ha il dovere di legiferare e di programmare il futuro del sistema sanitario. La funzione politica è delicatissima; essa si basa sulla capacità di “mediare” tra le richieste di servizi e la possibilità di fornirli attraverso la redistribuzione dei fondi raccolti col fisco. Da ciò deriva l’enorme responsabilità del politico nei risultati che ne conseguiranno. Se le parti tra politica e burocrazia vengono invertite, il sistema sanitario crolla. L’anomalia del “travaso di potere” dalla Politica all’apparato logistico si verificò in un momento di carenza di iniziativa politica e di capacità di programmazione. Fummo tutti distratti: mancò il controllo sulle conseguenze che sarebbero venute con certe leggi di uscita dello Stato dalla gestione dei Servizi essenziali. Chi è il controllore che può rimettere ordine? E’ il cittadino nel momento in cui vota. Col voto il cittadino nomina il suo rappresentante: il politico eletto. Per esempio, nei comuni il rappresentante popolare che controlla e programma l’apparato amministrativo è il sindaco. Nelle Regioni è il presidente della Giunta che delega gli assessori. Da queste premesse si capisce l’importanza che la Politica-governante mantenga fermo il suo controllo nel mondo della Politica-praticante: quella che fornisce il servizio pubblico.
Nell’ultima decina d’anni è stata architettata una nuova macchina logistico-burocratica che sta detenendo il monopolio della sanità regionale sia nella fase di “Programmazione “ sia nella fase “Esecutiva” ed è stato messo a capo di essa un esperto in campo amministrativo. Nessuno contesta il potenziale di efficacia che può esprimere un consesso di ottimi burocrati nel gestire la logistica del sistema sanitario.
Purtroppo però, attualmente la direzione politica sul Sistema logistico risulta debole. Manca l’equilibrio dei poteri di feed-back negativo (autoregolazione) tra politici e gestori della Sanità pubblica.
Le Giunte regionali precedenti misero, a capo della gerarchia burocratica, un tecnico in qualità di assessore non eletto. Così venne realizzato un quadro amministrativo della Sanità veramente singolare:
il Sistema Sanitario Regionale finì totalmente in mano all’apparato logistico. In un sistema come questo, il popolo ha di fatto perso la sua prerogativa di esercitare il “controllo” col voto.
Da anni persiste questa dinamica anomala:
– il popolo vota per nominare il controllore politico dei suoi interessi;
– il politico che è stato votato non può controllare, perché viene lasciato senza poteri;
– l’apparato logistico-burocratico occupa i posti del potere, ed è senza controllo popolare.
– le misure burocratiche sono basate su calcoli perfetti ma il popolo è scontento dei risultati.
Il caso sanitario riferito all’inizio ci dice che la malattia del Sistema è grave. Ancora più grave è la sensazione diffusa che manchi nei capi la percezione del pericolo.
La situazione sanitaria in cui ci troviamo è difficilissima e si sintetizza in un’espressione: emergenza.
Quando l’emergenza viene affrontata da nazioni ricche tutto si risolve con la messa in campo di immense riserve di capitali.
Quando l’emergenza deve essere affrontata da nazioni già molto indebitate e dipendenti da altre nazioni per le fonti energetiche, alimentari e per la sicurezza, bisogna ricorrere a mezzi più modesti. Noi siamo fra questi.
Davanti all’emergenza e in assenza di grandi fondi disponibili, si potrebbero prendere decisioni che non comportano un aumento di spesa ma che servirebbero a migliorare la funzionalità del sistema come:
1 – Obbligare i Politici eletti a rioccupare il centro della Sanità;
2 – Limitare l’utilizzo dei tecnici alle consulenze;
3 – Riportare i Sindaci al vertice delle ASL con funzioni di programmazione e controllo.

Una volta restituito il vertice gerarchico della Sanità alla Politica sarebbe necessario mettere ordine alla gerarchia delle funzioni ospedaliere.
Già in passato, nella legge sulla “rete regionale ospedaliera del 2017” vennero istituiti gli ospedali con funzioni di “HUB”, cioè di centro in cui convogliare tutte la patologie più impegnative, e vennero identificati gli ospedali “SPOKE”, cioè quelli che dovrebbero selezionare i pazienti più complessi e inviarli agli “HUB”; infine, furono individuati gli “ospedali di base” che di norma non si dedicano all’emergenza. Questa distinzione è importantissima, perché da essa dipende la dotazione organica del personale. Dato che il problema è proprio la “carenza di Personale”, tale distinzione è cruciale. Da questa distinzione dipende quanto personale spetta ad ogni tipologia di ospedale. Una volta stabilita la dotazione organica dovuta ad ogni tipo di ospedale, è facile calcolare la spesa futura e procedere alle assunzioni. Ciò deve essere chiarito da una specifica “legge sugli organici”. Tale legge per ora non c’è.
Questa carenza è causa del caos del Personale.
Le uniche strutture ospedaliere che possono sapere di quanto personale abbisognino sono le Case di cura private, che infatti non hanno problemi. Ciò è possibile perché il loro lavoro è facilmente prevedibile e programmabile in quanto esse non erogano prestazioni sanitarie in urgenza ed emergenza. Mancando l’“urgenza” esse possono concentrare il lavoro nelle sei ore del mattino, dalle ore 8 alle 14. In quel turno gli organici sono presenti al completo. Invece nei turni della sera, della notte e dei giorni festivi l’organico è ridottissimo. Basta un medico di guardia per tutta la Casa di Cura e pochi infermieri per l’assistenza corrente ai degenti.
Negli Ospedali “HUB” dello Stato è tutto diverso. In essi il lavoro è perennemente intenso, 24 ore su 24.
Significa che per ogni turno devono essere presenti gli organici completi di medici, infermieri, tecnici e consulenti specialisti, che sono necessari in emergenza. Il dispendio di Personale, materiale e ore lavorate è enorme.
Gli ospedali di Base non trattano emergenze e pertanto hanno necessità di poco personale, che è facilmente programmabile.
Il problema si pone per gli attuali 8 ospedali provinciali delle ASL sarde .
Questi 8 ospedali, in teoria, dovrebbero inviare le grandi emergenze all’ospedale “HUB” (es. Brotzu); in realtà prima di farlo devono dirimere il dubbio se si tratti di pazienti complessi o meno. Questa distinzione, tranne i casi di ictus o di aneurisma dell’aorta o di trauma cranio-encefalico-midollare, è impossibile da farsi in breve tempo. Per capirlo bisogna eseguire tutti gli esami ematochimici, radiologici, TAC, RMN e tutte le consulenze specialistiche nell’ospedale provinciale di primo arrivo. Ciò comporta la necessità di avere personale specialistico immediatamente disponibile e, se il caso, procedere a interventi chirurgici in estrema urgenza.
Ne consegue che per tutti i turni, 24 ore su 24, in qualunque giorno della settimana, anche in questi ospedali è necessaria una dotazione di personale piena.
Lo stato delle cose a cui stiamo assistendo ci dice che nel sistema ospedaliero “Provinciale”, come il nostro, la dotazione organica è estremamente carente. Per non incorrere in gravi rischi si è pensato di risolvere il problema della responsabilità medico-legale ricadente sui gestori con un metodo drastico: la chiusura dei reparti specialistici dedicati all’urgenza. E’ la logica della “tecnica difensiva a scanso di responsabilità”. Questa è la tipica e legittima soluzione “tecnicamente perfetta”.
La soluzione politica sarebbe stata molto diversa: il Politico avrebbe impedito la chiusura del reparto e cercato Personale di supporto. L’avrebbe fatto per non perdere il favore dell’elettorato. La differenza tra tecnico e politico, infatti, sta nel fatto che il politico è sotto esame continuo dei cittadini, e può essere duramente punito col voto. Il tecnico “no”: non perde voti e neppure il posto. Non c’è equilibrio né deterrenza.
Di questo passo, si potrebbe arrivare alla chiusura totale dell’ospedale.
Prima di arrivare al punto “zero” della curva del fallimento è necessario che qualcuno faccia richieste simili a queste:
1 – E’ necessario che si classifichino ufficialmente e realisticamente gli ospedali per sapere quali siano quelli ad alta intensità di cure, quelli a media e a bassa intensità.
2 – Si deve chiarire se “tutte” le urgenze vadano trasferite al centro “HUB” di Cagliari o trattate al DEA di I livello.
3 – Si deve chiarire, con una legge, quale debba essere la dotazione organica che spetta ad un ospedale DEA di I livello (di emergenza), come è il Sirai. E’ la decisione più urgente. Senza questa legge chiunque continuerà a sottrarci personale medico e infermieristico.

La risposta a tali richieste è difficilissima e ha molte implicazioni soprattutto di tipo economico.
In attesa di un’improbabile risposta, si potrebbe prendere la decisione di riorganizzare il lavoro dei sanitari e prendersi cura almeno dell’essenziale per mantenere in vita il nostro ospedale DEA di I livello.
In una situazione così difficile il Politico potrebbe anche solo dedicarsi alla ristrutturazione della gerarchia del Personale tenendo conto del fatto che la scarsità dei medici e infermieri laureati persisterà per altri 10 anni almeno.
Si dovrebbero necessariamente ristrutturare i contratti di dipendenza prevedendo altre forme più libere per rendere più attraente il lavoro in ospedale.
Il miglioramento delle retribuzioni soprattutto ai primari, ai reperibili, ai medici di primo intervento, e agli infermieri laureati e tecnici ospedalieri potrebbe essere un incentivo per attirare i libero-professionisti nell’area della dipendenza pubblica.

Un passo importantissimo sarebbe la rivitalizzazione del Consiglio dei sanitari attraverso una nuova forma di indipendenza, autorevolezza, e autonomia con una posizione stabile e determinante come componente degli organi della ASL.

A condizioni di lavoro, prestigio e retribuzione migliorate il medici specialisti non desidererebbero più abbandonare gli ospedali ma, al contrario, gli specialisti che oggi lavorano esclusivamente in libera professione troverebbero più gratificante l’ospedale e potrebbero convertirsi ad ottenere un contratto come strutturati.
Questo ragionamento, con soluzioni concrete, può essere fatto solo in un ambiente politico, cioè con quella parte dello Stato che formula proposte di legge, o cambia le leggi.
Il ritorno dei politici alla assunzione delle responsabilità in campo sanitario, al merito per i risultati ottenuti e all’esame dell’elettorato, è essenziale.
A questo punto, se l’evoluzione geopolitica assumesse aspetti più inquietanti, saremmo un po’ più pronti ad affrontarli e si dovrebbe cambiare il testo della canzone del nostro cardiochirurgo-cantante-comico-demenziale Enzo Jannacci.

Mario Marroccu

Per capire quale fosse la condizione femminile fino al Referendum Istituzionale del 1946 bisogna andare a vedere il film “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi. E’ un’opera d’arte fantastica, da Oscar. Non si può raccontare la trama del film, perché è fortemente raccomandato andare a vederlo senza compromettere la sorpresa allo spettatore.
La storia raccontata nel film ha un preciso rapporto con l’Articolo 3 della Costituzione in cui si afferma che: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».
Quell’articolo indusse una profonda trasformazione nella struttura sociale italiana e nel costume, perché riconobbe che Uomini e Donne sono uguali senza distinzione di genere, qualunque sia l’etnia di appartenenza, la religione professata (vedi leggi razziali), l’opinione politica (vedi la messa al bando dei partiti), il censo, la cultura, la condizione fisica ed economica. Fino ad un attimo prima della promulgazione della Costituzione, la società italiana era ancora regolamentata dallo Statuto Albertino del 1848. In quello statuto la Donna era posta “sotto la tutela del marito”. Con tale espressione si disponeva che le donne dovessero vivere sempre, sia da nubili che da coniugate, sotto la “tutela” di un uomo. Ciò comportava quella soggezione economica, culturale, sociale, politica che oggi Amnesty International definisce “sistema di sorveglianza”. La Costituzione Repubblicana liberò le donne da quella soggezione e, dal giorno in cui venne promulgato l’articolo 3, esse ebbero per la prima volta il diritto di programmare la propria vita. Quella legge nacque a conclusione di una Guerra mondiale e di una sanguinosa guerra civile combattuta tra fascisti-repubblichini e partigiani dal 1943 al 1945.
Chi non ha conosciuto quei tempi, dovrebbe vedere il film di Paola Cortellesi per capire cosa vuol dire non avere diritto a una propria identità e vivere sotto tutela a causa del genere di appartenenza.
Contemporaneamente all’articolo 3, i Costituenti dettero forma alla Sanità futura con l’articolo 32.
Anch’esso, come raccontò Tina Anselmi, era nato dalle utopie libertarie e ugualitarie disegnate nel periodo della guerra civile 1943-45. I legislatori che produssero la grande Riforma sanitaria con la legge 833/78 erano riusciti a liberare gli ospedali e la sanità territoriale dalla tutela delle Casse mutue, ma purtroppo nel 1992, per sfuggire alla grave crisi economica, si cadde nella tentazione di prendere una scorciatoia verso il risanamento economico adottando provvedimenti legislativi d’emergenza che rimisero il Sistema Sanitario Nazionale sotto la tutela di strutture formalmente pubbliche ma oggettivamente di tipo privatistico. Fu fatta una scelta che oggi equivarrebbe all’idea di rimettere le donne “sotto tutela” degli uomini per mettere sotto controllo un bilancio familiare critico. Oggi è accertato che l’ impostazione data alla gestione della Sanità italiana dal 1992 in poi è fallita. L’ha dimostrato scientificamente pochi giorni fa il più autorevole istituto nazionale che si occupa di Economia sanitaria, l’Istituto Gimbe (gruppo italiano per la medicina basato sull’evidenza) che ha reso pubblico uno studio in cui si sostiene che la Sardegna è al 19° posto fra le province e regioni autonome per inefficienza sanitaria. Le gravi condizioni in cui ci troviamo sono attestate dalla documentata insufficienza delle cure, dalla ridotta aspettativa di vita messa in rapporto alla spendita sbagliata dei fondi, dal forte aumento dei viaggi in continente per curarsi, dallo scarseggiare di medici e infermieri, dal fatto che il 45 % delle spese sanitarie in Sardegna è a pagamento mentre nelle altre regioni d’Italia lo è solo il 25%, dal fatto che circa la metà delle risorse assegnate ai cittadini non ha prodotto alcun servizio e che il Nsg (Nuovo sistema di garanzia) ha registrato un punteggio insufficiente nell’area ospedaliera. Si è calcolato che gli obiettivi di assistenza agli anziani over 65, fissati dal PNRR, sono irraggiungibili. In questo contesto di dati, si resta frastornati davanti all’evidenza che il disagio sanitario patito non è esattamente compreso dai responsabili della Sanità pubblica. Quando la popolazione lamenta le carenze ospedaliere, immediatamente le viene offerta la costruzione di nuovi edifici ospedalieri. In realtà chi lamenta la carenza ospedaliera intende riferirsi al bisogno di ottenere una maggiore disponibilità di offerta sanitaria intesa come maggiore disponibilità di attrezzature mediche e di “Personale dedicato alla cura del malato”.
Il problema del “Personale” va analizzato secondo due aspetti:
– l’aspetto numerico: cioè l’adeguatezza numerica al bisogno contrattuale di cure.
– l’ aspetto etico: cioè l’elemento valoriale che lega il prestatore al fruitore di cure tramite il vicendevole rispetto e la compassionevole solidarietà.

La prima riforma sanitaria della storia fu propriamente una “Riforma etica”. Nacque tra quarto, quinto e sesto secolo d.C. dall’idea, di San Basilio di Cappadocia e San Benedetto da Norcia, di interpretare concretamente il significato della parabola del Buon samaritano. Il viandante ferito dai briganti rappresentava il malato, che era sacro in quanto rappresentazione del corpo sofferente del Cristo, l’oste e il suo albergo erano la rappresentazione dei curanti e del luogo fisico del ricovero, il Buon samaritano rappresentava la comunità solidale che si autotassa e fornisce le cure gratuite al bisognoso. Quello etico-caritativo fu il primo sistema sanitario nel mondo e durò fino al 1900.

Nella prima metà del 1900 nacque la Sanità basata sulle Casse mutue che erano enti assicurativi che affondavano le loro radici nelle società operaie.
La prima “Riforma ospedaliera” fu quella varata dal ministro della Sanità Mariotti nel 1968. Fu una vera rivoluzione perché istituì la prima “Rete degli ospedali pubblici” e, per la prima volta, la legge estese il diritto all’assistenza ospedaliera a tutti i cittadini a spese dello Stato. Quella riforma introdusse il concetto che gli ospedali devono essere pubblici e devono essere finanziati con la fiscalità generale. Con questo atto l’“Etica laica” entrò nel sistema sanitario italiano.
La “Prima Riforma sanitaria”, legge 833/78, introdusse il “Sistema sanitario nazionale” finanziato dalla fiscalità generale. Quella riforma abolì le Casse mutue e realizzò il dettato dell’articolo 32 della Costituzione.
Poi dopo il 1992 noi italiani, con la nostra esperienza millenaria di civiltà ospedaliera, riuscimmo a invertirne la rotta verso la sua autodistruzione.
La “Seconda Riforma sanitaria” fu la 502/92, chiamata anche Riforma italiana alla Tatcher, perché fu improntata al rigore amministrativo per ridurne i costi, e introdusse il principio della gestione manageriale della Sanità.
La “Terza Riforma sanitaria” fu quella del 1999 della ministra Rosy Bindi; fu improntata a metodi gestionali di spiccata privatizzazione con l’obiettivo della efficienza-efficacia, cioè della maggior produzione con la minor spesa possibile. Con la nuova riforma le ASL divennero aziende produttrici di servizi sanitari che venivano pagati dalle regioni secondo i DRG. I DRG sono codici di identificazione delle diverse prestazioni sanitarie; ad ogni codice viene attribuito un valore in euro (si immagini il cartellino del prezzo su un prodotto in vendita). Quanti più DRG sanitari vengono erogati tanto più l’azienda incassa.
Con i fondi incassati, ogni reparto ospedaliero si finanzia per pagare gli stipendi, i farmaci, i presìdi e le spese alberghiere. I reparti specialistici che non hanno raggiunto gli obiettivi sono stati chiusi. La ministra Rosy Bindi allargò la platea delle prestazioni che potevano essere fornite anche da Società di servizi sanitari privati e accettò che il privato accreditato potesse fornire le prestazioni dei LEA socio-sanitari a nome e per conto dello Stato. Così dal 1999 il privato iniziò a sostituire il pubblico competendo per economicità nell’impiego delle risorse e diventando più conveniente tanto da farlo preferire alle strutture ospedaliere pubbliche. Incredibilmente sfuggì che il sistema sanitario pubblico, che si occupa di patologie non assistibili dai privati (ad esempio: rianimazioni, tumori, demenze, urgenze ed emergenze “h24” nei Pronto Soccorso), era più costoso perché si doveva sobbarcare un impegno professionale infinitamente più difficile di quello che poteva fornire il privato. Ne conseguì che il diritto alla salute nel sistema pubblico, subordinato al limite delle risorse messe a disposizione dallo Stato, entrò in crisi. Sembrava che il privato accreditato, meno oneroso, potesse addirittura sostituirsi al sistema sanitario pubblico.
Qui non si tratta di capire se le intuizioni dei ministri Di Lorenzo, Garavaglia, Bindi e di tutti quelli che seguirono fossero state giuste o sbagliate, ma si tratta di ricostruire il nesso causale tra quegli eventi e l’attuale stato di disagio sanitario della nazione. Si tratta di capire perché il sistema sanitario pubblico sia arrivato impreparato davanti all’epidemia del 2020 e abbia dovuto sopportare, con poche attrezzature e poco personale, la potente spallata del Covid, soffrendone profondamente. Nello stesso periodo il sistema sanitario privato fu esentato dall’affrontare direttamente l’epidemia e resse molto bene. Le funzioni dei due sistemi sono distinte e complementari, com’è il caso delle specialistiche oculistiche e ortopediche delle Case di cura private che sono di supporto agli ospedali pubblici i quali non riuscirebbero a contenere le file d’attesa colossali che si sono formate. Si deve prendere atto, dopo l’esperienza di questi ultimi anni, che il privato non è in condizioni di garantire l’organizzazione dell’Igiene pubblica e della Prevenzione o di sobbarcarsi l’impegno a curare tutte le grandi patologie, dai tumori alle demenze, alle epidemie e alle urgenze ed emergenze. E’ ormai accertato dai più autorevoli osservatori economici che il sistema sanitario privato è del tutto incapace di sostituirsi al Sistema sanitario nazionale e la lezione che abbiamo avuto dall’epidemia di Covid ha dimostrato che solo lo Stato può garantire un Sistema sanitario nazionale efficiente. Oggi davanti al problema demografico, e con i problemi geopolitici incombenti come il rischio di guerra, l’urgenza di ricostituire un Sistema sanitario nazionale secondo i principi della legge 833/78 è ineludibile.
Un nesso causale evidente che collega le buone riforme sanitarie iniziali al decadimento attuale è rappresentato dall’estromissione dei Sindaci dalle ASL; con quell’atto venne impedito alle Amministrazioni locali il “controllo” sulla Sanità. Di fatto da allora le autorità territoriali e le Usl vennero messe “sotto tutela” e affidate a entità esclusivamente burocratiche, interrompendo la “cinghia di trasmissione” che mette in comunicazione le popolazioni e le Amministrazioni centrali.
Per liberare le donne dalla tutela del “sistema di sorveglianza” a cui le condannava lo Statuto Albertino, fu necessario superare una guerra mondiale e un’atroce guerra civile. Così si addivenne al Referendum del 1946 per la scelta della forma istituzionale da dare allo Stato. Per la prima volta votarono le donne che avessero almeno 21 anni d’età. Con quel referendum vennero eletti i deputati all’Assemblea Costituente cui spettò il compito di redigere la nuova Carta Costituzionale. Quei deputati, eletti da 12 milioni e 700mila donne e da 10 milioni e 700mila uomini, scrissero sia l’articolo 3 (uguaglianza di genere) sia l’articolo 32 (Sanità) della Costituzione. Mentre l’articolo 3 ha dato i risultati cercati, l’articolo 32 ha ancora forti difficoltà a raggiungere gli scopi immaginati dai padri Costituenti.
Per rappresentare cosa sta avvenendo in questo stato di “tutela sanitaria” in cui siamo stati posti, ci vorrebbe una Paola Cortellesi sanitaria. Per adesso non ci resta che andare a vedere il suo film “C’è ancora domani”.

Mario Marroccu

Il disastro sanitario ed economico del Sulcis Iglesiente non è nato dal nulla. Ha radici nei fatti politici del 1992. E’ utile fare un viaggio nella storia di quegli eventi sia per capire e, forse, per porre qualche riparo.
Lo stato di salute della sanità pubblica è oggi talmente grave e la sua gravità è talmente complessa che, a questo punto, è difficile anche il solo sospettare che veramente esista fisicamente qualcuno che abbia programmato tanto degrado. Dovrebbe essere un genio fornito di una maligna intelligenza superiore.
Ammesso che esista un soggetto del genere, a che scopo lo avrebbe fatto? C’è chi sostiene che il danno al servizio sanitario nazionale sia stato progettato da un’ignota organizzazione al fine di favorire la sanità privata. Sarebbe un’organizzazione di matti veramente sciocchi perché sostituirsi del tutto alla Sanità pubblica non conviene a nessuno. Per esempio: a chi converrebbe accollarsi i malanni di tutti i vecchi d’Italia, soli, inguaribili e con in tasca i pochi soldi per la sopravvivenza? A chi converrebbe l’onere di assistere tutti i malati di cancro, debilitati nel fisico, nella famiglia e, soprattutto, nel conto in banca? Chi glielo farebbe fare ad assumersi l’impegno di prendersi in cura i pazienti in Rianimazione in uno stato di coma più o meno profondo? Perché dovrebbero pagare le ingenti spese dei trapianti d’organo a pazienti senza speranza e non solvibili? E gli infarti del miocardio? E tutti i casi di diabete ai limiti della invalidità? E i tossicodipendenti? E le malattie rare? I morti sul lavoro? E gli psichiatrici? E gli incidenti stradali? Chi glielo farebbe fare ad assumersi il compito costosissimo di affrontare le epidemie tipo Covid-19 o le campagne vaccinali, o le spese dell’Inail e dei Pronto soccorso?
Gli imprenditori privati non sono matti. A sé riservano le cliniche dove si curano le malattie, tutto sommato, più semplici, facili, guaribili e, soprattutto, di pazienti solventi. Ciò che compete alla Sanità pubblica è diversissimo da ciò di cui si occupa la sanità privata.
E’ assolutamente vero che negli Stati Uniti d’America esistono le assicurazioni private costosissime che si limitano a poche malattie e per tempi di cura molto limitati; in genere non pagano le spese del pronto soccorso o fanno dimettere i malati dopo tre giorni da un intervento a cuore aperto, per risparmiare sulla degenza in ospedale. Bisogna sapere che in America esiste anche una Sanità pubblica, che si chiama “Medicare”, a beneficio di chi non può pagarsi l’assicurazione privata e che, oltre ad essere molto carente, costa allo Stato il doppio di quanto costa il Sistema sanitario italiano. A questo punto, oltre al sospetto che dietro ci sia l’interesse di qualcuno, potremmo anche considerare il sospetto che dietro il nostro disastro sanitario ci sia in realtà qualche grosso errore commesso da politici poco accorti. Può anche essere accaduto che la grande Riforma sanitaria varata col DPR 833 del 1978 si sia inceppata a causa di leggi successive fatte male; può anche darsi che quelle nuove leggi non siano state lette con attenzione e che i votanti abbiano votato senza vedere gli errori che hanno prodotto queste conseguenze.
Anche questo sospetto, paradossalmente, è sommamente ingiusto, perché è anche vero che i politici italiani furono i primi al mondo a riconoscere nella Costituzione del 1948, all’articolo 32, il diritto di tutti alla salute. Quell’articolo, nella sua semplicità e completezza, fu uno degli elaborati intellettuali più geniali che un Costituente potesse generare: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti». Fu una frase rivoluzionaria contenente due principi: l’inviolabilità assoluta del diritto alla salute e la certificazione che tale bene è di rilevanza collettiva. Così fu sancita la solidarietà nazionale. Altro che privatizzazione! Altro che svantaggio a danno dei molti che non possono permettersela! Tutte le leggi che vanno contro questo principio sono incostituzionali e, se qualcuno avesse votato nuove norme contrarie a questo principio per disattenzione, sarebbe gravemente colpevole.
Esaminiamo cosa è avvenuto nella storia delle Riforme sanitarie italiane. Nell’anno 1968 la legge Mariotti istituì gli “Enti ospedalieri” che sostituirono gli ospedali caritativi provenienti dalla tradizione ospedaliera medioevale. La stessa legge istituì il “Fondo ospedaliero nazionale” e attribuì la competenza di gestione degli ospedali alle Regioni. Quel Fondo e quella legge ospedaliera furono la base su cui si costruì la Grande Riforma sanitaria con la legge 833 del 1978, concepita dalla Commissione parlamentare di Tina Anselmi. Ella raccontò in quei giorni che quell’idea era nata da discussioni e progetti formulati da gruppi partigiani riuniti intorno ai fuochi dei bivacchi di montagna. La legge 833/78 rappresentò un’utopia che si concretizzava in un documento scritto. Il sogno prese forma nella premessa della legge nel cui testo sta scritta la frase: «…Il Sistema sanitario nazionale è costituito dal complesso delle funzioni, delle strutture (ospedali), dei servizi e delle attività destinate alla promozione, al mantenimento, e al recupero della salute fisica e della salute psichica di tutta la popolazione». In nessuna legge del mondo era mai stata scritta questa premessa.
Mentre gli ospedali, dal medioevo al ‘900, erano stati sempre amministrati da comitati caritativi religiosi o filantropici, nella nuova legge si volle che gli ospedali fossero amministrati da rappresentanti popolari democraticamente eletti. Fu una rivoluzione. I cittadini, dopo 1.500 anni dall’istituzione degli ospedali dai tempi di San Benedetto e San Basilio, divennero per la prima volta i proprietari e gestori diretti degli ospedali. La comunicazione fra cittadino e gestore divenne immediata perché il Sistema venne dato in mano ai sindaci e ai consiglieri comunali. Essi avevano il compito di eleggere l’”Assemblea generale” che era formata da consiglieri comunali e l’Assemblea eleggeva il presidente della Usl (Unità sanitaria locale). Furono gli anni più produttivi della storia sanitaria italiana.
Scomparvero le Casse mutue e comparve il Ssn (Sistema sanitario nazionale), finanziato dal sistema fiscale universale. Ne conseguì anche che ai grandi miglioramenti si associò il crescere della spesa pubblica dello Stato. Per contenerla il ministro Carlo Donat Cattin nel 1987 abolì l’Assemblea generale ma mantenne il presidente della Asl e il Comitato di gestione, eletto dai sindaci dei Comuni del territorio.
Secondo gli indicatori economici internazionali, l’Italia godeva di un generale benessere economico tanto che nell’anno 1991 venne dichiarata quarta potenza industriale del mondo e il PIL pro capite risultava superiore a quello dell’Inghilterra.
Appena un anno dopo, la Repubblica entrò nel suo “annus horribilis”: il 1992. La commissione governativa presieduta dall’economista Piero Barucci rivelò che l’economia era al collasso a causa di un imponente debito pubblico causato dalle Partecipazioni statali. Eni, Enel, Iri, Ina, Efim, stavano portando al tracollo lo Stato. L’indebitamento aveva messo in crisi il Governo espresso dal CAF (Craxi-Andreotti-Forlani). Caduto il Governo Andreotti II e dimessosi Francesco Cossiga, si andò a nuove elezioni sotto l’effetto dell’esplodere dello scandalo di Tangentopoli. A febbraio era iniziata l’indagine della procura di Milano diretta da Francesco Saverio Borrelli e condotta da Antonio di Pietro, in seguito alle rivelazioni di Mario Chiesa, il direttore del Pio Albergo Trivulzio. Oscar Luigi Scalfaro, sostenuto dalla corrente dei “moralizzatori”, venne eletto presidente della Repubblica e immediatamente indisse le nuove elezioni; queste avvennero ad aprile contemporaneamente all’esplosione della sfiducia popolare nei partiti storici, in un clima di forte instabilità politica. I partiti tradizionali crollarono ed emerse la Lega Nord che passò da 2 a 80 parlamentari. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiutò di concedere incarichi di Governo a Bettino Craxi e nominò presidente del Consiglio il deputato Giuliano Amato. La Prima Repubblica era finita con un’ondata di arresti e di avvisi di garanzia. A maggio, ad opera della mafia, avvenne la strage di Capaci, seguita due mesi dopo da quella di via d’Amelio. Lo Stato era preso fra molti fuochi. Giuliano Amato si trovò ad affrontare una condizione di dissesto economico più grave dal dopoguerra ad allora. Si correva il rischio di non poter pagare gli stipendi pubblici. La Nazione si sarebbe fermata.
La Banca d’Italia fu costretta a vendere 48 miliardi di dollari per difendere il cambio e la lira fu svalutata del 30%. La lira uscì dallo Sme (Sistema monetario europeo); era il 16 settembre 1992, il “mercoledì nero”. Giuliano Amato per sostenere le casse dello Stato procedette al “prelievo forzoso” retroattivo del 6 per mille dai conti correnti degli italiani e, in base alle indicazioni del ministro del Tesoro Piero Barucci, dette avvio ad una grande operazione di privatizzazione delle Partecipazioni statali (banche, energia elettrica, trasporti pubblici, Alitalia, industrie manifatturiere, industrie dell’acciaio, comunicazioni, poste, idrocarburi, assicurazioni, agroalimentare, etc.). Lo Stato si spogliava di tutte le sue pregiate proprietà, nell’intento di allontanare la politica dalla gestione delle imprese statali. Su tutta la gestione pubblica, sotto l’effetto delle indagini di Tangentopoli, cadde il sospetto di possibile collusione con la corruzione e vennero varate leggi e norme fortemente restrittive nell’intento di arginare l‘idea che il malaffare fosse in agguato ovunque ci fosse la gestione del politico. In questo crollo finirono anche le miniere del Sulcis Iglesiente e le industrie di Portovesme espressione dell’Eni. Gli operai di Portovesme, per fermare i licenziamenti in massa di oltre 20mila operai promossero la famosa “Marcia per lo sviluppo”. Gli operai iniziarono a marciare il 19 ottobre e, al suono di tamburi di latta, saltarono il mare. Raggiunta Civitavecchia, percorsero a piedi le vie del Lazio fino a Roma, dove vennero accolti da Papa Woytila ma non da Giuliano Amato.
A fine anno, il vortice autodistruttivo coinvolse anche il Sistema sanitario nazionale quando il ministro della Sanità Francesco di Lorenzo il 31 dicembre varò il decreto che iniziò la “privatizzazione” del Sistema sanitario pubblico col DPR 502/1992. Le Unità sanitarie locali (Usl), rette dai sindaci, vennero trasformate in entità rette dai “Direttori generali con autonomia gestionale di diritto privato” nominati dalla Regione all’interno di un elenco di idonei. La “mission” del Sistema sanitario cambiò in modo radicale per due motivi. Primo, i sindaci, che rappresentavano la parte politica, vennero espulsi dalla gestione del sistema sanitario locale; secondo, l’obiettivo dei nuovi amministratori non fu più quello di soddisfare le richieste della popolazione locale ma venne sostituito dall’“equilibrio di bilancio”.
Questo dava ai direttori generali l’opportunità di poter modificare la risposta alle richieste provenienti dal territorio, ignorandone la soddisfazione globale e mettendo al centro il calcolo ragionieristico della salute che doveva ora attenersi a un nuovo criterio: i Livelli essenziali di assistenza (Lea). Oggi, a distanza di 32 anni, sappiamo che tutte le premesse alla legge, che promettevano Uguaglianza, Equità e Prossimità dell’assistenza sanitaria in tutto il territorio nazionale non sono state rispettate. Ciò avvenne a causa della mancanza del “controllore”, cioè la parte politica elettiva rappresentata dai sindaci. Al ministro Francesco di Lorenzo, seguirono le ministre Maria Pia Garavaglia e Rosy Bindi che perfezionarono l’“aziendalizzazione delle Asl”.
Nell’anno 2003 il Governo Berlusconi dettò regole per ridurre la spesa sanitaria dello 0,5% l’anno; ciò comportò il blocco del turn-over del personale andato in pensione e portò all’assottigliamento e disgregazione dei reparti ospedalieri. Col Governo Monti, il ministro Balduzzi emanò norme restrittive per i reparti ospedalieri che, ridotti in povertà di personale dalle norme precedenti, non potevano più funzionare. Ne conseguì la chiusura di ospedali.
Nel 2015 il DM 70 del Governo Renzi pose regole stringenti, basate anch’esse sul risparmio; ne conseguì un peggioramento ulteriore degli ospedali provinciali che portò alla desertificazione del sistema sanitario territoriale a vantaggio della centralizzazione della Sanità. In Sardegna la Sanità pubblica venne centralizzata a Cagliari e Sassari.
Nel 2017 la regione Sardegna, presidente Francesco Pigliaru e assessore della Sanità Luigi Arru, istituì la Ats (Azienda tutela salute). Con tale legge le 8 Asl sarde vennero ridotte a 1 soltanto, che assunse tutte le funzioni delle altre 7. Sopravvissero:
– l’Ats (a Cagliari e Sassari)
– il Brotzu di Cagliari
– il Policlinico Universitario di Cagliari
– il Policlinico Universitario di Sassari
Alle altre 7 Asl venne tolto il nome di “Azienda” e divennero “Aree sanitarie locali”. Erano diventate periferie sanitarie e persero l’autonomia programmatoria e amministrativa precedente. Ne conseguì l’esplosione delle “liste d’attesa” e l’insoddisfazione popolare. Alle elezioni del 2019 la popolazione sarda mandò a casa la Giunta Pigliaru e promosse una nuova maggioranza guidata dalla “Lega” di Matteo Salvini che, capeggiata da Christian Solinas, prometteva di restituire le vecchie ASL alle 8 province sarde. In effetti, la Giunta Solinas produsse rapidamente una sua riforma sanitaria regionale e l’assessore Mario Nieddu varò la legge regionale 24/2020 con cui istituì la Ares (Azienda regionale salute). In realtà però le vecchie Asl non vennero integralmente ricostituite; al posto delle “Aree territoriali sanitarie” vennero identificate le Asl 1-2-3-4-5-6-7-8 che, a parte il nome, non hanno nulla delle precedenti Asl; infatti, non hanno il diritto né di assumere personale, né di far acquisti e programmare. In sostanza non esistono; l’unica vera Azienda capace di programmare e gestire, centralizzando tutti i poteri gestionali, è la Ares di Cagliari e Sassari. Oggi lo stato di degrado direzionale e amministrativo nelle Province è ulteriormente peggiorato e l’insoddisfazione e infelicità dei cittadini sono esplose nelle elezioni regionali del 25 febbraio 2024 con la bocciatura del Governo regionale sardo.
Recentemente un politico esperto ha suggerito di cercare nella legge 833/78 gli strumenti per uscire dalla crisi sanitaria. Quale può essere lo strumento?
Lo strumento che si deve utilizzare nella pubblica amministrazione è sempre lo stesso: il rispetto delle regole democratiche. Queste regole prescrivono che la volontà popolare sia affidata ai propri rappresentanti eletti e, nel territorio, i rappresentati ufficiali dello Stato sono i sindaci. E’ certo che i sindaci non possono entrare nel merito di tutto, ma possono essere i “custodi” degli interessi della gente. Fra questi, oggi, l’interesse più sentito è la Sanità. Dare un nuovo ruolo ai sindaci nelle Asl è fortemente indicato.

Mario Marroccu

Rodolfo Valentino fu il massimo attore di film muto degli anni ‘20. Fu tanto amato da suscitare, nei suoi fans, il primo fenomeno di massa mai visto: la “divinizzazione”, essendo ancora in vita. Da quel fatto, ancora oggi deriva l’espressione “divo del cinema”.
La sua fama mondiale era esplosa col film “I quattro cavalieri dell’Apocalisse”, per effetto di una famosa scena in cui egli ballava il “tango argentino”. Morì a 31 anni nel più importante ospedale di New York, dopo un’operazione per appendicite acuta complicata da peritonite. In tutto il mondo, i suoi ammiratori dettero luogo a scene di disperazione isterica.
Nel 1977 si ricoverò nel reparto Chirurgia dell’ospedale Sirai di Carbonia il suo sparring partner. Anche costui era un pugliese che era emigrato in America da ragazzino. Aveva conosciuto Rodolfo Valentino a San Francisco e con lui aveva fatto squadra nelle gare di tango organizzate dalle balere americane. Erano gare pazzesche che duravano ininterrottamente per più giorni, senza dormire e senza fermarsi mai. Chi sopravviveva alla fatica vinceva cospicue somme di denaro. Quando costui si ricoverò al Sirai, a causa di una gangrena alla gamba destra, raccontò che talvolta in quelle gare vinceva Rodolfo Valentino e talvolta lui stesso. In valigia aveva articoli e fotografie di rotocalchi americani dell’epoca che lo ritraevano col “divino” e le mostrò con fierezza. Era tutto vero: era proprio il compagno di gare di Rodolfo Valentino. Invecchiando si ritrovò in solitudine e decise di tornare in Italia ma, non avendo più parenti in Puglie, decise di venire ad invecchiare a Carloforte.
Trascorreva le giornate fumando come aveva sempre fatto. In valigia, oltre ai rotocalchi americani degli anni ‘20, aveva stecche di sigarette americane. Il primario, professor Lionello Orrù, lo avvisò che per tentare di fermare la gangrena era necessario smettere di fumare lui, magrissimo, sempre sorridente e molto cortese, continuò a fumare nascondendosi in bagno o nei balconi. La suora ogni giorno gli sequestrava le stecche di sigarette ma l’indomani, sotto il materasso, si materializzavano altre stecche di Chesterfield e Pall Mall.
La gangrena peggiorò. I farmaci vasodilatatori erano chiaramente inutili e lui concordò: «Professore, non posso smettere di fumare e non posso più tollerare i dolori alla gamba. Me la tagli». Fu una scena incredibile. Lui, che aveva vissuto in virtù delle doti atletiche delle sue gambe nelle esibizioni di ballo col “divino”, preferiva rinunciare alla gamba destra piuttosto che alle sigarette. Il professore lo accontentò e dette disposizione ai suoi “aiuti” di eseguire l’amputazione a livello della coscia destra. Egli avrebbe seguito l’intervento. L’indomani il ballerino era sereno e sorridente. Continuò a fumare.
Non si capì mai chi gli portasse le sigarette: si trattava di un miracolo derivato dalla sua pensione in dollari americani. Dopo una settimana comparvero i segni della gangrena anche alla gamba sinistra. Il professor Lionello Orrù lo mise in guardia: «Se continua a fumare perderà anche l’altra gamba». Nei giorni successivi i dolori alla gamba sinistra peggiorarono e la gangrena salì dal piede alla caviglia. Nonostante tutto continuò a fumare e nessun discorso del Primario lo fece desistere. Fu lui stesso a risolvere il problema con questa proposta: «Professore mi tagli anche l’altra gamba perché io voglio continuare a fumare ma non tollero più i dolori che mi dà». Il professore lo accontentò e dette disposizione agli “assistenti” di eseguire l’intervento di amputazione, lui avrebbe seguito l’operazione. Il primario desiderava che tutti i chirurghi eseguissero correntemente quel tipo di intervento così come le operazioni per peritonite, per occlusione intestinale e per rottura traumatica di milza. Voleva che chiunque fosse presente in servizio, in sua assenza o in assenza degli “aiuti” più esperti, fosse in grado di eseguire con urgenza quel genere di operazioni salva-vita.
Era l’anno 1977 e l’ordinamento degli ospedali era ancora sotto le leggi Mariotti 132/ ‘68 e 128/ ‘69 ed esisteva nei reparti ospedalieri una struttura gerarchica dei medici ben definita; essa era formata dal primario, dagli “aiuti” e dagli “assistenti”. Tale struttura aveva un duplice fine. Primo creare una scala di responsabilità e di autorevolezza. Secondo: addestrare i medici e formarli alla professione.
La legge 128/’69 definiva esattamente, all’articolo 7, che il Primario aveva tutti i poteri, le responsabilità e tutti i doveri: doveva vigilare sul lavoro di medici ed infermieri e aveva la responsabilità di tutti i malati; era il giudice unico sui criteri diagnostici e terapeutici a cui dovevano attenersi gli “aiuti” e gli “assistenti”; formulava la diagnosi definitiva; doveva inoltre indicare la terapia medica o la tecnica chirurgica da adottarsi nel caso fosse necessaria un’operazione. Doveva eseguire personalmente sui malati gli interventi diagnostici e le operazioni chirurgiche curative che riteneva di non dover affidare ai suoi collaboratori; era l’unico che poteva autorizzare le dimissioni. Ne derivava che sui primari, con la loro responsabilità assoluta su tutto, ricadessero oneri ed onori; per tale ragione, i detrattori li definivano “baroni”. Un articolo successivo della legge 128 disponeva che il primario si impegnasse a mantenere elevato il livello culturale dei medici con una formazione continua sul campo. Egli era il caposcuola e la sua missione di insegnamento conferiva all’ospedale le funzioni di “ospedale di specializzazione”.
Insomma, per i medici il primario era il maestro e il parafulmine da tutti i guai. Gli “aiuti” venivano dopo il primario. Essi erano i medici più titolati, dotati di una certificazione di idoneità rilasciata da una commissione d’esame nazionale con sede a Roma. La legge disponeva che essi sostituissero il primario, in tutte le sue funzioni, ogni qualvolta fosse assente. Era come se la figura del “primario” fosse sempre presente e non se ne sentiva mai la mancanza. Al terzo livello erano classificati gli “assistenti”; si trattava dei medici più giovani, meno esperti, usciti da poco dall’Università, ma ancora da formare come professionisti specialisti.
Ogni Ospedale era una vera e propria scuola di formazione continua nella pratica medica. L’Università aveva fornito la cultura basilare portando gli studenti alla laurea in Medicina, e l’esame di Stato aveva garantito che il neonato medico fosse idoneo ad esercitare la professione come medico generico.
La costruzione professionale dei medici ospedalieri avveniva in ospedale ed era affidata al primario e agli “aiuti”. Mentre il primario era la figura carismatica autorevole che presiedeva la “scuola”, gli “aiuti” erano gli “istruttori” sempre disponibili e pronti a familiarizzare mentre addestravano gli “assistenti” alla professione.
La “scuola ospedaliera” di formazione alla professione di medico specialista (chirurgo, internista, ostetrico , traumatologo, pediatra, etc.) garantiva la costituzione di un perenne capitale culturale e umano all’interno dell’ospedale. Questo rapporto formativo continuo fra primario, “aiuti” e “assistenti” generava un rapporto di fidelizzazione tra medici, ospedali e territorio, e spesso induceva i medici venuti da lontano a trasferirsi nella città sede dell’ospedale, viverci tutta la vita e perfino formarvi le proprie famiglie. Le Amministrazioni ospedaliere favorivano e proteggevano questa funzione docente all’interno dell’ospedale perché così si garantiva la reputazione, la fiducia e il mantenimento di una sicura forza professionale che si sarebbe replicata, da una generazione all’altra di nuovi arrivati, senza temere mai l’abbandono degli ospedali da parte dei medici. Fin dall’inizio fu tale l’interesse che aveva l’Amministrazione ospedaliera a fidelizzare i medici e, soprattutto, i primari venuti da lontano, da costruire per essi, in prossimità dell’ospedale, degli appartamenti per la residenza loro e delle loro famiglie. Oggi non è più così.
Anche nella Medicina territoriale avveniva lo stesso fenomeno: i medici più anziani e più esperti contribuivano alla formazione professionale di altri medici, e anche lì si realizzava una catena solidale che assicurava la continuità.
Nell’ultimo decennio del secolo scorso, in conseguenza della grave crisi economica dello Stato, esplosa nel 1992, il Governo Amato tentò di arginarla con la privatizzazione delle Partecipazioni statali, ed avviò il processo di privatizzazione anche della Sanità pubblica. Le USL divennero ASL; i presidenti delle USL, che in genere erano sindaci del territorio, vennero sostituiti dai manager e tutto cambiò. Il ministro Francesco di Lorenzo fu l’artefice della legge 502 di controriforma; le ministre Maria Pia Garavaglia e Rosy Bindi modificarono l’assetto degli ospedali e abolirono le diversificate figure dei medici: gli “aiuti” e gli “assistenti” vennero posti ad uno stesso livello, dichiarati “dirigenti medici” e messi, praticamente, alle dipendenze del sistema burocratico. I primari vennero declassati a livello di precari, e ridefiniti col titolo di “direttori di Struttura complessa”, con incarico a termine della durata di 5 anni.
L’incarico poteva essere rinnovato previa valutazione dell’Amministrazione della ASL. Se non confermati venivano riclassificati ad un livello inferiore. Lo stipendio era uguale fra tutti i medici, corretto per anzianità, e con l’aggiunta di un’“indennità” di dirigenza per il direttore del reparto. I reparti e le Divisioni ospedaliere cessarono di esistere e furono sostituite dalla dizione “Unità operative complesse”. Terminologia usata anche per gli Uffici amministrativi. Era finita un’epoca. Del periodo che precedeva il 1992 ai medici era rimasta soltanto la “responsabilità medico-legale”. L’instabilità e l’incertezza, che ricaddero come una spada di Damocle sul loro futuro, ebbero conseguenze.
Il nuovo tipo di “direttore” non aveva più gli “aiuti” che lo coadiuvassero o lo sostituissero. Non aveva più le funzioni di “addestratore” delle nuove generazioni di medici e, in quanto sostituibile da chiunque ogni 5 anni, non aveva alcun interesse a crearsi un “competitor”.
Oggi l’improvvisa assenza del “direttore” per pensionamento o per trasferimento crea uno scompenso organizzativo, non esistendo più gli “aiuti”. Tale vuoto gerarchico e l’instabilità del primario “a tempo”, comportano un vuoto di autorevolezza e operativo.

Adesso stiamo assistendo alla crisi degli ospedali per mancanza di medici specialisti. Tale fenomeno non è dovuto solo alla “scarsità” di nuovi laureati; dipende anche dal fatto che nessun giovane medico si sente sicuro a lavorare in un reparto in cui manca il primario-direttore perché i rischi medico-legali che comporta ogni decisione, soprattutto, se presa in solitudine, sono molto, molto, molto pericolosi; meglio starsene nel territorio o nelle cliniche private. In passato la funzione del Primario era principalmente quella di prendere decisioni ad ogni momento della giornata; da essa derivava la salvezza o no del malato.
L’urgenza-emergenza era sempre in agguato. Il processo clinico che portava alla formulazione della diagnosi e del programma terapeutico costituiva di per sé lo strumento di addestramento dei nuovi medici alla professione ed era la base dalla “scuola-ospedale”. L’addestramento alle responsabilità medico-legali era una formazione imprescindibile: era l’esercizio che faceva la differenza tra il periodo dell’apprendimento universitario e il periodo della formazione professionale in ospedale.
Gli studiosi di “psicologia delle decisioni” nei dipendenti pubblici, hanno concluso ricerche che dimostrano come il sospetto che in tutto ci sia del “marcio”, dal 1992 in poi, ha indotto il ceto politico a produrre leggi che hanno generato un atteggiamento di alta avversione al rischio. Erano gli stessi anni in cui vennero soppresse e sostituite le figure gerarchiche dei primari e degli “aiuti” negli ospedali. Il timore dei dipendenti pubblici a prendere decisioni portò dapprima al rallentamento, poi alla quasi paralisi operativa. Questo è ciò che stiamo sperimentando. Gli illustri studiosi sostengono che l’alta percezione del rischio e delle conseguenze professionali genera il tipico comportamento di astensione prudenziale e il blocco decisionale.
Non è vero che la crisi sanitaria che stiamo vivendo sia da attribuirsi solo alla diminuzione dei nuovi laureati in medicina o ai pensionamenti. Questo fenomeno di decadenza dell’assistenza ospedaliera non ha solo motivazioni contabili.
Fra le cause assumono molta importanza il sovvertimento della politica sanitaria territoriale, sostituita dalla burocrazia e l’ inconsistenza delle gerarchie mediche negli ospedali, dominate anch’esse dalla burocrazia.
Prima o poi si prenderà atto che oltre al valore della contabilità esistono anche i professionisti e i loro principi etici. E’ auspicabile che venga agevolato il libero ritorno ai valori non contabili come: lo spirito critico, l’indipendenza dall’egocentrismo dei poteri centralizzati, lo spirito civico, la coscienziosità, l’altruismo, l’impegno e il sentimento di identità col territorio in cui si opera.
Adesso è urgente, per gli ospedali, ricostituire le figure dei “primari-guida” mancanti nelle Unità operative in crisi. Poi saranno loro ad attirare, con il loro prestigio, i nuovi medici.

Mario Marroccu

Nonostante l’incredibile impatto del disagio sanitario che tutti viviamo è difficile trovare un vero progetto per il ripristino del sistema assistenziale nei discorsi di chiamata al voto. Nei programmi sulla salute descritti da tutte le parti in causa si trova una flebile elencazione di lamenti, di desideri per il bene comune, con sentimenti moderati, paciosi e anche irenici.
Il tutto si riduce a ciò che dice i PNRR dei tempi di Mario Draghi:
– digitalizzazione della Sanità territoriale,
– evitare l’aumento della spesa corrente,
– interventi su attrezzature e miglioramento delle strutture murarie degli ospedali.
– vi è poi una sequenza di pii desideri per garantire la felicità dei malati, dei vecchi e dei bambini.
Ma nulla di concreto per imporre la marcia indietro ai fallimenti della politica passata in sanità.
Nella terminologia corrente, sia giornalistica che politica, si dà per acquisito che esista un apparato sanitario “centrale” e uno “periferico”. Nessuno protesta se si definisce un ospedale come “ospedale di periferia”. Questa catalogazione terminologica non esiste in nessuna legge dello Stato. L’acquisizione di tale linguaggio deriva dal fatto che nell’ultimo decennio è stata creata una sorta di catena di dominio sanitario che tiene correlate fra di loro strutture sanitarie predominanti (hub) e strutture sanitarie periferiche (spoke); quest’ultime sono in uno stato di sottomissione funzionale. Si è arrivati ad attribuire una sorta di scala sociale diversa agli ospedali a seconda della loro localizzazione territoriale.
Si parla, infatti, di ospedali centrali a Cagliari e Sassari e di ospedali periferici in tutte le altre province.
Alcuni ospedali sono altamente visibili mentre altri sono esclusi fino all’invisibilità. L’opera di marginalizzazione degli ospedali provinciali, inferiorizzati fino alle condizioni attuali, è ben descritta nelle cronache sanitarie quotidiane.
In passato non era così. Le USL (Unità Sanitarie Locali) erano, per legge, “articolazioni” del Sistema Sanitario Nazionale (SSN); ognuna aveva autonomia programmatoria, economica e amministrativa.
Quando si decise di passare dalle USL alle ASL (Aziende Sanitarie Locali) e quando si votò il referendum per l’abolizione di alcune Province sarde, ebbe inizio la emarginazione che comportò l’abolizione o la riduzione di servizi pubblici come la Giustizia e la Sanità provinciale che furono progressivamente concentrati a Cagliari e Sassari.
Si arrivò al massimo della emarginazione sanitaria quando si attuò la centralizzazione sanitaria in un’unica azienda regionale chiamata dapprima ATS e poi ARES. Per far nascere questo nuovo Ente si procedette allo svuotamento del cuore amministrativo delle ASL provinciali, dei loro fondi, del loro personale e delle loro competenze.
Dopo questa operazione iniziò la discesa delle ASL provinciali dalla posizione di Enti dotati di autonomia finanziaria e programmatoria a strutture marginali.
Un “antropologo del lavoro” saprebbe spiegarlo meglio: la “marginalità” in cui si trovano oggi le ASL di provincia corrisponde ad una volontà di “non integrazione” e di “non partecipazione” di questi enti, alle decisioni che sono oggi riservate a sedi lontane ed estranianti. E’ un meccanismo che ha trasformato i sistemi sanitari provinciali in sobborghi della Sanità. Eppure le leggi dello Stato non prevedevano questa involuzione ma tutt’altro.
La prima legge-madre che parlò di “autonomia” per i Comuni, le Province e le Regioni fu la Costituzione del 1948 agli articoli 116 e 119. Quegli articoli ci dettero l’autonomia organizzativa e finanziaria che vennero confermate 20 anni dopo dalle leggi 128 e 132 del 1968. Quelle leggi dettarono norme sull’ordinamento degli ospedali.
Gli ospedali pubblici vennero distinti in tre livelli:
– ospedale zonale,
– ospedale provinciale,
– ospedale regionale.
– L’ospedale zonale doveva fornire tutti i servizi di base come: Medicina Interna, Chirurgia Generale, Anestesia, Ostetricia, Pediatria, Traumatologia, Pronto Soccorso, Radiologia e Laboratorio.
– L’ospedale provinciale doveva fornire gli stessi servizi dell’ospedale zonale, in più era dotato di qualche altra specialità per garantire 24 ore su 24 l’urgenza ed emergenza.

– L’ospedale regionale aveva le stesse specialità dell’ospedale provinciale ma in più era dotato di altri reparti per patologie rare o poco comuni che necessitavano di personale e di attrezzature speciali. Il fattore “rarità patologica” comportava la necessità di “concentrare” in un’unica sede regionale tutti i casi. Si trattava di: neurochirurgia, trapianti d’organo, cardiochirurgia, chirurgia toracica, chirurgia vascolare, grandi ustionati, chirurgia plastica, chirurgia pediatrica, chirurgia ginecologica-oncologia, onco-ematologia, chemioterapia, radioterapia e altre strutture organizzative ultra-specialistiche assimilabili alle attuali “brest unity”, “prostate unity”, “pancreas unity”, etc. Erano gli unici casi in cui era ammessa la “centralizzazione”.
Negli ospedali zonali e Provinciali erano presenti tutti i servizi specialistici ospedalieri che curavano le condizioni patologiche più frequenti e comuni ed erano: Medicina generale, Chirurgia generale, Urologia, Pediatria generale, Ortopedia e Traumatologia, Neurologia, Ostetricia e Ginecologia,
Psichiatria, Neurologia, Nefrologia e dialisi, Geriatria, Pneumologia, Pronto Soccorso e Chirurgia d’Urgenza, Anestesia e Rianimazione; erano inoltre attivi i servizi di: Laboratorio, Anatomia patologica, Radiologia, etc.
La comune Traumatologia domestica ,della strada e del lavoro doveva essere immediatamente assistita dagli ospedali provinciali d’urgenza mentre i traumi del cranio, del torace, dei grandi vasi, venivano riservati agli ospedali regionali.
Anche le città capoluogo possedevano i loro ospedali zonali e gli ospedali provinciali. In tali città erano e sono tutt’oggi presenti le strutture ospedaliere universitarie che hanno lo scopo di fare ricerca e insegnare. Gli ospedali universitari sono in genere in prossimità o all’interno delle città capoluogo e sono a servizio di tutta la Sardegna. Così come gli ospedali universitari, anche gli ospedali regionali, che si trovano a Cagliari e Sassari, non hanno una città di appartenenza ma vanno identificati come strutture regionali, appartenenti a tutti i sardi  Questa precisazione, apparentemente ridondante, è utile per spiegare ciò che segue sulla evoluzione della rete ospedaliera sarda e anche per chiarire lo stato di diritto alla pari, di tutti i malati sardi in quegli ospedali.
La legge sulla nuova rete ospedaliera sarda del 2017 distingue gli ospedali in:
– Ospedali di Base (corrispondente agli ospedali zonali)
– Ospedali DEA di I livello (corrispondenti agli ospedali provinciali)
– Ospedali DEA di II livello (corrispondenti agli ospedali regionali).
Questa è la legittima dizione con cui si distinguono oggi gli ospedali. E’ cambiata la terminologia ma la sostanza è uguale. Chi utilizza l’espressione “ospedali periferici” commette un abuso di interpretazione, perché non esistono “ospedali territoriali periferici”: tutti gli ospedali hanno lo stesso valore di “centralità”.
Ogni ospedale, in ragione delle competenze attribuitegli dalla legge, deve essere, nell’ambito della propria competenza, “HUB” di se stesso (cioè “centrale”). Gli ospedali regionali sono “hub” esclusivamente per le specialità di Neurochirurgia, Cardiochirurgia, trapianti d’organo e patologie rare ed eccezionali.

In Sardegna, tra pubblico e privato, esistono 39 strutture ospedaliere, di cui:
– 4 centri ospedalieri universitari (Sassari e Cagliari),
– 2 aziende ospedaliere regionali (Brotzu di Cagliari),
– 7 ospedali provinciali DEA di I livello:
– Olbia (ospedale Giovanni Paolo II)
– Oristano (ospedale San Martino)
– Nuoro (ospedale San Francesco)
– Cagliari (SS Trinità)
– Cagliari (policlinico di Monserrato)
– Carbonia (Sirai e completamento DEA del CTO con funzioni di base di Iglesias)
– San Gavino Monreale (ospedale Nostra Signora di Bonaria)
– 2 Ospedali DEA di II livello (San Michele di Cagliari e SS Annunziata di Sassari)

– 11 case di cura private
– 14 ospedali di base
Totale: 39 ospedali.
I DEA di I livello sono di fatto gli ospedali “provinciali” della vecchia dizione (legge 128/1968).
Le competenze di questi ospedali sono: Chirurgia generale, Urologia, Ortopedia e Traumatologia, Ostetricia e Ginecologia, Medicina Interna, Terapia intensiva, Cardiologia. Emodinamica, Nefrologia, Dialisi, Pediatria, Gastroenterologia, Geriatria, Pneumologia, Neurologia, Psichiatria, Oncologia, Anestesia e Rianimazione, Anatomia Patologica, Dipartimento diagnostico per immagini, Laboratorio, Virologia, Immunologia, Centro trasfusionale, Riabilitazione e fisioterapia, Accettazione e Pronto soccorso DEA di I livello con astanteria per medicina e chirurgia d’urgenza, etc.
I DEA di I livello devono essere, nelle loro competenze, “Hub” di se stessi; cioè devono essere totalmente autonomi e autosufficienti, pronti ad affrontare patologie anche di altissima difficoltà.
I 7 ospedali DEA di I livello devono essere alla pari sia per dotazione di personale che di attrezzature ultra-sofisticate, e devono essere strutturati in modo completo e soddisfacente in modo da garantire un altissimo livello di assistenza, 24 ore su 24, nelle loro specialità.
Questi 7 ospedali (su 39) sono la vera struttura portante della rete ospedaliera sarda che, perfettamente e uniformemente compenetrata nel territorio, non lascia vuoti nell’assistenza di base e d’urgenza.
Gli Ospedali di Base, coadiuvati dalla Case di Cura, sono deputati a compiti di assistenza di base e non sono compatibili con le funzioni ininterrotte di emergenza-urgenza h24.
Quella testé descritta è la base di legittimità su cui si basa il disegno politico amministrativo descritto dalla legge regionale (rete ospedaliera 2017) affidato alle nostre autorità comunali, provinciali e regionali. Purtroppo, esistono deviazioni dallo spirito della legge che indica il corretto indirizzo verso cui vanno pilotati i nostri ospedali. Di tali deviazioni esistono dichiarazioni ufficiali autorevoli. Tali dichiarazioni sono state pubblicate e documentate in un documento pubblicato pochi giorni fa da ARES (agenzia regionale salute). Nel documento sul “Piano preventivo delle attività 2024-2026” la stessa ARES riconosce le difficoltà, e deficienze esistenti, e le denuncia con questa espressione: «…si evidenziano le criticità dei presidi ospedalieri della ASL Sulcis Iglesiente, caratterizzati da problemi come il pensionamento di Personale difficilmente sostituibile, un’età media elevata del Personale con limitazioni funzionali e lavori edili incompleti, e si sottolinea la necessità di una revisione dell’organizzazione ospedaliera…. in parallelo con la riconsiderazione della rete Ospedaliera Regionale, affinché possa rispondere in modo adeguato alle esigenze del territorio».
La dichiarazione che certifica le cause che sono alla base del deficit organizzativo che ARES ha reso pubblica necessita di provvedimenti. Essi vanno concentrati sulla legge di riforma sanitaria regionale del giugno 2020; tali provvedimenti possono essere presi solo dalla politica.
In quella legge esistono le disposizioni che hanno mandato in stallo la Sanità pubblica.
In essa esistono articoli che hanno totalmente invertito il senso della famosa legge 833 del 1978 che istituì per la prima volta la Sanità gratuita per tutti, il Sistema Sanitario Nazionale e il Fondo Sanitario Nazionale. Tutt’oggi quella legge è considerata la più grande legge della Repubblica dal dopoguerra ad oggi.
Il Sistema Sanitario Nazionale della 833/78 era basato sulle USL (Unità Sanitarie Locali). Le USL erano concepite come “articolazioni territoriali” del SSN. In base agli articoli 116 e 119 della costituzione le USL dovevano godere di “autonomia gestionale e finanziaria”. L’“autonomia” si concretizzava nella capacità di: programmare, acquistare e assumere personale autonomamente entro i limiti degli organici definiti dalla legge. L’“autonomia” veniva gestita dal “Comitato di gestione” e dal suo “Presidente” che venivano eletti dai Consigli comunali delle città del territorio provinciale.
La presenza di tali figure politiche territoriali garantiva il funzionamento di una “cinghia di trasmissione” delle istanze democratiche dalla popolazione al Sistema Sanitario.

Le USL entrarono rapidamente in competizione fra di loro in termini di efficienza, e si inaugurò il periodo di più rapida crescita del sistema sanitario con grande soddisfazione dei cittadini.
L’attuale sistema della ASL sarde è diversissimo:
– all’interno della amministrazione delle ASL provinciali non esiste più alcuna rappresentanza politica della popolazione;
– è esclusa la comunicazione continua e diretta tra politici locali e il centro regionale direttivo;
– le ASL provinciali non possono né assumere autonomamente il personale necessario, né fare acquisti diretti.
– le ASL sono prive di fondi propri ad hoc.
Un’Azienda che non può né assumere né acquistare, di fatto non ha alcuna autonomia.
La Grande Riforma 833/78 è stata capovolta. Di fatto esiste una catena di dominio che prevede un unico centro direttivo regionale che ha lo scopo di pianificare il programma pluriennale sanitario che, purtroppo, ignora la diversità dei territori sardi.
Il cuore del problema della Sanità sarda è esattamente quello su decritto: l’inesistenza di autonomia delle ASL.
Non si vede traccia di idee di soluzione del problema in nessuna dichiarazione programmatica esposta in questi giorni.
Al fine di riportare il cittadino al centro della Sanità sembrerebbe opportuno integrare qualche punto alla legge 24/2020 per:
1 – introdurre figure politiche territoriali tra gli organi della ASL,
2 – conferire autonomia finanziaria alle ASL al fine di liberarle dalla immobilizzazione per incapacità di spendere,
3 – consentire alle ASL la possibilità di assumere autonomamente il personale sanitario di cui ha bisogno.

Mario Marroccu

Sollecitato dalla recente pubblicazione del sapiente Mario Marroccu, past Direttore della Struttura Complessa di Urologia del Presidio ospedaliero Sirai, dal titolo: “in sanità siamo tutti colpevoli”, volevo contribuire alla discussione sui diversi attori che governano la sanità con un’ulteriore riflessione sul ruolo del manager in sanità, con o senza precedente esperienza clinica. Illuminato.
Senza voler delimitare gli ambiti delle mie responsabilità (ed eventuali colpe) di dirigente sanitario (con provenienza da una professione tecnico specialistica di infermiere), riprendendo alcune illuminanti considerazioni tratte dal libro di Annalisa Pennini, “10 brevi lezioni per manager in sanità”, provo a sollecitare alcune riflessioni.
Manager in sanità si diventa partendo spesso da una professione clinica e iniziando a svolgere una funzione manageriale come coordinatore, dirigente, responsabile o direttore.
Il passato come clinico è sicuramente una grande ricchezza ma, affinché non diventi un ostacolo alla nuova prospettiva, deve essere considerato un aspetto da gestire: lo scenario è cambiato e ci si trova a svolgere un lavoro totalmente diverso da prima, si tratta del passaggio dal lavoro in “prima linea” al lavoro “dietro le quinte”.
Il manager in sanità è quasi sempre un ex clinico. Anche nella nostra ASL (ex USL, ASSL), a parte alcuni ex Direttori Generali (il compianto Giuseppe Ricciarelli, Emilio Simeone, Maurizio Calamida, Maddalena Giua, per citarne alcuni) che non possedevano una formazione di tipo sanitario e quindi non provenivano dall’attività clinica, i restanti avevano tutti un passato di pregresse esperienze in ambito clinico e questo ne ha influenzato l’identità e le modalità di interazione con l’organizzazione.
Parlare di chi oggi ricopre funzioni di dirigenza e si è trovato in passato a svolgere attività clinica e a vivere il passaggio fra essere un clinico e gestire i clinici, richiede alcune precisazioni preliminari.
Quando si utilizza il termine clinico, si intende qualsiasi ambito dell’attività sanitaria, dove il professionista svolge una funzione operativa a contatto con le persone assistite o con processi di lavoro in prossimità di esse. Parlando di clinici, non si fa distinzione di professione e si vogliono includere tutte le comunità professionali che operano in sanità. I termini non vengono utilizzati come sinonimi di medico o medici, ma come suggerito dall’etimologia della parola, che spiega che il termine clinico deriva dalla parola “letto” (Kline in greco) o che si fa presso il letto (klinikòs). Nella presente riflessione si farà quindi riferimento estensivo e inclusivo di ogni attività o funzione di “prima linea” o strettamente collegata con essa, come ad esempio le attività diagnostiche di laboratorio o di radiologia.
La seconda precisazione riguarda l’utilizzo del termine manager che, in questa valutazione, viene riferito a chiunque all’interno dell’organizzazione conduca qualcosa o qualcuno. Anche in questo caso, l’etimologia della parola sostiene questa scelta. Infatti, dal latino “manu agere” deriva l’attuale “condurre con la mano”. Dal successivo passaggio attraverso la lingua francese si trova la vicinanza con “maneggio” o “maneggiare”. Pertanto, il riferimento può essere allargato a tutti coloro che, a vario titolo, contratto, investitura formale o meno, svolgono funzioni di “conduzione” e non di “prima linea”. Un tempo in sanità c’erano i coordinatori e i dirigenti ( o meglio i caposala e i primari), ora ci sono i manager di vario livello ed estrazione professionale (in diverse ASL, ex infermieri ricoprono oggi il ruolo di Direttore Generale o Direttore di Distretto), intrecciati in matrici gerarchico funzionali diversamente rappresentate nelle organizzazioni.
L’ultima precisazione interessa il management, che deve essere ricondotto e contestualizzato alla tipologia di organizzazione che lo ospita. Queste organizzazioni, sono oggi aziende, e come tali necessitano di management e di manager. Ma cosa rende diverso il management delle aziende sanitarie rispetto a quelle che posizionano i loro prodotti e servizi sul libero mercato? Sicuramente non la catena di creazione del valore, che le accomuna, in considerazione del fatto che tutte utilizzano risorse (input), per lavorarle (processi), al fine di produrre risultati, come i prodotti o i servizi (output), indirizzati alla soddisfazione dei bisogni (outcome). Alcune differenze sono:
– tipologia di funzioni svolte: le aziende sanitarie si occupano di attività di interesse collettivo (tutela della salute), nomate e protette da leggi dello stato e ciò le rende più distanti dalle regole del mercato puro.

– configurazione organizzativa: le aziende sanitarie sono configurabili come burocratiche professionali, che mettono al centro il potere della competenza e l’autorità di tipo professionale, in quanto si fondano, per funzionare, sulle competenze dei professionisti in prima linea, cioè i clinici. Il meccanismo di coordinamento prevalente di questa tipologia di organizzazione è standardizzazione degli input, cioè standard che vengono definiti all’esterno dell’organizzazione stessa, nelle strutture formative e associative ai quali i professionisti appartengono ancora prima di inserirsi nell’organizzazione sanitaria. Sono organizzazioni perlopiù conservatrici, stabili e al tempo stesso complesse, poco propense all’innovazione e all’integrazione fra gruppi professionali.

– sistema di finanziamento e di gestione economica: il modo in cui le aziende sanitarie si finanziano prevede che vi sia un contatto indiretto fra i clienti e l’azienda, dal punto di vista del pagamento del servizio. Fatte salve le prestazioni pagate direttamente dalle persone assistite, il sistema sanitario si basa ancora, in larga misura, su finanziamenti che non vengono erogati direttamente dalle persone che usufruiscono del servizio. Le differenze descritte sottolineano alcune delle caratteristiche delle organizzazioni sanitarie che ne condizionano il modo in cui il management viene interpretato e i manager svolgono le loro funzioni. Le specificità sopraindicate rischiano di essere dei fattori predittivi di scarsa efficienza ed efficacia, di cui il management deve tener conto e deve far fronte.
Salvatore Nieddu, professore a contratto di Organizzazione Aziendale presso la Facoltà di Economia dell’Università di Torino e Responsabile della Struttura Controllo di gestione dell’ASL 4 di Torino, nell’interessante e piacevole libro intitolato: «Un week end con… il management sanitario», Centro Scientifico Editore di Torino, ricorda che il management è la cura prescritta per le patologie chiamate inefficienza e inefficacia, ma che l’esito di tale terapia non è certo, perché si tratta di un trapianto che potrebbe avere un rischio di rigetto, in ragione degli aspetti storici, culturali e organizzativi del contesto in cui si opera.
Per rispondere alla domanda iniziale, è importante chiederci se il passato clinico rappresenta davvero una ricchezza o piuttosto un limite.
Rispetto al passato da clinico, alcuni autori hanno evidenziato come il beckground di riferimento rappresenti una solida base per leggere la realtà e agire in essa in modo competente ed efficace. Uno dei più illustri studiosi di management al mondo, il famoso economista canadese Henry Mintzberg, studioso di scienze gestionali, ricerca operativa, organizzazione aziendale, ha affermato che “ i manager devono sapere molte cose, soprattutto sul contesto specifico in cui operano, e devono prendere decisioni sulla base di queste conoscenze” (Henry Mintzberg, Il lavoro manageriale, Franco Angeli, 2010).
Per poter affermare che il passato da clinico rappresenta una ricchezza e non un limite, è opportuno sottolineare che affinché sia un vero vantaggio è necessario spostare la posizione e la motivazione con cui lo si utilizza. In altri termini, l’obiettivo del lavoro in sanità è di proprietà sia del clinico che del manager, quello che cambia è la prospettiva con cui vengono usate le conoscenze e le competenze. Il clinico lo utilizza per risolvere i problemi di salute delle persone, il manager per risolvere o migliorare i problemi organizzativi dei clinici.
Le conoscenze cliniche del manager sono un livello soglia in grado di fare la differenze per la comprensione del contesto, per entrare nei problemi sollevati dai clinici, per orientare una unità operativa e un team verso outcome (risultati) significativi per le persone assistite.
Ciò che viene a cambiare, tra la linea clinica e quella manageriale è la profondità della conoscenza e la profondità di utilizzo. Più profonda e orientata al singolo problema per il clinico, più trasversale e orientata all’insieme per il manager, come se si immaginasse una visione verticale e orizzontale delle cose.
Il clinico usa la conoscenza clinica in modo diretto e come strumento basilare per la sua attività che è la clinica. Il manager usa la conoscenza clinica in modo indiretto e come strumento importante per la sua attività che è la gestione.
Non è lo strumento in sé che cambia, è l’uso che se ne fa. Quindi è l’attività che cambia, non lo strumento. Se non viene interiorizzato questo passaggio concettuale e pratico fra attività e strumenti, il background clinico rischia di costituire un impedimento allo sviluppo di una identità manageriale, in quanto si confonde la funzione con lo strumento.
Il background clinico rappresenta una barriera quando la visione da clinico limita lo sguardo e non consente il passaggio verso livelli più ampi.
Partendo da alcuni riferimenti storici, oltre che culturali e paradigmatici, Pennini descrive tre modelli di manager (utilizzando le diciture 1.0 – 2.0 – 3.0 diventate di uso comune per indicare programmi, app e chat di ultima generazione, ma che si utilizza anche quando si vuole dire che qualcuno o qualcosa è “un passo avanti”) che hanno in comune caratteristiche e tratti essenziali e che si sono succeduti nei diversi anni.
La versione 1.0. del manager in sanità è riconducibile a un’organizzazione burocratica e gerarchica, dove il rispetto delle regole assume un posto di rilevo. Verosimilmente collocabile in modo prevalente fra gli anni 70 e 80 del secolo scorso, ha trovato fortuna nella figura del primario e del caposala che ricoprivano ruoli in organizzazioni verticali e conservatrici.
La realtà ospedaliera suddivisa in specialità, fungeva da volano a questo tipo di manager che pur con le dovute differenze in base alle professioni e posizioni, fondava la sua identità perlopiù sull’autorità. La normativa professionale del tempo, con la suddivisione in professioni sanitarie principali e ausiliarie, forniva una ulteriore base per mantenere relazioni gerarchiche e stratificate che necessitavano di ordine e ordini che dovevano essere eseguiti.
Per alcune professioni esistevano programmi formativi formali di tipo manageriali (Abilitazione a Funzioni Direttive -AFD- per la formazione dell’infermiere coordinatore), mentre per altre il passaggio da clinico a manager era sostenuto dall’elevato livello di competenze cliniche, tanto da collocarlo come un “primo fra pari” (primus inter pares) per altre professioni ancora, il passaggio al ruolo di manager avveniva per anzianità di servizio, affidabilità, capacità tecniche, buon senso applicato.

Pertanto, in molti casi l’identità manageriale poggiava su un primo tipo di competenze (cliniche) che non sulle seconde (manageriali). Infine, i modelli organizzativi delle organizzazioni sanitarie erano di tipo funzionale, con riferimento a compiti e giri che sostenevano ulteriormente la necessità e la possibilità di controllo e di comando. Erano modelli basati su una importante, a volte eccessiva, standardizzazione delle attività, che frenava l’assunzione di responsabilità professionali e l’orientamento al risultato delle cure.
La versione 2.0. in ambito sanitario è collocabile, invece, all’interno della spinta aziendalistica degli anni ’90 del secolo scorso. La normativa del periodo (D.Lgs 502/92 e seguenti) ha trasformato il sistema sanitario e le organizzazioni sanitarie (territoriali e ospedaliere) sono diventate aziende. A capo di queste non vi era più un Comitato di Gestione ma un Direttore Generale con potere di gestione e rappresentanza, Si sono create delle realtà che, pur mantenendo una connotazione pubblica, hanno sperimentato logiche gestionali nuove per il settore, Di conseguenza anche il management si è ridisegnato sulle caratteristiche di questi diversi contesti. Le iniziative formative degli anni ’90 e 2000, hanno sostenuto l’idea di un manager che per svolgere correttamente le funzione doveva in qualche modo allontanarsi dai contesti clinici, per gestire risorse. Si introducono termini, concetti e strumenti provenienti da altri ambiti, come la gestione del budget, i sistemi di qualità, il benchmarking, gli indicatori, gli standard e altri ancora. Le parole chiave sono dell’efficienza nella gestione delle risorse umane, materiali, tecnologiche ed economiche. Anche in sanità si era palesato il modello di manager per far fronte alle inefficienza (Gary Hamel, il futuro del management 2008): “in quanto manager, siamo schiavi di un paradigma che antepone il perseguimento dell’efficienza a tutti gli altri obiettivi. “Il futuro del
management” è un’analisi lucida dell’attuale mondo manageriale, ma senza piglio distruttivo, nonostante non faccia sconti; individua bene i problemi che hanno messo in crisi le aziende, troppo occupate a guardare i bilanci senza preoccuparsi del valore che avevano già in casa e che avrebbe consentito loro innovazioni a costo zero; propone soluzioni in modo realistico che partono da quello che l’impresa è ora, dalle persone che ha, dalle risorse su cui può fare affidamento. Hamel vede nel coinvolgimento delle persone la chiave per lo sviluppo, l’innovazione, la crescita e per una vita migliore sul luogo di lavoro.
La versione 3.0. del manager in sanità è infine, quella che si vuole collocare nel presente e nel futuro delle organizzazioni sanitarie. È l’idea di un manager contemporaneo, che persegue principalmente due orientamenti: all’autcome del servizio e alla gestione di un team di professionisti autonomi o potenzialmente autonomi. Rispetto al primo orientamento (all’autcome del servizio ) si pone come un garante della qualità del servizio che la sua unità organizzativa è in grado di assicurare alla persona assistita. Questo concetto di qualità è composto da altri termini
chiave: efficacia, appropriatezza, sicurezza, equità, eticità sostenibilità e non solo efficienza.
Il secondo orientamento (gestione del team) vede il manager come un leader e un coach impegnato nella costruzione e mantenimento di un team di lavoro, che ha attenzione sia ai compiti da svolgere che alle relazioni, il team è composto da professionisti autonomi o potenzialmente autonomi che necessitano di un leader che possa interloquire con loro in modo qualificato, I l manager come coach è sempre più una necessità delle attuali organizzazioni, in riferimento al crescente aumento di complessità organizzativa e della necessità di apprendimento continuo.
Più volte è stato affermato che il manager che proviene dalla clinica deve passare attraverso un cambio di prospettiva. Si tratta di una trasformazione necessaria per ricoprire un nuovo ruolo e funzionale per agire in esso. Questo cambio deve concretizzarsi su due principali livelli:

– diverso utilizzo delle conoscenze e competenze cliniche

– differente ampiezza e direzione della prospettiva.

Riguardo l’utilizzo delle conoscenze e competenze cliniche, è stato evidenziato come possano essere delle risorse per il manager. Esse divengono uno strumento di lavoro che può concretamente fare la differenza fra un manager autorevole ed efficace e chi non lo è. Questo diverso utilizzo delle conoscenze e competenze cliniche è un’evoluzione che il manager deve comprendere e gestire. Deve “elaborare il lutto” della perdita della profondità con cui possedeva e usava queste conoscenze e competenze e canalizzare su altri fronti la “nostalgia” della maggiore distanza dalle persone assistite e dai processi clinici.
Il secondo aspetto riguarda la differente ampiezza e direzione della prospettiva, che precedentemente è stata anche denominata: verticale e orizzontale. È verticale, cioè di profondità per il clinico; è orizzontale, cioè di superficie per il manager. Non vi è un meglio e un peggio, come non vi è un tutto-o-niente, in queste due direzioni. Per il manager non è funzionale andare cosi “a fondo” come è richiesto al clinico, perderebbe in ampiezza che è un elemento fondamentale per avere “la visione d’insieme”. Questa prospettiva deve essere temporaneamente significativa, cioè in grado di coniugare una concretezza del qui e ora, per avere il controllo del lavoro quotidiano, con una visione del futuro che conduca l’organizzazione verso nuove mete.
Per comprendere il processo di cambiamento fra il ruolo del clinico e quello manageriale, è importante riflettere su alcuni punti, con l’aiuto di Antonello Goi (Laurea in Filosofia, con un’esperienza trentennale nell’ambito Risorse Umane in una grande azienda leader nel settore delle telecomunicazioni) e del suo libro: “Professione manager Teoria e pratica della gestione strategica delle risorse umane”, Ed. Franco Angeli.
1. Il manager diviene un componente della linea intermedia o della direzione, provenendo da nucleo di base. Egli fa comunque parte dell’organizzazione ma si trova in posizione diversa. Antonello Goi afferma: «Chi manovra le leve del management è, infatti, un uomo che appartiene anch’esso all’organizzazione, si nutre al suo interno della stessa strategia e ne è il principale interprete e diffusore». Questo percorso lo pone in una zona di maggiore visibilità e al tempo stesso di invisibilità. Con questa affermazione si evidenzia che spostandosi, esso diventa sicuramente più esposto e visibile, ma che al tempo stesso, ciò che fa diviene agli occhi dei colleghi clinici, meno comprensibile a causa della sua lontananza dalla clinica e dell’intangibilità intrinseca del lavoro manageriale. D’altronde, questa incomprensibilità del ruolo, da parte del clinico che non ha mai fatto il manager, è una situazione che non lascia molte alternative in termini di soluzioni efficaci per la gestione: affidare il management a un esterno alla comunità professionale che non possiede un background clinico o “tollerare” la lontananza dai processi del manager- ex clinico che pur sempre possiede e mantiene un livello sufficiente di conoscenze per leggere i contesti.
2. Il manager diviene un rappresentante del lavoro liquido. Zygmunt Bauman, è stato uno dei più noti e influenti intellettuali del secondo Novecento, maestro di pensiero riconosciuto in tutto il mondo. A lui si deve la folgorante definizione della «modernità liquida». Secondo Zygmunt Bauman «la società liquido moderna nella quale viviamo, è caratterizzata da situazioni in cui gli uomini agiscono e che si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure”. È una realtà che crea: esperienze e “relazioni sociali segnate da caratteristiche e strutture segnate che si vanno decomponendo e ricomponendo rapidamente, in modo vacillante incerto, fluido e volatile» (https://www.treccani.it/vocabolario/societa-liquida_res-c0525b22-89ec ). Per Henry Mintzberg, il lavoro manageriale è affetto dalla “sindrome di superficialità”. Il termine superficiale non deve essere inteso con un’accezione negativa di approssimazione o inconsistenza, ma come uno stare su tante cose, passare da un momento all’altro con velocità ma al tempo stesso la necessaria seppur fugace attenzione.
Il manager è attratto dall’andare in profondità, come era abituato a fare nel lavoro di clinico, ma si trova a rispondere alla domanda: “come si può fare un’analisi approfondita, quando si è sempre sotto pressione?”
(Henry Mintzberg, Il lavoro manageriale in pratica, Franco Angeli, 2014).
3. Il manager diviene un professionista nuovo con una diversa identità. Se l’identità del clinico è un’identità basata sul sapere scientifico e sul “fare” come applicazione di questo sapere, quella del manager dovrà essere basata ancora sul sapere scientifico (gli argomenti del clinico) e sul “far fare” o “all’aiutare a fare” (Ugo Morelli, Maria Gabriella De Togni, coordinatori infermieristici. Competenze e qualità nelle relazioni di cura, 2010).
L’assunzione della nuova identità è come un cambio di pelle, è come la trasformazione crisalide-farfalla. È quindi u’identità che deve basarsi su nuove pratiche professionali e sull’asimmetria della relazione con le persone che si dirigono. Da clinici si operava in un gruppo di pari (i colleghi), da manager si è il leader di un gruppo di professionisti.
Dopo aver esplorato un possibile percorso della nuova identità del manager ex clinico, due battute volevo dedicarle a quelle che Pennini definisce le “possibili tentazioni” che il manager ex clinico incontra nel quotidiano.
Si tratta di “tentazioni” perche, in qualche modo, collegate al suo paradigma operativo e dalle quali può essere attratto in quanto rappresentano schemi conosciuti e nei quali “rifugiarsi” quando le cose non vanno come si vorrebbe o quando vi sono sfide e situazioni inconsuete da affrontare.
Secondo Marco Rotella, coach, counselor, mental trainer ed esperto di processi formativi, molti manager vivono oggi, pur avendo difficoltà a confessarlo, una vera e propria “sindrome da schiacciamento” (niente a che vedere con la rabdomiolisi post-traumatica o sindrome di Bywaters): si sentono affannati, impotenti, assolutamente non in grado di fronteggiare nel migliore dei modi tutto questo. Vivono momenti di ansia, a volte di vera e propria angoscia, l’irritabilità aumenta, le relazioni, professionali e soprattutto familiari, ne risentono in modo decisivo. In altre parole, si crea una situazione di stress permanente.
Questo scenario ha spinto Marco Rotella a scrivere il libro: “Manuale di sopravvivenza manageriale. Breve guida per manager, imprenditori, professionisti intrappolati”, Di Marsico libri, Bari. Un testo veramente pratico, semplice, leggibile, che potrebbe essere usato come “kit di sopravvivenza”.
Operare in contesti complessi e mutevoli, per Marco Rotella, implica imparare ad essere continuativamente attenti ai segnali che pervengono dall’esterno. Per poter gestire questi sistemi è necessario comprenderli e governarli. La tentazione in questo caso, è quella di trattare il sistema come se fosse semplice, reclamando risposte certe e percorsi lineari.
Il concetto di complessità viene declinato in diversi settori secondo forme e modalità conoscitive proprie. […] Esso assume un preciso significato a seconda dei numerosi campi scientifici in cui si applica (Gualandi R, Tartaglini D., Le organizzazioni sanitarie come sistemi complessi, in A. Pennini Modelli organizzativi in ambito ospedaliero McGraw-Hill 2015).
L’etimologia della parola complesso, fa riferimento a cum plexus, cioè con nodo o intreccio. Quest’ultimo non si può facilmente “sbrogliare “senza perderne la sua natura intrinseca, la sua interezza. Infatti: a differenza di un meccanismo, che seppur complicato […] può essere smontato nelle sue parti per poter agire su di esse e poi successivamente ricomposto, nel fenomeno complesso ci si deve concentrare sull’intero sistema, considerato nel suo insieme come qualcosa di indivisibile (Gualandi R., Tartaglini D. 2015).
Sempre secondo i due autori, gli elementi che contribuiscono a rendere complessi i sistemi sono (Gualandi R., Tartaglini D. 2015):

– la struttura del sistema: può essere composta da diverse parti, numerose e variabili, che si mettono in relazione tra loro in modo non lineare;
– il comportamento del sistema: può cambiare nel tempo e rispetto all’ambiente di riferimento;
– le proprietà emergenti del sistema: cioè comportamenti che si presentano a un certo livello di complessità, che non erano presenti agli stadi precedenti e che fanno in modo che il sistema non torni più allo stato originario.
Un testo che non dovrebbe mancare nella biblioteca di un manager e che consentire una più facile diagnosi della complessità, è sicuramente quello di Roberto Vaccani, docente senior di comportamento organizzativo della SDA Bocconi: “Riprogettare la sanità. Modelli di analisi e sviluppo”. Carocci Faber 2012.
A tale proposito, Vaccani identifica i seguenti criteri diagnostici enunciandoli come livelli:
– livello di incertezza/imprevedibilità che il sistema deve amministrare,
– livello di pluralità e diversificazione dei beni/servizi prodotti;
– livello di discrezionalità decisoria decentrata indotto dai beni/servizi prodotti; dimensione organizzativa.
Per Edoardo Manzoni, Direttore Generale Istituto Palazzolo (Bergamo) e autore del libro “l’identità delle professioni sanitarie per far fronte alla complessità, 2015″, che ho avuto la fortuna di conoscere nel 2014, in una tavola rotonda organizzata dall’OPI di Carbonia Iglesias, «non possiamo contrapporci alla complessità ma la dobbiamo accettare coniugando tre parole chiave: accogliere, vivere e integrare».
Accogliere, così da: «Rendere intero e ottenere un risultato che è maggiore e diverso dalla somma dei risultati dei singoli elementi che compongo l’intero medesimo» (Edoardo Manzoni 2015). Convivere con la complessità significa fare lo sforzo di “non ridurre i fenomeni, di non scomporli necessariamente verso un impoverimento interpretativo” (Edoardo Manzoni 2015). Integrare, come accezione allarga, che va al di là della sola costruzione di relazioni e alleanze, ma deve intendersi come accoglienza di punti di vista, conoscenze, domande. Nel mondo sanitario, integrare e accogliere, sono un’importante sfida per tutti i professionisti, ma soprattutto per chi è chiamato a gestire l’organizzazione. Oggi la sfida della complessità comprende la necessità di integrare i saperi , superando la disintegrazione, pur riconoscendo il valore della specializzazione.
Oltre tali aspetti concettuali legati alla complessità, in generale e in particolare in sanità, sempre secondo A. Pennini, diventa importante indirizzare l’atteggiamento del manager verso alcuni percorsi che consentano di governare nella complessità e che per semplicità vengono riportati nel seguente elenco.
1. Ampliare la visuale all’interno del sistema.
2. Avere e sviluppare una visione.
3. Programmare in progress.
4. Stabilire poche e semplici regole.
5. Dare spazio e al significato espresso da chi fa le cose.
6. Adottare stili di conduzione negoziali e autorevoli.
7. Concentrarsi sugli obiettivi.
8. Creare piani e programmi che anticipino i fenomeni.
9. Consentire (la reale) partecipazione.
10. Far convivere sistemi formali e informali.
11. Sviluppare la creatività.
12. Creare e sostenere reti di relazioni.
13. Imparare ad imparare.
Queste semplici indicazioni (che necessitano di essere sviluppate), sulla modalità di gestire le organizzazioni complesse,
sicuramente non esauriscono tutte le possibili strategie, ma costituiscono un punto di partenza per il manager che si
trova, soprattutto all’inizio del suo incarico, a vivere dentro la complessità in sanità.
Carissimo Mario, nei miei 39 anni di servizio, 23 dei quali passati da professional clinico e 16 da dirigente/direttore delle professioni sanitarie, ho conosciuto numerosi manager – ex clinici che vantavano una notevole casistica di attività sanitaria ma che, una volta promossi manager, non sono stati in grado di costruire e guidare un team di professionisti con i quali condividere obiettivi e strategie di sviluppo, perché prigionieri di schemi mentali rigidi e convinti di poter replicare l’esperienza di direzione della ex unità operativa nella gestione di un’azienda.
Concordo con te sul fatto che questa sanità vada rivista e che nessuno di noi è immune da colpe o responsabilità, ma ho ritenuto opportuno delineare il cambio di prospettiva, illustrato in modo eccellente da Annalisa Pennini, necessario per tutti i clinici (me compreso) che vogliono diventare manager.
I manager della sanità si trovano oggi in una posizione scomoda: devono affrontare il dilemma di coniugare il bisogno di salute con la sostenibilità economica e la restrizione di risorse. Devono inoltre, fare i conti con la gestione della rete dei portatori di interesse (sindaci, sindacati, professionisti, etc.), sia interni che esterni. Gran parte del loro tempo è dedicato a gestire incontri con interlocutori istituzionali e non, dentro e fuori le mura dell’azienda. Proprio per questo, l’attuale manager deve essere in grado di coniugare la capacità di esprimere una visione e di condividerla con i suoi interlocutori.
Deve tradurre poi la visione in orientamento strategico, sapendo tenere il focus su obiettivi, aspettative e risultati.
Un ruolo che ha necessità di essere supportato da percorsi di formazione e di sviluppo professionale allineati alle aspettative del nuovo ruolo, che non può limitarsi alla frequenza di un corso regionale di qualche weekend al mese, pur tenuto da autorevoli docenti. Il percorso dovrebbe combinare la formazione tradizionale con il confronto tra pari e la condivisione delle esperienze e delle buone pratiche, contemperando attività di lavoro, apprendimento sul campo e opportunità di networking e ampliamento dei propri orizzonti, come sta facendo da qualche anno, la ASL di Nuoro.

Antonello Cuccuru

Bibliografia
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A. Pennini, Dieci brevi lezioni per manager in Sanità, Franco Angeli 2020
E. Manzoni, l’identità delle professioni sanitarie per far fronte alla complessità, Casa Editrice Ambrosiana 2015
H. Mintzberg, Il lavoro manageriale in pratica, Franco Angeli, 2014
M. Rotella, Manuale di sopravvivenza manageriale. Breve guida per manager, imprenditori, professionisti intrappolati, Di Marsico libri, Bari 2016
R. Vaccani Riprogettare la sanità. Modelli di analisi e sviluppo, Carocci Faber 2012.
S. Nieddu, Un week end con… il management sanitario”, Centro scientifico editore di Torino 2005
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U. Morelli, M G.De Togni, Coordinatori infermieristici. Competenze e qualità nelle relazioni di cura, Guerini, Milano 2010
G. Hamel, Il futuro del management ETAS, Milano 2008
Z. Bauman, Vita liquida, Laterza Bari 2005

E’ notte fonda. L’ambulanza della ASL 7 si è appena arrestata davanti all’ingresso di un ospedale pubblico del capoluogo e ha sbarcato una barella che trasporta una vecchia paziente. La poveretta ha necessità di un intervento urgente che al Sirai non si può fare per difficoltà organizzative riguardanti il personale. Il medico dell’ospedale di destinazione ferma il medico del Sirai all’ingresso del suo reparto mentre entra con la paziente e lo accoglie con frasi scortesi: «Che altra [robaccia…] ci stai portando oggi?». Pare che con una certa frequenza l’accoglimento dei nostri malati in altri ospedali pubblici avvenga in modo sgradevole e respingente.
Per la burocrazia contabile anche questo trasferimento di paziente dalla nostra ASL 7 verso altre ASL, verrà inquadrato nelle statistiche sanitarie sarde come “mobilità passiva”.
L’espressione “mobilità passiva” è burocraticamente elegante, tuttavia, se esaminiamo il significato dei due termini, emerge quanto segue: per “mobilità” si intende l’atto dello spostarsi di qualcuno da un luogo ad un altro. Col termine “passiva” si intende significare che l’azione del muoversi non avviene per autonoma decisione del soggetto ma per necessità ineludibile o per decisione presa da altri .
Quindi si tratta di “spostamento senza il desiderio di farlo”. L’espressione più esatta non dovrebbe essere “mobilità passiva” ma “emigrazione” e l’emigrazione è il passaggio dal proprio territorio di appartenenza verso uno estraneo. In questo caso, si corre il rischio d’essere male accetti. Noi Italiani ne abbiamo una triste esperienza e da quella esperienza passata, possiamo ancora trarre insegnamento.
L’emigrazione italiana fa parte della nostra storia. Essa si protrasse per circa un secolo, dal 1876 al 1970. All’inizio i migranti italiani provenivano dal Nord Italia: lombardi, veneti, friulani, piemontesi, e si dirigevano verso le Americhe. Nel 1900 iniziò l’emigrazione in massa dal Meridione. Le navi, gestite da veri e propri trafficanti di uomini, partivano da spiagge, dai porti e da approdi di barche da pesca di tutta la penisola. Sia alla partenza, che durante l’attraversata, che nei porti d’arrivo oltremare, avvennero fatti gravissimi contro la pietà umana. Molti morirono di stenti, maltrattamenti e linciaggi. Per fermare la disfatta morale il Governo Giolitti, nel 1901, emanò una legge al fine di fermare lo stato penoso in cui si svolgeva il trasporto di quella umanità. Il fenomeno migratorio italiano si attenuò durante le due Guerre Mondiali, sia per il più accanito respingimento dei paesi verso cui si migrava, sia per la comparsa di provvedimenti restrittivi messi in atto dal fascismo.
Dopo la fine del secondo conflitto mondiale, dal 1946 al 1970, l’emigrazione fu soprattutto interna e andava dal Meridione e Isole verso le città industriali del Nord che chiedevano mano d’opera per il boom economico.
L’emigrazione più terribile fu tra la seconda metà del 1800 e l’inizio del 1900. La richiesta di mano d’opera a basso costo proveniva soprattutto dal Brasile e dagli Stati Uniti del Sud.
Avvenne a causa della fine della schiavitù. Gli schiavi neri utilizzati in Brasile nelle piantagioni di caffè e canna da zucchero divennero liberi a causa della “ley do ventre libre” (legge del ventre libero). Si racconta che la figlia dell’imperatore del Brasile, opponendosi ai fazenderos schiavisti avesse ottenuto dal Parlamento brasiliano che dall’anno 1871 tutte le donne schiave in attesa di un figlio, dovessero darlo alla luce libero. Da allora la schiavitù lentamente scomparve. Ciò comportò la mancanza di mano d’opera schiava per il lavoro nelle piantagioni. Il problema venne risolto inviando agenti arruolatori di mano d’opera a basso prezzo nelle regioni più povere del neonato Stato Italiano.
Lo stesso fecero i coltivatori di cotone degli Stati del Sud degli Stati Uniti d’America alla fine della guerra di secessione che sancì la fine della schiavitù dal 1865. Nel 1888 una convenzione internazionale abolì il commercio degli schiavi e il traffico delle navi negriere dall’Africa all’America si fermò. Quelle orribili carrette dal mare per il traffico di schiavi restarono inutilizzate nei porti americani, europei e africani.
Gli sfruttatori del traffico di esseri umani non si fermarono. La contemporaneità fra blocco del commercio degli schiavi e la necessità di mano d’opera a basso prezzo europea restituì valore a quelle navi negriere appena dismesse. Esse vennero rimesse in attività nella rotta dell’Atlantico; stavolta non partirono più dalle coste della Guinea ma dalle coste del Mediterraneo e trasportarono in America masse di bianchi bisognosi. Il disprezzo e l’intolleranza contro i migranti in arrivo furono enormi. Mentre gli ex schiavi pretendevano contratti di un dollaro al giorno per lavorare nelle piantagioni, gli immigrati italiani accettavano mezzo dollaro. Questo fu un motivo di screzi anche gravi tra neri e bianchi immigrati.
I padroni americani chiamavano gli italiani alle loro dipendenze “negri bianchi”. Le atrocità che seguirono al disprezzo e alla disumanizzazione sono note. Questo fatto divenne argomento di scandalo nel Parlamento italiano e un senatore del regno d’Italia, il ministro degli Esteri Giulio Prinetti propose una legge per la regolamentazione dell’emigrazione economica verso le Americhe. La sua legge venne applicata immediatamente per fermare gli abusi sui migranti perpetrati dagli agenti brasiliani. Costoro battevano la campagna del meridione d’Italia promettendo lavoro, la fine della povertà, benessere e il viaggio pagato. Poi, una volta sbarcati in Brasile, pretendevano la restituzione della somma anticipata per pagare il viaggio in nave. Il debito era impossibile da restituire e quei poveracci dovettero lavorare per i fazenderos fino alla restituzione della somma anticipata che cresceva per gli interessi e per il pagamento degli alimenti e dell’affitto delle baracche per l’alloggio di cui erano proprietari gli stessi fazenderos. Di fatto i debitori, non potendo mai restituire le somme pretese, divennero schiavi e come tali vennero trattati insieme alle loro famiglie.
Per fermare l’abuso la Legge Prinetti del 1901 impose quanto segue:
1 – le navi dei migranti potevano salpare dall’Italia soltanto da tre porti autorizzati che venivano controllati dalle forze di polizia: Napoli, Palermo, Genova.
2 – Da nessun altro porto italiano, da nessuna spiaggia e da nessun approdo era consentita la partenza di dette navi.
3 – Nei tre porti autorizzati esistevano i “Patronati” dello Stato Italiano che provvedevano a pagare in anticipo il biglietto della nave e tutte le spese di viaggio.
4 – La nave , prima della partenza, veniva ispezionata da un Medico militare italiano che faceva verifiche sulle condizioni igieniche delle cabine e la salubrità del vitto. Chi era malato veniva sottoposto a cure prima della partenza.
5 – Ogni nave doveva avere un “Commissario di bordo” italiano per i passeggeri. Egli aveva la responsabilità della sorveglianza del benessere dei migranti.
6 – I porti di arrivo in America dovevano essere autorizzati secondo accordi bilaterali col Governo italiano.
7 – Allo sbarco i migranti dovevano ricevere, nel porto d’arrivo, l’assistenza da un ufficio di “Patronato”.
Il Patronato indirizzava i migranti alle aziende richiedenti lavoratori. La legge Prinetti e le integrazioni che seguirono contenevano disposizioni di umanizzazione che anche oggi darebbero utili suggerimenti. Oltre all’intervento di tutela dello Stato crebbe anche l’opera di solidarietà del Volontariato. Alle organizzazioni laiche si aggiunsero le organizzazioni religiose missionarie. La più nota al tempo era la “Missione del Sacro Cuore”. L’aveva fondata la suora Francesca Saverio Cabrini. Questa donna era stata una maestra elementare che, fattasi religiosa nel 1874, fondò il suo Ordine ad imitazione di san Francesco Saverio, protettore dei naviganti in mare, fondatore dell’ordine terziario francescano e dell’Ordine delle Clarisse. Francesca Cabrini fece numerosi viaggi transoceanici sulle carrette del mare per accompagnare i migranti italiani negli Stati Uniti e fondò 80 istituti di assistenza per i migranti. Costruì asili, scuole, orfanotrofi, ospedali, e convitti per studentesse. Le ragazze migranti venivano prese in carico dai suoi istituti, addestrate a parlare la lingua inglese e ad una professione. Quindi venivano avviate alla vita come persone libere, sostenute da un elevato livello culturale. Nel Minnesota fondò un collegio femminile così avanzato che il frequentarlo divenne un titolo di prestigio, e fu una moda per i potenti locali iscrivervi le proprie figlie.
Francesca Cabrini morì a Chicago nel 1917, fu canonizzata da Pio XII del 1946. E’ patrona dei migranti. Sarebbe consigliabile, sopratutto per chi ci amministra, tornare allo studio del fenomeno migratorio, perché di quel fenomeno esistono diverse varianti. Anche se è avvenuto in tempi diversi, in luoghi diversi e in parti diverse della Terra, con gradi di gravità differenti, si tratta sempre di vicende di esseri umani che la storia ha indotto alla perdita progressiva della titolarità dei diritti civili, e li ha destinati a subire abusi e sottrazioni.
Il caso raccontato all’inizio contiene elementi in comune con la storia delle migrazioni umane:
– la sottrazione mascherata di più diritti costituzionali come il diritto alla salute individuale e collettiva e il diritto costituzionale all’uguaglianza e alla realizzazione delle aspirazioni della persona umana;
– l’appropriazione della gestione del diritto alla salute da parte di entità inaccessibili;
– il difetto di solidarietà.

Esiste la convinzione diffusa che si stia tentando di soppiantare la Sanità pubblica con una privata.
Si tratta di due entità assolutamente differenti:
– la Sanità privata è un’organizzazione auto-mantenentesi che deve affrontare spese con fondi propri destinati a: personale, edifici, attrezzature, manutenzione, materiali di consumo, servizio alberghiero, trasporti, burocrazia, tasse, eccetera. Il godimento del suo servizio è oneroso;
– la Sanità pubblica è una grande società di mutuo soccorso solidale dello Stato, il cui servizio dovrebbe essere gratuito, che si finanzia attraverso la contribuzione fiscale dei cittadini secondo regole condivise di contribuzione progressiva in base al reddito. Ciò è necessario per produrre il Fondo Sanitario Nazionale.
Il Fondo Sanitario Nazionale serve a finanziare il Piano Sanitario Nazionale. Il Fondo Sanitario Nazionale viene ripartito equamente fra le Regioni. Le Regioni devono ripartirlo equamente fra le Aziende Sanitarie Locali (ASL) in base alla numerosità della popolazione.
Il cittadino viene assistito attraverso quel fondo che egli stesso ha contribuito a formare. Ne consegue che la proprietà della Sanità pubblica è del cittadino. L’uguaglianza tra i cittadini non è soltanto un diritto costituzionale ma ha anche solide basi matematiche per uguaglianza nella contribuzione.
Esiste la possibilità che l’apparato burocratico che gestisce il Fondo possa optare per una suddivisione non equa sia per motivi di bilancio che per motivi di pianificazione sanitaria, risultando così non equamente solidale ma tendenzialmente preferenziale e vantaggiosa per una parte rispetto ad un’altra della popolazione. Per questo motivo, alle esigenze contabili dovrebbero affiancarsi quei principi etici di uguaglianza e di equità di cui sono ricchi gli articoli della Costituzione.
I guardiani dell’etica politica nella pubblica amministrazione sono gli uomini politici legittimamente eletti. Può avvenire che alla “sorveglianza” dei politici sfugga qualche “sbavatura” contabile. La somma di più sbavature nella distribuzione delle finanze del Fondo Sanitario Nazionale può generare disuguaglianze e disparità per cui può avvenire che il Welfare di una parte del territorio fallisca mentre un altro vicino fiorisca.
Questo è quanto è avvenuto alla nostra ASL 7. Altri si sono appropriati della gestione della Sanità pubblica, racchiudendola nei propri confini sotto forma di “centralizzazione”. La seconda faccia di quella medaglia è l’“esclusione” della Provincia dalla gestione della Sanità. Ora spetta alla politica illuminata futura il compito di riparare i danni della politica passata e presente che, credendo di far bene, ha fatto molto male.
Nell’attesa che si torni alla “statu quo ante” è necessario che la “mobilità passiva”, nuova forma di emigrazione, non voluta ma subita dai nostri pazienti, presso altri territori provvisti di ospedali efficienti, cessi.
Per la cessazione di questo nuovo fenomeno migratorio interno è necessario che si rispetti il Piano sanitario della Rete ospedaliera regionale del 2017 e si provveda a:
– dare un ospedale di base ad Iglesias perfettamente e completamente funzionante;
– dare a Carbonia un ospedale che abbia anche funzioni di Urgenza ed Emergenza;
– o, in alternativa, un ospedale unico.
Tra la promulgazione della legge n. 23 del 1901 del senatore Giulio Prinetti e il raggiungimento dell’obiettivo di frenare i disagi delle emigrazioni passarono 69 anni.
Tra il dire e il fare, ci sarà un lasso di tempo che vorremmo breve, ma potrebbe essere lungo. Nel frattempo, i nostri “Migranti per motivi di salute” hanno bisogno di tutele che può dare solo lo Stato, esattamente come lo Stato fece nel 1901 nei confronti dei Migranti economici italiani.
Pertanto, per tutelare i nostri malati e i nostri medici che li accompagnano presso altri ospedali necessita che:
1 – il paziente che ha bisogno di ricovero non venga rimandato a casa dai nostri ospedali con consiglio di cercarsi un posto in altri ospedali. Ciò equivale ad abbandonarli al loro destino. Invece, il paziente dovrebbe essere accolto e accompagnato previo accordo bilaterale fra direzioni sanitarie delle diverse ASL (come fece il Regno d’Italia con l’America);
2 – il paziente che necessita d’essere ospedalizzato dovrebbe essere accompagnato con ambulanza dotata di equipaggio sanitario completo (idem);
3 – giunti all’ospedale di destinazione il medico accompagnante dovrebbe ottenere dalla Direzione sanitaria ospitante il mandato di disporre l’accettazione già concordata prima della partenza (come fecero i patronati);

4 – il nostro paziente, una volta ricevuto da un altro ospedale dovrebbe godere della tutela dei nostri medici che dovrebbero ottenere alla pari con i medici riceventi la condivisione delle informazioni cliniche sull’evoluzione successiva;
5 – alla dimissione dall’ospedale ospitante, il nostro paziente dovrebbe godere della tutela dei nostri mezzi di trasporto medicati nel caso esistano impedimenti economici e organizzativi familiari.
Il Regio Decreto n. 23 del 1901 e l’esempio dato da santa Francesca Saverio Cabrini sono tutt’oggi validi per allestire sistemi di tutela per i nostri malati-migranti costretti ad essere trasferiti in ospedali di altri territori a causa della nostra povertà assistenziale.

Mario Marroccu

Il 7 dicembre 2023 è un giorno tristissimo per il Sulcis Iglesiente. Il nostro Sistema sanitario è stato privato del Reparto Specialistico di Urologia del Sirai. Simile sorte spetta a Ortopedia e Traumatologia, all’Ostetricia e poi ad altri reparti ancora. Il verbo con cui è stata ufficialmente chiusa l’Urologia è “accorpata” alla Chirurgia Generale. Chi legge potrebbe immaginare che il Personale Medico e Infermieristico dell’Urologia, con al seguito i 12 posti letto e i suoi 12 ammalati siano stati accolti dentro il Reparto di Chirurgia Generale. Non è così. I posti letto sono stati chiusi e il personale infermieristico è stato disperso in diversi altri Reparti. I Chirurghi Generali, che non sono Urologi, hanno avuto l’ordine di fare le guardie e curare i malati Urologici. Conclusione: l’Urologia è chiusa e non ci sarà più un suo servizio al livello qualitativo di prima. Attenzione!, non si tratta di parole impropriamente utilizzate. Si tratta di un metodo di comunicazione universalmente adottato che serve a non generare conflitti e a non generare resistenze. Con tale metodo il popolo sulcitano-iglesiente viene sedato e privato del suo diritto naturale e Costituzionale ad avere assistenza sanitaria. Proprio questo è il punto: l’uso improprio delle parole senza controllare il loro significato.

Fino a qualche tempo fa si utilizzava il greco e il latino per confondere e suggestionare l’ascoltatore poco preparato. Nel Sulcis si utilizzava un idioma misterico, “su Suspu” che capivano pochi eletti e serviva a non far intendere ai popolani il contenuto del discorso e tenerli al di fuori dalle decisioni prese contro la loro volontà. Quando si usa la comunicazione con lo scopo di renderne incomprensibile il contenuto reale, si sta facendo violenza all’interlocutore e se ne carpisce abusivamente il consenso. Così se si ottiene proditoriamente il consenso per atti che comportano un danno a chi lo concede si sta attuando un inganno. Storicamente i periodi di festa sono i più adatti a promulgare leggi o delibere che vanno contro l’interesse dei singoli. Le feste importanti e molto sentite, come il Natale, hanno la capacità di sedare l’umore popolare e di sopire l’istinto di rivolta fatto di “difesa e attacco”. Basta guardarsi attorno per capire perché è stato scelto questo periodo festivo per chiudere Urologia. Tutto ispira serenità: luminarie, giochi, maschere, alberi adornati, canti giulivi, renne e babbi natale. In tutte le città del Sulcis il mondo è diventato una universale Disneyland felice e giocosa. Per i bambini moderni e per quelli ridiventati bambini il Gesù di oggi che nacque a “Topolinia” o a “Paperopoli” i genitori (Maria e Giuseppe) viaggiavano su una slitta trainata da renne e il riscaldamento nell’albergo a 5 stelle di Betlemme veniva da pannelli solari di ultima generazione. Questo che viene diffuso è un messaggio figurato ma ugualmente ingannevole come quello che dice: «L’Urologia è da oggi accorpata alla Chirurgia Generale». Siamo in preda ad una nuova religione governata da una oscura, invisibile e sconosciuta gerarchia tecnologica che ha potere sulla psiche umana. Questo potere si gestisce orientando la politica al di fuori dal percorso indicato dalla volontà popolare e indirizzando i fondi pubblici al di fuori dal Sistema di Solidarietà sociale indicato dalla Costituzione.
In questo mondo fatato copiato dai fumetti di Walt Disney e dalla favolistica Nord Europea è avvenuto l’oblio del messaggio popolare trasmesso dal Natale: la nascita di un povero in una stalla scaldato dal tepore degli animali su un lettino di paglia, e assistito dalla solidarietà sociale che non chiede ricompensa. Esattamente nello spirito della laicissima legge di Riforma Sanitaria del 1978. Il vero Natale parla della durezza delle condizioni economiche e della necessità di arrangiarsi sebbene si venga esclusi dal sistema di potere politico dominante. Un messaggio esattamente contrario a quello del mondo a fumetti di Disneyland.
Nel 1883 un certo Carlo Collodi svelò quest’inganno pubblicando il libro “Le avventure di Pinocchio”. L’argomento centrale della storiella del burattino è la “bugia”. La bugia centrale, la più educativa, si trova nel capitolo del “paese dei balocchi”, si cui si racconta di Lucignolo che convince Pinocchio a marinare la scuola per andare a divertirsi tra giostre e giocolieri nel Paese dei balocchi. Si scopre poi che gli organizzatori di quel divertimento avevano lo scopo di trasformare tutti i bambini che c’erano cascati in asini. L’indomani gli asini vengono catturati, bastonati, affogati e scuoiati; le pelli, conciate, vengono vendute al mercato per farne tamburi. Questa è la storia più educativa che esista intorno agli inganni degli imbonitori. Sono gli stessi imbonitori che con l’arte della propaganda conquistano le poltrone del potere di cui saranno vittime i fessi che ci crederanno. I fessi sono un esercito enorme e le pelli da conciare saranno tante e si faranno tanti tamburi da percuotere all’infinito.
Una volta ottenuto il controllo del potere, dopo aver carpito il consenso popolare, gli imbonitori inviano i loro fedelissimi a gestire il potere attraverso la macchina sociale, sia essa economica o politica. Costoro obbediscono ciecamente per soggezione anche se, probabilmente, non condividono i voleri e gli scopi di chi li ha designati. Ne fa una corretta descrizione Giuseppe Giusti nella poesia del 1852: “Sant’Ambrogio”. Egli, stando in chiesa a fianco degli scherani del dominatore austriaco, si rende conto che anche questi potrebbero essere brave persone, probabilmente vittime di chi le ha inviate, e scrive: «Povera gente, lontana dai suoi in un paese qui che le vuol male, chissà che in fondo all’anima poi non mandi a quel paese il principale».
C’è da credere che sia così anche oggi e che gli inviati dal potere centrale trovino scandaloso l’abuso che si sta perpetrando contro il popolo sottomesso. Di abuso si tratta, appunto.
E’ esattamente quello che si sta perpetrando contro gli ospedali del Sulcis Iglesiente, oggi privi di potere e inermi.
L’abuso è smodatamente sfacciato ed è vistosamente documentato nelle delibere pubblicate ufficialmente negli atti aziendali. In breve gli specchietti che seguono sintetizzano il concetto espresso:
– ASL n. 8 di Cagliari: previsti 483 posti letto – 4.128 dipendenti

– Brotzu di Cagliari: 770 posti letto – 3.174 dipendenti

– Azienda Universitaria Ospedaliera di Cagliari: previsti 446 posti letto

– Cliniche private di Cagliari: 576 posti letto

Totale: 2.275 posti letto – 7.302 dipendenti (non sono citati i dipendenti dell’AOU e delle cliniche private).

Dove sta l’anomalia nei dati riferiti dalle delibere aziendali? Sta nel fatto che mentre le Aziende Ospedaliere e le cliniche private cagliaritane dichiarano di possedere in tutto 2.275 posti letto, la ARES dichiara di avere a Cagliari solo 1.422 posti letto.
Significa che Cagliari ha 853 posti letto più del dichiarato. E questo è a nostro danno.
ARES è un Ente regionale che dipende direttamente dall’assessorato della Sanità e non può essere all’oscuro della discrepanza tra posti letto detenuti e quelli dichiarati. Chi dovrebbe controllare è AGENAS (che è un ente di controllo ministeriale), ma non risulta che abbia controllato. Infatti, se controllasse, si accorgerebbe che esiste una discrepanza fra posti letto all’interno della provincia di Cagliari e posti letto nella provincia del Sulcis Iglesiente. Ciò è in contrasto con il principio di equità garantito dalla Costituzione.
Speriamo che non sia vero e che si tratti di un errore di battitura, perché il contrasto con l’esiguo numero di posti letto concesso al Sulcis Iglesiente è francamente inspiegabile. Così come sono del tutto inspiegabili sono alcune variazioni in diminuzione dei posti letto di cui è titolare la ASL del Sulcis Iglesiente.
Infatti, avviene questa anomalia a nostro danno: mentre nell’atto aziendale della ASL 7 del 16 maggio 2023 è stato deliberato e approvato dai 23 sindaci del Sulcis Iglesiente, che a noi spettano 313 posti letto (di cui 186 al Sirai e 127 al CTO) oggi, per effetto di una delibera, la 568 del 29 settembre 2023, con la quale è stata approvata la relazione sulle strutture sanitarie, socio-sanitarie e ospedaliere pubbliche e private accreditate, alla nostra ASL sono stati decurtati 44 posti letto (da 313 a 269, di essi saranno 142 al Sirai, 120 al CTO e, infine, 7 al Santa Barbara).
A ciò si aggiunge che nel bilancio preventivo per il triennio 2024-2025-2026 gli ospedali cagliaritani saranno finanziati sia per aumentare ulteriormente il numero dei medici e infermieri, sia per acquisire nuove attrezzature tecnologiche. Al contrario i nostri Ospedali, CTO e Sirai, non aumenteranno il personale e non avranno finanziamenti per aggiornamento tecnologico.

Ecco fatto.
Il potere cagliaritano è pesante da sopportare sulle esili spalle dalla ASL 7. Da un punto di vista amministrativo si sta perpetrando una dinamica di “abuso di posizione dominante”.
Abbiamo un problema: i difensori dei nostri interessi che abbiamo elevato ai vari livelli politici (sindaci, consiglieri regionali) non conoscono queste delibere.
Aspettiamoci che in futuro i cosiddetti nostri governanti si sforzino ad impedire che qualcuno ci trasformi in tanti tamburi come avvenne agli asini di Pinocchio.
Per ora l’unico sindaco che fece un’impresa epica occupando il pronto Soccorso del CTO impiantandoci una tenda, è stato quello di Iglesias. Vi è stata poi qualche sindaca e un sindaco di piccole cittadine che hanno affrontato flebilmente il problema. Se loro non si mobilitano, noi non possiamo farlo, perché essi passano e noi restiamo.

Mario Marroccu

Vedere come sono stati ridotti i nostri Ospedali fa molto male. Adesso, dopo l’Urologia, il disastro può toccare alla Traumatologia. Una volta, quando gli ammalati ortopedici sardi andavano al Rizzoli di Bologna venivano accolti con frasi tipo «perché siete venuti qui? Avete chirurghi come il professor Italo Cao e il professor Giuseppe De Ferrari al CTO di Iglesias». Erano i tempi in cui gli americani ritenevano il Rizzoli il migliore ospedale ortopedico del mondo a causa dell’invenzione geniale del chiodo di Codivilla per allungare le ossa. Nell’immediato dopoguerra e nel Ventennio successivo molti malati sardi venivano al Sirai per farsi operare al rene o alla vescica dal famoso dottor Gaetano Fiorentino, il primo Specialista in Urologia in Sardegna. Certamente si può obbiettare che allora c’erano le miniere e che i Governi dotavano i nostri Ospedali dei migliori professionisti per curare i minatori che erano una delle componenti più pregiate della Nazione.
Oggi, dismesse le miniere, gli Ospedali sono nell’abbandono. Davanti a questo fallimento si contrappongono le città di Cagliari e di Sassari che, pur non avendo mai avuto né miniere né industrie pesanti, fioriscono di Ospedali. C’è di più. Nelle delibere di programma economico triennale (24-25-26) approvate dal Brotzu, dalla ASL 8, dalla AOU (Azienda Ospedaliero Universitaria) di Cagliari c’ è in programma l’ulteriore espansione delle specialità ospedaliere e del numero di dipendenti pubblici della Sanità (9.000 contro i 1.000 circa della ASL del Sulcis Iglesiente). Significa che per una popolazione della città metropolitana, che è 4 volte quella nostra, Cagliari ha 9 volte il personale ospedaliero destinato a noi. Se si va a vedere il programma della nostra ASL per i prossimi tre anni, si scopre che non c’è variazione apprezzabile del personale e delle spese programmate per la Sanità del Sulcis Iglesiente.
Ad Iglesias sono praticamente ridotte al lumicino tutte le specialità che conoscevamo un tempo. Al Sirai è stata praticamente chiusa l’Urologia, e ora è di fatto funzionalmente chiusa la Traumatologia. La Chirurgia, oberata da funzioni improprie, è in affanno. Di questo passo si arriverà a chiudere anche il Pronto Soccorso e Accettazione del Sirai. Del resto, se non ci saranno più i reparti specialistici, dove ricoverare i tumori, i traumi, gli infarti, le coliche renali, a cosa serve il Pronto Soccorso? Al contrario, nelle delibere cagliaritane si programma di aumentare il numero dei medici, e le spese per attrezzature.
Qui, nel Sulcis Iglesiente, non si progettano né nuove assunzioni oltre ai vecchi posti deliberati né nuovi impegni di spesa per le innovazioni tecnologiche. Il messaggio di tutte quelle delibere sui piani triennali è chiaro. Purtroppo, non è chiaro per i politici nostrani. Di qualunque colore essi siano. Scommettiamo che nei programmi che verranno propagandati per le future elezioni regionali e europee in questo territorio saranno previsti molti campi da gioco, tante luminarie, convegni, fiere e sciocchezze varie? Ormai anche le appartenenze politiche sono senza ideali: si dà il voto a chi esibisce il sorriso più smagliante e a chi dà più pacche sulle spalle al bar. Lì nasce l’errore e la nostra colpa personale. Abbiamo tutti la colpa personale di avere azzerato i nostri ospedali. Non si tratta di una colpa collettiva generica; quella serve soltanto a diluire il nostro rimorso e addirittura a dichiararci vittime del sistema. Invece è esattamente colpa di ognuno di noi. Ognuno di noi, in persona, è responsabile dell’esistenza delle lunghe liste d’attesa per i ricoveri  della carenza dei medici di famiglia e ospedalieri, dei tumori che vanno avanti e non c’è più nessuno che li sappia curare, e così via.
Il danno irreversibile ai nostri ospedali sta coincidendo con le elezioni regionali e europee, e bisogna approfittarne per pretendere pentimenti concreti e proponimenti concreti.
Iniziamo con l’ascoltare coloro che si addosseranno la colpa di avere inventato la ATS (Azienda Tutela Salute dei tempi di Pigliaru e Arru), e poi la ARES (Azienda Regionale Salute di Solinas e Nieddu poi Doria). La ARES è l’ultima nata. Si tratta di una macchina burocratica che governa la Sanità Sarda. E’ un tipo di struttura amministrativa che prima non esisteva e che è stata imposta prelevando da ciascuna ASL il cuore della sua amministrazione e trapiantandolo in un unico nuovo ente unificato. Tutte le funzioni che assomma in sé ARES sono state tolte non solo alle ASL (come la nostra) ma anche all’assessorato regionale della Sanità. Gli effetti della sua gestione sono sotto gli occhi di tutti e ormai è difficile capire quale sia il motivo della sua esistenza e che cosa giustifichi un costo di gestione annuale pazzesco, pari a 76 milioni di euro. Quell’apparato svolge di fatto una funzione pubblica ma è gestito con principi privatistici e come tale è inaccessibile al pubblico. Ha effetti pesantemente politici sulla Sanità generale ma non ha le responsabilità dei politici, perché nessuno dei suoi componenti è stato mai candidato né votato dai cittadini. E’ un’ossimoro con anima politica ma cuore privatistico. Considerato l’enorme costo e gli effetti negativi sui nostri ospedali agonizzanti, i candidati dovrebbero promettere di metterci in salvo da ARES riconoscendone la natura di errore madornale che necessita d’essere emendato. Tutto il suo personale e i fondi da essa gestiti dovrebbero essere redistribuiti nelle 8 ASL territoriali della Sardegna. Questo atto comporterebbe l’incarico di unica Autorità sanitaria alla Direzione generale della Sanità, come è sempre stato, all’interno dell’assessorato competente, escludendo ARES.
Una seconda proposta concreta consiste nel ricollocare i Sindaci nella cabina di regia per il controllo diretto delle rispettive ASL. In tal modo i Sindaci si farebbero nuovamente carico della responsabilità politica della Sanità. E’ l’unico modo per ridare al cittadino elettore il potere di indicare il nome di chi deve amministrarlo e interpretarne i bisogni; anche quelli sanitari.
Una terza proposta concreta consiste nel restituire ai medici direttori delle Unità Operative Complesse le funzioni di “Primari”. La differenza fra le due figure è enorme. Gli attuali direttori di Unità operativa, dopo aver vinto il concorso pubblico, ottengono l’incarico di direttore di durata quinquennale. Alla fine dei cinque anni, l’incarico può essere rinnovato oppure no. Dipende dalla valutazione discrezionale che ne darà la dirigenza amministrativa della ASL. Ciò significa che i direttori non diranno e non faranno mai nulla che dia dispiacere alla dirigenza della ASL e al partito di governo, in perfetta sottomissione.
Ne deriva che il destino di quella Unità operativa è legato alla linea politico-amministrativa dominante e non alla gestione dei medici. Al contrario, i primari del passato erano inamovibili e mantenevano sia la loro autonomia nella programmazione scientifica e culturale sia il potere di controllo sui medici dell’équipe. I medici giungevano in ospedale preparati culturalmente dall’Università ma venivano formati come professionisti dai loro Primari. Ogni Ospedale diventava una fabbrica di specialisti. Per questo motivo, i medici, una volta costruiti come professionisti dai lori maestri, spesso si trasferivano a vivere nella città in cui risiedeva l’ospedale e non se ne separavano mai più.
Queste tre proposte:
– Abrogazione della legge che ha istituito ARES;
– Il controllo diretto dei Sindaci del territorio sulla gestione della propria ASL;
– La ricostruzione della gerarchia e autonomia Primariale nei reparti.

Sono tre atti senza aggravio di spesa sul bilancio pubblico. Il personale di ARES non perderebbe il posto e verrebbe redistribuito nelle 8 ASL della Sardegna per svolgerci le funzioni per cui è stato assunto. I primari riprenderebbero le loro funzioni di direzione e di formazione di nuovi professionisti fidelizzati all’ospedale. La politica locale riprenderebbe il controllo della Sanità territoriale e ne risponderebbe ai propri elettori. L’assessore alla Sanità recupererebbe, in prima persona, le funzioni di programmazione e controllo.
Queste sono proposte concrete e facilmente realizzabili senza aggravio di spesa. Per realizzarle sarebbe sufficiente riconoscere gli errori commessi in passato contro la Sanità pubblica e accettare l’opinione degli cittadini nel momento in cui diventano elettori. In mancanza del rispetto della volontà popolare, la richiesta del voto non ha senso.
E’ inutile cercare di salvare l’Urologia o la Traumatologia o l’Ostetricia, facendo un’operazione a rate.
Bisogna salvare tutto in un colpo solo. Non con raccolta di firme ma con politici a raccolta, di qualunque colore siano, si salva la Sanità.

Mario Marroccu

Il dolore prodotto dalla colica renale è molto intenso. E’ alla pari col dolore da parto, dell’infarto e della pancreatite acuta. L’80% dei sardi avrà almeno un calcolo urinario nel corso della vita. In nessuna parte d’Italia o d’Europa la calcolosi urinaria è così diffusa come da noi. Ne consegue che noi sardi soffriamo di coliche renali più di tutti. Davanti a questa evidenza, bisogna che i nostri ospedali siano preparati a risolvere il dolore da colica. Fino agli anni ‘80 e per buona parte degli anni ‘90, la soluzione più semplice per trattare la colica renale consisteva nell’applicare una borsa d’acqua calda sul fianco. Una soluzione più avanzata era l’iniezione di Baralgina o Buscopan. Successivamente comparvero i FANS, con l’Orudis e il Voltaren. In genere, si aspettava che la colica cessasse spontaneamente. Bisogna sapere che in natura la colica cessa solo in due modi: uno consiste nella espulsione del calcolo; il secondo modo consiste nell’“esclusione funzionale” del rene che, se non trattata per tempo, si conclude con la “morte silenziosa”. Così, a fine colica, il paziente si ritrova con un solo rene superstite  Questa evoluzione era frequente. Bisogna anche sapere che chi produce un calcolo in un rene ha una forte tendenza a produrne anche nell’altro. Se ciò avviene, il problema è grande perché, nel caso in cui il calcolo renale si sposti dal rene e si infili nell’uretere occludendolo, anche quel rene, oltre a dare un dolore estremo, cessa di funzionare. Il poveretto va in blocco renale. Al blocco renale segue l’”uremia” (che è un’intossicazione) e poi seguono “il coma uremico” e la “morte”. Quindi la colica renale non è solo un violento dolore, ma è, soprattutto, una minaccia per la vita.

A fine anni ’70 comparve a Carbonia il primo rene artificiale. Con quello strumento filtrante era possibile salvare quel tipo di paziente con la dialisi, ma la dialisi era per pochi, perché i reni artificiali erano pochissimi e non sempre disponibili. A quei tempi, in Inghilterra, non si metteva in dialisi chi aveva un’età superiore ai 60 anni (era il triage). Lo si mandava a casa a morire d’uremia. Il nostro povero Sistema sanitario di allora era inferiore a quello inglese. Per salvare il malato vi era un metodo estremo: operare il paziente per rimuovere il calcolo dall’uretere e consentire il passaggio delle urine in vescica. Bisogna sapere che allora non esistevano ancora gli ecografi, le TAC e le Risonanze magnetiche. La strumentazione diagnostica era pochissima e la diagnosi di precisione era poco frequente, tardiva e spesso autoptica. Il destino dei calcolotici era pesante. Chi soffriva di calcoli renali era pressoché un invalido ed aveva problemi di lavoro e familiari. Il problema della calcolosi urinaria nel Sulcis Iglesiente era enorme. Avevamo però una grande fortuna. Nel dopoguerra fu primario di Chirurgia il dottor Gaetano Fiorentino che proveniva dall’Istituto di Patologia Chirurgica dell’Università di Cagliari. Egli fu il primo Specialista Urologo di tutta la storia dell’Urologia sarda. Il Primario chirurgo che venne a Carbonia dopo di lui fu il professor Lionello Orrù, anch’egli specialista urologo e professore di Anatomia Umana Normale e di Anatomia Chirurgica dell’Università di Cagliari. La loro presenza fu un grande vantaggio per il Sirai. Operavano molte calcolosi urinarie nelle forme gravi, però non potevano operarle tutte, a causa della numerosità dei casi. La procedura era molto invasiva e traumatizzante. Si metteva il paziente sul tavolo operatorio, su un fianco e “spezzato” (piegato a “V”), poi si praticava un’incisione detta “lombotomica”. Era un taglio che dall’addome saliva fino al fianco sotto, o tra le ultime coste. Si apriva la cute, la parete muscolare, poi si penetrava in profondità spostando l’intestino e si accedeva nel grande spazio retroperitoneale, esponendo l’uretere e il rene. Si incideva l’uretere o il bacinetto renale e si estraeva il calcolo incastrato nella via urinaria. Poi si suturava la ferita, si ponevano tubi di drenaggio e si richiudeva a strati la parete. La procedura era molto invasiva e la ferita, sia all’interno che in superficie, guariva con una sclerosi cicatriziale. Significa che si formava una cicatrice dura, fibrosa, che finiva per seppellire in un sarcofago fibroso sia l’uretere che il bacinetto renale. La cicatrice successivamente rendeva molto difficile eseguire un secondo intervento chirurgico nel caso in cui sfortunatamente si generasse un altro calcolo.

I “produttori” di calcoli, purtroppo, non finiscono mai di produrne. Spesso, dopo poco tempo, il paziente tornava in ospedale lamentando un’altra colica causata da un nuovo calcolo. Qui nasceva il problema. Operarlo subito con il rischio di danneggiare definitivamente il rene o aspettare? Se il paziente non aveva complicazioni, anche la seconda volta guariva, però correva il rischio di ripresentarsi dopo pochi mesi con un nuovo calcolo. Operando ripetutamente, alla fine il danno anatomico era tale che il paziente finiva per perdere il rene. Questa evoluzione non era la cosa peggiore. La peggiore sorte capitava a chi aveva una calcolosi infetta. Se non si procedeva rapidamente a rimuovere il calcolo, l’ostruzione evolveva in “idropionefrosi” (pus nel rene ostruito) che poteva condurre a morte il paziente per urosepsi (setticemia). Davanti al pericolo di sepsi mortale, poteva essere necessario asportare immediatamente il rene e l’uretere ormai trasformati in una sacca purulenta.

Sembra una storia da Medicina del Medio Evo, invece erano fatti che avvennero fino al 1990. Nel 1986 un Urologo geniale di Madrid, il dottor Enrique Perez Castro Ellendt, ebbe l’idea di far fabbricare alla ditta Storz tedesca uno strumento che chiamò “ureteroscopio”. L’idea era banale. Fece allungare un cistoscopio pediatrico di piccolo calibro (4 mm = 12 french) costituito da un tubicino d’acciaio contenente all’interno delle lenti, esattamente come un cannocchiale in miniatura. Egli mise a punto una tecnica per entrare con quello strumento nell’uretere passando dal basso, cioè attraverso l’uretra e la vescica fino a raggiungere il calcolo. L’idea geniale che ebbe fu il come farlo. Il problema che doveva risolvere stava nel fatto che l’uretere che sbocca in vescica portandovi le urine dal rene ha un calibro più stretto dei 4 mm della punta di quello strumento. All’uopo, si fece costruire una sottile sonda in plastica semirigida che aveva un palloncino gonfiabile in punta e procedeva in questo modo: introduceva la sottile sonda nell’uretra e, arrivato in vescica, la introduceva nell’uretere terminale; qui gonfiava il palloncino. Il palloncino apriva la strada dilatando l’uretere. Rimosso il palloncino introduceva immediatamente l’ureteroscopio nell’uretere dilatato quindi, sotto un forte getto d’acqua, dilatava anche l’uretere superiore. A questo punto il più era fatto: lo strumento giungeva facilmente a ridosso del calcolo. Ora Perez Castro poteva introdurre in un canale dell’ureteroscopio una sottile sonda ad ultrasuoni e metterla a contatto col calcolo per frantumarlo. Poi con una pinzetta a “bocca di caimano” (così l’aveva battezzata), asportava i frammenti uno per uno fino a liberare tutto il lume ureterale. Il calcolo era rimosso, le urine potevano passare e il rene riprendeva a funzionare. Il paziente era salvo e tornava a casa dopo un paio di giorni con i suoi reni risanati.
Nel caso in cui lo stesso paziente avesse prodotto altri calcoli, si poteva procedere allo stesso modo con l’identico brillante risultato. Questo metodo si poteva ripetere più e più volte.
La ureterolitotrissia endoscopica mise fine alle operazioni lombotomiche e alla morte dei reni. I medici del Sirai nel 1986 si precipitarono subito a Madrid e Perez Castro li addestrò nella tecnica. L’allora Presidente del Sirai, Pietro Cocco, capì al volo l’importanza di quel metodo e ordinò l’acquisto immediato dello strumentario tedesco.
In quella occasione si scoprì che il Direttore generale della Storz Italia, con sede a Torino, l’ingegner Boggio Marzet, non sapeva nulla degli strumenti che gli stavamo ordinando. Segno che eravamo i primi in Italia ad acquisirli. Ne fu entusiasta e partì per la Germania per farsi consegnare personalmente dalla Storz tedesca tutto lo strumentario. Quindi lo portò in Sardegna alla ditta Sanifarm di Cagliari, fornitrice del Sirai.
Il primo intervento al Sirai venne eseguito su una paziente di 60 anni in “anuria” (blocco totale di ambedue i reni). Aveva più calcoli ostruenti in ambedue gli ureteri I francesi chiamano quel quadro “impierremente urétéral” cioè “impietramento ureterale”. Espressione che definisce esattamente il quadro endoscopico che venne trovato. La paziente venne liberata da tutti i calcoli e fu dimessa dopo due giorni, viva e in ottima salute. Fu il primo intervento eseguito in Sardegna e, probabilmente, in Italia. Le riprese televisive della procedura vennero diffuse.
In un Congresso urologico, in era pre-Covid, venne affermato da un relatore: «I colleghi di Carbonia sono quelli che hanno disvelato a tutti noi urologi sardi la tecnica per entrare nell’uretere con l’ureteroscopio e asportare i calcoli».
Oggi questa tecnica è utilizzata in tutto il mondo.
La storia della ureterolitotrissia a Carbonia è continuata fino a pochi giorni fa.
Incredibilmente, fra poco tempo, proprio il Sirai di Carbonia, che fu l’iniziatore, non potrà più offrire quella tecnica terapeutica della colica renale a causa della mancanza di medici specialisti.
La situazione del reparto di Urologia a Carbonia è gravissima. Oggi ci sono solo due specialisti urologi che affrontano le urgenze urologiche che provengono dai 119.000 abitanti del Sulcis Iglesiente. Di fatto la nostra Urologia non potrà più lavorare come prima e forse ha finito di esistere.
Bisogna che il 23 sindaci del Sulcis Iglesiente reagiscano anche a costo di piazzare 23 tende all’ingresso dell’Ospedale Sirai e manifestino il loro dissenso, come venne fatto un paio d’anni fa per salvare il CTO di Iglesias.

Mario Marroccu