28 March, 2024
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Bruno Rombi è morto il 27 aprile scorso all’età di 89 anni, a Genova, dove viveva dal 1962; era nato nel 1931 a Calasetta, nell’isola di Sant’Antioco dell’arcipelago del Sulcis, “enclave” linguistica tabarchina (variante della “lingua” ligure).

È stato poeta, scrittore, giornalista, traduttore, pittore, legato alla Sardegna ed al suo paese natale (dove ritornava ogni estate), intellettuale sempre schierato a fianco dei Circoli degli emigrati sardi nell’Italia continentale.

Ho conosciuto Bruno Rombi a Pavia nel novembre 1986 proprio in qualità di delegato del Circolo “Sarda Tellus” di Genova al quarto Congresso della Lega Sarda.

Davanti ai rappresentanti di 25 Circoli di emigrati isolani (tante erano allora le associazioni sarde nell’Italia continentale che facevano parte della “Lega”) pronunciò un discorso di alto livello sottolineando comunque autoironicamente il fatto che non era interessato a cariche dirigenziali, ma che non intendeva rinunciare alla sua fama di “rombiscatole” (ho potuto rileggere il suo intervento perché in queste ultime settimane ho completato la trascrizione al computer di questi atti congressuali, che spero possano essere pubblicati in  un volume a stampa).

Bruno Rombi non aveva peli sulla lingua e non nascondeva verità scomode: mi regalò una copia del suo pamphlet di qualche anno prima “Perché i sardi sono così divisi: testo della conferenza tenuta a Genova presso la ‘Sarda Tellus’, associazione democratica lavoratori emigrati, domenica 17 ottobre 1982” (Genova, Lanterna, pp. 28, 1983).

Lascio ad altri il compito di ricordare Rombi per le sue opere letterarie (narrazioni, studi critici e soprattutto poesie, tradotte in francese, inglese – diffuse in questa versione anche in India -, spagnolo, polacco, maltese, rumeno, macedone, greco, sloveno, catalano, corso, portoghese, urdu, arabo ed albanese, oltre che in latino: l’elenco lo ha stilato Giovanni Mameli) e per la sua intensa attività di pittore.

In questo contributo voglio soffermarmi sugli apporti culturali con i quali questo uomo di grande sensibilità, anche se indubbiamente “spigoloso”, ha arricchito l’attività delle associazioni degli emigrati sardi, collocandosi sempre accanto ai  fratelli-corregionali de “su disterru” e facendo proprie le loro istanze e rivendicazioni anche materiali.

Seguendo i suoi scritti e gli articoli che lo riguardano apparsi dal 1976 al 2010 nelle pagine del mensile Il Messaggero Sardo” cartaceo, vediamo che compare alla ribalta innanzitutto come poeta e poi come appassionato degli studi sulla lingua sarda (lui, di “madre-lingua” tabarchina, era ultrasensibile alle questioni delle minoranze  linguistiche), sul matriarcato in Sardegna, su nomi e cognomi della Sardegna, su emigrazione e razzismo (questi articoli sono legati a conferenze sui vari temi organizzati dal “suo” Circolo, il “Sarda Tellus” di Genova).

Manlio Brigaglia recensisce il suo libro su “Sebastiano Satta. Vita e opere” (Genova, marzo 1983) mentre Giovanni Mameli passa in rassegna scrupolosa le successive opere di Rombi: “Un anno a Calasetta” (prima edizione Genova, 1988; poi Sassari, Carlo Delfino, 2006); le raccolte di poesie “Un amore” (1992) e “Il battello fantasma” (2001); il secondo romanzo di Rombi (il primo era stato “Una donna di carbone”, Condaghes 2004) intitolato “Un oscuro amore” (Condaghes, 2009).

Un bilancio della sua produzione poetica, dal 1965 (data della sua prima raccolta, pochi anni dopo il suo trasferimento a Genova) al 2012 è stata  edita nel volume “Il viaggio della vita” (editore Le Mani di Recco, 2012, 330 pagine).

Molte opere di poesia e di prosa (comprese le ultime narrazioni: il romanzo “Il labirinto del G8” ed il racconto “L’ultima vestizione”, rispettivamente Condaghes 2011 e 2018) sono state presentate nella “Sarda Tellus” ma anche in altre associazioni di sardi emigrati, dove è stato spesso chiamato ad illustrare i risultati dei suoi studi critici sui Grandi della letteratura sarda: tra gli altri, Sebastiano Satta, Grazia Deledda, Salvatore Cambosu, Salvatore Satta, Giuseppe Dessì, Francesco Masala, Antonio Puddu, Angelo Mundula.

Personalmente lo portai nei Circoli sardi di Pavia e di Saronno a parlare di Sebastiano Satta, in occasione della ripubblicazione (presso Condaghes) della sua monografia sul poeta-vate nuorese, uscita in prima edizione, come si è detto, nel 1983.

Nota finale. Ho letto la notizia comparsa su questo sito in cui è stato messo in evidenza il forte legame di Bruno con il paese natìo:

https://www.laprovinciadelsulcisiglesiente.com/2020/04/calasetta-ricorda-il-grande-concittadino-bruno-rombi-morto-a-genova-alleta-di-89-anni/

Personalmente vorrei aggiungere in questa occasione – richiamando un mio articolo in memoria apparso su questo sito – un breve cenno ad una personalità culturale sardo-genovese, amica di Bruno Rombi e, come lui, dei sardi emigrati: Lina Aresu:

https://www.laprovinciadelsulcisiglesiente.com/2018/07/ricordo-della-scrittrice-lina-aresu-nuoro-16-gennaio-1938-chiavari-ge-15-giugno-2018-di-paolo-puilina/

Le “vite parallele” di questi due scrittori sardo-genovesi e le loro numerose opere (più di 40 per ciascuno) meriteranno in futuro di essere commemorate in una giornata di studi da organizzarsi da parte della comunità dei sardi emigrati.

Qui mi limito a rammentare che nel marzo 2004 Rombi presentò, sempre alla “Sarda Tellus”, il romanzo storico di appendice “Ritedda di Barigau. Bozzetto ogliastrino” del maestro di Semestene (Sassari) Marcello Cossu, edito nel 1885 dalla Tipografia Sociale di Vacca-Mameli di Lanusei. Una bella amicizia tra loro due, che hanno condiviso con un chiavarese doc, il docente di materie letterarie Marcello Vaglio, e con il sottoscritto, sardo trapiantato in provincia di Pavia.

Paolo Pulina

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Nonostante siano chiusi da settimane in ottemperanza dei vari decreti della Presidenza del Consiglio dei Ministri e delle Regioni, i 70 circoli della F.A.S.I. (Federazione delle Associazioni Sarde in Italia)  presenti sul territorio nazionale sono impegnati fortemente per l’emergenza Covid-19 (Coronavirus) in diverse azioni di volontariato e solidarietà, con servizi di supporto e assistenza, con donazioni sia alla Protezione civile nazionale sia alle rappresentanze regionali della stessa sia per acquisizione di materiali sanitari a favore di ospedali del territorio continentale di competenza sia a vantaggio di strutture ospedaliere di diverse zone della Sardegna.

È quanto emerso nel pomeriggio di giovedì 9 aprile 2020, nel corso della riunione via web che il Comitato Esecutivo della F.A.S.I. ha tenuto per fare il punto sulla situazione .

Questi interventi di solidarietà sono destinati a intensificarsi dopo Pasqua. Di tutti questi atti di partecipazione concreta alla necessità di concorrere – per quanto possibile, per quanto sta in ognuno dei Circoli e in ogni socio iscritto – ad alleviare i danni del flagello pandemico, si darà un resoconto morale a tempo debito.

Certamente l’impegno della F.A.S.I. e dei Circoli è proiettato verso il dopo Coronavirus,  quando sarà  indispensabile che i  Circoli si mobilitino per ritornare al “conosciuto” della  loro missione, quando si faranno sentire i postumi della devastazione causata dalla pestilenza in campo economico e sociale: importare in continente quanti più prodott possibile dalle diverse filiere produttive della Sardegna (e la F.A.S.I., con la sua struttura organizzativa di e-commerce denominata “Sarda Tellus”, è già in campo per rifornire i Circoli e i singoli direttamente a casa)  e per  favorire una ripresa di massa  delle partenze turistiche per la Sardegna.

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I due volumetti “Sardegna al femminile. Storie di donne speciali”, pubblicati nel 2017 dal quotidiano “L’Unione Sarda” (collana “La biblioteca dell’identità”) in collaborazione con la rivista “La donna sarda”, riportano le sintetiche schede biografiche di ben 68 donne che nella loro lunga o breve vita hanno suscitato sentimenti di rispetto e ammirazione nei confronti della Sardegna. Alcune di esse (poche) sono famosissime o quanto meno famose anche fuori della comunità dei sardi (residenti ed emigrati): Eleonora d’Arborea, Grazia Deledda, Maria Carta, Marisa Sannia, Maria Lai, Edina Altara;  molte di esse  però nell’isola non sono valorizzate come meriterebbero o addirittura non sono conosciute. Questo repertorio biografico (peraltro acquistabile a un prezzo assolutamente accessibile presso lo store del quotidiano cagliaritano) serve a colmare in maniera esauriente la carente memoria regionale sulle più importanti personalità femminili di cui la Sardegna dovrebbe andare orgogliosa.

Questa utile opera di consultazione è frutto del lavoro di ricerca e di redazione di dodici studiose sarde ma, tra esse, quella che ha firmato il numero più alto dei testi (ben trenta) è la giovane giornalista cagliaritana Federica Ginesu.

Per l’iniziativa “Parole…Illustrare un ruolo. Omaggio alle eccellenze sarde”, legata alla Giornata Internazionale della Donna, bene hanno fatto perciò i Circoli culturali “Sardegna” di Como e Circolo “Amsicora” di Lecco  a invitare, per una conferenza tutta al femminile, proprio  Federica Ginesu, della quale, in più, è giusto dire che l’8 marzo  scorso, a Cagliari,  ha ricevuto, per la sezione Giornalismo-categoria carta stampata e Web (per l’articolo “I loro insulti per i nostri tacchi” pubblicato sul settimanale “Grazia”, valutato «un esempio di giornalismo moderno per il riconoscimento dei diritti delle donne»), il Premio giornalistico “Gianni Massa” edizione 2018-19 organizzato dal Corecom (Comitato Regionale per le Comunicazioni della Regione Autonoma della Sardegna) e dall’associazione “Giulia giornaliste Sardegna”.

Naturalmente, per la sua conferenza, che si è tenuta a Como, presso il Salone di Villa Olmo, nel pomeriggio di sabato 16 marzo 2019, davanti a un pubblico numeroso ed attento, la relatrice ha dovuto fare una scelta e ha deciso di illustrare la figura di otto donne sarde, note e meno note, «che hanno fatto Storia per la loro forza, fierezza e determinazione».

La relazione ha quindi riguardato: Adelasia Cocco, prima donna in Italia a diventare medico condotto; Ninetta Bartoli, tra le prime sindache d’Italia; Edina Altara, creatrice, artista e stilista, tra le prime donne in Italia a depositare un brevetto per una tecnica da lei inventata (il collage); Carmen Melis, la prima diva della lirica prima di Maria Callas; Eva Mameli Calvino, scienziata e prima donna in Italia ad essersi laureata in botanica; Maria Carta, cantante; suor Giuseppina Demuru, la suora che sfidò i nazisti presso il carcere “Le Nuove” di Torino; Rina De Liguoro, attrice di Hollywood ed ultima diva del cinema muto.

Alla relazione illustrativa di queste eccellenze femminili della Sardegna, ha fatto seguito l’esibizione della cantante Giusy Deiana, ex componente del Duo di Oliena, una delle voci più rappresentative dell’etno-pop isolano, che ha eseguito i brani che hanno maggiormente caratterizzato la sua brillante carriera senza tralasciare quelli più classici della tradizione sarda.

La  manifestazione è stata aperta dai saluti dei rappresentanti del Consiglio direttivo del  Circolo sardo di Como (Rosella Monni e Nicola Urru), di Giuseppe Tiana (coordinatore dei Circoli F.A.S.I. della Lombardia e dirigente del Circolo “Amsicora” di Lecco) e di Serafina Mascia, presidente della F.A.S.I. – Federazione delle Associazioni Sarde in Italia.

Qualche aggiunta bibliografica. L’occasione mi sembra propizia per segnalare due saggi molto ampi, risultati di ricerche meticolose presso gli archivi,  che sono stati pubblicati sulla rivista “Studi ogliastrini”, diretta da Tonino Loddo, su due figure femminili evocate da Federica Ginesu: “Una vita oltre le sbarre delle ‘Nuove’ di Torino: suor Giuseppina Demuru, Fdc” (di Tonino Loddo, nel numero 13 della rivista, febbraio 2017, pp. 83-135) e “Le presunte  origini ogliastrine di Eva Mameli Calvino” (di Riccardo Virdis e Tonino Loddo, sul numero 14 della rivista, febbraio 2018, pp. 135-156).

Alcune donne sarde “all’avanguardia”, registrate nei due volumetti de “L’Unione Sarda”, sono presentate anche in pubblicazioni relative a personalità femminili di tutt’Italia; mi riferisco, in particolare, a due volumi della studiosa piemontese Bruna Bertòlo: 1) “Prime …sebben che siamo donne” (Torino, Ananke, 2013) in cui compaiono Grazia Deledda (le sono dedicate 10 pagine), Bastianina Musu Martini (“eroina del voto alle  donne”), Nadia Gallico  Spano (tra le “madri della Costituente”), Ninetta Bartoli e Margherita Sanna; 2) “Maestre d’Italia” (Torino, Neos Edizioni, 2017) in cui due pagine sono dedicate sia a Mariangela Maccioni sia a Margherita Sanna; ben otto pagine sono invece riservate alla scrittrice  tuttora vivente (è nata a Nuoro il 14 agosto 1928) Maria Giacobbe, il cui “Diario di una maestrina”, pubblicato nel 1957, è stato tradotto in quindici lingue.

In chiusura mi permetto di rimandare a una mia breve notizia biografica su suor Giuseppina Nicòli (ricordata dalla Ginesu in rapporto a suor Giuseppina Demuru)

http://www.regione.sardegna.it/messaggero/2008_luglio_05.pdf e all’ultimo dei miei scritti su Eva Mameli Calvino.

http://www.tottusinpari.it/2018/03/05/ogni-tanto-anche-se-e-antipatico-bisogna-fare-le-pulci-in-tema-di-ricerche-su-eva-mameli-calvino-una-testimonianza-non-correttamente-riportata-di-floriano-calvino-sulla-nonna-p/

Paolo Pulina

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Il film “Il nostro concerto” di Francesco Piras ha vinto il primo premio FASI del concorso “Visioni Sarde” edizione 2019. La giuria Giovani ha premiato “La notte di Cesare” di Sergio Scavio.

Ecco le motivazioni dei primi premi e degli altri riconoscimenti assegnati dalle due giurie (riunite separatamente nei locali della Cineteca di Bologna, in data 25 febbraio 2019) tra i dieci film finalisti selezionati dalla Cineteca di Bologna.

Primo Premio FASI (assegno di mille euro e targa FASI; pergamena della Cineteca di Bologna): “Il nostro concerto” di Francesco  Piras.                                              

“Il nostro concerto” di Francesco Piras si segnala per la capacità di raccontare, con maturità stilistica e buona tecnica, il delicato rapporto fra due solitudini unite dal web, lasciando trasparire, in una messinscena visivamente efficace, un gioco di raffinate psicologie che arriva – complice la musica, che è un protagonista sotterraneo – al cuore dello spettatore.                                                   

Menzione Speciale (targa FASI e pergamena della Cineteca): “The wash – La lavatrice” di Tomaso Mannoni.

“The wash – La lavatrice” di Tomaso Mannoni trova un equilibrio tra fiction e documentario nell’affrontare il tema delle servitù militari e delle conseguenze mortali delle guerre simulate sulla popolazione sarda; un j’accuse che sceglie l’impatto sonoro come traccia narrativa ed emotiva, eludendo la più scontata via stilistica del cinema verità per cercare nella sperimentazione un modo per chiamare chi guarda alla riflessione di impegno civile.

Menzione Speciale (targa FASI e pergamena della Cineteca): “Dans l’attente” di Chiara Porcheddu.                 

“Dans l’attente” è in grado in tre minuti, senza dialoghi e con immagini non banali, di restituire il tempo dilatato dell’attesa in un centro di accoglienza.

Premio speciale della giuria Giovani (500 euro del Circolo “Sardegna” di Bologna e pergamena della Cineteca) a “La notte di Cesare” di Sergio Scavio.     

Motiviamo il premio Giovani al film “La notte di Cesare” di Sergio Scavio – per la narrazione di un tessuto sociale poliedrico; – per la resa scenografica accurata;              

– per la capacità di raccontare la complessità culturale verso cui viaggia la Sardegna; – per aver reso con delicatezza un originale scorcio del nuovo paesaggio urbano dell’isola.

***

La 25esima edizione dello storico festival “Visioni Italiane” (concorso nazionale per corto, mediometraggi e documentari) ha dedicato la giornata inaugurale a “Visioni Sarde”, sezione riservata alle migliori e più recenti produzioni cinematografiche isolane.

Nata nel 2014, la rassegna è diventata sempre più grande mantenendo la sua vocazione di luogo di vetrina per cinema di qualità prodotto in Sardegna e di scoperta e di valorizzazione dei giovani talenti sardi a cui offre l’occasione di raggiungere il più vasto pubblico nazionale e anche internazionale. Il progetto “Visioni Sarde nel Mondo” si propone infatti di diffonderne le opere in più continenti attraverso la rete dei circoli sardi, grazie ai contribuiti della Regione Autonoma della Sardegna – Assessorato del Lavoro (ai sensi della L.R. n. 7/1991 art. 19, nell’ambito del programma per l’emigrazione 2019). Quest’anno i compiti organizzativi sono stati affidati al Circolo “Su Nuraghe” di Alessandria.

I film partecipanti alla finale sono stati raccolti e preselezionati nei mesi passati dagli esperti della Cineteca di Bologna. Questi i titoli rimasti in gara: “Dans l’attente” di Chiara Porcheddu, “Eccomi (Flamingos)” di Sergio Falchi, “Gli anni” di Sara Fgaier, “Il nostro concerto” di Francesco Piras, “L’unica lezione” di Peter Marcias, “La notte di Cesare” di Sergio Scavio, “Sonus” di Andrea Mura, “Spiritosanto – Holy spirit” di Michele Marchi, “The wash – La lavatrice” di Tomaso Mannoni, “Warlords” di Francesco Pirisi.

A giudicarli è stata la giuria costituita da: Paolo Pulina, presidente (vicepresidente della FASI, scrittore e giornalista); Franca Farina (funzionaria del Centro Sperimentale di Cinematografia – Cineteca Nazionale); Alberto Masala (poeta e scrittore); Bruno Mossa (cinefilo, manager, imprenditore); Sergio Naitza (critico cinematografico, giornalista professionista, regista); Antonio G. Pirisi (neuropsichiatra infantile); Alberto Venturi (giornalista pubblicista, esperto in comunicazione pubblica); Antonello Zanda (scrittore e critico, giornalista pubblicista); Davide Zanza (critico cinematografico).

È stato assegnato anche l’importante premio “Giovani”, messo a disposizione dal Circolo “Sardegna” di Bologna. La giuria Giovani era composta da: Elisa Carrus (presidente), Lorenzo Busia, Efisia Curreli, Chelu Deiana, Salvatore Pireddu, Alessandra Pirisi, Francesco Rubattu.

Ha coordinato Bruno Culeddu.

Il “best of” del più recente Cinema made in Sardegna si è concluso con un rinfresco a base di prodotti enogastronomici sardi (a cura del Circolo “Nuraghe” di Fiorano Modenese) e con la proiezione, come evento speciale, dell’ultimo lungometraggio di Paolo Zucca “L’uomo che comprò la Luna”. Erano presenti: Paolo Zucca, Benito Urgu e Jacopo Cullin. Presente Nevina Satta, Direttrice della Fondazione Sardegna Film Commission.

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Scorrendo l’elenco delle attività svolte dal Circolo culturale sardo “Logudoro” di Pavia nel corso degli anni 2011-2018 si rimane colpiti dall’intensità delle iniziative e dallo spessore che esse rivestono non solo per gli argomenti trattati, ma anche per i relatori e attori intervenuti.

Colpisce la varietà delle proposte che spaziano dalle conferenze per ricordare illustri personaggi della Sardegna, ai cori e ai cantanti solisti che hanno eseguito musiche e canti tradizionali, alla presentazione di nuovi scrittori, già affermati in campo nazionale, alla celebrazione dei 150 dell’Unità d’Italia, de “Sa Die de sa Sardigna”, e via dicendo.

Non si tralascia niente; tutto viene rappresentato in una cornice di sardità, che però non appare come in un contesto isolato, bensì, ricalcando il modello del villaggio globale, l’Isola rimane una piccola entità del mondo, in esso ben inserita e partecipe.

Ci si può domandare del perché di questo tipo di iniziative e non di altre; la domanda non sembri retorica: la risposta è che noi abbiamo bisogno di queste cose perché alto è il sentimento della nostra identità e quindi il desiderio di mantenerla e coltivarla attraverso i canali che più di altri rafforzano questo tipo di connotazione.

Le iniziative, che hanno prevalentemente carattere culturale, non si confermano quindi come esclusive e riservate a una ristretta élite di intellettuali; esse sono dirette e coinvolgono tutti, anche i non sardi, che peraltro nel nostro Circolo sono discretamente rappresentati a cominciare dal Consiglio Direttivo dove un componente è un “continentale” che ha trascorso in Sardegna molta parte della sua attività professionale.

Mi è doveroso ricordare che così alti risultati nel periodo 2011-2018 si sono ottenuti grazie al presidente che mi ha preceduto, il dott. Gesuino Piga, a cui va il mio sincero ringraziamento per avermi lasciato in eredità il tracciato di una strada molto ben definita e percorribile per lunghi anni ancora.

Quale è il nostro auspicio per il futuro? Le parole d’ordine sono migliorare e innovare, ma noi abbiamo un altro desiderio preminente; oltre a rafforzare la rete con le realtà socio-culturali presenti nel territorio, vogliamo in particolare riuscire a coinvolgere i sardi di seconda e terza generazione che all’interno del nostro Circolo non sono purtroppo molto presenti.

Questa è la sfida che ci proponiamo; non sarà facile, ma ci proveremo.

GESUINO PIGA, presidente onorario del Circolo “Logudoro”

FILIPPO SOGGIU, presidente emerito del Circolo “Logudoro” e della Federazione delle Associazioni Sarde in Italia (F.A.S.I.)

A testimonianza della feconda attività del nostro sodalizio è sufficiente rifarsi alla testimonianza costituita dalla documentazione raccolta dall’accorto e abile nostro Paolo Pulina a partire dagli esordi dell’Associazione: sfogliandola appare evidente che il Circolo è stato puntualmente fedele ai princìpi costitutivi della legge istitutiva (L.R. n. 7/1991), non solo come luogo di semplice, nostalgica aggregazione de “is sterraus”, ma di accorti e impegnati sodali, animati dal desiderio di recuperare e contribuire allo sviluppo della loro Piccola Patria Isolana.

Viene, pertanto, ad osservarsi il percorso seguito dal nostro Circolo durante i suoi “quasi 40 anni di esistenza”; a partire da quando, con lungimiranza, Paolo Pulina provvide alla raccolta puntuale ed all’assemblaggio di ogni documentazione, ufficiale o meno, che comunque facesse riferimento al sodalizio: articoli di giornale come di ogni altro scritto valido alla bisogna. Ciò ha avuto luogo fino alla cesura costituita dalla prima panoramica (2010) concernente i primi “Trent’anni di attività”, compendio che abbraccia e riepiloga il periodo tra il 1982 e il 2010.

Il periodo successivo costituisce l’oggetto della presente raccolta, che coincide col cambio di indirizzo che verrà impresso dal rinnovo delle cariche sociali avvenuto nel 2018: dopo i 16 anni continuativi della Presidenza di Filippo Soggiu e gli ulteriori 20 della Presidenza di Gesuino Piga. Fra quei due lunghi periodi si può riscontrare una ideale continuità d’azione e di programma, tesa originariamente a consolidare la nuova creatura, e in un secondo tempo anche, e soprattutto, a ricercare una prospettiva per l’affermazione ideologica e culturale della stessa. Di talché il Circolo Culturale Sardo “Logudoro” può dirsi, senza tema di smentita, che abbia sviluppato un ruolo fondamentale, segnando la via e l’indirizzo ideologico in modo da segnare l’esistenza stessa del Mondo dell’Emigrazione organizzata.

Ciò è stato possibile non solo per merito degli esponenti del sodalizio, ma di tutti coloro che si sono con essi associati nell’impegno, con trasporto, lealtà e lungimiranza, come a voler riscattare avvenimenti che li avevano estraniati e umiliati. Si può ben dire, pertanto, che in tale circostanza sono riemerse e si sono confermate nella loro integrità le doti di carattere tipiche della nostra stirpe: impegno, tenacia, riservatezza, lealtà, laboriosità, ma soprattutto aderenza e fede nel proprio carattere di “sardità”.

Si è in presenza di un quadro abbastanza esaustivo di quanto impegno, fatica e tenacia ma anche di intelligenza siano stati dimostrati dal nostro Popolo, che risulta ormai impegnato nell’affermare la propria personalità, impegno gratificato dalla solidarietà e dal rispetto delle popolazioni che li hanno ospitati, in genere sin dall’inizio.

L’azione sociale all’interno del sodalizio è stata caratterizzata da iniziative coerenti col carattere associazionistico dello stesso, normalmente ispirate dal folclore della Sardegna, ma anche dalle riflessioni tratte dalla nostra storia, dal ricordo di eventi e di personaggi caratteristici che l’hanno segnata, oltre ad essere ritmata dalla costante partecipazione alle iniziative, a livello sia di Circoscrizione, come di Federazione. Ampia anche l’opera di divulgazione volta in particolare a far conoscere gli specifici aspetti della nostra cultura e delle nostre tradizioni all’opinione pubblica cittadina, il tutto consolidando i vincoli di amicizia e solidarietà che ormai intercorrono stabilmente fra la nostra Comunità e la Cittadinanza pavese.

***

Nota. Nel periodo qui preso in considerazione, anni 2011-2018, i segnali di incertezze economiche si sono amplificati e trasformati in una irrefrenabile crisi che ha investito progressivamente tutto il pianeta con effetti devastanti. La già fragile economia isolana ne ha subìto terribili ripercussioni, essendo stata colta, per di più, nella delicata fase del trapasso da un regime marcatamente conservatore ad altro di più ampie aperture progressiste, impattando, pertanto, nel pieno di un mutamento radicale del quadro ideologico e politico-istituzionale. Per un tempo abbastanza lungo, si è paventato che si rendesse necessario di intervenire e modificare il regime della legislazione regionale sull’Emigrazione, vanto appunto della legislazione politico-sociale della Regione Autonoma della Sardegna. Fortunatamente, pur con comprensibile lentezza, le cose sono andate sistemandosi ed anche i bilanci sono andati assestandosi, e anche  il flusso dei contributi previsti per le iniziative regionali ha ripreso a scorrere con una certa regolarità.

PAOLO PULINA

– vicepresidente vicario del Circolo culturale sardo “Logudoro”

– vicepresidente e responsabile Cultura/Informazione della Federazione delle Associazioni Sarde in Italia (F.A.S.I.)

Nella prefazione alle tre pubblicazioni che ho curato per il Circolo culturale sardo “Logudoro” di Pavia per documentare dettagliatamente le attività da esso realizzate a partire dall’anno di istituzione ufficiale del nostro sodalizio, cioè dal 1982:   

1) Dieci anni di attività 1982-1991, Pavia, Antares, 1991, 192 pagine di rassegna stampa, ill.;

2) tre volumi di rassegna stampa (per oltre 500 pagine) riferiti alle iniziative del nostro Circolo nel decennio 1992-2001;

3)Trent’anni di attività, 1982-2010, a cura di Gesuino Piga e Paolo Pulina, Pavia, Nuova Tipografia Popolare, 2010, pagine 64, ill.;

ho espresso la mia ferma convinzione che «ciascuna comunità – anche la più piccola e marginale – deve preoccuparsi di conservare, preservare e valorizzare i documenti relativi alla propria attività».

Fondamentale, a questo scopo, è l’approntamento di una agile pubblicazione a stampa  (quello che ho chiamato «archivio portatile») che diventa sicuro riferimento per riepilogare i dati essenziali anno per anno ma anche per aggregare, in scrupoloso ordine cronologico, la documentazione depositata nell’archivio fisso – e di ben più pesante ingombro – di un’Associazione, di una Comunità, di un Circolo.    

L’attuale Consiglio Direttivo del Circolo, condividendo anch’esso questo principio metodologico, mi ha affidato l’incarico di aggiornare il nostro archivio documentario a stampa (quindi «portatile») raccogliendo in forma sintetica ma esauriente tutte le informazioni riguardanti le iniziative realizzate dal Circolo dall’anno 2011 fino all’anno 2018 compreso.

Portato a termine il lavoro, il mio primo suggerimento – rivolto ai Soci ma anche agli altri lettori  “esterni” – è che essi recuperino nella propria libreria domestica il volume Trent’anni di attività, 1982-2010 e risfoglino non solo le introduzioni di Filippo Soggiu, di Gesuino Piga e del sottoscritto ma anche le restanti pagine con l’elenco minuzioso delle nostre manifestazioni.

Sarà un esercizio della memoria che consentirà di apprezzare meglio questo seguito della storia (arricchita questa volta anche da una significativa appendice fotografica). A questa storia spetta a noi tutti assicurare un futuro all’altezza di quanto realizzato nei 36 anni 1982-2018, cioè in un lungo arco temporale passato di cui possiamo essere legittimamente orgogliosi sia per la quantità delle proposte offerte ai Soci e ai cittadini di Pavia sia per la qualità di esse.

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Il volume dell’aritzese Francesco Pranteddu sul fratello maggiore Liberato  (“Libero. Un partigiano sardo e il suo tempo”, Comitato di Cagliari dell’Associazione Nazionale Perseguitati Politici Antifascisti, 2003) si inserisce certo nel quadro della memorialistica sulla Resistenza nel Nord Italia ma serve anche a ricostruire, dall’“interno”, un periodo storico cruciale della vita del Partito Comunista Italiano in  Sardegna, dal momento della conquistata “liberazione” dal nazismo e dal fascismo (su questo momento si può vedere anche il libro dell’orunese Antonio Dore, “Vita di un comunista”, a cura di Guido Melis, Cagliari, Tema, 2001) fino alla metà degli anni Sessanta.

È un libro, quello di Pranteddu, che esce nel secondo semestre del 2003 ma che lascia trasparire una lunga gestazione rispetto alla data in cui possiamo collocare  il primo proposito di composizione, cioè la fase   immediatamente successiva alla scomparsa di Liberato avvenuta, a 62 anni appena compiuti, il 7 marzo 1979. Quando viene a mancare il fratello più grande, Francesco è da quasi 14 anni residente a Milano (per chi si trasferisce nella penisola, Pranteddu non gradisce  la qualifica di “emigrato”, da lui applicata solo a chi oltrepassa la  frontiera nazionale).

Con questa sua indagine, Pranteddu ci ha voluto condurre dall’affettuosa riproposizione di una vicenda individuale alla storia collettiva, alla storia generale, alla storia senza aggettivi. Il libro su Liberato Pranteddu si articola in 5 parti. La prima parte (da Aritzo a Torino) si segnala per la descrizione dell’ambiente umano e sociale del paese delle proprie radici. La seconda s’incentra sulla guerra con lo snodo cruciale dell’8 settembre 1943. La terza spiega e racconta la scelta partigiana. La quarta si occupa della fine del conflitto e dei primi tratti della vita repubblicana. La quinta e ultima parte è l’appendice, che riporta alcuni diari di guerra di parroci del nord Italia. Insomma, pagine di ricordi, di storia, di memoria, con personaggi importanti e uomini semplici che furono protagonisti di un periodo cruciale della nostra storia.

Quali le motivazioni che hanno spinto Pranteddu a scrivere il libro? Come racconta egli stesso, esaurito un decennale impegno come dirigente provinciale della FGCI a Nuoro e coordinatore zonale (a Bosa) del PCI, «dopo breve tempo dedicato al completamento degli studi e a sostenere contestualmente concorsi pubblici, a fine 1965 la sorte di abbandonare Aritzo e la Sardegna era toccata anche a me. Nei successivi trent’anni di attività professionale trascorsi a Milano, quale dirigente dell’Ufficio speciale per il collocamento dei lavoratori dello spettacolo, non ho mai rimosso le precedenti esperienze nuoresi; anzi, maggiormente motivato, ho avuto modo di partecipare alla vita politico-culturale-sindacale della città e della regione lombarda e, per non interrompere il filo conduttore che ancora mi collegava alla mia Isola, nel tempo libero ho dedicato una particolare attenzione all’associazionismo sardo».

Se è vero che a Milano Pranteddu, dopo la morte di Liberato, continua a occuparsi di formazione professionale e dei problemi dei lavoratori dello spettacolo, concentrando la sua attività pubblicistica sulle relative tematiche; è altrettanto verosimile ipotizzare che un rovello lo tormenti: quello di riuscire a riservare, attraverso la scrittura, un “risarcimento” simbolico al fratello partigiano, «che può essere indicato dai suoi concittadini (come scrive  Michele Marotto, che è stato a lungo responsabile della sezione del PCI di Aritzo, alla quale Liberato Pranteddu è sempre stato iscritto) come rappresentante della comunità aritzese nella lotta di Liberazione nazionale».

Probabilmente Pranteddu, quando progetta di tracciare la biografia del fratello partigiano, è animato solo dal desiderio di vedere i luoghi e di conoscere i personaggi delle montagne del Pinerolese di cui Liberato gli ha parlato,  senza alcuna vanteria, ma insistendo sul concetto che gli sembrava di avere fatto semplicemente, andando in montagna con i partigiani, il suo dovere di italiano, se si considera che era incappato come militare in Croazia  (insieme all’altro sardo Michele Manca, Chei) nel generale disorientamento che colpì l’esercito italiano alla notizia all’armistizio dell’8 settembre 1943 e che era riuscito a raggiungere, avventurosamente, sempre con Manca, la città di Torino, alla quale era stato destinato all’inizio del suo servizio militare di leva.

Ma una volta pervenuto a un riscontro puntuale delle narrazioni di Liberato (“Libero” era naturalmente il suo nome di combattente per la libertà) attraverso la raccolta delle testimonianze orali e scritte dei suoi compagni e comandanti partigiani, Pranteddu, quando si concentra sulla scrittura, si convince che occorre inserire la vicenda militare e partigiana di Liberato nel contesto della storia generale (la sua permanenza in Croazia e quindi l’illustrazione della situazione della Croazia; la vita partigiana e quindi la precisazione delle motivazioni per cui si costituirono nelle montagne del Nord Italia le formazioni partigiane; la fine del conflitto, il rientro a casa e quindi i percorsi di vita repubblicana sia in Sardegna che a livello nazionale).

È vero certamente quanto Pranteddu dichiara nella nota introduttiva: «Attraverso la piccola storia di un uomo comune – comunque protagonista sconosciuto alla grande storia, anche se non elevabile alla gloria degli eroi e della notorietà – vorrei incoraggiare i giovani di oggi a studiare ed impossessarsi della conoscenza del momento storico da lui vissuto; ad accostarsi all’impegno socio-politico e culturale per affermare e difendere i principi per i quali “Libero” scelse di diventare partigiano. Perché su valori come la libertà, la pace e la democrazia si ha il dovere di vigilare consapevolmente anche nel nostro tempo».

Ma le pagine conclusive danno conto di un supplemento di impegno di cui Pranteddu ha dovuto farsi carico,  man mano che nella sua ricerca si avvicinava al «nostro tempo», al momento della pubblicazione dell’opera. Scrive Pranteddu: «Nel nostro tempo, ormai distante dagli avvenimenti resistenziali dal 1943-’45, taluni critici interessati a snaturare l’ormai consolidato giudizio storico sulla Resistenza si cimentano in apprezzamenti finalizzati a sminuire il determinante apporto fornito dalle formazioni partigiane nella guerra di liberazione nazionale dal nazifascismo. […] Essi qualificano maldestramente la produzione storico-letteraria sulla Resistenza come retorica  anche quando è supportata da prove documentali ineccepibili; non riconoscono con la dovuta convinzione che la molla che ha spinto i partigiani ad agire nella guerra di liberazione è stata prevalentemente ideale».

Proprio nel momento in cui si enfatizzano le violenze (sicuramente da condannare) del dopo-Liberazione contro i fascisti più sanguinari, Pranteddu pubblica i diari dei parroci che sono stati testimoni, nelle zone in cui ha operato il partigiano “Libero”, delle  atrocità commesse dalle orde dei nazisti e dei fascisti contro la popolazione inerme, colpevole solo di non denunciare i partigiani.

Proprio nel momento in cui qualcuno vuol procedere a un  «revisionismo generalizzato» della storia della Resistenza, adottando il concetto di «guerra civile che vorrebbe essere risolutivo mentre invece non lo è», Pranteddu propone alcune brevi testi (di Giacomo Matteotti, Giuliano Procacci, Enzo Biagi, Nicola Tranfaglia) che dimostrano che non è possibile oscurare la verità: la Resistenza (alla quale ha partecipato anche l’aritzese Liberato Pranteddu)  è stata il movimento di una minoranza che aveva a cuore la necessità, avvertita dalla stragrande maggioranza del popolo italiano, di riconquistare le libertà politiche e civili (che favorissero la ripresa di una competizione elettorale fondata sulle regole delle democrazia e non sui diktat del totalitarismo) e di realizzare programmi di governo incentrati sulla giustizia sociale.

Post scriptum 1. Nel corso della presentazione del suo libro organizzata dal Circolo sardo “Domo Nostra” di Cesano Boscone (allora presieduto da Mario Piu) in occasione della “Giornata della memoria” 2005, Pranteddu  dichiarò di aver voluto raccontare, con il volume “Libero. Un partigiano sardo e il suo tempo”, la storia di una realtà politica e ideale di un uomo (il fratello partigiano Liberato) in un tempo ben connotato e definito (la Resistenza nel Pinerolese e l’immediato dopoguerra in Sardegna). Per Pranteddu questa  storia travalicava i propri originari confini e condensava in sé un ricco e complesso intreccio di situazioni, di significati e di valori, che imponevano un più lungo percorso della memoria, la rivisitazione di un tempo ben più ampio, di un’intera epoca: dalla tragedia del fascismo e della guerra all’epopea della Resistenza e della Liberazione, alla difficile, contrastata ed esaltante costruzione dell’Italia repubblicana.

Nella circostanza Pranteddu presentò un altro volume (“Di ‘Libero. Un partigiano’ hanno detto”, Cagliari, ANPPIA, 2004) con i testi delle recensioni dedicate al libro e la trascrizione dei dibattiti relativi alla presentazione di esso in varie località della Sardegna.

Post scriptum 2. “Libero. Un partigiano sardo e il suo tempo”è stato ripubblicato in terza edizione nel 2007, presso Nuove Grafiche Puddu di Ortacesus (Sud Sardegna).

Paolo Pulina

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È sempre grande l’interesse sulla figura ed opera del marxista critico e comunista umanista Antonio Gramsci (Ales, 22 gennaio 1891-Roma, 27 aprile 1937); sono costanti e molteplici, infatti, le iniziative di Facoltà Universitarie e Associazioni che promuovono Convegni e presentazioni critiche sul grande pensatore sardo.

Gli scritti gramsciani, indipendentemente dalle idealità politiche personali, risultano il pensiero più letto, studiato e tradotto nel mondo, tra gli autori del Novecento. Autorevoli ed importanti traduzioni del suo pensiero sono ampiamente diffuse in Giappone, Cina, America Latina, Stati Uniti, Canada, India, Gran Bretagna, Germania, Francia, in diversi paesi dell’Est europeo e nei paesi arabi. Questo “successo” si spiega certamente con l’attualità e contemporaneità di un pensiero che riesce a spiegare il presente e varcare il limite temporale ed ideologicamente politico del Novecento, proponendosi sempre fondamentale, propositivo di idee e con tratti di modernità sociale, politica, umana e didattica. Come sostiene il ricercatore e studioso Gianni Fresu, il pensiero dialettico ed antidogmatico ha permesso a Gramsci di essere riferimento di contemporaneità e “sfuggire alle rigide classificazioni, di andare oltre la crisi e il crollo politico-ideologico”, dimostrandosi fondamentale in diversi ambiti disciplinari (pedagogia, critica letteraria, scienza politica, etc.) e rivelando le molteplici forme e natura del potere. Nel suo impegno di scrittura e di pensiero non trascurò le traduzioni e gli scritti per l’infanzia; con l’obiettivo di contribuire allo sviluppo e formazione dei bambini, tra il 1929 e il 1931, operò la traduzione di ventiquattro fiabe dei fratelli Grimm. Anche nelle Lettere prestò particolare attenzione a favole e racconti di grande valenza pedagogica e culturale. Nella particolare classifica dell’UNESCO figura tra i maggiori 250 autori di ogni tempo e di ogni lingua. All’opera di Antonio Gramsci bisogna ancor più ora, in tempi di crisi di valori, rivolgersi con massima attenzione e “con reverenza”, come scrisse e sostenne lo stesso Benedetto Croce. La vitalità morale e intellettuale  del piccolo grande sardo, al cui cervello il regime fascista voleva “impedire di funzionare per almeno vent’anni”, ha generato capolavori di letteratura e pensiero che resistono, come alto esempio morale, alle macerie e disfatte ideologiche ed autoritarie del Novecento.

E proprio “con reverenza”, la Federazione delle Associazioni Sarde in Italia (F.A.S.I.), ha pubblicato gli Atti del Convegno, tenutosi a Parigi il 12 maggio 2018 su “La ricezione delle opere e del pensiero di Gramsci in Francia – La réception des oeuvres et de pensée de Gramsci en France”; la tappa d’Oltralpe, sostenuta dal patrocinio e contributo della Regione Autonoma della Sardegna, la collaborazione della Fondazione Gramsci di Roma e dal progetto “Sardinia Everywhere”, faceva seguito ai precedenti Convegni internazionali tenutesi a Roma il 5 dicembre 2017 e a Cornaredo (MI) il 7 dicembre 2017. La pubblicazione, stampata dalla rinomata Nuova Tipografia Popolare del pavese Ezio Gandolfi e magistralmente impaginata da Marika Re, è la documentata cronaca della giornata franco-sarda curata dall’infaticabile e puntuale Vicepresidente della F.A.S.I. Paolo Pulina ed incentrata sulle prestigiose e qualificate relazioni che hanno ricostruito le varie fasi attraverso le quali si sono diffusi in Francia gli scritti in traduzione di Gramsci e la scoperta “entusiastica” del pensatore sardo dal mondo intellettuale degli anni Settanta.

Il volume, centoventi pagine e con una ricca documentazione fotografica, si apre con la “Premessa” di Paolo Pulina e i saluti al Convegno di Serafina Mascia, Presidente della F.A.S.I., di Virginia Mura e Giuseppe Dessena, rispettivamente assessore del Lavoro ed assessore della Pubblica Istruzione della Regione Autonoma della Sardegna, e di Maria Luisa Righi della Fondazione Gramsci, Roma. Le relazioni parigine, ben si collegano alle tante iniziative svolte durante l’Anno gramsciano deliberato nel 2017 dalla Regione Sardegna e coincidenti con l’Ottantesimo della morte. Introduce i lavori l’ampia relazione di Paolo Pulina, la cui tesi in Lettere Moderne (Università Statale di Milano, anno accademico 1977-1978, relatore il professor Franco Fergnani, docente di Filosofia morale) era proprio incentrata su La ricezione di Gramsci in Francia e contribuì, grazie alla pubblicazione di ampi estratti dello studio specifico sugli anni 1949-1975, al rafforzamento e diffusione delle opere e del pensiero di Gramsci; Pulina dedica la seconda parte del suo intervento agli aggiornamenti relativi al periodo 1976-2017. Segue il contributo di Jean-Yves Frétigné, titolato “I quattro Gramsci. Primo abbozzo di una ricerca sulla ricezione di Gramsci e della sua opera in Francia dal 1990 ai giorni nostri”, che anticipa la primissima tappa di una ricerca relativa alla diffusione di Gramsci in Francia nel corso degli ultimi venticinque anni; Frétigné è autore della particolarissima biografia francese Antonio Gramsci: vivre c’est résister, pubblicata per le edizioni Armand Colin nel 2017. Anthony Crézégut propone invece una sintesi della sua tesi di laurea (Le prigioni immaginarie di Gramsci. Genealogia di una prima edizione francese 1947-1959) e la base di lavoro per un articolo di imminente pubblicazione in una rivista storica francese. Il saggio-relazione di Marco Di Maggio analizza la ricezione di Gramsci nel partito comunista francese dal 1953 al 1983. Giuseppe Còspito interviene con la rivisitazione del suo saggio sul volume di Christine Buci-Glucksmann interprete di Gramsci, pubblicato in Francia nel 1975 dall’editore Fayard e successivamente in Italia dagli Editori Riuniti. Interessante il contributo di Anna Chiara Mezzasalma che confronta la ricezione di Gramsci, con i suoi differenti interessi, passaggi e incontri, in Francia e nelle due Germanie, fino alla caduta del muro di Berlino. Sébastien Madau, figlio di emigrati sardi originari di Ozieri e nato in provincia di Marsiglia nel 1980, relaziona sulla sua personale scoperta di Gramsci come ambasciatore della Sardegna; la documentazione del Convegno  si conclude con la relazione The most original communist thinker produced in the Twentieth-Century West (Eric Hobsbawm), intervento dotto del docente di storia contemporanea Carlo Felice Casula.  A cornice della giornata parigina internazionale l’attore Bruno Putzulu ha letto una lettera di Gramsci e la “Lettre à Gramsci” di Marc Porcu; Pasqualina Deriu ha declamato una sua poesia dedicata alla memoria del poeta Marc Porcu; Giulio Biddau e Vittoria Lai hanno omaggiato Lao Silesu; Andrea Vallebona  ha coordinato un incontro con i giovani sardi a Parigi, nel cui dibattito sono intervenuti per la F.A.S.I. la presidente Serafina Mascia ed il presidente onorario Tonino Mulas.

Cristoforo Puddu                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                  

 

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Nel pomeriggio di venerdì 11 gennaio 2019 (a vent’anni esatti dalla scomparsa di Fabrizio De André) è stata presentata in anteprima a Pavia, presso il Salone Teresiano della Biblioteca Universitaria, la seconda edizione ampliata del volume “La mia prima volta con Fabrizio De André. 515 storie” a cura di Daniela Bonanni e Gipo Anfosso, edito da Ibis.

Le storie, che raccontano la propria, personale iniziazione” a Fabrizio De André (come-dove-quando-con chi è successo), da 305 sono diventate 515. Questo interesse sempre vivo testimonia il fatto che Fabrizio De André è ancora tanto amato e presente nel nostro immaginario collettivo: di fatto si conferma essere sempre più il “filo rosso” che unisce vite e generazioni. Tanta è la voglia di raccontare e raccontarsi in rapporto al mitico Faber – dichiarano i due curatori -, che sono stati chiamati a presentare la prima edizione del libro in tutt’Italia e lo hanno fatto in osterie, biblioteche, librerie  e in qualche festival letterario.

Scrivono Bonanni e Anfosso: «Sono storie  scritte da persone di ogni età, dai 10 agli 82 anni. Da persone comuni e personaggi famosi (tra cui musicisti e stretti collaboratori di De André). Tutti inseriti, rigorosamente e molto democraticamente, in ordine alfabetico. Questa edizione, oltre al messaggio pieno d’affetto di Dori Ghezzi, è impreziosita da una introduzione – accurata e appassionata – di Enrico De Angelis. In collegamento con la nuova edizione del libro, in segno di omaggio a Fabrizio De André, si propone l’iniziativa: #deandregoccedimemoria 2019: dedicato a Fabrizio De André. Vent’anni dopo. Si tratta di una proposta semplice: dare un segnale, inserire “frammenti di De André” nelle nostre attività quotidiane. Una canzone, un testo, un pensiero di Fabrizio nella scaletta dei concerti (pop, rock, jazz, rap, musica classica…) per chi è musicista, nelle programmazioni scolastiche per chi è insegnante, nella playlist dell’I Pod, nelle librerie, nelle biblioteche… Ma anche nei negozi e negli uffici in cui lavoriamo. Una sorta di “De André diffuso”, perché mai come ora, in tempi sempre più cinici e disumani, sentiamo il bisogno, la necessità di divulgare la sua musica, la sua poesia, la sua direzione ostinata e contraria».

Adesioni: #deandregoccedimemoria, indicando generalità, luogo, titolo e breve descrizione dell’iniziativa. Info: danielabonanni52@alice.it ; gipoanfosso@gmail.com

Blog:  primavoltacondeandre.tumblr.com  /  Facebook @primavoltacondeandre».

La giornata pavese in ricordo di De André si è conclusa a Spaziomusica con l’omaggio da parte di diversi cantanti e gruppi musicali. Il cantautore sardo-pavese Antonio Carta ha cantato due pezzi di De André: “Monti di Mola” (testo in gallurese) e “Inverno”; con lui hanno suonato Giovanni Lanfranchi al violino e Matteo Zanesi alle percussioni.

***

Ed ecco qui di seguito “la prima volta con Fabrizio De André” di Paolo Pulina (Ploaghe, 1948)

Quando uscì, nel 1963, il terzo 45 giri di Fabrizio De André, con i pezzi  Il fannullone e Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers, anche in una classe di quinta Ginnasio del Liceo classico “Domenico Alberto Azuni” di Sassari, cominciarono subito a circolare – in una specie di samizdat – le parole trasgressive ed i contenuti  dissacratori di una figura mitizzata nella manualistica storica come Carlo Martello, contenuti molto più “intriganti” di due “licenze poetiche” pur presenti nei versi (Carlo Martello non era re, ma solo “maestro di palazzo” dei re Merovingi; la battaglia di Poitiers avvenne nel 732 nel mese di ottobre, non “nella calda primavera”).

Nel mio paese natale, Ploaghe, vicino a Sassari, in una famiglia di pastori come la mia non era certo disponibile un giradischi né c’erano le possibilità economiche di comprare degli oggetti voluttuari come i 45 giri.

Era successo però che, in cambio di numerose forme di formaggio pecorino, una famiglia che stava per emigrare in Francia, nei primi anni Sessanta, ci aveva  consegnato una vecchia, ingombrante RadioMarelli e lo Zingarelli, il famoso dizionario della lingua italiana: due strumenti di acculturazione sicuramente non di prima necessità vitale nel luogo di nuova residenza della famiglia costretta all’espatrio alla ricerca di un lavoro.

Avendo potuto ascoltare fortunosamente “Carlo Martello” alla radio anche io potei vantare il “privilegio emozionante” (secondo il ben conosciuto meccanismo del  “fascino del proibito”) di aver sentito dalla viva voce di Fabrizio De André quelle “parole brutte” e dissacranti che non potevano non sollecitare l’interesse dei giovani  allevati in un contesto socio-culturale (prima metà degli anni Sessanta) di asfissiante pruderie che la studiosa Nora Galli de’ Paratesi si apprestava a documentare addirittura in un volume degli Oscar Mondadori (1969; ma l’edizione originale presso Giappichelli di Torino  era del 1964) con un titolo ineccepibilmente scientifico ma veramente ostico per la comprensione da parte di lettori comuni, cioè Le brutte parole: semantica dell’eufemismo. Sicuramente la spiegazione riportata in copertina dell’edizione economica era più intelligibile (“Uno studio sulla censura del linguaggio; l’interdizione verbale operata dall’inconscio, dal pregiudizio, dal pudore e dalla convenienza; le parole proibite nell’italiano, nei dialetti, nei gerghi”)  anche rispetto al sottotitolo originale che era “L’eufemismo e la repressione verbale: con esempi tratti dall’italiano contemporaneo”.

Da allora Fabrizio De André per me ha significato “trasgressività” e nel clima di rivoluzione sessuale inaugurato nel 1968 dal movimento studentesco la “favola d’amore” intitolata “La canzone di Marinella” ha trovato la sua più adatta collocazione e valorizzazione, diventando la colonna sonora di molte reali storie d’amore.

***

Scritta questa testimonianza – racconta Paolo Pulina -, da sardo, in omaggio a De André innamorato della Sardegna, mi sono divertito a tradurre nella variante logudorese della lingua sarda (Faber avrebbe certo apprezzato di più la variante gallurese, quella parlata nei luoghi a lui cari giustappunto in Gallura, ma non è la mia parlata materna…) La canzone di Marinella, in versione ovviamente cantabile.

Sa cantone de Marinella

Custa de Marinella est s’istòria bera 

chi in d’unu riu at illitàdu in berànu 

ma su entu chi l’at bida gai bella 

da-i su riu l’at giuta subra un’istèlla. 

Sola, chena amméntos de dolore,

vivías chena sónnios de amore, 

ma unu re, chena corona e chena iscorta 

at tzoccàdu tres bortas a sa porta. 

Biancu che-i sa luna  at su cappéddu 

che-i s’amore  ruju at su mantéddu 

tue l’as sighídu chena una rajone 

comente unu pitzínnu sighit s’abbilòne.

E bi fit su sole e aías ojos beddos

e isse t’at basadu laras e capíddos, 

bi fit sa luna e aías ojos istràccos 

isse t’at postu  sa  manu  in sos fiancos 

et fint meda basos et fint meda risíttos

poi fint solu sos frores bellítos   

e sas istèllas ant bidu cun própios ojos

trèmere sa pedde tua pro entu e basos. 

E naran poi chi cando ses torràda

in su riu chissà comente che ses falàda

e isse  chi non cheria a ti crèere morta 

at tzoccàdu àteros chent’annos a sa porta. 

Custa est sa cantone tua, Marinella, 

chi ses bolàda in chelu subra de un’istèlla 

e comente totu sas pius bellas cosas 

as vívidu solu una die comente sas rosas.

e comente totu sas pius bellas cosas 

as vívidu solu una die comente sas rosas.

Traduzione in logudorese di Paolo Pulina

La canzone di Marinella

Questa di Marinella è la storia vera

che scivolò nel fiume a primavera

ma il vento che la vide così bella

dal fiume la portò sopra a una stella.

Sola senza il ricordo di un dolore

vivevi senza il sogno di un amore

ma un re senza corona e senza scorta

bussò tre volte un giorno alla tua porta.

Bianco come la luna il suo cappello

come l’amore rosso il suo mantello

tu lo seguisti senza una ragione

come un ragazzo segue un aquilone.

E c’era il sole e avevi gli occhi belli

lui ti baciò le labbra ed i capelli

c’era la luna e avevi gli occhi stanchi

lui posò la sua mano sui tuoi fianchi

furono baci e furono sorrisi

poi furono soltanto i fiordalisi

che videro con gli occhi delle stelle

fremere al vento e ai baci la tua pelle…

Dicono poi che mentre ritornavi

nel fiume chissà come scivolavi

e lui che non ti volle creder morta

bussò cent’anni ancora alla tua porta.

Questa è la tua canzone Marinella

che sei volata in cielo su una stella

e come tutte le più belle cose

vivesti solo un giorno, come le rose

e come tutte le più belle cose

vivesti solo un giorno come le rose.            

Fabrizio De André

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Il 12 gennaio del 2019 il prof. Manlio Brigaglia (Tempio Pausania, 12 gennaio 1929 – Sassari, 10 maggio 2018) avrebbe compiuto novanta anni. Lo voglio ricordare come docente di Italiano nel Liceo “Azuni” ametà degli anni Sessanta.

La prima volta che ho visto all’opera il professor Manlio Brigaglia è stato all’orale dell’esame di ammissione ai tre anni del Liceo dopo i due anni del Ginnasio nel glorioso Ginnasio-Liceo “Domenico Alberto Azuni” di Sassari, quindi nell’estate 1964. Sapevamo della fama che il professore si era conquistato – presso colleghi e alunni – in virtù della sua preparazione culturale ad amplissimo raggio e quindi della sua autorevolezza. Vedermelo di fronte non poteva non causarmi un po’ di timore reverenziale. Per mia fortuna, avevo letto da poco “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa e quindi – quando mi chiese qual era l’ultimo libro che avevo letto – gli feci una buona impressione, confermata dal fatto che fui in grado di ricordare i personaggi principali. Il primo insegnamento che ricevetti: dovevo continuare a leggere con costanza dei buoni libri se volevo migliorare le mie possibilità espressive, in rapporto a quanto aveva potuto verificare dal mio tema, sufficiente certo ma non esaltante, diciamo così… La prima lezione: se ci fosse capitato di avere il professor Manlio Brigaglia come docente di Italiano, c’era già da sapere che non ci si poteva limitare alla lettura dei manuali, dei libri di testo. In effetti, ritrovàtomelo nei tre anni di Liceo come insegnante titolare, verificai da subito che avevamo nelle sue ore non un “lettore” di libri di testo (come succedeva con il docente di qualche altra disciplina…) ma un “monstrum” di memoria. Entrava in classe e non portava con sé né libri di testo né registro!

La parte dei canti della “Divina Commedia” che ci doveva spiegare in quell’ora la proponeva a mente, a memoria. Per tutti i tre anni, sempre così: mentre lui recitava e spiegava dovevamo seguire il testo di Dante nell’edizione curata da Natalino Sapegno. Per qualche passo ad interpretazione non univoca, ci faceva leggere la nota del Sapegno e si divertiva ad aggiungere il punto di vista – non coincidente – di qualche altro studioso.

All’interrogazione bisognava recitare a memoria (tanto per tenerla in esercizio e affinarla) i passi di Dante che ci aveva indicato, saper fare la parafrasi dei versi ma verificava anche se avevamo letto le pagine storico-critiche presenti nell’antologia in dotazione per ciascun anno. Anche per gli altri poeti il procedimento era lo stesso. Per i prosatori – data la sua esperienza di lettore dei propri testi per la radio regionale della Sardegna – non rinunciava al piacere di una lettura ad alta voce ben intonata. Per ritornare su Dante: se volete sapere chi è stato Dante – ci diceva – leggete il ritratto che ne ha fatto il critico fiorentino Piero Bargellini in un libro appena uscito (“Vita di Dante”, Vallecchi, 1964). Per ogni argomento ci dava indicazioni bibliografiche relative a pubblicazioni recenti e ci invitava a ricercarle senza timidezza nella Biblioteca Universitaria di Sassari. Ci educava alla lettura dei giornali: la pagina dei libri de “Il Giorno” imparammo a conoscerla da lui. Un giorno volle ricordarci a muso duro che la lingua in cui egli voleva che scrivessimo non doveva essere l’anti-lingua del pezzo appena uscito sul supplemento settimanale de “Il Giorno” (articolo poi diventato famosissimo) in cui Italo Calvino confrontava un immaginabile orribile burocratese in cui un maresciallo dei carabinieri avrebbe scritto un rapporto dopo una ispezione con i termini semplici e correnti di una riscrittura vicina al linguaggio parlato. Su questo non transigeva: se volete imparare a scrivere bene in italiano – ci diceva – seguite le indicazioni che vi dò io anche per l’uso corretto della punteggiatura (virgola; punto e virgola; due punti; punto). Le parentesi lasciatele stare – amava dire – e, se proprio è necessario, ricordatevi di chiuderle! La sua revisione dei temi era un lavoro certosino di correzione e di proposta alternativa per ogni espressione non adeguata. Insomma, se uno voleva imparare a scrivere doveva profittare dei suggerimenti rigorosi proposti dall’“allenatore”, in questo caso della mente. E mente – ci ricordava sempre – come già intendeva Dante, vuol dire memoria. E il professor Brigaglia, come ho già detto, era un maestro-monstrum di memoria. I voti non li segnava sul registro, ma li ricordava bene e giusti alla fine di ogni trimestre, quando ce li comunicava con appropriati commenti e suggerimenti per migliorare. Alle lezioni del professor Manlio Brigaglia si notava una sola assenza: la noia. E non era possibile la distrazione né di un singolo né della massa (questo avveniva con qualche altro docente). Tutto questo perché al professor Manlio Brigaglia, pronto a discutere con noi di ogni argomento cui sono sensibili i giovani – a partire dal calcio , nessuno si poteva permettere di mancare di rispetto, dato che era la rappresentazione vivente dell’educatore, rigoroso nell’insegnare come studiare, come documentarsi, come scrivere, come prepararsi agli Esami della Scuola e anche, e soprattutto, alle Prove della Vita. Come nella canzone di Francesco De Gregori “La leva calcistica della classe ’68”

Paolo Pulina

Vicepresidente della F.A.S.I.

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Per la ventiduesima volta consecutiva l’Associazione di Promozione Sociale, Culturale e Ricreativa “Amedeo Nazzari” e Amici della Sardegna di Bareggio e Cornaredo, precisamente nei giorni 15 e 16 dicembre 2018, ha organizzato due giornate all’insegna della cultura e della solidarietà nell’ambito di una manifestazione che, per il valore morale che la caratterizza, è conosciuta come “Festa delle donazioni”.

In pratica, ogni anno, prima di arrivare al momento finale  della donazione a famiglie e persone disagiate del ricavato della annuale kermesse estiva tenuta nella struttura attrezzata di Cornaredo (undici giorni di lavoro volontario durante i quali un centinaio di socie/soci promuovono  la gastronomia, la musica e la cultura della  Sardegna), il Circolo sardo propone un tema culturale sviluppandolo secondo due assi: quello della spettacolarizzazione il sabato sera, e quello dell’approfondimento conoscitivo la domenica pomeriggio. Così è avvenuto anche quest’anno: il tema “La Grande Guerra 1915-1918” è stato sviluppato nella serata di sabato 15 dicembre, presso l’auditorium comunale “Madre Teresa di Calcutta”, in una narrazione (dal titolo “4 Novembre. ‘La Guerra è vinta’”) svolta, alla maniera di Marco Paolini, dal poliedrico uomo di teatro che risponde al nome di Gianluca Medas, della famosa più antica famiglia sarda di artisti, mentre il convegno sulla Grande Guerra è stato tenuto nel pomeriggio di domenica 16 dicembre presso la sala consiliare “Primo Levi” del comune di Bareggio.

Dopo i saluti del presidente del Circolo sardo Franco Saddi, Gianluca Medas, regista, scrittore e attore, accompagnato musicalmente da Francesco Medas, ha raccontato con maestria affabulatoria come il 4 novembre 2018, data che connota vittoria per l’Italia, parte da lontano, ben prima del 1914, e ha dato una spiegazione dei veri motivi che spinsero le nazioni a dare inizio in quell’anno a un conflitto “assurdo e doloroso”. Naturalmente ha esposto anche le motivazioni per le quali anche il Regno d’Italia, nell’anno successivo, dopo l’iniziale neutralità, pensò bene di entrare in guerra contro l’impero austro-ungarico, pagando però anch’esso un numero impressionante di vite umane. Il narratore di questa storia patria, che vide prima la disfatta di Caporetto e poi la vittoria di Vittorio Veneto, si è concentrato sulle fasi finali della guerra che portarono all’armistizio di Villa Giusti (3 novembre 1918, vicino a Padova). È giusto non far estinguere  la memoria di quella data fatidica (nel Bollettino della Vittoria, scritto dopo l’armistizio di Villa Giusti, il generale Armando Diaz, comandante supremo del Regio Esercito, annunciò, il 4 novembre 1918: “La guerra contro l’Austria-Ungheria è vinta”) ma non ci può essere celebrazione delle ragioni della guerra, che è di per sé un “assurdo insensato”.

Come si è detto, nel pomeriggio di domenica 16 dicembre, si è tenuto il convegno su “La Grande Guerra 1915-1918”, aperto dai saluti istituzionali del presidente Franco Saddi, dell’Amministrazione comunale di Bareggio (sindaco Linda Colombo e assessore della cultura Anna Lisa De Salvo), del sindaco di Cornaredo Yuri Santagostino, della consigliera regionale Silvia Scurati (per la F.A.S.I. era presente Antonello Argiolas, componente del Comitato Esecutivo). Tutti gli amministratori intervenuti hanno avuto parole di elogio per le azioni di solidarietà sociale ma anche per l’offerta di occasioni di divertimento e di degustazione della enogastronomia tipica della Sardegna che il Circolo sardo, grazie ai suoi volontari (uniti sicuramente dall’orgoglio di mantenere le proprie radici isolane), pone in essere permanentemente a favore delle persone e delle comunità residenti nella zona lombarda di adozione.

La relazione per il convegno è stata svolta dal generale di Corpo d’Armata (aus) Enrico Pino, che è stato il 34° Comandante della “Sassari”, dal 5 agosto 2002 al 3 agosto 2003. (Una sua dichiarazione reperibile in Internet: «Quando sono arrivato a Sassari i due Reggimenti della Brigata, 151º e 152°, erano impegnati all’estero. Decisi così di impostare il periodo di comando sulla valorizzazione dell’immagine della Brigata. Nel 2 giugno del 2003 abbiamo riportato alla luce il cimitero di guerra storico dello Zebio, sull’Altipiano dei Sette Comuni»).

Il generale Pino, esperto di storia militare, ha illustrato, con l’ ausilio di numerose diapositive, le varie fasi della Prima Guerra Mondiale e il suo racconto è stato seguito con vivo interesse dal numeroso pubblico, che ha dimostrato ancora più attenzione quando il generale, con le parole e con le immagini, ha ricostruito, scandendole anno per anno, le azioni militari della “Sassari” nella Grande Guerra.

I presenti sono stati manifestamente soddisfatti di aver potuto prendere conoscenza visiva delle caratteristiche orografiche dei luoghi in cui si sono svolte le battaglie in cui i fanti “sassarini” hanno sacrificato “sa vida pro sa Patria”.

Dopo l’applaudita relazione del generale Pino, è seguita la commovente cerimonia delle donazione a persone e famiglie bisognose di sostegno economico e a Enti e associazioni di volontariato che operano per alleviare queste situazioni di fragilità personale o di disagio familiare.

Annunciate dal presidente Franco Saddi e motivate approfonditamente, una per una, dalla segretaria/tesoriera del Circolo Gisa Casu (che conclude così pubblicamente ogni anno un impegnativo lavoro precedente relativo alla  celta dei destinatari degli aiuti da devolvere e alla organizzazione del momento della consegna), le donazioni 2018 sono state destinate ai seguenti soggetti collettivi e individuali:

– all’Ospedale pediatrico microcitemico di Cagliari, che assiste in maniera globale i pazienti talassemici e i loro familiari;

– all’Associazione “Le Rondini” nata nel marzo 2014 ad opera di alcune famiglie del Sulcis spinte dall’esigenza di colmare il vuoto sociale causato da malattie neurodegenerative come la SLA, la distrofia muscolare, la sclerosi multipla e altre.

Da queste famiglie  è nato il progetto “Isola del Cuore” che offre a Maladroxia (nell’Isola di Sant’Antioco) dal giugno 2018 una spiaggia attrezzata per le persone affette da queste malattie;

– alla Protezione Civile di Bareggio-Cornaredo;

– a una ragazza e a un ragazzo assistiti con amorevoli cure dalle famiglie;

– a una famiglia disagiata residente in Sardegna,

– al comune di Cornaredo per l’assegnazione di borse di studio a studenti meritevoli, privilegiando quelli che sono in condizioni economiche meno favorevoli.

Alla scuola dell’infanzia di Bareggio di via Gallina, per una manifestazione annuale rivolta ai piccoli, il contributo era già stato assegnato.

In chiusura della manifestazione, buffet con prodotti tipici sardi (pane carasau e formaggio pecorino) ma anche con dolci sardi preparati dalle donne del Circolo e scambio degli auguri per le feste natalizie.

Paolo Pulina

Foto di Francesco Sanna.

Foto di Francesco Sanna.