18 April, 2024
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In una vignetta del Corriere della Sera esiste un’illustrazione che strappa un sorriso: la porta del Paradiso è stata sfondata da un pallone di calcio sparato da “Rombo di tuono” e San Pietro, il re delle reti, non è riuscito a pararlo. L’ha subito capito: «Sta arrivando Gigi Riva».
Gigi Riva, a Cagliari, è stato ricoverato e prima di sottoporsi ad una procedura di Emodinamica interventistica immediata, ha deciso di attendere il parere-conforto della famiglia. Le sue condizioni, purtroppo, sono rapidamente peggiorate ed è sopraggiunta la morte estesa della muscolatura cardiaca con l’arresto in asistolia.
Il “tempo” che intercorre fra il momento in cui scatta l’emergenza e il momento in cui si inizia a soccorrere, è il fattore essenziale che si frappone fra il vivere e il morire.
La regola della “tempestività” è valida per il campione mondiale come per il comune cittadino del profondo Sulcis Iglesiente. La disuguaglianza tra le possibilità di sopravvivenza concesse a un cagliaritano e a noi Sulcitano – Iglesienti contrasta con la Costituzione (articoli sull’Uguaglianza), con i L.E.A. (Livelli Essenziali di Assistenza), e con i principi etici posti all’introduzione di varie leggi e decreti che regolano la Sanità Regionale Sarda.
E’ noto che la Asl 7 del Sulcis Iglesiente ha diritto ad avere un centro per le Urgenze ed Emergenze vicino alla popolazione. Tale centro, per sua natura, deve fornire assistenza immediata ai nostri ammalati e salvarli. E’ anche noto che la norma imprescindibile della tempestività qui nel Sulcis Iglesiente ha subito deroghe: l’Emodinamica d’Urgenza ed Emergenza deve restare chiusa dalla sera del venerdì, fino a tutto il sabato, tutta la domenica, e fino al lunedì mattino alle 8.00. Negli altri giorni rimane aperta per 8 ore al giorno: dalle 8.00 alle 16.00. Chi arriva al Pronto Soccorso nella condizioni di Riva deve aspettare.
Se l’infarto avviene dalle 8.00 alle 16.00 dei giorni feriali viene curato. Se arriva dopo le 16.00 o nei giorni festivi deve aspettare. Aspettare cosa? Deve aspettare che riapra il Servizio di Emodinamica, oppure deve affrontare il viaggio verso Cagliari perdendo tempo vitale. Perché? Giunto lì deve attendere altro tempo ancora perché si deve aspettare il proprio turno. Esiste infatti un’affluenza numerosa di pazienti in crisi cardiaca diretti all’ unico Centro Cardiologico e provenienti da tutto il territorio provinciale e dalla città metropolitana di Cagliari. Questa storia della iper-affluenza degli ammalati al Brotzu o al Policlinico di Monserrato è stata sperimentata quotidianamente dai fratturati di femore di queste parti a causa del nostro Servizio di Ortopedia chiuso per motivi di carenza di personale. Nei scorsi giorni, tutti coloro che andavano al Brotzu venivano messi in fila, su barelle allineate, in attesa del loro turno. E’ una situazione difficile da gestire, soprattutto per i Medici cagliaritani sopraffatti dall’esorbitante carico di richieste.
Nonostante i loro sforzi l’accumulo di malati provenienti dalla provincia comporta attese prolungate.
Lo Stato, attraverso un ente del ministero della Sanità, che si chiama Agenas, ha pubblicato da anni un documento ufficiale che si chiama “elenco dei LEA”. I “LEA” sono i “Livelli Essenziali di Assistenza”. Si tratta cioè del minimo essenziale di assistenza sanitaria che si deve fornire ai cittadini.
Tra questi, ci sono tutte le emergenze che compromettono la vita o la funzione di un organo. Ebbene, i LEA non possono rispettare i tempi della fisiopatologia ma devono piegarsi ai tempi della burocrazia.
Quale burocrazia? Quella che controlla la spesa e riduce i servizi essenziali. Così il cerchio si chiude: il diritto ai LEA è riconosciuto per legge ma non può essere erogato per motivi di bilancio.
Ciò che è successo al Campione per sua scelta, succede a tutti i malati cardiologici e ortopedici urgenti della nostra provincia: bisogna aspettare che qualcuno ti curi e nel frattempo, se è il caso, morire.
Il caso della legge sulla “Autonomia Differenziata tra Regioni” del Nord e quelle del Sud e Isole, è già concretamente rappresentato nella “Autonomia sanitaria differenziata” fra le ASL dei capoluoghi di Cagliari e di Sassari, e le ASL delle Province. Apparentemente siamo tutti uguali; in realtà esiste una forte discrepanza fra l’impiego di fondi nei due centri e nelle altre 6 ASL provinciali. A ciò si aggiunge, per quanto ci riguarda, l’assenza del potere di assumere personale, di programmare spese, e di spendere autonomamente per le nostre diverse esigenze. Significa, praticamente: non esistere come entità. Ciò ha portato alla paralisi della Sanità nel Sulcis Iglesiente, come nel Nuorese, nell’Oristanese, etc..
La citazione delle leggi che segue è noiosa ma è necessaria per capire il disastro sanitario che si prepara in aggiunta a quello attuale.
Esiste una legge regionale che genera discriminazioni: è la legge 24/2020. E’ la legge che istituì la ARES (un ente gestionale autonomo che ha risucchiato tutte le funzioni amministrative delle ASL).
In premessa, quella legge assicura equità e uguaglianza nel trattamento sanitario dei cittadini, però dispone che le ASL non abbiano gli strumenti per gestirsi. Questo è già di per sé un fatto gravissimo. Con l’avvento della “Autonomia Differenziata” avremo a che fare con una nuova legge che, seguendo la stessa logica dei LEA, creerà una situazione identica a quella appena descritta sulla Sanità Regionale. Si tratta del previsto elenco dei L.E.P. (Livelli Essenziali di Prestazioni). Cosa sono le prestazioni di cui si deve preparare l’elenco? Sono le prestazioni intorno all’Assistenza sanitaria, alla Giustizia, all’Istruzione, ai Trasporti, etc.. Praticamente, tutto ciò che riguarda i servizi che lo Stato deve fornire al cittadino. Dopo l’esperienza dei LEA con la Sanità si capisce cosa avverrà con i i LEP in tutti i Servizi pubblici. Si può ragionevolmente supporre un altro crollo del Sistema Sanitario e degli altri Sistemi sociali che sono alla base della Unità nazionale.
La nuova legge della “Autonomia Differenziata Regionale” avrà due effetti immediati:
1 – Cancellerà l’Autonomia speciale della Sardegna;
2 – Sopprimerà il “Fondo Perequativo” delle Regioni (che è quello che ci consente di avere ancora Sanità e Istruzione).
Noi Sardi per avere il nostro Statuto ci abbiamo messo molti secoli. Ora in pochi mesi potremmo perdere tutti i vantaggi dell’Autonomia speciale della Sardegna.
L’embrione della “Autonomia speciale della Sardegna” venne generato nel 1793, quando una delegazione di 5 saggi sardi si recò a Torino per chiedere al Re le “5 domande”. Si trattava di 5 richieste per dare un po’ di autonomia amministrativa alla Sardegna al fine di permetterle uno sviluppo economico dignitoso e attenuarne lo sfruttamento.
Il Re ignorò i sardi e se ne andò a caccia a Tenda. La delegazione rimase in attesa fuori dal palazzo reale per 6 mesi. Al ritorno il Re non la ricevette e rispose un “No”.
I sardi, tornati a Cagliari, si organizzarono in circoli intellettuali pseudo-rivoluzionari e infiammarono la popolazione fino al 28 aprile 1794. Il dissenso dei sardi sfociò nella cacciata del viceré Balbiano e di tutta la corte piemontese da Cagliari. Fu “Sa die de sa Sardigna”. L’unica vera rivoluzione fatta dai sardi.
In seguito quelle “5 domande” furono la base su cui si fondò l’azione dei politici sardi un secolo e mezzo dopo alla fine della II Guerra Mondiale. Quei parlamentari sardi parteciparono alla stesura del testo della Costituzione e discussero la forma da dare all’articolo 116 primo e terzo comma e all’articolo 119 contenente il principio del “Fondo Equiparativo”. E’ la legge madre sull’autonomia delle Regioni a Statuto speciale e quelle a Statuto ordinario.
Le motivazioni per la richiesta di Autonomia speciale alla Sardegna vennero scritte da Renzo Laconi e Emilio Lussu. Il motivo fu l’estrema povertà della Sardegna dopo 4 secoli di dominazione spagnola e due secoli di piemontese. Da lì emerse lo “Statuto Sardo”.
Nello Statuto, all’articolo 8, sta scritto che una parte consistente dei fondi raccolti con le tasse sarebbero rimasti in Sardegna. Così pure si riconobbe alla Sardegna il diritto a godere di un’elevata percentuale derivante dagli utili prodotti dalla produzione e distribuzione di fonti energetiche e di energia (parte mai applicata secondo una pubblicazione dell’ufficio IVA della Regione Sarda – d.ssa Tagliagambe – che oggi sarebbe interessante riportare in discussione).
Venne riconosciuta la necessità di costituire un “fondo perequativo”. Di cosa si tratta? Si tratta di un fondo formato dalla contribuzione delle regioni più ricche da utilizzare per garantire un equo ed uguale sviluppo tra cittadini delle regioni avvantaggiate e cittadini di regioni storicamente e strutturalmente svantaggiate e povere.
Oggi, con la legge sulla “Autonomia Differenziata regionale” è stato preparato il terreno normativo per ridurre, o abolire, il contributo delle regioni più ricche a favore dei servizi pubblici nelle regioni pi svantaggiate. Con i fondi che le regioni più ricche che da ora tratterranno per sé, le stesse regioni finanzieranno i propri programmi scolastici, sanitari, dei trasporti, etc. Dando titoli di studio (lauree) e Sanità superiori per valore ai nostri (chi vincerà tra i concorrenti tra un laureato a Cagliari e uno a Milano?)
Senza entrare nel merito di cosa sia equo ed eguale, e cosa no, si può già prevedere, con la fine del fondo perequativo, quale inverno sanitario stia per iniziare in Sardegna. Abbreviare il più possibile il “tempo” fra l’inizio del malore e l’inizio delle cure è costoso. Quel “tempo” costa, ed è evidente che quando i fondi diminuiranno, diminuirà anche la possibilità di sopravvivenza dei sardi, soprattutto in provincia (a dispetto dell’articolo 119 della Costituzione che garantisce a tutti uguale godimento dello “esercizio dei diritti basilari” compreso il diritto alla Salute).

L’Autonomia riconosciuta a noi sardi in Costituzione ha ragioni molto diverse da quelle che oggi sono alla base del recente disegno di legge sull’“Autonomia differenziata”. La prima fu approvata per generare coesione nazionale e sussidiarietà. La seconda invece pare avere principi e finalità differenti.

L’Autonomia sarda derivò dall’esperienza di tre secoli di sottomissione alla Spagna, da un secolo di resistenza ai piemontesi e da un altro secolo di guerre e battaglie per fare l’Italia. I sardi inventarono l’“Autonomia” per porre fine alla povertà indotta dal feudalesimo. Nei tre secoli in cui la Sardegna era stata sottoposta al dominio spagnolo, la sua amministrazione era basata su una gerarchia molto semplice.

Esisteva il “vassallo” del re che, per diritto feudale, era proprietario di tutto: delle terre, delle persone, degli animali, dei mari e dei pesci, dei boschi, insomma di tutto. L’economia era semplicissima: dentro il feudo avvenivano la produzione, il consumo e la vendita o lo scambio dei prodotti della terra; il commercio finiva lì. In un sistema economico e culturale chiuso, senza scambi col mondo esterno, la povertà era assicurata. Una siffatta povertà si è poi radicata in modo strutturale e persistente. Fino all’anno 1714 la Sardegna e il ducato di Milano furono parte integrante dell’impero spagnolo. Il regime di controllo politico a cui erano sottoposti i sardi e i milanesi era simile, ma in Sardegna la vita era infinitamente peggiore. Nel 1702, dopo la morte dell’imperatore di Spagna Carlo II, che non lasciava eredi, era scoppiata una guerra di successione terrificante tra la Francia e il resto d’Europa (Inghilterra, Sacro Romano Impero e piccolo Ducato di Savoia). Alla fine, con il trattato di Ramstatt del 1714, l’impero spagnolo venne spezzettato. Con la spartizione la Sardegna venne assegnata al duca di Savoia, il Lombardo-Veneto invece venne assegnato agli Austriaci.

La nobiltà sarda, di genealogia spagnola, mantenne in vita il regime feudale con le note conseguenze sociali, economiche e culturali di arretramento. Il Lombardo-Veneto invece fu molto più fortunato perché, nonostante mancasse la libertà politica, il regime feudale finì e l’economia, la burocrazia, la cultura e l’organizzazione sociale si adeguarono all’evoluzione post-feudale di tutta l’Europa.

Fino al 1730 circa il duca di Savoia evitò di interessarsi di Sardegna ignorando lo stesso titolo di re che gli era piombato addosso. Dal 1730, con l’intervento del primo viceré sabaudo barone di Saint Remy e, soprattutto, dal 1756 con l’opera riformatrice del conte Lorenzo Bogino, iniziarono i cambiamenti. Fu soprattutto con la nuova cultura illuminista, che proveniva dalla Francia, che i sardi cominciarono a prendere coscienza dei diritti naturali dell’Uomo e del Cittadino. A Cagliari, alla fine del 1700, nel rione di Stampace, si formarono in segreto circoli illuministi di stampo giacobino e iniziò a prendere corpo l’idea di autogovernarsi secondo i principi di uguaglianza e di libertà. Contemporaneamente esisteva un vasto movimento autonomista in Corsica alimentato da Pasquale Paoli e si instaurarono contatti fra i movimenti delle due isole. Pasquale Paoli dapprima combatté i Genovesi per liberare la Corsica dal loro dominio, poi si ribellò anche ai Francesi, divenuti i nuovi padroni. Quella ribellione non si è mai spenta completamente tanto che Paoli tutt’oggi è considerato il padre della patria corsa. Similmente anche i sardi rifiutarono di finire sotto il nuovo padrone francese, e successivamente cacciarono i Piemontesi maturando l’idea di Autonomia del popolo sardo. Tutto iniziò nel 1793. A gennaio di quell’anno le navi da guerra francesi inviate dal Comitato rivoluzionario di Salute pubblica di Parigi, al comando dell’ammiraglio Truguet, occuparono le isole di Carloforte e Sant’Antioco. Come primo atto gli occupanti-liberatori vi fondarono la prima repubblica italiana: “La Rèpublique de la Libertè”. I Carlofortini, dapprima accettarono, ma i Calasettani e gli Antiochensi no.

Una volta occupate militarmente le due isole sulcitane, le truppe francesi iniziarono la marcia su Cagliari passando dall’istmo di Santa Caterina. Allorché le truppe si inoltrarono nell’istmo vi fu un’incredibile reazione da parte di sei abitanti della zona che, saltati a cavallo e caricati gli schioppi, attaccarono i soldati francesi e in men che non si dica ne uccisero 20. Il fatto interruppe l’avanzata francese e dette tempo al cavalier Camurati, piemontese, di organizzare le sue truppe nella terraferma e di ricevere l’appoggio di armati inviati dalla curia di Iglesias. Questi erano una milizia privata bene armata e, infervorati fa un frate guerriero, un tal padre Arrius, erano pronti a tutto, pur di fermare i francesi rivoluzionari anticlericali. L’ammiraglio francese, vista quella micidiale resistenza, dimise subito l’idea di raggiungere Cagliari per quella via, reimbarcò le truppe sulle navi ancorate nel Golfo di Palmas e procedette per via mare. Dopo pochi giorni la flotta da guerra francese cannoneggiò Cagliari e sbarcò le sue truppe d’assalto nella marina di Quartu. Le guardie svizzere che proteggevano il Castello di Cagliari, si asserragliarono chiudendo i ponti levatoi. Il popolo, lasciato solo, si armò e, organizzato da leaders improvvisati come Vincenzo Sulis e Girolamo Pitzolo, sorprese i soldati invasori nelle paludi di Quartu e del Poetto e ne fece strage. I Francesi rinunciarono e ripartirono. In quelle due battaglie, quella di Santa Caterina nel Sulcis e quella di Quartu, si era manifestata, dopo molti secoli di rassegnato torpore medioevale, un nuova entità guerriera che avrebbe fatto la storia: il “popolo sardo”.

Il re piemontese in tutta risposta premiò le guardie svizzere che si erano asserragliate in Castello e ignorò il popolo che aveva difeso sé stesso e anche la sede del viceré Balbiano. I coscritti dei circoli stampacini, approfittando dei meriti maturati in quel momento, organizzarono un Commissione per chiedere udienza al re a Torino e proporgli le cosiddette “cinque domande”. Si trattava di richieste apparentemente molto semplici ma che contenevano fondamentalmente il riconoscimento e la legittimazione del “popolo sardo” come nuovo soggetto da prendere in considerazione e introdurre nell’apparato per l’amministrazione e la difesa della Sardegna. Si trattava, di fatto, del primo abbozzo scritto dell’idea di “Autonomia” sarda. Il re Vittorio Amedeo III, molto regalmente, ignorò la Commissione e la lasciò in attesa fuori dal suo palazzo per 6 mesi, poi respinse le “5 domande”. Fu una grande umiliazione.

A Cagliari, nel quartiere di Stampace, per reazione fervèttero ancor di più le riunioni dei circoli giacobini allo scopo di creare una coscienza popolare rivoluzionaria. Qui, un anno dopo le battaglia contro i francesi, maturarono i fatti di “Sa Die de Sa Sardigna”: il 28 aprile 1794. Quel giorno, non potendone più degli arresti e delle provocazioni delle guardie del Viceré, il popolo si rivoltò e puntò armi e cannoni contro Castello. La battaglia fu intensa, con morti da ambo le parti, è finì con la conquista della piazzaforte e con lo “Scommiato”, cioè la cacciata da Cagliari dei Piemontesi che vennero imbarcati su navi dirette a Genova. Con questi eventi violenti il popolo sardo entrò nel vortice delle rivoluzioni della fine del 1700 e con la sua rivolta contro i Savoia divenne attore di primo piano nello stesso violento scenario storico per portò all’Indipendenza degli Stati Uniti di America con Giorgio Washington e al Terrore di Parigi con Robespierre. Il re di Sardegna si trovò all’improvviso dentro la Rivoluzione che stava agitando l’Europa; capì la situazione e accettò immediatamente le “5 domande”. Fu la prima pietra storica dell’edificio giuridico che in 150 anni avrebbe sancito l’Autonomia Speciale della Sardegna. In quella storia di rivoluzione e riscossa avvenne un triste fatto emblematico dell’insofferenza del popolo sardo. Due dei Commissari sardi, rappresentanti del movimento patriottico, che si erano recati a Torino e avevano concordato i termini della compartecipazione della Sardegna alla nuova gestione, il marchese della Planargia e Girolamo Pitzolo, accettarono dal re incarichi e privilegi personali, diventando di fatto collaborazionisti dell’apparato di controllo politico straniero. Furono cioè cooptati nel sistema di potere piemontese. Tale posizione era in netto contrasto con le idee più radicali di Autonomia rappresentate da Giovanni Maria Angioy. Ciò creò nei sardi, che si sentirono traditi, un forte risentimento che esplose in una rivolta sanguinosa con il massacro dei due, avvenuto a Cagliari nel luglio 1795.

Il sogno dell’autonomia coltivato dai sardi con “Sa Die de sa Sardigna del 1794” non fu facile da realizzare; dopo l’accettazione delle “5 domande” quel sogno fu represso da frustrazioni dolorose che andarono avanti per tutto il 1800. I sardi, per le doti guerriere che avevano dimostrato, erano diventati, per il re di Sardegna, un esercito di soldati professionisti, fedeli, coraggiosi e micidiali, da utilizzarsi in battaglia. Furono impiegati efficacemente a fianco dei Francesi contro i Russi in Crimea nel 1853-56. Subito dopo Napoleone III accettò di aiutare il regno Sardo nella Seconda guerra d’Indipendenza. Da allora i sardi rappresentarono il nerbo delle forze speciali in tutte le guerre che seguirono. Questo non fu dimenticato.

Fin dall’inizio del 1800, al centro dell’interesse, nella vita civile dei sardi, vi era sempre stata la rinascita dell’Isola, partendo dall’agricoltura. Il dibattito che ne era seguito in sede di governo aveva generato l’editto delle “chiudende”, nella convinzione che la distribuzione al popolo delle terre dei Salti o ademprivi, avrebbe favorito una nuova economia imprenditoriale.

Tale metodo di distribuzione del latifondo reale era stato sperimentato nel regno Unito con qualche successo. In Sardegna fu un fallimento, perché le terre finirono nelle mani dei più ricchi e i poveri rimasero senza pascoli e senza terra libera da coltivare, perché i salti vennero inglobati nel latifondo privato. L’uscita dalla mentalità feudale si rivelò difficilissima. Durante tutto il secolo vennero istituite diverse commissioni parlamentari che svolsero inchieste per trovare una soluzione alla cronica povertà dell’Isola. Nel 1897 venne approvata la prima legge speciale per la Sardegna. Ad essa seguirono le leggi speciali del 1902 e 1914. Alla fine si approdò alla legge nota come “Legge del Miliardo” con cui si disposero spese per l’esecuzione di opere pubbliche finalizzate ad ottenere una maggiore produzione e migliorare il tenore di vita della popolazione.

L’Italia neonata aveva continuato ad utilizzare i sardi in prima linea in tutte le guerre che seguirono. Da quelle in Africa a quelle in Europa. I sardi furono messi al centro del fronte di tutte le battaglie dell’Isonzo nella prima Guerra mondiale, e furono essi, con la Brigata Sassari, i temuti “diavoli rossi”, che protessero le truppe italiane in fuga dai cacciatori austriaci nella ritirata di Caporetto. Dai reduci di quella guerra nacque il Partito sardo d’Azione con un programma Autonomistico. L’Autonomia sarda non fu bene accetta dal Fascismo ma riprese vigore alla fine della Seconda Guerra Mondiale, con la richiesta di introdurre in Costituzione il riconoscimento della Sardegna come regione ad Autonomia Speciale.

Il riconoscimento avvenne il 26 febbraio 1948, con la legge n. 3. I padri Costituenti che presentarono le motivazioni per la concessione dell’“Autonomia Speciale” alla Sardegna furono Emilio Lussu e Renzo Laconi. La sintesi delle motivazioni fu: «Povertà secolare per una storica sottomissione che ne ha impedito lo sviluppo economico».

I Costituenti Repubblicani tennero conto delle diverse istanze provenienti dalle regioni e optarono per concede ad alcune di esse l’Autonomia speciale, nel rispetto del principio di indivisibilità della Repubblica e della sussidiarietà tra le regioni.

Vennero riconosciute “Regioni a Statuto speciale” la Sicilia, la Sardegna, la Val d’Aosta, il Trentino alto Adige ed il Friuli Venezia Giulia.

Le motivazioni erano basate su ragioni storiche, geografiche, economiche, per contenere spinte autonomistiche e per la tutela delle minoranze linguistiche.

Ai Consigli regionali delle regioni elencate venne riconosciuto potere legislativo con la possibilità di produrre leggi concorrenti con lo Stato. Fu altresì riconosciuta a tali regioni la competenza ad imporre tributi propri e la capacità di trattenere per i propri bisogni una percentuale del gettito fiscale di alcune imposte statali che poteva essere anche del cento per cento (per esempio sulla produzione e consumo di energia).

Ora questo privilegio, che fu concesso per necessità, è in pericolo.

Una trentina d’anni fa un nostro conterraneo sulcitano, rappresentante sardista, venne invitato ad una cena politica organizzata dal leghista Roberto Maroni in una città del Nord. In quella cena i leghisti vantarono la loro superiorità morale, economica e politica rispetto al Sud. Il nostro uomo prese la parola e rispose: «…evidentemente non sapete che se voi oggi esistete come popolo libero e ricco lo dovete a noi sardi che nel 1859, quando voi eravate l’estrema periferia dell’impero austro-ungarico, con le battaglie di Solferino, di San Martino e di Magenta, vi liberammo dall’oppressore e vi facemmo assaporare l’indipendenza; con la libertà conquistata da noi avete potuto diventare quello che oggi siete».

Questa fu la posizione del sardo quel giorno. Oggi è vecchio e continua a pensare allo stesso modo; non so se le nuove generazioni abbiano la stessa consapevolezza della nostra storia.

Il direttivo del circolo del Partito democratico di Sant’Antioco nella seduta del 28 marzo scorso ha approvato all’unanimità la proposta di intitolazione della sezione a Renzo Laconi.
Nato a Sant’Antioco il 29 giugno 1916, Renzo Laconi è stato uno dei 75 Padri Costituenti della nostra Carta Costituzionale, deputato e tra i politici che hanno profuso il maggior impegno sulla questione meridionale e sui temi dell’autonomia della Sardegna.
«Uomo di grande spessore e alto valore morale, Renzo Laconi ha basato la sua azione non solo sui grandi temi regionali e nazionali, ma soprattutto sulla giustizia sociale e sui diritti dei più deboliha detto il segretario cittadino Mariano Gala -. Sono queste le personalità politiche alle quali facciamo riferimento e alle quali intendiamo ispirare il nostro agire politico, oggi e sempre.»

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Il 7 giugno l’Associazione Amici della Miniera ricorda la figura di Aldo Lai, sindaco di Carbonia negli anni della lotta per il passaggio all’Enel della miniera di Serbariu con le sue maestranze. In occasione di questo ricordo, pubblichiamo una rievocazione della mobilitazione di Carbonia alla metà degli anni ‘60, conclusasi positivamente.

Nel 1963 si sviluppa a Carbonia un movimento nuovo, che sorge lentamente dal basso, per il passaggio della SMCS all’Enel, l’Ente di recente formazione, che già stava incorporando concessioni minerarie in alcune regioni della Penisola. Le prime azioni di lotta degli operai attraverso picchetti nei piazzali e marce tra Seruci e Carbonia, mentre il Sindacato è da tempo impegnato nel rinnovo contrattuale e nella battaglia per un piano di riqualificazione della manodopera.

Testimonianza ancora viva di quel movimento restano i documenti del tempo, a partire da un Comitato della Federazione del PCI, settembre 1962, in cui il Segretario regionale Renzo Laconi si sofferma sulle “rivendicazioni sostanziali”, che riguardano in particolare i problemi dell’energia elettrica. A dimostrare quanto la nazionalizzazione delle società elettriche non potesse non ascriversi al successo dell’impegno di Sinistre e Sindacati italiani, nelle lunghe lotte contro le grandi imprese produttrici di energia, in regime di monopolio assoluto.

E le prime assemblee ed i primi scioperi, nei documenti della Camera del Lavoro, del 28 gennaio 1964, che cominciano lentamente a delineare le tappe dell’azione in riferimento ai “lavoratori addetti alla perforazione del sottosuolo”, fino a prefigurare un allargamento ai minatori di Carbonia del Contratto Collettivo dei lavoratori elettrici, come stava già avvenendo in altre miniere della Penisola. E del 1 settembre 1964, in cui alla piattaforma rivendicativa sul Contratto integrativo si affianca la rivendicazione del passaggio all’Enel di tutti i lavoratori di Carbonia, quelli della miniera e quelli dell’esterno. Fino al documento che annuncia lo sciopero generale per l’8 marzo 1965, nei giorni dell’insediamento della nuova Giunta di Centro Sinistra.

La città risponde con le prime adesioni agli scioperi, alle manifestazioni di protesta e all’occupazione dei pozzi, mentre sorgono i nuovi organismi rappresentativi delle varie categorie riunite nei Comitati di difesa e sviluppo del Sulcis, e quelli dei disoccupati che sottoscrivono una vera e propria Carta rivendicativa, mentre numerosissimi si susseguono i convegni indetti dall’Amministrazione comunale e le sedute aperte del Consiglio stesso, quelli organizzati dalle Commissioni interne e poi dalle associazioni femminili e giovanili, uno per tutti, il 5 febbraio 1966.

Già la lettera del sindaco di Centro Sinistra Aldo Lai, 5 marzo 1965, scritta subito dopo l’insediamento e destinata agli onorevoli Nenni, De Martino e Matteotti, sembra voler prefigurare il quadro complessivo dell’intervento politico a tutti i livelli. Intanto, con la richiesta diretta al Partito Socialista di sostegno e di appoggio, il problema «il più urgente, il più attuale è il passaggio all’Enel per il quale la nostra Direzione Nazionale e i compagni di governo si sono battuti e sono convinto si batteranno fino in fondo». E poi il documento di Programma della Giunta «Il passaggio all’Enel è rinascita per la città a garanzia della stabilità della modesta manodopera rimasta, verso la costruzione di industrie manifatturiere che creino nuova occupazione nel territorio». E poi il coinvolgimento si allarga ai consiglieri regionali e al presidente Efisio Corrias, come dimostra il considerevole carteggio fra le due amministrazioni.

Delegazioni cittadine presso la Giunta regionale e a Roma, che portano le richieste dei lavoratori e della città, come nell’ordine del giorno del Consiglio regionale, 15 ottobre 1965, in preparazione dell’incontro del Sindaco Lai e del Presidente Corrias con i Ministri per il Mezzogiorno e per l’Industria, uno dei tanti che punteggiano questo lungo e impegnativo iter del “passaggio all’Enel”. Il 1965, l’anno del passaggio all’Enel per almeno tremila dei minatori di Seruci e Nuraxi Figus, esclusi quelli di Serbariu, più precisamente a seguito dell’intervento diretto della Corte dei conti.

Sarà la delegazione del 1966, a definire il trasferimento di tutti i lavoratori di Carbonia, proprio mentre si concludeva la marcia dei minatori su Cagliari, ancora preceduta da mobilitazioni e convegni, tra i più significativi quello dell’Amministrazione comunale, il 12 e 13 febbraio 1966: una massa che muove dalla città che raccoglie la solidarietà di molti comuni, da Domusnovas ad Assemini, presso la cui Sala consiliare si svolge l’assemblea conclusiva, prima che la delegazione parta per Roma, dove si compie l’atto finale.

«In una sola seduta – testimonia il sindaco Aldo Lai – Andreotti impose il Contratto Enel anche ai più recalcitranti tra i ministri e i dirigenti dell’Ente.»

Gianna Lai

 

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L’Amministrazione comunale di Sant’Antioco ha stanziato 350.000 euro per la realizzazione del “Programma di interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria del mando stradale per ripristinare le condizioni minime di sicurezza per veicoli e cittadinanza”. Una cifra che va ad aggiungersi alle somme già stanziate nel 2018, grazie alle quali sono state messe in sicurezza una trentina di strade. Con il Piano del 2019 si interverrà sia in ambito urbano (principalmente) sia in ambito extra-urbano.

«Sin dal nostro insediamento abbiamo indicato tra le priorità – commenta il sindaco Ignazio Locci – quella di mettere mano alle strade di Sant’Antioco che necessitano urgentemente di interventi di ripristino, liberando importanti risorse: l’anno scorso oltre 300mila euro, quest’anno 350mila. Siamo consapevoli che anche con il progetto del 2019 non riusciremo a concludere l’intero Piano dell’asfalto, ma proseguiremo su questa strada.»

Con i fondi frutto del ribasso di gara dell’appalto 2018 ed in attesa che prenda avvio il Piano appena approvato, intanto, nelle prossime settimane si procederà con la bitumazione di via Matteotti, da via Renzo Laconi fino all’intersezione con viale Trento, e da viale Trento fino all’incrocio con via Campidano.

«Nel 2019 – spiega l’assessore dei Lavori pubblici Francesco Garau – si interverrà prioritariamente sui tratti di strade presenti in centro urbano che, a causa dei continui lavori di adeguamento dei sottoservizi a cui si aggiungono i danni prodotti dalle abbondanti precipitazioni autunnali, manifestano una scarsa tenuta del manto stradale, con conseguenti problemi di sicurezza e percorribilità. L’elenco delle strade è ampio e, per citare alcuni esempi, si rifarà la centralissima via XXIV Maggio, nonché il tratto non ancora ripristinato di viale Trento, da via Nazario Sauro fino a via Campidano, mentre in ambito extra-urbano si provvederà a bitumare l’ultimo tratto di via Golfo di Palmas, a Maladroxia.»

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La Giunta comunale di Sant’Antioco ha approvato il progetto di completamento del “Piano di interventi di messa in sicurezza straordinaria del manto stradale” che, nei mesi scorsi, ha consentito di rifare il tappeto a ben 22 strade cittadine. Il completamento, che utilizza le economie derivanti dal ribasso di gara, prevede la bitumazione di via Matteotti, a partire da via Renzo Laconi fino all’intersezione con via Campidano, comprendendo, dunque, anche il tratto di viale Trento particolarmente usurato. «Portiamo a conclusione un ampio progetto di messa in sicurezza di un’arteria particolarmente battuta dalle automobili – commenta l’assessore dei Lavori pubblici Francesco Garau – iniziato con la rimozione dei pini, che negli anni avevano creato numerosi avvallamenti ed evidenti problemi di sicurezza, e la realizzazione di nuovi marciapiedi».

L’obiettivo più generale è quello di aumentare il livello di sicurezza dei cittadini e riqualificare, dal punto di vista ambientale e funzionale, il complesso del sistema viario nel tratto terminale di via Matteotti e di viale Trento. «L’asfalto, infatti, non è l’unico intervento in programma – chiarisce l’assessore Francesco Garau – recentemente abbiamo deliberato l’utilizzo di nuovi spazi finanziari stanziando 150 mila euro per il potenziamento dell’illuminazione pubblica: tra le operazioni da mettere in cantiere, anche la creazione dei punti luce nella porzione di viale Trento in cui sono assenti, dall’intersezione con via Matteotti all’incrocio di via Campidano». 

Ma non solo: nel corso del 2019 si metterà definitivamente in sicurezza tutta la dorsale di viale Trento. «Presto manderemo in appalto un nuovo Piano dell’asfalto – conclude l’assessore dei Lavori pubblici – che, con un investimento di oltre 300 mila euro, ci permetterà di bitumare, nel corso del 2019, un consistente numero di strade. Tra queste, appunto, anche il tratto di viale Trento su cui ancora non siamo intervenuti: dall’intersezione con via Nazario Sauro all’intersezione con via Campidano. La dorsale verrà così completata e messa definitivamente in sicurezza».

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Hanno preso avvio questa mattina, a Sant’Antioco, i lavori di riqualificazione di via Matteotti, arteria cittadina particolarmente battuta dalle automobili e zona della città densamente popolata. Le opere, in questa fase, prevedono la realizzazione dei marciapiedi ed il rifacimento delle pavimentazioni stradali degradate. Il progetto di riqualificazione è iniziato nel febbraio scorso con il taglio dei 78 pini posti sul ciglio della strada che avevano assunto dimensioni tali da impedire il transito pedonale, rappresentando un rischio sia per la viabilità stradale, sia per i cittadini. Le imponenti radici, oltre ad aver letteralmente mandato in frantumi i marciapiedi, hanno creato pericolosissimi avvallamenti anche nella carreggiata.

«Il nostro obiettivo – spiega l’assessore dei Lavori pubblici Francesco Garau – è aumentare il livello di sicurezza dei cittadini e riqualificare, dal punto di vista ambientale e funzionale, il complesso del sistema viario. Con questo intervento, infatti, riusciremo ad assicurare la percorribilità della strada in sicurezza sia alle automobili, sia ai pedoni.»

Nello specifico, i lavori si riferiscono principalmente alla sostituzione parziale del manto di via Matteotti, nelle parti interessate dal logoramento causato soprattutto dalle radici degli alberi ed alla ricostruzione dei marciapiedi da via Renzo Laconi all’incrocio con viale Trento. Non solo: i lavori di costruzione dei marciapiedi proseguiranno anche nel lato opposto della strada (lato sinistro in direzione viale Trento), dove ancora non sono stati realizzati. Per il futuro, con apposito progetto di completamento, si prevede la bitumazione completa della carreggiata di via Matteotti, da via Renzo Laconi fino a viale Trento, un ulteriore potenziamento dell’impianto di illuminazione pubblica e la predisposizione della segnaletica stradale.

«Invito i cittadini, in particolare i residenti della zona di via Matteotti – commenta il sindaco Ignazio Locci – a portare pazienza, in quanto i lavori in corso comporteranno l’inevitabile spegnimento dei lampioni stradali posizionati sui marciapiedi. Faremo in modo che l’illuminazione pubblica venga ripristinata nel più breve tempo possibile.»

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Il comune di Sant’Antioco investirà 160mila euro per la manutenzione e la messa in sicurezza della viabilità nel tratto terminale di via Matteotti e di viale Trento. L’obiettivo è aumentare il livello di sicurezza dei cittadini e riqualificare, dal punto di vista ambientale e funzionale, il complesso del sistema viario con la realizzazione dei marciapiedi e il rifacimento delle pavimentazioni stradali degradate. Il progetto ha preso il via con il taglio dei 78 pini di via Matteotti che avevano assunto dimensioni tali da impedire il transito pedonale, rappresentando un rischio sia per la viabilità stradale, sia per i cittadini. Le imponenti radici, oltre ad aver letteralmente mandato in frantumi i marciapiedi, hanno creato pericolosissimi avvallamenti anche nella carreggiata.

«Interveniamo in via Matteotti, un’arteria particolarmente battuta dalle automobili e zona della città densamente popolata – commenta l’assessore ai Lavori pubblici Francesco Garau – con un ampio progetto di manutenzione dei marciapiedi e della strada, il cui appalto è attualmente in fase di aggiudicazione.» 

«In particolare – aggiunge l’assessore Francesco Garau – i lavori si riferiscono principalmente alla sostituzione parziale del manto di usura di via Matteotti, interessato da un evidente logoramento nella parte superficiale causato soprattutto dalle radici degli alberi, e alla ricostruzione dei marciapiedi lungo tutto il tratto interessato dal taglio degli alberi: da via Renzo Laconi all’incrocio con viale Trento. Non solo: i lavori di costruzione dei marciapiedi proseguiranno anche nel lato opposto della strada, e in un tratto di viale Trento: tutta via Matteotti sarà così finalmente percorribile dai pedoni senza il rischio di inciampare in pericolosi avvallamenti.»

Per il futuro, infine, con apposito progetto di completamento, si prevede la bitumazione di via Matteotti da via Renzo Laconi fino a viale Trento, un ulteriore potenziamento dell’impianto di illuminazione pubblica e la predisposizione della segnaletica stradale.

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L’Amministrazione comunale di Sant’Antioco ha stanziato 50mila euro per asfaltare gran parte di viale Trento, tutta via Torino ed un tratto del lungomare Amerigo Vespucci. Le operazioni, iniziate quest’oggi in Viale Trento, proseguiranno per qualche giorno. «Questo progetto – commenta il sindaco Ignazio Locci – rientra nel programma di manutenzione straordinaria delle strade del centro urbano. Siamo consapevoli che in certe zone del nostro Comune le arterie siano dei veri e propri percorsi a ostacoli, ma non manca la volontà di risolvere il problema: iniziamo con un primo intervento e nel 2018, con risorse specifiche del bilancio, garantiremo la prosecuzione del programma di asfalto già avviato negli anni scorsi».

In particolare, tra gli interventi previsti, assume centralità la bitumazione dell’intera Via Torino, costellata di buche e particolarmente pericolosa. Il progetto prevede anche di “addolcire” l’avvallamento critico presente all’incrocio con via Baden Powell. «L’intervento di via Torino – aggiunge il sindaco Locci – rientra in un’operazione più ampia e strategica che di fatto rappresenta la prima parte di un’iniziativa che in prospettiva andrà a modificare la fisionomia di quella parte del paese». A breve, infatti, inizieranno anche i lavori di abbattimento dei pini di via Matteotti: alberi che hanno assunto dimensioni tali da impedire il transito pedonale e rappresentano un rischio sia per la viabilità stradale, sia per i cittadini. Successivamente, si procederà con la bitumazione del tratto di strada interessato dal taglio dei pini, ovvero da via Renzo Laconi all’incrocio con viale Trento.

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Si è svolto sabato scorso 26 novembre, nel salone della Sezione di Storia Locale di Carbonia della Grande Miniera di Serbariu, il convegno “In ricordo di Antonio Puggioni, dirigente politico e sindacale nelle istituzioni”.

L’evento, organizzato dall’Associazione Amici della Miniera, con il patrocinio del comune di Carbonia, rientra in un programma che prevede il ricordo di alcune figure che hanno avuto ruoli di rilievo nella storia della città, del territorio del Sulcis Iglesiente e dell’intera Sardegna.

I lavori, coordinati dalla prof.ssa Anna Lai, sono stati aperti da Mario Zara, presidente dell’Associazione Amici della Miniera. Il ricordo di Antonio Puggioni è stato affidato prima alla proiezione di un’intervista realizzata nel 1985 dagli studenti della scuola media Zanella e poi agli interventi degli ospiti, il primo dell’ex sindaco Antonangelo Casula che ha ricostruito la lunga esperienza di vita, in particolare quella politica e sindacale, di Antonio Puggioni (alleghiamo il testo integrale).

Don Amilcare Gambella, parroco della chiesa di San Ponziano, si è soffermato sul rapporto di Antonio Puggioni con la chiesa, in particolare con due parroci che hanno segnato la storia della città di Carbonia, Don Vito Sguotti e Don Luigi Tarasco; Giampaolo Cirronis, giornalista e direttore del periodico “La Provincia del Sulcis Iglesiente” ha parlato del suo rapporto con Antonio Puggioni che, negli ultimi due anni e mezzo della sua vita (è scomparso il 24 agosto 1998), ha curato una rubrica del periodico, sulla storia politica e sindacale della città e del territorio, con un occhio di riguardo sul ruolo della chiesa; l’ex sindaco Antonio Saba ha parlato brevemente del suo rapporto di amicizia e di impegno politico con Antonio Puggioni; Salvatore Figus, operatore culturale, si è soffermato sui rapporti dei giovani iscritti al PCI con Antonio Puggioni, uomo di punta del partito fin dagli anni giovanili; e, infine, il senatore Francesco Macis, ha ricostruito l’impegno di Antonio Puggioni nelle istituzioni, in particolare in Consiglio regionale, dove ha lavorato al suo fianco per alcuni anni.

In conclusione, è stato dato spazio al pubblico presente in Aula ed è intervenuto il figlio Antonello (presenti anche le due figlie, Cristina ed Annamaria, mentre la moglie non se l’è sentita di partecipare) che ha ringraziato tutti per l’iniziativa in ricordo della figura del padre.

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L’intervento di Antonangelo Casula

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IN RICORDO DI ANTONIO PUGGIONI –  DIRIGENTE POLITICO SINDACALE E DELLE ISTITUZIONI. Intervento di Antonangelo Casula, Carbonia 26 novembre 2016.

Il presidente dell’Associazione Amici della Miniera, Mario Zara, ha illustrato le modalità relative allo svolgimento della nostra conversazione odierna dedicata al ricordo di Antonio Puggioni.

Il filmato che abbiamo appena visto e le immagini che lo ritraggono nel lungo arco della sua vita privata e  politica, fanno rivivere un emozione particolare, che rende ancora più interessante e piacevole questo incontro.

Il titolo assegnato a questa iniziativa, Antonio Puggioni – dirigente politico, sindacale e delle Istituzioni, richiede un particolare impegno a partire dalla mia introduzione, nella quale vorrei insieme alla ricostruzione del suo profilo pubblico prevalentemente conosciuto, contribuire a portare alla luce aspetti meno noti della sua vicenda politica, personale ed umana.

Antonio Puggioni nasce a Scano Montiferro, nell’attuale provincia  di Oristano, il 14 giugno del 1927 e  si trasferisce all’età di dodici anni, nel 1939 insieme alla famiglia, a Carbonia.

Il 1 aprile del 1942, non ancora quindicenne, viene assunto dalla Società Carbonifera Sarda in qualità di aiuto meccanico.

Nel gennaio1943 si arruola presso la Scuola militare di Pola (in quel periodo l’Istria apparteneva ancora all’Italia) nel Corpo Reale Equipaggi Marittimi come allievo motorista navale.

Il 9 settembre dello stesso anno (il giorno successivo all’annuncio dell’armistizio) viene fatto prigioniero dai tedeschi a Pola e la mattina del giorno successivo il 10 settembre, viene liberato dai partigiani di Tito a Passino presso Trieste, nello stesso anno viene fatto prigioniero nella periferia di Trieste e liberato per una seconda volta da una formazione di partigiani italiani.

A dicembre del ’43, rifugiato a Sant’Orso in provincia di Vicenza, viene arruolato nella Brigata Partigiana- Martiri della Val Leogra – Battaglione Ramina Bedin.

L’esperienza partigiana, per quanto mi risulta è una vicenda della sua vita nota a pochi, dura sino alla conclusione del conflitto e a giugno del 1945 fa ritorno in Sardegna, a Carbonia, dove viene riassunto nella miniera di Nuraxeddu per essere successivamente trasferito nel 1946 nell’officina meccanica della miniera di Serbariu.

Eletto prima nella Commissione Interna, diviene nello stesso anno segretario del Comitato di coordinamento delle commissioni interne  della miniera, membro della segreteria della Lega dei Minatori e infine componente dell’Esecutivo della Federazione provinciale dei minatori diretta per lungo tempo da Martino Giovannetti, il padre di Daverio.

Diviene nell’arco di pochi anni, al fianco di Velio Spano, Renato Mistroni, Antonio Sellitti, Pietro Cocco, Marco Giardina, e di tanti altri, uno dei principali dirigenti della classe operaia di Carbonia e del Sulcis.

E’ uno dei protagonisti della battaglia dei 72 giorni conclusasi il 18 dicembre del 1948a 10 anni dalla fondazione della Città, data che possiamo considerare – la citazione non è mia  ma la ritengo molto appropriata  data della rinascita morale della Città.

Non mi dilungherò, soprattutto per ragioni di tempo, su queste importanti vicende, essendo abbastanza  note ai più e sulle quali proprio Antonio ci ha lasciato importanti e dettagliate testimonianze, raccolte in una serie di articoli pubblicati sulla Provincia del Sulcis Iglesiente a cura di Giampaolo Cirronis e che saranno oggetto proprio di una sua successiva testimonianza nel corso di questo dibattito e saranno riprese certamente da Antonio Saba, con il quale ha condiviso insieme ad un’amicizia durata una vita, tutti i momenti cruciali della storia politica della nostra città.

Ancora giovanissimo, parliamo di un ragazzo di 21 anni è già protagonista in una temperie di lotte particolarmente difficili – mi riferisco alla battaglia per la sopravvivenza della città – che in tanti a quei tempi avrebbero voluto cancellare dall’atlante di geografia.

Inizia, dunque, al fianco di tanti altri protagonisti, un percorso di formazione  di quadro dirigente – come si usava dire allora  della vita politica e sindacale del Bacino Minerario, nel gennaio del 1949 viene inviato a Bologna al primo corso semestrale del P.C.I. presso la Scuola di partito in via dei Bottieri, al suo ritorno a Giugno viene eletto segretario della Lega dei minatori e segretario della Camera del Lavoro,  inoltre viene eletto nel Comitato Federale del  PCI della Federazione di Cagliari, a quei tempi non vigeva la regola dell’incompatibilità tra incarichi politici e sindacali.

Nel 1950 iniziano – chiamiamoli così – i primi inconvenienti del mestiere, viene arrestato per adunata sediziosa, corteo non autorizzato e aggressione delle forze dell’ordine, liberato dopo cinque mesi e condannato a dieci mesi con il beneficio della condizionale.

Viene sottoposto ad altri tre processi e di nuovo arrestato nel 1951, ne da conto anche l’avvocato Umberto Giganti anch’egli recluso in seguito ai fatti del 1948 in una lettera alla moglie Ina datata 9 febbraio 1951, contenuta nel libro “ La prigionia di un sogno” a cura di sua figlia Pia Giganti, dalla quale riporto testualmente: «Pelessoni è stato in causa ieri. E’ stato condannato a due anni di reclusione ma è uscito perché la pena gli è stata condonata. Puggioni è stato invece arrestato, per quella montatura della Cassa operaia, e si trova qui. Temo che dovrà rimanerci per un pezzo.»

Questa era la sorte comune per tanti dirigenti comunisti, socialisti di allora i tempi del “famigerato”  commissario Pirrone e della polizia di Scelba.

Il già citato Umberto Giganti, uscito dal carcere e rieletto in Comune, nella qualità di assessore anziano, subentrerà nel 1953/4 a Pietro Cocco nell’esercizio delle funzioni di sindaco, il quale fu destinatario di un provvedimento di sospensione dalle sue funzioni emanato dal prefetto di Cagliari.

La vita non era semplice a quei tempi in politica, sia nel sindacato che nelle istituzioni.

Puggioni viene eletto in Consiglio comunale per la prima volta nel maggio del 1952, assume l’incarico di assessore delle Finanze e del Bilancio e nel novembre dello stesso anno nominato Ispettore regionale degli Enti locali del PCI.

Nell’anno successivo, il 1953, viene nominato vicesindaco del comune di Carbonia.

Il 27 maggio del 1956 alle elezioni amministrative, viene riconfermato consigliere comunale.

L’attività politica e sindacale si intreccia con quella amministrativa e per riprendere un filo cronologico, nel 1954 viene nominato responsabile di zona del PCI e membro  della segreteria provinciale di Cagliari.

Nel 1957 viene chiamato insieme a Giovanni Lai e Girolamo Sotgiu a far parte della segreteria regionale del PCI in una fase che possiamo definire senza alcun eufemismo, di transizione.

Siamo in una fase successiva al terremoto del 1956, del quale ricordiamo la successione di avvenimenti storici sulla scala internazionale: il XX Congresso del PCUS con il rapporto segreto di Kruscev, l’invasione dell’Ungheria da parte delle truppe del Patto di Varsavia, VIII Congresso del PCI.

In questo quadro, in questi anni, nel PCI in Sardegna si afferma la segreteria di Renzo Laconi con  un conseguente ridimensionamento del ruolo di Velio Spano e del quadro dirigente di partito che a lui faceva riferimento, soprattutto del Bacino Minerario.

Antonio Puggioni era come la prevalenza del gruppo dirigente di Carbonia e del Sulcis, particolarmente legato a Velio Spano.

L’esito personale di questa fase politica per Puggioni può essere riassunto nella nota locuzione latina: Promoveatur ut amoveatur (sia promosso affinché sia rimosso).

Quindi dopo il matrimonio nel 1958 con Nilde Lampis compagna per tutta la sua vita, nel 1959 su incarico della direzione nazionale del partito, parte in incognito insieme alla consorte per l’Unione Sovietica, con un  passaporto intestato ai coniugi Calvi.

Il 1959 si presenta come un anno di svolta significativo nella vicenda personale e politica di Puggioni.

Il 28 aprile una prima tappa a Berlino orientale, in una città non ancora divisa dal muro, a maggio a Praga sino ad agosto dello stesso anno e, da questa data sino ad aprile del 1961, a Mosca.

Questa esperienza si rivelerà comunque molto importante, a partire dagli aspetti squisitamente politici, ed gli consentirà di entrare in contatto con personalità eminenti del movimento comunista internazionale; quindi si ritrova prima a Radio Praga al fianco di Aldo Tolomelli (divenuto in seguito senatore dell’Emilia) e di Francesco Moranino che vi svolgeva un attività di coordinamento squisitamente politico.

Moranino ex capo partigiano della Val d’Ossola era espatriato dall’Italia in ragione di una sentenza relativa a fatti dolorosi avvenuti nel corso della guerra partigiana e culminati in una sua condanna per la quale fu fatto decadere (prima circostanza nel Parlamento repubblicano) dall’incarico parlamentare.

Nell’URSS inizia a lavorare nella redazione italiana di Radio Mosca, nella quale anche la moglie Nilde trova occupazione nel lavoro di segreteria.

Questa esperienza, si rivelerà nel tempo fruttuosa, poiché oltre a consentire una importante confidenza con gli strumenti di comunicazione e l’attività di una redazione giornalistica, ne affinerà in meglio il   linguaggio, che come lo ricordiamo tutti, riusciva ad essere diretto, chiaro e semplice.

Chi ha avuto modo di ascoltare Puggioni sia in occasioni pubbliche, che in conversazioni private, sicuramente ne avrà apprezzato la proprietà di linguaggio, la capacità di scandire tempi e toni in maniera sempre molto efficace.

A Mosca risiede in un piccolo appartamento presso l’Hotel Ucraina ed entra subito in contatto con personalità del mondo sovietico moscovita, ma anche con una presenza italiana importante, tra le quali mi  preme segnalare quella con il “mitico” Giovanni Germanetto, giunto nell’URSS nel 1922, autore di un famoso libro “Le memorie di un barbiere” e insieme a Paolo Robotti “Trent’anni di lotte dei comunisti italiani”.

Frequenta e stringe amicizia con Giulia Schucht, la moglie di Antonio Gramsci, e con sua sorella Eugenia.

Di quello stesso periodo è l’amicizia Maurizio Ferrara corrispondente dell’Unità da Mosca (che successivamente sarà direttore de l’Unità), sua moglie Marcella che fu collaboratrice nella segreteria di Palmiro Togliatti.

In quelle circostanze Nilde si trovò più volte a prendere in braccio l’allora piccolo Giuliano, che diventerà noto a tutti noi per la militanza in un altro schieramento.

Sono anni in cui maturano una serie di rapporti sul piano politico ed umano con dirigenti nazionali che si recano a Mosca, tra i quali Nilde mi ha segnalato tra tutti, quello con Pietro Ingrao.

Inoltre, c’è una frequentazione molto importante per tutti gli avvenimenti di carattere culturale che si svolgevano attorno alla residenza dell’Hotel Ucraina e, infine dulcis in fundo, la frequentazione costante della vita culturale moscovita e del Teatro Bolscioi.

Sono anni importanti e prima di venire assegnato a nuova funzione in Polonia, nell’aprile del 1961 – alla quale oppone un diniego – l’esperienza si conclude con il rientro repentino a Carbonia, preceduto da un breve intervallo a Berlino Est che dura da aprile a luglio e con un intervallo romano dove vengono ricevuti insieme ad altri compagni provenienti da analoghe esperienze, da Palmiro Togliatti.

Nel luglio del 1961, appena rientrato a Carbonia, assume l’incarico di segretario del Comitato cittadino del PCI ed eletto nella segreteria della federazione del Sulcis, appena costituita al fianco di Licio Atzeni che è stato il primo segretario della federazione del PCI del Sulcis.

Una breve notazione, Licio Atzeni era il padre del noto e indimenticato scrittore Sergio Atzeni ed era la figura che ha ispirato il personaggio principale del libro “Il figlio di Bakunin” dal quale ha preso spunto per l’omonimo film,  il regista cinematografico Gianfranco Cabiddu.

Alle elezioni amministrative del novembre 1964 viene rieletto consigliere comunale, in una consiliatura nella quale si succedono due sindaci Antonio Saba ed Aldo Lai, quest’ultimo alla guida di una coalizione di centro sinistra in sintonia con il quadro politico nazionale di quella stagione politica, ma questa esperienza si conclude in modo traumatico con l’arrivo del commissario prefettizio, dottor Pandolfini se la memoria non mi inganna che amministrerà la Città sino alle elezioni del 17/18 novembre del 1968.

Antonio Puggioni viene eletto in questa tornata e rieletto consigliere alle elezioni amministrative del novembre del 1973 e siederà in Consiglio comunale sino alle elezioni del giugno 1979, in una consiliatura che, per ragioni di allineamento elettorale nazionale, dura sei e non cinque anni come previsto.

Riprendendo il filo dell’impegno politico a luglio del 1965 viene nominato Segretario della Federazione del PCI del Sulcis e nel 1969 viene eletto consigliere regionale nella VI Legislatura e riconfermato  nel 1974 VII legislatura nell’incarico di consigliere regionale che si concluderà nel 1979.

Su questo punto, quello dell’esperienza nel Consiglio regionale mi limito  a questa enunciazione poiché abbiamo chiesto al senatore Francesco Macis che è stato suo collega nei banchi del Consiglio, di tracciare nel suo intervento un profilo significativo dell’esperienza politica e istituzionale  condotta come legislatore.

Nel 1981, dopo un incarico di breve durata nel Comitato di gestione dell’USL n° 17 di Carbonia, Antonio Puggioni lascia tutti gli incarichi per dedicarsi ad attività private.

Come avete avuto modo di constatare, nella mia esposizione, ho cercato di seguire un ordine cronologico preciso  nel segnare il percorso della vita di Puggioni e a questo proposito devo dirvi che, mi è stato di particolare aiuto, proprio un suo scritto autografo nel quale ha segnato le tappe più significative delle esperienze della sua vita terrena che si è conclusa con la sua morte avvenuta a Carbonia il 24 agosto del 1998.

Una vita costellata da un impegno politico molto assorbente che però non gli ha impedito di essere molto presente nella vita familiare come marito e nell’educazione dei tre figli, Antonello, Cristina ed Annamaria che lo ricordano come un padre affettuoso e attento.

Vorrei aggiungere qualche ricordo personale del rapporto che ho intrattenuto personalmente con Antonio e qualche valutazione di carattere politico.

Una delle sue caratteristiche principali era costituita dalla capacità di dialogo e di intessere rapporti sul piano personale, sia con il mondo esterno, mi riferisco al dialogo con le altre forze politiche che con quello interno al proprio partito.

Assegnava al tema del rapporto con le persone un grande valore e questo era un suo grande pregio.

Una dialettica votata sempre alla ricerca dei punti d’incontro e di unione  soprattutto quando le distanze tra le posizioni in campo  rischiavano di diventare incolmabili.

Una capacità non certo unica, ma abbastanza rara, il saper mantenere in vita il filo del dialogo anche nelle situazioni di maggiore difficoltà.

Non fu mai un uomo di rottura, ma di dialogo, anche su piano sociale, lo testimoniano i rapporti con l’Azienda Mineraria, tra i minatori e nel rapporto con il clero e la sfera religiosa.

A questo proposito, mi preme ricordare il suo rapporto ed il ricordo affettuoso che aveva di don Vito Sguotti, che è stata una figura importante nella storia della Città, ben al di là della sua funzione di Sacerdote, quello con don Luigi Tarasco, cappellano dell’Ospedale Sirai, con i quali ha condiviso alcuni dei passaggi difficili dei primi anni di vita di Carbonia e, in ultimo, nella seconda metà degli anni ‘80, con fra Nazareno da Pula, con don Amilcare Gambella, che lo ricorderà nell’intervento successivo al mio, anni nei quali si era riavvicinato anche dal punto di vista spirituale alla fede e alla Chiesa.

Era inoltre animato da una curiosità culturale ed intellettuale non comune, per le vicende del Bacino Minerario e della sua classe operaia, era un lettore vorace e sempre impegnato nella ricerca di documenti.

Per questa sua attitudine alla ricerca ed all’accumulo di carte, atti, documenti, fotografie, pubblicazioni ,era avvertito come un pericolo, lo dico simpaticamente, soprattutto nelle sezioni di partito.

Questa tenacia gli ha consentito di acquisire e conservare un patrimonio documentale di grande rilievo del quale troviamo già da tempo, un significativo riconoscimento con delle citazioni in pubblicazioni di carattere nazionale, quali: “Carbosarda”, a cura di Giuseppe Are e Marco Costa, nella collana Mondi Operai nell’Italia del Novecento;

Ricordo di aver ricevuto da lui in dono, copia originale del Piano Levi, copia dell’Atto costitutivo della Società delle miniere di Iglesias, stipulato a Parigi nel 1867.

In questo lavoro era particolarmente scrupoloso ed aveva metodo e questo è stato tra gli altri, uno dei  tratti moderni della personalità di Puggioni sui quali intendo soffermarmi, perché sono un coniugato di sensibilità e lungimiranza insieme.

Tra le sue attività, delle quali mi aveva parlato e di cui ebbi modo di prendere visione, c’è un’interessante rassegna biografica di figure che hanno segnato la storia della città di Carbonia attraverso le lotte, la quotidianità, l’impegno istituzionale e religioso delle quali ha tracciato un ritratto di grande valore per la nostra memoria collettiva: Renato Mistroni, Silvio Lecca, Don Vito Sguotti, Pietro Cocco, Marco Aurelio Giardina, Giorgio Carta, Francesco Piga Onnis, Giuseppe Cabua, Claudino Saba e moltissimi altri.

Questo lavoro testimonia una grande sensibilità e la volontà di non disperdere un patrimonio di conoscenze e di memorie il cui valore culturale, sociale ed antropologico è di un’importanza inestimabile per tutti noi.

Devo aggiungere che proprio su questa traccia l’indimenticato compagno ed amico Sergio Usai, alla guida dell’associazione “La nostra storia – Le nostre radici”, si era impegnato a proseguire in un analogo lavoro di implementazione riguardante figure importanti della città e del mondo dello sport cittadino, che è bene tenere presente in memoria.

In ultimo, mi avvio a concludere, voglio esprimere il mio sincero apprezzamento per l’organizzazione di questa  conversazione.

Non è questa la prima occasione in cui l’associazione “Amici della Miniera” dedica un’iniziativa in ricordo di personalità che si sono distinte nella nostra comunità, segnalo quella dedicata alla figura di Silvio Lecca alcuni anni orsono, altre analoghe ci saranno in futuro, a partire dalla prossima in programma, dedicata alla figura di Aldo Lai.

E’ quindi doveroso apprezzare ed elogiare il proposito dell’associazione e di Mario Zara che la dirige,  perché rimanga così forte e determinata la volontà di restituire alla memoria collettiva una piena e completa evidenza di protagonisti della nostra comunità cittadina, qual è stato Antonio Puggioni.

Nel concludere il mio intervento, vorrei ringraziare l’associazione, per avermi concesso l’onore ed il piacere di contribuire a farlo insieme a tanti altri amici e compagni intervenuti a questa iniziativa.

Antonangelo Casula

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