29 March, 2024
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Gramsci e Berlinguer messi in questione nell’attuale crisi

Premessa

Il libro di Pendinelli e Sorgi, Quando c’erano i comunisti. I cento anni del PCI tra cronaca e storia, non si situa né tra i testi aprioristicamente critici, né tra quelli pervicacemente retorici sull’esperienza del comunismo italiano. È un pregevole testo, particolarmente ben scritto. Talmente ben scritto che la piacevole scrittura rischia di celare numerosi e importanti pregi di ricerca su eventi e temporalità, contesti locali e internazionali, e soprattutto su numerosi protagonisti. Si tratta di protagonisti individuali e collettivi, che possiamo cogliere in crisi e in cambiamento, mentre operano in modi trasformativi delle relazioni e di sé stessi, assumendo nuove personalità culturali e politiche.

Credo di non poter dire i numerosi pregi che ho verificato nel testo. Pertanto, elenco alcuni punti di riflessione, stimolati dalla lettura di quest’opera, che ho rilevato e tematizzato per titoli: 1 Temporalità, spazialità, soggettivazioni 2 Soggettivazioni autonome come elementi gramsciani costitutivi del socialismo pluralista 3 Soggettivazione individuale socialmente responsabile prospettata da Gramsci come connotazione d’individualismo progressista 4 Soggettivazione collettiva gramsciana, subalternità delle sinistre al neoliberismo e morte del comunismo 5 Questioni politiche della berlingueriana questione morale e dell’austerità 6 Attuale crisi a partire dal difficile poter vivere delle donne.

Gli argomenti sono numerosi e importanti. Mi rivolgerò specialmente alla parte scritta da Marcello Sorgi in cui ho rilevato temi di particolare interesse antropologico che riguardano non i soggetti già costituiti, ma il farsi soggetti autonomamente specie nelle condizioni di assoggettamento.

La parola soggetto è ambigua. Comprende sia chi assoggetta e chi è assoggettato. Richiede riferimenti soprattutto a processi relazionali di formazione reciproca. Chiamo soggettivazione il divenire umano liberantesi in modi autonomi nelle sottomissioni e dalle sottomissioni, comprendendo persone e gruppi assoggettati nell’analisi e nelle dinamiche delle relazioni di potere di sottomissione. Gramsci stesso costituisce un paradigma antropologico di cruciale importanza in tale processo, personale e collettivo, della vita quotidiana e filosofica, della realtà contingente eppure storica che emerge nella trama narrativa del testo.

1 Temporalità, spazialità, soggettivazioni

Il primo nodo narrativo dell’opera riguarda le temporalità, cioè le caratteristiche culturali dei vari tempi. Tali tempi, subiti e nel contempo in varia misura modificati individualmente e/o collettivamente, costituiscono tracce di cambiamenti antropologici, di trasformazioni d’umanità individuale e collettiva con differente forza ed estensione di marcatura storica. Si tratta di una questione concettualmente densa che implica una pluralità qualitativa di tempi narrativi che nel testo è messa immediatamente in primo piano come cruciale questione politica, storica, culturale di grande rilevanza a proposito del PCI. A mio avviso, sul piano delle varie temporalità si può rilevare nel libro una peculiare forza narrativa che appare fin dall’incipit (Pendinelli-Sorgi 2021:7).

A cent’anni dalla nascita e a trenta dalla scomparsa del comunismo italiano, una domanda è rimasta senza risposta: perché nacque e crebbe a dismisura proprio in Italia il più grande partito comunista dell’Occidente? Un partito che riuscì a sopravvivere a eventi epocali: il ventennio fascista, il terrore e lo scandalo dello stalinismo, la rivoluzione ungherese del ’56 e la sanguinosa repressione che ne seguì, mentre continuava a crescere anche negli anni del boom economico e della vorticosa trasformazione della società, condizionando con i suoi lasciti, anche dopo aver cessato di esistere, la politica italiana.

Porsi questo interrogativo ha un senso diverso oggi…

Nell’incipit i registri di qualità temporali giungono evidentemente fino all’oggi. Il secondo nodo narrativo affrontato nel libro riguarda vari registri di spazialità, anche mentale: l’Italia e l’Occidente, la Russia e l’Ungheria, per citarne alcuni. Inoltre, come terzo nodo narrativo si rileva una particolare dimensione spazio-temporale, cioè tempi e spazi narrativi s’incapsulano o s’incastrano o s’intersecano, oppure si addensano o si allargano con efficaci e significativi contrasti, come avviene per esempio nella narrazione dei funerali di Gramsci (Pendinelli-Sorgi 2021:18).

In quei giorni a Roma c’è aria di festa. «Il Messaggero» scrive che nel giardino zoologico sono giunti due leoncini catturati nella residenza di ras Sejum: «L’Urbe può ammirare questi due viventi testimoni, benché irragionevoli, dell’occupazione di Adua». Alla radio, annunciato dalla canzone Amore, amore, portami tante rose di Maria Rita Cerreto, in arte Ada Neri, in un tripudio di applausi, Mussolini alza la voce e proclama: «L’Etiopia è italiana. L’Italia ha finalmente il suo impero».

A questi brani possiamo comparare altre parti, scritte sulla diffusione della notizia della morte di Gramsci. Tale notizia si estende con specifici modi nelle carceri, durante il clima della epocale svolta staliniana, nella Terza Internazionale. Terracini racconta che la morte di Gramsci non provocò dolore fra i carcerati comunisti e che ciò fu conseguenza del dissenso espresso da Gramsci sulla svolta staliniana (Pendinelli-Sorgi 2021: 347).

Per i compagni detenuti o confinati, Antonio ormai era estraneo al partito. Perciò la notizia della sua morte passò come tante altre, fu accolta senza dolore, non suscitò emozioni. E questo atteggiamento rese ancora più acuto il dramma nostro, di quei pochi che sapevamo e che erano stati d’accordo con Gramsci.

In breve, il tempo narrativo del funerale di Gramsci è qualitativamente multi-dimensionale. Infatti, addensa o estende tempi con modi qualitativi e discorsi differenti l’evento del funerale, accaduto il 28 aprile del 1937. Sorgi evoca la voce di Mussolini e l’impero. In realtà l’impero era stato proclamato il 9 maggio 1936 ma, nella descrizione del funerale, l’impero sembra diventare ancor più vicino con l’Etiopia, mentre l’Italia sembra ancor più espandersi e apparire in tutta la grandezza e anche in tutta la fragilità imperiale e imperialistica, nella bellica politica fascista. La morte di Gramsci è temporalmente multidimensionale e spazialmente multisituata e multiprospettica. Infatti, compare anche in ambito carcerario come notizia senza cordoglio per i comunisti incarcerati e schierati a favore della svolta di Stalin.

Mi muoverò nelle mie riflessioni partendo dall’isolamento di Gramsci di cui parla Terracini (Pendinelli-Sorgi 2021:341) per connettere l’isolamento di Gramsci a cause storicamente accertate e rintracciabili nei rapporti, diventati tesi, in cui Gramsci si differenziò e si rese autonomo nel giudicare sia Togliatti e sia il PCUS. In tale controversia politica, vorrei indicare proprio contenuti e modi significativi che svelano il farsi della personalità culturale e politica differenziantesi di Gramsci.

Mettiamo a fuoco gli elementi che egli vedeva dannosi e pericolosi per il comunismo come soggetto transnazionale e per le varianti nazionali comuniste che sorgevano. Analizziamo pertanto la modificazione di tali rapporti, diventati critici, che scaturì dalla cosiddetta “lettera della discordia”. Scritta da Gramsci nel 14 ottobre del 1926 per conto del PCd’I a Togliatti, che era a Mosca come rappresentante del PCd’I presso l’Internazionale, era destinata al PCUS. Rammento che quell’anno fu assai importante per il PCd’I che aveva tenuto dal 20 al 26 gennaio il proprio congresso clandestinamente a Lione e aveva determinato una importante svolta politica per superare vari limiti soggettivi propri. Tali limiti comprendevano le posizioni formalistiche e settarie che spezzavano la completezza di visione politica, riducendo l’attività e le parole del partito a passività reale. Le tesi di Lione predisposte da Gramsci tendevano a modificare il partito e a realizzare pertanto un nuovo soggetto collettivo con una propria fisionomia e personalità nel movimento comunista internazionale. Nei propri modi distintivi il PCd’I doveva essere attivo sia al proprio interno contro i difetti estremizzanti e limitanti, sia all’esterno contro le politiche del fascismo che volevano rendere passive e inerti le avanguardie della classe lavoratrice. Gli spazi organizzativi di tali esperienze dovevano essere, fondamentalmente, i luoghi di lavoro.

Gramsci sosteneva che relazioni interne del PCUS contro le opposizioni di minoranza, per quanto finalizzate all’unità e alla disciplina, non potevano essere meccaniche e coatte. Togliatti rispose a Gramsci in modo duro, giudicando errata la sua visione e non inoltrò la lettera ricevuta al partito sovietico. Gramsci replicò al giudizio di Togliatti a titolo personale, ma con vigore e fortemente persuaso di esprimere l’opinione anche di altri compagni. Disse a Togliatti che la sua lettera gli pareva «troppo astratta e troppo schematica nel modo di ragionare». Gramsci affermò inoltre che non si potevano «lasciar passivamente compiersi i fatti compiuti, giustificandone a priori la necessità». Sostenne, infine, di aver autorizzato «modifiche che invece non erano state fatte». Gramsci esplicitò a Togliatti che il suo modo di ragionare gli aveva fatto «una impressione penosissima». Secondo Gramsci, infatti, l’unità attiva del partito era condizione esistenziale dell’egemonia del proletariato e del contenuto socialista dello Stato, mentre l’osservazione di Togliatti era «inerte e priva di valore» e il suo ragionamento era «viziato di burocratismo». Le sferzanti critiche gramsciane alla passività e all’inerzia come rinunce alle autonome trasformazioni soggettive indicano un locus, un tempus, un modus gramsciano trasformativo in corso d’opera. Si tratta di elementi presenti e coerenti non solo fra la sua elaborazione delle Tesi di Lione e i rapporti politici interpersonali, nella trasformazione delle sue relazioni e anche di sé, come persona e come dirigente del comunismo italiano nel comunismo internazionale. In tale controversia Gramsci affermava le qualità distintive della sua autonomia politica, un proprio modo di fare, di dire e di essere: attivo, trasformativo, antiburocratico, realizzativo di libertà non solo negativa (libertà da) rispetto alle posizioni togliattiane e sovietiche, ma anche di libertà positiva (libertà di) rispetto al prodursi come persona autonoma. La soggettivazione autonoma gramsciana realizzata nelle lettere del 1926 era doppiamente dis-assoggettante sul piano dei cambiamenti delle relazioni interpersonali, anche se inefficace operativamente, in quanto la lettera non fu consegnata.

Mettiamo meglio a fuoco come, nel corso della mutata relazione con Togliatti del 1926, Gramsci si trasformava, affermando la propria autonomia e quella del PCd’I sia rispetto allo stesso Togliatti e sia verso il partito comunista sovietico. I contenuti e i modi delle relazioni fra persone nei partiti e fra gli stessi partiti concernevano le questioni delle inerzie e delle burocratizzazioni, delle passività e delle passivizzazioni e, al contrario, dell’unità attiva e accomunante. Nel libro sembra prevalere una relazione continuista, fra Gramsci e Togliatti, che peraltro fu storicamente realizzata per vari aspetti importanti. Tuttavia, la parte distintiva di Gramsci rispetto a Togliatti mi pare alquanto in ombra. Vorrei affrontare, pertanto, a cominciare da Gramsci, una questione antropologica assai rilevante che affiora nel nostro libro: la questione dei personaggi che mutano mentre trasformano le loro relazioni, differenziandosi da altri e diventando differenti culturalmente e politicamente da come erano in precedenza. Gramsci è una figura antropologica primaria nel libro, progressivamente automodellizzantesi e modellizzante il comunismo italiano, attraverso le dinamiche trasformative della sua personalità: studente povero e giornalista povero, socialista e comunista, dirigente politico nazionale e internazionale, fuori e dentro il carcere, prima con una propria concezione del mondo e della vita e poi con una propria filosofia della libertà da conquistare storicamente nelle proprie pratiche in elaborazione, nella propria praxis in ponderazione, e non crocianamente considerata come data. La filosofia gramsciana della liberazione autonoma si sviluppava e si affinava in corso d’opera, nel pensiero e nella prassi che egli svolgeva congiuntamente nel corso della sua vita. Il libro documenta passi importanti del percorso di pratica filosofica liberatrice che Gramsci realizzò.

Lascio sullo sfondo questioni cruciali che Sorgi attraversa, come per esempio quello della rivoluzione passiva e del cesarismo progressivo e regressivo, per rivolgere l’attenzione antropologica al rapporto fra il Gramsci uomo e il Gramsci filosofo, rapporto messo in luce da validi studi di filosofia politica come quello di Gianni Fresu (2019). Osservo Gramsci nelle crisi di vita e nelle sue soggettivazioni pratico-filosofiche, nelle sue minute e molecolari realizzazioni che costituiscono la sua complessiva esperienza umana, come uomo capace di differenziarsi autonomamente facendosi uomo libero, nelle difficili condizioni date. Nella prospettiva antropologica risultano di una certa rilevanza, per esempio, anche gli assoggettamenti economici e di salute in cui Gramsci si trovò in varie fasi della sua vita. Senza cedere a vari determinismi, si tratta di individuare i suoi modi culturalmente caratterizzanti di superare i numerosi condizionamenti limitativi del suo agire, per verificarne varie dimensioni e connessioni reattive e trasformative, da lui praticate e sostenute per modificare le sue condizioni e le sue relazioni e, congiuntamente, anche sé stesso. Vediamo da vicino, pertanto, alcune delle limitanti esperienze quotidiane in cui Gramsci, tuttavia, agiva e reagiva per superarle

Nella trama narrativa, il locus, il tempus, il modus di certe esperienze costrittive ma anche liberatrici di Gramsci sono a Torino, città che nel 1911 è particolarmente cara per vivere (Pendinelli-Sorgi 2021:26). Diventando industriale, Torino ospita l’Esposizione Universale. La città contiene pertanto espositivamente la grande trasformazione del mondo industriale internazionale. Il piccolo contiene il grande. Tale dilatata dimensione spaziale appare anche nella stanza della pensione di Antonio. In quella stanza è contenuta Torino con la sua fame urbana, incorporata in Gramsci. Nel contesto piccolo ma esteso della stanza torinese appare Gramsci che patisce e che congiuntamente reagisce. Egli non è in condizioni di pagare l’affitto perché ancora non percepisce le settanta lire mensili della borsa di studio, scrive e racconta di sé: «Un periodo nel quale fui gravemente ammalato per il freddo e la denutrizione» (Pendinelli-Sorgi 2021:24).

Appare un frammento poco noto di autobiografia gramsciana (Pendinelli-Sorgi 2021:25). Nel racconto, usando le note di Peppino Fiori sulla vita di Gramsci, Sorgi riporta le precise spiegazioni che motivano la richiesta di Antonio a suo padre per ottenere indispensabili integrazioni finanziarie, documentando una dettagliata contabilità delle sue spese mensili e quotidiane per poter vivere. Nel libro vediamo pertanto i modi in cui Gramsci subiva e nel contempo agiva e reagiva non solo in ambito familiare, ma studiando e lavorando, per diventare soggetto autonomo e per rispondere attivamente ai rischi di assoggettamenti alla fame e alla salute. Tali assoggettamenti hanno una certa assonanza, salve le debite differenziazioni storiche, con diffusi patimenti dell’attuale difficile poter vivere, secondo le generazioni e i generi, le condizioni sociali e i luoghi.

2 Soggettivazioni autonome come elementi gramsciani costitutivi del socialismo pluralista

L’autonomia dis-assoggettante di Gramsci si realizzò in molti versanti. Oltre che nei confronti delle penurie alimentari e di salute, si materializzò politicamente nei confronti sia del fascismo e di Mussolini, sia dell’autoritarismo di Stalin, contrastando le ingerenze staliniane nella linea politica della Terza Internazionale. Su questa fase di difficile autonomia per il comunismo italiano Umberto Terracini fornisce alcune informazioni importanti, raccontando le proprie vicende nella vita carceraria. Al fine di definire meglio il coerente profilo politico-culturale dis-assoggettante di Gramsci per sé e per gli altri, personale e collettivo, è utile seguire più da vicino il suo pensiero. Si possono così mettere in luce le sue coerenze politico-culturali a proposito del divenire storicamente soggetti autonomi, individualmente e collettivamente, in un processo politico-culturale che, antropologicamente, possiamo definire di soggettivazione autonoma storicamente dis-assoggettante.

La questione dell’egemonia politica, come cultura condivisa e del consenso validante la premessa alla conquista del potere, nella visione gramsciana di un politico Ordine nuovo, è ben messa a fuoco nel libro fin dalle prime pagine (Pendinelli-Sorgi 2021:19). In particolare emerge quando Sorgi afferma (Pendinelli-Sorgi 2021:59) che Gramsci riteneva che i Consigli di fabbrica, eletti da tutti i dipendenti, anche non iscritti ai sindacati contrariamente a quanto sosteneva Tasca, potessero costruire un modello di democrazia socialista, fondato sulla partecipazione e sul consenso propedeutico e non conseguente alla presa del potere. Si tratta di un punto che ha una sua risonanza nell’attualità e nel nuovo modello di socialismo partecipativo proposto per esempio, con tutte le storiche differenze da considerare, dall’ultimo Piketty (2020 e 2021).

Nella soggettivazione collettiva in corso d’istituzionalizzazione dei Consigli di fabbrica possiamo vedere il campo aperto da Gramsci alle opportunità di farsi e di diventare nuovi soggetti non solo collettivi, ma anche individuali in corso d’opera poiché nel collettivo è possibile una specifica valorizzazione individuale, per Gramsci come per Simondon (1989). Tali nuove soggettivazioni potenzianti, collettive e individuali, furono precluse dal fascismo subordinante e uniformante, dalle fascistissime leggi anti-libertarie che proseguirono poi fino a quelle razziali del 1938, mentre continuavano le sconfitte delle opposizioni democratiche.

Nel testo (Pendinelli-Sorgi 2021:36) Sorgi afferma che, nella crisi democratica del fascismo, «Gramsci riesce a cogliere con lucidità impressionante l’inizio della decadenza delle nostre democrazie». Egli cita a tal proposito un denso pensiero di Gramsci: «La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere». Tale crisi democratica, con le sue configurazioni di apocalissi culturali e politiche, richiede qualche considerazione. Conto di riprenderla nella parte finale delle mie riflessioni.

La nozione di Gramsci sullo stallo della crisi, a mio avviso, è assai problematica e domanda di essere subito storicizzata. La data, nel corso del pensiero gramsciano, è del 1930. Si trova nel primo volume dell’edizione dei Quaderni curata da Valentino Gerratana (Q 3 1975:311). La problematica questione del blocco della crisi è collegata alla questione dei giovani, determinata dalla crisi di autorità delle vecchie generazioni dirigenti. Nello stesso Quaderno 3 Gramsci affronta l’analisi delle situazioni in cui manca un’attività culturale del partito e, nella crisi, individua che il singolo si fa la cultura come può, da «sovversivo», con un odio generico che è il «primo barlume» di coscienza di classe crepuscolare. Fra i sovversivi possono essere identificati due strati distinti di «morti di fame», quello dei giornalieri agricoli e quello dei piccoli proprietari, entrambi protagonisti di sovversivismi con due facce politiche, ma che vanno sempre a destra nei momenti decisivi (Q 3 1975: 323-325). Le note di Gramsci sui sovversivismi hanno, in tutta evidenza, una particolare risonanza nella crisi della nostra difficile contemporaneità.

Ritroviamo ulteriori tracce delle attenzioni di Gramsci alle dinamiche di assoggettamenti e di mancate soggettivazioni, subite o accettate, quando egli rivolge le sue critiche alle manifestazioni storiche di conformismo socio-culturale e alle passività culturali e politiche verso i poteri dominanti da parte della sinistra. Gramsci rilevava vari elementi di passività e di inadeguatezza storica nel partito socialista: la paura di responsabilità concrete, nessuna unione con la classe rappresentata, nessuna comprensione dei suoi bisogni fondamentali, delle sue aspirazioni, delle sue energie latenti. Egli, per quanto ribadisse l’importanza delle lotte organizzate, tuttavia giudicava lo spontaneismo del 1919-1920 una prova schiacciante dell’inettitudine di quel partito socialista. A suo avviso, si trattava di esperienze che, pur con i loro limiti spontaneistici, facevano uscire dalla passività strati sociali stagnanti, strati che creavano paure nelle forze repressive, spietate nel soffocarli. Anche su certe passività dei partiti della sinistra e su certi fervori spontaneistici non mancano risonanze gramsciane nel nostro tormentato presente. Cerchiamo di fare qualche passo avanti e di assumere i vari richiami culturali di Gramsci sull’importanza cruciale di non di essere soggetti fatti da altri, ma di diventare autonomamente soggetti storici culturali e politici, individuali e collettivi.

3 Soggettivazione individuale gramsciana socialmente responsabile, come connotato d’individualismo progressista

A questo punto, per scrutare i multipli livelli antropologici del comunismo gramsciano, sarà utile individuare l’attenzione di Gramsci verso l’individualità, e pertanto fare insieme qualche passo fuori da questo libro. Egli, fortemente critico verso i limiti di un certo individualismo possessivo borghese, appariva attentissimo a che cosa l’uomo può diventare, anche la domanda si poneva domandandosi che cosa è l’uomo. La domanda nasceva (Q 10:1344) da ciò che abbiamo riflettuto su noi stessi e sugli altri e vogliamo sapere, in rapporto a ciò che abbiamo riflettuto e visto, cosa siamo e cosa possiamo diventare, se realmente ed entro quali limiti siamo «fabbri di noi stessi», nostra vita, del nostro destino. E ciò vogliamo saperlo «oggi», nelle condizioni date oggi, della vita «odierna» e non di qualsiasi vita e di qualsiasi uomo. (corsivo mio)

A questa prima e principale domanda della filosofia, Gramsci rispondeva asserendo che (Q 10:1345) noccorre concepire l’uomo come una serie di rapporti attivi (un processo), in cui se l’individualità ha la massima importanza, non è però il solo elemento da considerare. L’umanità che si riflette in ogni individualità è composta di diversi elementi: 1) l’individuo; 2) gli altri uomini; 3) la natura. Ma il 2* e il 3* elemento non sono così semplici come potrebbe apparire. L’individuo non entra in rapporti con gli altri uomini per giustapposizione, ma organicamente, cioè in quanto entra a far parte di organismi dai più semplici ai più complessi. Così l’uomo non entra in rapporto con la natura semplicemente, per il fatto di essere egli stesso natura, ma attivamente, per mezzo del lavoro e della tecnica. Ancora. Questi rapporti non sono meccanici. Sono attivi e coscienti, cioè corrispondono a un grado maggiore o minore d’intelligenza che di essi ha il singolo uomo. Perciò si può dire che ognuno cambia se (sic) stesso, si modifica, nella misura in cui cambia e modifica tutto il complesso di rapporti di cui egli è il centro di annodamento. (corsivo mio)

Si tratta di una concezione di straordinaria rilevanza antropologica per vari aspetti: per l’importanza attribuita all’impegno individuale trasformativo di sé; per la rilevanza attribuita al grado di qualità intellettuale esercitata dal singolo nell’attività lavorativa e tecnica; per la consistenza sociale dei rapporti in cui l’individualità agisce; per l’imprescindibilità della relazione attiva con la natura. Per tali aspetti Gramsci metteva in luce il carattere dinamico-modificativo dell’agire del singolo uomo nel cambiare sé stesso cambiando i suoi rapporti con gli altri e con la natura, attraverso il lavoro e la tecnica. Egli sosteneva che bisognava elaborare una filosofia in cui i rapporti individuali con gli altri appaiono attivi e in movimento, fissando ben chiaro che la sede di questa attività è la coscienza dell’uomo singolo. Non si trattava per lui di una coscienza inerte o contemplativa, ma di una consapevolezza agente e creativa nelle pratiche, nella praxis, secondo le personali concezioni del mondo e della vita, agendo con altre persone nella società e nella natura. Egli, d’altra parte, era anche assai vigile verso le esperienze che riducevano la persona umana a mera naturalità o perfino a bestialità. Infatti, osservava criticamente gli sviluppi dell’«animalità» dell’uomo nell’industrialismo americano tayloristico e ricordava la frase di Frederick Taylor sull’operaio come «gorilla ammaestrato». (Q 22:2165). Egli era attento sia alla soggettivazione e sia alla de-soggettivazione, sia al potenziamento e sia al de-potenziamento delle qualità personali, sia alla formazione dell’uomo filosofo nella prassi critico-innovativa e sia alla riduzione ad animalità dell’umanità individuale e collettiva.

Gramsci rilevava nel 1934 la rottura del vecchio nesso psico-fisico del lavoro qualificato. Questa rottura era accompagnata dalle iniziative puritane che avevano il fine di conservare, fuori dall’attività lavorativa, un certo equilibrio psico-fisico al lavoratore, socialmente disciplinato. Vorrei ricordare che la questione della dis-umanizzazione e dell’umanizzazione del lavoro in epoca tyloristica, a partire dagli anni trenta del Novecento, riguardò nella Sardegna mineraria specialmente i cottimi, in cui l’accelerazione produttiva spinta al massimo abbassava l’attenzione verso i rischi di vita, incombenti sui lavoratori nel sottosuolo. Altre forme di cottimo sono tornate in auge più di recente con la gig economy, mostrando la reversibilità delle conquiste democratiche e la portata del regressismo neoliberista. I nuovi cottimi, pertanto, mostrano nuovi assoggettamenti e anche la necessità di nuovi dis-assoggettamenti, per quanto in un ordine storico-culturale differente dai tempi di Gramsci.

Le questioni degli asservimenti e delle passività, degli assoggettamenti e delle inerzie, dei conformismi e dei burocratismi, costituiscono la faccia critica delle mancate soggettivazioni. Invece, i dis-assoggettamenti e le alternative modellizzazioni culturali e politiche, offrono i punti cruciali per rilevare l’attenzione di Gramsci verso ogni individualità, sia per le fragilità e sia per le forze psico-fisiche. La differente e progressiva soggettivazione socialmente responsabile proposta da Gramsci rispetto al regressivo individualismo proprietario socialmente irresponsabile, è da lui valorizzata. Si tratta di una soggettivazione culturale e politica progressista e di umanità espansiva con forti risonanze nel nostro presente in confronto con altre soggettivazioni regressive e di umanità riduttiva. Vediamo ora qualche elemento che tocca i modi di farsi e di diventare soggetti collettivi.

4 Soggettivazione collettiva gramsciana, subalternità delle sinistre al neoliberismo e morte del comunismo

Il modello gramsciano di socialismo come soggettivazione collettiva unitaria e pluralistica, democraticamente autoeducantesi e partecipante dal basso, fu assai performativo per il PCI. Tuttavia nel libro, verificata l’originalità del comunismo italiano, si pone un’altra fondamentale domanda d’inchiesta: che cosa ne causò la morte? Chi lo uccise? (Pendinelli-Sorgi 2021:232). Qui il testo assume i toni del giallo e della spy story.

Sorgi afferma che il partito comunista italiano trovò poi il punto più alto e l’inizio del declino con il compromesso storico di Berlinguer, come appare dal quadro storico che richiama. L’autore afferma che l’evoluzione del PCI dal 1921 fu assai lenta (Pendinelli-Sorgi 2021:233) e che il crollo del socialismo fu strutturale. Il nuovo modello consumistico del neocapitalismo e poi del «super capitalismo» (Pendinelli-Sorgi 2021:234) mostrava in più di cinquant’anni che il modello occidentale era vincente rispetto al modello sovietico. Il modello del consumismo realizzava in parte un ascensore sociale, mentre alla lunga faceva aumentare vertiginosamente le diseguaglianze, le insicurezze lavorative, le paure del futuro (Pendinelli-Sorgi 2021:235). Sorgi puntualizza che il tormentone nel PCI durò più di un anno e mezzo, dalla svolta di Occhetto nel 12 novembre 1989 al congresso di Rimini nel 31 gennaio 1991. Egli sottolinea che quell’anno segnò la data di due funerali: quello dell’originale e pluralistico comunismo italiano e quello del glaciale e monolitico comunismo sovietico.

Sorgi spiega che il PDS, di fatto, seguì acriticamente la linea liberista di Bill Clinton e di Tony Blair che assumevano il lascito di Reagan e della Thacher: il capitalismo finanziario che sostituiva quello manifatturiero con le privatizzazioni frettolose, senza un disegno unitario. Prevalse, come dice D’Alema nell’intervista riportata, l’illusione che la globalizzazione rappresentasse una grande occasione. In realtà, si realizzò, come emerge nello scritto, una forma di subalternità culturale e politica al liberismo imperante, con l’accettazione della deregulation, di un neocapitalismo senza controlli, e con la conseguente accentuazione delle diseguaglianze e della destrutturazione della società occidentale (Pendinelli-Sorgi 2021:235-236). Il racconto storico-politico più recente procede nel libro fra le temporalità della globalizzazione e delle macerie della finanza creativa, della svalutazione del lavoro (Pendinelli-Sorgi 2021:246), delle accentuate e rischiose diseguaglianze all’interno delle società occidentali. L’orientamento del testo corrisponde a critiche e proposte assai interessanti che compaiono anche nel migliore orizzonte della recente letteratura economica democratica.

In questo percorso viene attraversato il nodo dell’arretramento delle sinistre occidentali che vorrei affrontare collegando certe analisi dell’ultimo Piketty alla berlingueriana «questione morale del Paese».

5 Questioni politiche della berlingueriana questione morale e dell’austerità

Vorrei accostare alcune analisi del libro di Piketty, Capitale e ideologia del 2020, sulla trasformazione dei partiti della sinistra europea, all’intervista di Berlinguer a Scalfari del 1981 ripresa da Pendinelli-Sorgi (2021:207), sulla «questione morale del Paese», cioè sulla degenerazione dei partiti in macchine di potere e di clientela, su un sistema di potere mirato all’occupazione dello Stato. Con la «questione morale del Paese» Berlinguer indicava una situazione di crisi e di stallo, differente da quella indicata da Gramsci nel 1930 con il PCd’I disciolto e i suoi dirigenti fuoriusciti o in carcere. Tuttavia, poteva essere detto anche nel 1981 che «la crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere». Ma quali erano le nuove cause della storica crisi, in particolare delle sinistre?

Piketty volge lo sguardo ai cambiamenti sociali. Non entro nel merito della duplice rivoluzione antropologica di cui egli parla per la fase dell’avanzata dello Stato sociale nella sua ultima opera, Una breve storia dell’uguaglianza (Piketty 2021:204-249). Assumo, invece, la sua domanda. Perché le coalizioni egualitarie mostrarono debolezze, a partire dagli anni ottanta nella mancanza di un progetto unitario, sia a sostegno dello Stato sociale e sia a sostegno dell’imposta progressiva? Piketty nel 2020 aveva ripreso e sostenuto l’ipotesi del cambiamento sociale dell’elettorato di sinistra e delle stesse sinistre che rappresentavano la «“sinistra intellettuale benestante”» in Francia, negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Aveva distinto invece l’Italia, lacerata da fenomeni di corruzione.

La peculiarità del caso italiano, rispetto alle altre democrazie elettorali occidentali, secondo Piketty, è costituita dal fatto che il sistema dei partiti del dopoguerra crollò per gli scandali di corruzione messi in luce dalle inchieste di “Mani pulite” nel 1992, con la caduta della DC e del Partito Socialista e il sorgere del partito leaderistico di Berlusconi e la Lega come partito antitasse e antiimmigrati. Alla sinistra, il PDS nel 1991 si trasformò in PD nel 2007 con un obiettivo unificante. Le politiche del PD renziano e specialmente del Jobs Act nel 2014, secondo questo studioso, «hanno contribuito a consolidare l’opinione che il partito non avesse più nulla a che fare con le sue origini socialiste e comuniste del dopo-guerra» (Piketty 2020:993). Questo, in estrema sintesi, è il discorso di Piketty.

Manca in questo socio-economista qualsiasi accenno alla questione morale, posta da Berlinguer come questione politico-istituzionale già undici anni prima che se ne occupasse la magistratura. Pertanto, è bene tornare ora al testo che invece individua questo nodo socio-politico, mentre Piketty non coglie pienamente né il carattere politico, né l’anticipazione politica di Berlinguer rispetto all’intervento della magistratura sulla corruzione.

Nella berlingueriana questione morale erano presenti vari piani di crisi politica, come emerge nel libro. Il punto essenziale della crisi italiana era costituito dalla degenerazione dei partiti al potere, con l’involuzione democratica che riguardava il rapporto fra istituzioni e partiti. Inoltre era criticata la loro «occupazione dello Stato» con la conseguente trasformazione dello stesso Stato nelle sue varie articolazioni, con la perversione e con il restringimento della democrazia. L’analisi di Berlinguer risulta immediatamente politica e istituzionale, incentrata sui poteri e sul sistema di potere, rispetto a quella successiva di Piketty, o mediata da mutazioni socio-culturali in Occidente o causata dall’intervento della magistratura in Italia. L’analisi della degenerazione dei partiti fatta da Berlinguer individuava precisi elementi politici che è utile richiamare proprio per esporre la rilevanza politico-istituzionale della questione morale:

…I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contradditori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “ sotto-boss”. La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la DC: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora…

…Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico…sopraffazioni… favoritismi…discriminazioni

Oltre che cambiare il sistema di potere imperniato sulla DC, era necessario discutere del modo in cui superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema:

giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell’attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione.

Berlinguer differenziava nettamente le sue posizioni da quelle della socialdemocrazia:

La socialdemocrazia (parlo di quella seria, s’intende) si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati e poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne.

Le questioni politico-istituzionali della berlingueriana “questione morale del Paese” non erano avulse da questioni sociopolitiche che sostenevano l’alternativa e il differenzialismo berlingueriano. I problemi dei rischi della fame nei ceti poveri e popolari erano conosciuti da Berlinguer che aveva partecipato a manifestazioni per il caroviveri nel 1944 a Sassari, dove aveva trascorso 100 giorni in carcere. La sua attenzione politica per gli emarginati e per i ceti proletari assoggettati emerge analizzando la posizione assunta dall’ultimo Berlinguer verso la configurazione politica delle donne nell’alternativa.

Lo storico Silvio Pons ha recentemente messo in rilievo il modello di partito differenzialista ed eccezionalista prospettato dal Berlinguer con l’alternativa, come appare nel testo Dialogo sul PCI, edito recentemente da Italiani Europei (AA.VV. 2021:19). Il vivace dibattito mostra che la diversità di modelli culturali indicati da Berlinguer, sia per il sistema dei partiti nello Stato e sia per lo stesso PCI, riguardava una diversità sostanzialmente politica. Se si rilegge il testo di quell’intervista, appare chiaro che la diversità del PCI, presentata da Berlinguer in primo luogo in quanto differenziante rispetto alle socialdemocrazie, riguardava il superamento di un certo operaismo socialdemocratico e determinava, in particolare, l’apertura di una politica verso gli strati emarginati della società a cominciare dalle donne, come ebbe a dire in varie occasioni.

Cominciare dalle donne impegnava a realizzare un’alternativa politica innovativa rispetto alla situazione e ai poteri politico-culturali dominanti nella questione morale del paese. Induceva a produrre una forte innovazione rispetto all’adattamento storico, paternalista e liberista, dell’ethos del lavoro femminile a quello maschile. Anzi determinava, al contrario, un adattamento socio-politico all’ethos del lavoro delle donne. Tale nuova e ampia apertura era concepita nel quadro di una complessiva e innovativa strategia democratica che doveva caratterizzare l’eurocomunismo e che poteva avvicinare anche socialisti e comunisti, in un’ampia alternativa democratica italiana da realizzare storicamente.

Quali erano i limiti soggettivi del PCI che determinavano un suo indebolimento? Fra gli errori specifici del PCI, l’ultimo Berlinguer individuava il verticismo, il burocratismo e l’opportunismo. A ben riflettere, vediamo storicamente nel PCI berlingueriano la risonanza di alcuni rischi di trasformazione e di indebolimento democratico, in una certa misura analoghi a quelli che nel 1926 Gramsci vedeva impliciti nelle logiche di una certa inerzia e di certe astrazioni burocratiche espresse da Togliatti, e da Gramsci fortemente e ripetutamente contrastate. La degenerazione dei partiti e la crisi della democrazia riguardava, in una certa misura e in un certo modo, specifici difetti latenti nel mondo politico del PCI berlingueriano. Di tali critiche volte all’interno del suo partito, a mio avviso, non si è discusso in modo efficace né all’interno e né all’esterno del PCI. Quale tipo di verticismo, di burocratismo, di opportunismo Berlinguer vedeva presente e rischioso nel PCI del 1981, mentre il neoliberismo montava? Quale evoluzione o involuzione ebbero tali elementi che depotenziavano l’esigenza alternativista da lui posta nell’agenda programmatica?

La berlingueriana “questione morale” è stata accompagnata, dentro e fuori dal PCI, da varie interpretazioni: riduttivistiche, distorsive, fuorvianti. Parimenti, è stata poco valorizzata la posizione di Berlinguer che, fra i mali socioeconomici in quel periodo d’inflazione, indicava il problema della disoccupazione e l’obiettivo dell’occupazione per coniugare austerità ed equità. La cruciale questione morale è stata ed è ancora assai controversa sia negli scritti e sia nelle discussioni che animano il centenario pensiero del comunismo italiano di matrice gramsciana. Le interpretazioni riduttivistiche, distorsive, fuorvianti, su tale questione non hanno migliorato i soggetti collettivi de-potenziati e deboli succedanei al PCI. Cresceva e cresce con l’astensionismo il distacco elettorale dai partiti, anche della sinistra.

Il modello politico differenzialista, eccezionalista, alternativista di Berlinguer che emerse con l’alternativa democratica è stato difeso da Aldo Tortorella che ha colto nella prospettiva indicata da Berlinguer l’urgente esigenza politica di cambiare il programma della sinistra e del PCI guardando sia al femminismo della differenza che contrastava l’alleanza fra capitalismo e patriarcato, sia all’ecologismo che si opponeva al modello di sviluppo capitalistico, sia al pacifismo che manifestava contro le installazioni di missili in Occidente e in Oriente. L’ultimo Berlinguer, secondo Tortorella, cercava di promuovere una nuova identità politica per il PCI, non di conservare la vecchia (AA.VV. 2021:25). Il nuovo che Berlinguer intendeva promuovere, con certi orientamenti di traduzione gramsciana, fu sostituito da un “nuovismo” subalterno al neoliberismo. Il quadro differenzialista berlingueriano rispetto ai socialismi realizzati e a quelli non allineati ebbe una conseguente decisione berlingueriana nel 1983, con la rinuncia all’«oro di Mosca» (Pendinelli-Sorgi 2021:227) di cui parlò Cervetti con la sua pubblicazione del 1994.

Nella specificità del pensiero berlingueriano mi pare utile rilevare la forte tensione verso estesi cambiamenti politici che toccavano vari assoggettamenti e dis-assoggettamenti. In primo luogo tali cambiamenti toccavano ai partiti clientelari che occupavano le istituzioni statali. Invece, un cambiamento di specifica autonomia per il PCI berlingueriano riguardò l’affrancamento dall’«oro di Mosca». Altri depotenziamenti interni della soggettività comunista italiana -come il verticismo, il burocratismo, l’opportunismo rilevati da Berlinguer- rimasero sottaciuti o celati, comunque latenti nel partito berlingueriano. Nell’impulso critico anti-verticistico, anti-burocratico, anti-opportunistico, Berlinguer riuscì a marcare fortemente la propria personalità politico-culturale democratica, dinamica, rigorosa. Tuttavia, egli ebbe poco tempo per un’azione di cambiamento del partito che richiedeva lunga lena e maggiori convincimenti ampiamente cooperativi oltre che profondamente innovativi all’interno dello stesso partito. Tracce in parte evolute di burocratismo, di verticismo, di opportunismo si possono forse rintracciare e interpretare in alcune formazioni succedanee al PCI, ma una tale analisi esula dai miei attuali propositi.

Vediamo da vicino la narrazione del PCI dopo Berlinguer fatta da Sorgi. Il PCI fu sostituito nel 1991 con il PDS che in quel decennio con Occhetto e D’Alema realizzò un modello assai rissoso e diviso. Infatti, continuava la frattura fra il sì e il no alla svolta. Il successore del PDS, fu prima il DS (1998-2007) con Veltroni e Fassino, e poi il PD nato nel 2007 con Veltroni, seguito poi da numerosi successori. Quel percorso è problematizzato da Sorgi con considerazioni che toccano sia la nuova sinistra di Bill Clinton e Tony Blair i quali si gettarono a capofitto nel supercapitalismo. La sinistra italiana aderì in modo subalterno al liberismo imperante e alla nuova sinistra subalterna al neoliberismo. I problemi aumentarono con la crisi economica del 2008 che aprì la strada alla nascita di una nuova destra che faceva leva sul malessere sociale, lo trasformava in odio e in egoismo, mettendo in crisi i modelli di democrazia liberale.

Il libro, come ho detto, si fa apprezzare anche per una particolare attenzione verso i contributi politici delle donne in ambito nazionale e internazionale. Ovviamente, si tratta di affrontare ora altri temi per un futuro democratico di grande cimento per la sinistra, soprattutto l’aumento delle disuguaglianze, in particolare da quelle di genere. Unendo certi punti del pensiero di Gramsci e di Berlinguer che appaiono in questo libro, bisogna ora ripartire dalle donne, dai loro bisogni di democrazia politica partecipativa egualitaria, dai loro nuovi rischi di vita e dal loro ethos di vita, di cui i femminicidi e le loro libertà uccise sono solo la punta visibile.

Vorrei situare le nuove subalternità di genere, determinate dal neoliberismo, nel quadro di riferimento che il pensiero di Gramsci ha assunto in ambito mondiale con straordinaria rilevanza sia negli studi politici, filosofici, e specialmente antropologici sulle subalternità, i cosiddetti Subalten Studies. La rilevanza del pensiero gramsciano, inoltre, emerge in importanti ambiti del femminismo da Gayatri Chakravorty Spivak a Judith Butler a Nancy Frazer. In tal quadro, vorrei ricordare che in Italia il pensiero di Gramsci ha alimentato specifici orientamenti antropologici. Ha suscitato confronti da parte Ernesto de Martino nelle sue note su La Fine del mondo e nelle sue analisi sulle apocalissi culturali. Ha orientato Alberto Mario Cirese, come dice il titolo del suo manuale Cultura egemonica e culture subalterne. Nelle Università la cosiddetta “Scuola di Cagliari”, di orientamento marxiano e gramsciano, demartiniano e ciresiano specialmente in Italia, ha orientato l’antropologia del lavoro e l’antropologia industriale mineraria.

Il quadro del dibattito su Gramsci è piuttosto vivace a vari livelli. Per esempio, Kate Crehan (2010:21) ha affermato che l’approccio culturale accademico ha limitato il pensiero politico di Gramsci. All’opposto, si può affermare che molte interpretazioni politiciste del pensiero gramsciano hanno limitato l’ampia portata politico-culturale del suo pensiero, oscurandone le importanti valenze culturali che intrecciano e rafforzano le sue elaborazioni politiche. Il dibattito su Berlinguer pare di difficile decifrazione. La questione della svolta della Bolognina, posta per lo più come unica discontinuità rinnovatrice possibile, oscura in grande misura i temi e i problemi critici posti dall’incipiente svolta alternativista berlingueriana.

6 Attuale crisi a partire dal difficile poter vivere delle donne

Infine, avviandomi alle conclusioni, vorrei riprendere l’importante frase di Gramsci riportata da Sorgi, che riprende una citazione dello storico britannico Donald Sassoon, ed è considerata di straordinaria lucidità e capacità di sguardo con lunga gittata (Pendinelli-Sorgi 2021:36):

«Il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati»

Questa frase è assunta come cruciale nelle riflessioni di una recente pubblicazione della filosofa e teorica femminista Nancy Frazer (2019:30) mentre, in parte abbreviata, è stata usata nel titolo della traduzione italiana del suo saggio. Accostare questi punti d’incontro fra due autori, Frazer e Sorgi, che si riferiscono alla problematicità della crisi attuale riferendosi a questo passo riflessivo di Gramsci, è di uno straordinario interesse culturale e politico che mi limito a indicare in estrema sintesi. Segnalo, inoltre, che anche Noam Chomsky cita questa frase di Gramsci nel suo ultimo libro pubblicato in Italia Precipizio. Il capitale all’attacco della democrazia e il dovere di cambiare rotta (Chomsky 2021:12).

Secondo la Frazer, l’attuale crisi è una crisi di egemonia del neoliberismo e del suo blocco egemonico, sia nella versione del neoliberismo progressista dei nuovi democratici, alla Clinton o alla Obama o alla Blair, sia nella versione del neoliberismo reazionario alla Trump. L’analisi di questa filosofa è assai puntuale e articolata per le politiche dei due fronti e per le scelte culturali che le hanno caratterizzate. Le parole di Gramsci suonano vere nel presente, per questa studiosa. Direi, pertanto, che questa filosofa ha una posizione assai prossima a quella di Marcello Sorgi quando, concludendo il suo scritto, egli pone il problema di ricominciare da Gramsci, rivolgendosi a una sinistra che abbia voglia di ricominciare.

La Frazer afferma che l’egemonia neoliberista è in crisi, ma la sua politica rimane in vigore, specialmente contro la regolamentazione finanziaria e contro l’aumento delle tasse progressive. La sinistra ha un sacco di lavoro da fare sul piano programmatico e organizzativo. Manca, infatti, una visione programmatica e una prospettiva organizzativa che comprenda in senso gramsciano le nuove povertà e le nuove subalternità delle donne assoggettate, nel loro difficile poter vivere assai rischioso della nostra contemporaneità.

Per cominciare dalle varie ineguaglianze delle donne e per una nuova democrazia locale, europea e internazionale, la Frazer richiama anche le donne a serie scelte culturali e politiche. In primo luogo è necessario perseguire il femminismo del 99%, anziché quello del farsi avanti egocentrato e indifferente alle responsabilità sociali, proprio del femminismo elitario dell’1%. Conseguentemente, ciò richiede di tener conto delle intersezioni che toccano differentemente le donne nelle loro nuove subalternità determinate dai neoliberismi, sia progressisti e sia reazionari, riguardando le loro opportunità di vita lavorativa e riproduttiva nelle condizioni locali e ambientali: dai luoghi di emarginazione e di spopolamento, di disoccupazione e di emigrazione, a quelli d’inquinamento e di degrado ambientale, di carenze di servizi sanitari ed educativi. L’intersezione o l’intreccio di specifiche condizioni di vita delle donne, ne caratterizza la specifica configurazione culturale e politica individuale e di gruppo nella nostra contemporaneità.

Le questioni più pressanti riguardano il lavoro di cittadinanza; le tutele positive per le donne; il rapporto tra lavoro retribuito, quello retribuito al di sotto dei minimi di sussistenza, quello non retribuito affatto; il rapporto fra produzione e riproduzione sociale, compresi i lavori di cura, per nominare solo alcune urgenze. Tali urgenze tratteggiano le prime linee di un quadro programmatico, orientato a partire dalle donne, negoziato politicamente e sindacalmente, e da organizzare in una nuova agenda democratica a partire dalle donne. Si tratta di questioni che chiamano in campo i partiti e i sindacati, le associazioni e la stampa progressista, per materializzare e diffondere una nuova e forte alleanza di genere e fra i generi per un nuovo assetto di società che promuova nuove soggettivazioni democratiche, individuali e collettive, sociali e istituzionali.

Centrali questioni storico-antropologiche, specialmente gramsciane e berlingueriane, si presentano in questo libro come questioni attuali e vive e che appellano ogni-una e ogni-uno di noi democratici. Ringrazio quindi gli autori per quest’opera in cui chiamano in causa specialmente il pensiero di Gramsci e di Berlinguer, in un promemoria assai importante e pressante per nuovi cimenti democratici nell’attuale e complessa crisi.

Paola Atzeni

Cagliari, 10 gennaio 2022

Riferimenti bibliografici

AA.VV. 2021

Il nostro Partito. Dialogo sul PCI, Roma, Edizioni Solaris

Chomsky, N. 2021

Precipizio. Il capitale all’attacco della democrazia e il dovere di cambiare rotta, Milano, Ponte alle Grazie, ed. or. 2021

Crehan. K. 2010

Gramsci, cultura e antropologia, Lecce, Argo, ed. or. 2002

Fraser, N. 2019

Il vecchio muore e il nuovo non può nascere. Dal neoliberismo progressista a Trump e oltre, Verona, Ombre corte, ed. or. 2019

Fresu, G. 2019

Antonio Gramsci. L’uomo filosofo, Cagliari, Aipsa Edizioni

Gramsci, A. 1975

Quaderni del Carcere, a cura di Gerratana, V., Torino, Einaudi

Pendinelli, M. – Sorgi, M. 2020

Quando c’erano i comunisti. I cento anni del PCI tra cronaca e storia, Venezia, Marsilio

Piketty, T. 2020

Capitale e ideologia, Milano, La nave di Teseo, ed. or. 2020

Piketty, T. 2021

Una breve storia dell’uguaglianza, Milano, La nave di Teseo, ed. or. 2021

Simondon, G. 2001

L’individuazione psichica e collettiva, Roma DeriveApprodi, ed. or. 1989

Paola Atzeni (Cagliari 1940) è stata la prima docente in Italia di Storia della Cultura Materiale, cattedra istituita per la prima volta nel 1986, nell’Università Cagliari. Ha condotto le sue ricerche specialmente nel campo delle tecnologie e delle ontologie minerarie. Fra i suoi lavori: 1989, Il corpo, i gesti, lo stile. Lavori delle donne in Sardegna, Cagliari, CUEC; 2007,Tra il dire e il fare. Cultura materiale della gente di miniera in Sardegna, Cagliari, CUEC, (1^ ed. 1988); 2017, Saper vivere. Antropologia mineraria della Sardegna nell’Antropocene, http://www.parcogeominerario.eu/images/Documenti_Ufficio_Stampa/P_Atzeni_Saper%20Vivere_Rev.pdf; 2017, Saper vivere nel Gerrei minerario della globalizzazione, in AA.VV., Miniere e minatori nelle terre del Gerrei, Villanova Monteleone, Soter editrice; 2018, La cultura dei minatori delle Alpi. Una svolta negli studi antropologici italiani?, in «Lares», n. 2, maggio-agosto