5 December, 2025
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La mostra “I luoghi e le parole di Enrico Berlinguer”, che si svolge attualmente a Cagliari, richiama tra l’altro il legame tra Berlinguer e la Sardegna.

Proprio per dare un significato a questo legame, può essere utile leggere l’articolo che Ugo Baduel, giornalista di riconosciuto prestigio professionale, scrive per informare su due importanti comizi tenuti dall’allora segretario del PCI, a Carbonia e a Cagliari, rispettivamente l’8 e il 9 giugno 1974, durante la campagna elettorale per le elezioni regionali. Il testo giornalistico è accompagnato da commenti interpretativi sulle parole di Berlinguer e sulle notizie di contesto che l’autore offre al nostro presente per conoscere luoghi e tempi e modi in cui pensiero culturale e politico di Berlinguer si è diffuso, diventando condiviso e popolare. Iniziamo dal testo di questo articolo facendolo seguire da ricordi personali su Berlinguer, non celebrativi ma impegnativi, che il confronto con le sue parole incoraggiava e incoraggia ancora. L’articolo di Ugo Baduel, comparve su L’Unità del 10 giugno

Berlinguer a Carbonia e a Cagliari

Dalla Sardegna una riprova del malgoverno DC – Rompere il vecchio sistema di potere, conquistare una nuova direzione politica – Senza i comunisti non è possibile raggiungere l’obiettivo del rinnovamento dell’isola nell’interesse di tutto il Paese – CAGLIARI, 9 giugno

«Carbonia è un nome ben presente nella mente di tutti i lavoratori, in Sardegna e fuori della Sardegna. Tutti hanno nella memoria le tante e gloriose lotte proletarie e popolari che da anni, e fino all’ultimo sciopero di pochi giorni fa, hanno segnato il cammino – ora vittorioso, ora sfortunato – dei lavoratori del Sulcis Iglesiente in difesa dell’occupazione, contro il carovita, per la ripresa delle attività estrattive nelle miniere di carbone e per lo sviluppo delle altre attività minerarie e metallurgiche. Il segretario generale del partito.»

Enrico Berlinguer, ha cominciato con queste parole ieri sera, nella piazza di Carbonia, il suo discorso che è il primo del viaggio elettorale in Sardegna: un punto di partenza significativo. Dietro al palco, sulle mura del palazzo comunale, spiccava in rosso la scritta: «Brescia: fascisti assassini»; su un palazzo vicino, più sbiadita dal tempo un’altra scritta: «Carbonia non deve morire». Due autentiche dichiarazioni politiche che rappresentano la migliore descrizione di Carbonia e della sua vicenda. Il comune, retto da anni da un’amministrazione di sinistra, con il sindaco, compagno Coco, operaio comunista, perseguitato e incarcerato durante il fascismo, che la rappresenta fin dal dopoguerra. Città «rossa» quindi, e città operaia, antifascista con tanto più accanimento in quanto fu tutta, praticamente, concepita come un’opera del regime, trionfalistica e «mussoliniana» anche nella topografia, nella piazza sterminata e sproporzionata, nei palazzi «littori» del 1938, anno di fondazione della città. E insieme zona di crisi profonda da oltre vent’anni, esempio emblematico del deterioramento costante della situazione di tutta l’isola. Qui, nel 1950, c’erano 50 mila abitanti e i minatori e operai erano 18 mila. Venticinquemila abitanti sono emigrati da allora e oggi Carbonia ha 31 mila abitanti, 600 dipendenti precariamente occupati nelle miniere di carbone passate da alcuni anni all’ENEL e oggi in smobilitazione, meno di tremila operai negli impianti metalliferi (estrazione e lavorazione di piombo, zinco, alluminio) in pesante crisi, l’agricoltura in sostanziale abbandono. Ma, intanto, come ha ricordato il compagno Coco ieri sera presentando il compagno Berlinguer alla piazza affollata l’EFIM, ente pubblico, ha stipulato un contratto con una miniera carbonifera nel Sud Africa, infischiandosene del carbone sardo. La manifestazione, i cartelli che hanno accolto ieri Berlinguer, denunciavano appunto questa crisi e rappresentavano la ferma volontà di impedire che – come diceva la scritta – «Carbonia muoia». Una piazza piena di ragazzi e di anziani (manca, come sempre nelle zone di emigrazione, una larghissima fetta della generazione di mezzo): giovani e giovanissimi, ragazze a fianco di donne anziane, alcune nel costume nero tradizionale. Un pubblico dicono i compagni di Carbonia, molto nuovo rispetto a poco tempo fa, soprattutto per quanto riguarda ragazze e donne anziane: «Le ha tirate fuori in buona parte la campagna per il referendum», dicono. E a Carbonia i «no» sono stati il 72%.

Ieri a Carbonia, oggi a Cagliari nella piazza Garibaldi, gremita di folla dove Enrico Berlinguer è stato presentato dal segretario della federazione compagno Atzeni. Il discorso sulla Sardegna, sul tipo di sviluppo che s’impone per l’isola se non si vuole vederne naufragare le prospettive, è stato al centro dei due comizi del segretario del partito che ha anche affrontato poi questioni di politica generale, il tema della lotta al fascismo, quella della situazione complessiva italiana segnata da un lato dalla vittoria dei «no» nel referendum a da una grande spinta democratica delle masse, e dall’altro dalla grave crisi economica e sociale di cui sono responsabili i governi di questi anni e – come Berlinguer l’ha definita – la «piovra» del potere clientelare della DC, corrotto e corruttore, che soffoca, come la Sardegna, il Mezzogiorno e tutto il Paese.

Nodo centrale dello sviluppo della Sardegna, e quindi tema dominante delle elezioni regionali, è la legge 509 che sostituisce il vecchio piano di rinascita. Con l’approvazione ormai definitiva da parte del Parlamento della 509 – ha detto Berlinguer – si è delineato per la Sardegna un programma di trasformazione economica che potrebbe – se ben attuato – correggere gli errori e i fallimenti passati e avviare la Sardegna sulla via di una rinascita reale. Noi comunisti – ha aggiunto Berlinguer – per primi e da lungo tempo abbiamo affermato la necessità di una seria programmazione regionale, abbiamo svolto una critica tenace e radicale al modo in cui veniva applicata la legge precedente, al modo dispersivo o corruttore con cui venivano distribuite le ingenti somme a disposizione della Regione e per primi abbiamo sostenuto che il problema centrale della Sardegna era quello della trasformazione agraria. Per lunghi anni, invece gli altri partiti hanno alimentato l’illusione che si potesse dirigere uno sviluppo reale dell’economia, attraverso regali e elargizioni ad alcuni gruppi monopolistici o sparsi, senza altro criterio che quello clientelare. Poi però – ha detto Berlinguer – hanno parlato i fatti, dimostrando che per quella via nemmeno si avviava la soluzione dei veri problemi di fondo della Sardegna che sono: la trasformazione agricola e pastorale; un’industrializzazione diffusa e articolata, capace di creare un’effettiva e sensibile offerta di posti-lavoro; la creazione di servizi sociali adeguati nei settori della scuola, della sanità, dei trasporti. La via che si volle intraprendere, invece ha portato solo – come era prevedibile all’abbandono di grandi risorse materiali e umane, all’emigrazione (che in venti anni ha fatto toccare la drammatica cifra di 300mila unità), alla crisi profonda delle città e delle campagne. Per anni e anni – ha aggiunto Berlinguer – con lotte sindacali e popolari, con battaglie politiche, con manifestazioni di grande valore come la giornata di lotta della Sardegna del 29 gennaio scorso, sono stati indicati i giusti obiettivi per lo sviluppo della regione, che effettivamente mezzi e forze andavano concentrati e non dispersi in mille rivoli, indirizzati a un’opera di trasformazione dell’intera Sardegna e non a uno squilibrato sviluppo di «poli» monopolistici. La cosa importante e nuova – ha sottolineato Berlinguer – è che a questo punto anche fuori dell’isola si comincia a comprendere che la Sardegna (e tutto il Mezzogiorno) non sono zone da «assistere» ma sono zone che devono essere trasformate nell’interesse generale del Paese.

Berlinguer ha quindi spiegato quanto qualificanti siano i punti di connessione, in questo momento, fra un organico e pianificato sviluppo di alcuni settori chiave della Sardegna (e del Sud) e la crisi economica che il Paese intero sta attraversando. Il deficit della bilancia internazionale dei pagamenti – ad esempio – è dovuto in larga parte alla necessità di massicce importazioni di carne: è evidente dunque che uno sviluppo dell’allevamento e della zootecnia in Sardegna, potrebbe avere una benefica incidenza su un grave fattore della crisi economica nazionale. Lo stesso può dirsi per le fonti di energia di cui oggi l’Italia ha fame, mentre in Sardegna quelle esistenti sono abbandonate, come dimostra anche il caso di Carbonia. Il popolo sardo può dare dunque un contributo importante – ha detto Berlinguer – a una svolta reale nella politica nazionale: ma può darlo solo – ecco il punto – se il governo dell’Isola sarà nelle sue mani. Questa è la vera questione in gioco il 16 giugno, la questione politica. Ci sono da anni le idee, ci sono le forze per rinnovare la Sardegna: oggi possiamo aggiungere che c’è anche uno strumento che legge nuovo, la 509. Che cosa è mancato allora, che cosa manca? Manca l’elemento decisivo: una direzione politica per realizzare quelle idee, un potere che sappia fare leva e che sappia fondarsi sulle forze più avanzate, che abbia la capacità, la forza, l’autorità, i consensi che sono necessari per avviare una grande impresa come la rinascita della Sardegna. Dunque – ha esclamato il segretario generale del PCI – il problema è quello del governo dell’isola, di un governo che sia l’espressione dell’unità del popolo sardo, che sia fondato sulla collaborazione di forme democratiche e progressiste. Se questa svolta non si realizzerà – ha detto Berlinguer – non possono esserci garanzie che i fondi – insufficienti ma comunque considerevoli – della 509 siano utilizzati in modo diverso dal passato; e sarà un nuovo fallimento, saranno nuove delusioni.

Berlinguer ha ricordato i risultati, sotto gli occhi di tutti, dati dalle formule di governo sperimentate in cinque anni; la instabilità cronica di quei governi (otto o nove crisi, ben tredici presidenti dal ‘69 a oggi). Occorre quindi cambiare radicalmente la formula di governo, ma occorre qualcosa di più importante, e cioè un nuovo modo di governare che rompa il vecchio sistema di potere, che esprima un governo per il popolo con il popolo, ma che non potrà mai essere tale se si continuerà a voler escludere la grande forza del PCI. Tutto il resto è piccolo cabotaggio politico, ha aggiunto Berlinguer. Non convince, ad esempio, la posizione del PSI che, da un lato, critica l’azione delle Giunte passate delle quali peraltro ha fatto quasi sempre parte, ma poi riduce tutto al puro obiettivo di mutare i rapporti di forza fra la DC e lo stesso PSI nell’ambito di quella stessa formula che ha dato così fallimentari risultati. Ridurre tutto al problema di un assessore in più nel governo regionale, significa voler eludere la questione di fondo. Il problema – ha ribadito Berlinguer – è ben altro: si tratta di aprire un capitolo del tutto nuovo, di lasciare cadere le passate preclusioni, di dare al governo dell’Isola una forza e una autorità che nessun governo regionale ha mai avuto in venticinque anni. E per rendere possibile questo, noi comunisti non diciamo che «solo noi» possiamo realizzare un simile obiettivo, ma diciamo che esso non può in alcun modo essere raggiunto «senza di noi», che siamo, lo si voglia o no, la forza che raccoglie la fiducia della parte più avanzata dei lavoratori. Il voto del 16 giugno deve essere tale da fare avanzare in questa direzione nuova la Sardegna.
Deve quindi essere in primo luogo un voto che colpisca duramente il Movimento sociale italiano, riaffermando così i valori pregiudiziali della difesa e dell’autonomia regionale e della democrazia insidiata. Deve essere un voto che ridimensioni la DC, il cui strapotere è la ragione prima del corrotto sistema clientelare, degli sprechi, dei fallimenti passati. Un voto che crei nuovi rapporti di forza e, in primo luogo, che dia più forza al PCI. Dare più voti al PCI – ha aggiunto Berlinguer – significa indicare chiaramente la direzione verso cui si vuole andare, significa dare un aiuto politico per liberare e far contare di più in tutti i partiti le forze migliori oggi invischiate nel gioco di potere e schiacciate dall’arroganza democristiana. Dare fiducia al PCI significa – ha concluso per questa parte del suo discorso Berlinguer – darla a un partito diverso dagli altri, un partito la cui avanzata è necessaria per rigenerare anche gli altri partiti, per aprirli al dialogo e alla collaborazione; significa infine rendere non più rifiutabile una diversa maggioranza alla direzione della Regione. Per realizzare questo obiettivo il 16 giugno, serve lo sforzo e la convinta adesione, non solo dei comunisti, ma di tutte le forze che sono state le protagoniste della vittoria del «no» il 12 maggio: operai, intellettuali, ceti intermedi delle città e contadini, giovani, donne. Il momento è difficile e il 16 giugno è una grande occasione per il popolo sardo. Occorre non sprecarla.

Interpretazioni dei discorsi di Enrico Berlinguer a Carbonia e a Cagliari
Nel giugno del 1974, Enrico Berlinguer sceglie di aprire la campagna elettorale per le regionali sarde a Carbonia. Non si tratta di una decisione casuale, ma di una scelta profondamente politico-simbolica che richiede riflessioni pertinenti. Carbonia, fondata nel 1938 dal regime fascista come città del carbone, porta ancora i segni di quell’origine autoritaria, ma nel secondo dopoguerra diventa una delle roccaforti della sinistra operaia. È in tale trasformazione democratica che Berlinguer trova il punto di partenza per una riflessione che va oltre la Sardegna, toccando il cuore della questione meridionale, del sottosviluppo e del futuro del Paese.
I discorsi di Enrico Berlinguer a Carbonia e Cagliari del giugno 1974 offrono nell’articolo un testo complessivo politicamente denso, culturalmente radicato nel contesto storico, sociale ed economico della Sardegna e dell’Italia dell’epoca, ma anche proiettato in un futuro di cambiamento. Si prestano a più livelli di lettura.
Sul piano strettamente politico, Berlinguer parla in una Sardegna e in una Italia che è in pieno fermento post-referendario: il 12 e il 13 maggio c’era stato il referendum sul divorzio, vinto con la netta affermazione del “no” all’abrogazione. Questo è lo sfondo di una regione e di un paese in cambiamento, dove il Partito Comunista Italiano, con la guida di Berlinguer, si pone come protagonista del rinnovamento democratico. In Sardegna, Berlinguer si inserisce nella campagna elettorale regionale per le elezioni del 16 giugno, proponendo una rottura netta con il potere democristiano, accusato di clientelismo, inefficienza e corruzione. Il quadro primario di riferimento politico-istituzionale è la legge del 24 giugno 1974, n. 268 che riguarda il rifinanziamento del Piano di Rinascita. Rappresenta un punto di svolta per l’economia sarda, ma secondo Berlinguer manca la volontà politica e la capacità di governo per attuarla efficacemente.
La Sardegna è raffigurata da Berlinguer come emblema di crisi e di congiunte potenzialità. È rievocata come zona abbandonata, emarginata, devastata dall’emigrazione, con un’economia mineraria e agricola in declino, vittima di scelte sbagliate e sviluppo squilibrato. L’Isola è descritta, inoltre, come ricca di risorse e potenzialmente decisiva per il Paese: miniere, energia, zootecnia. Tali risorse rimangono inerti e abbandonate, mentre si importa carbone dal Sudafrica e carne dall’estero. Carbonia in particolare è il luogo drammatico, pratico e simbolico, di questa contraddizione: città operaia e antifascista, fondata dal fascismo ma trasformata democraticamente dalla lotta dei lavoratori. Carbonia riassume la Sardegna abbandonata, ma anche resistente e viva per la democrazia popolare antifascista in un periodo buio di attentati e di trame nere.
L’articolo di Ugo Baduel è costruito con grande sapienza narrativa ed è necessario percorrere tutti i lati dell’immagine poliedrica che egli offre per coglierne l’insieme. Il primo elemento di democrazia riguarda il rapporto tra il fascismo e l’antifascismo, le memorie e l’attualità. La presenza del sindaco Pietro Cocco il quale, incarcerato e confinato dal fascismo, introduce il comizio di Berlinguer, conferisce profondità di memoria storica all’attualità che compare nella scritta «Brescia: fascisti assassini», con il richiamo all’attentato di Piazza della Loggia nel maggio del 1974. Il discorso di Berlinguer, che lega la Sardegna alla lotta antifascista nazionale, è situato dal giornalista in un contesto assai eloquente e fortemente significativo che lega passato, presente, futuro, con i loro rischi democratici bisognosi di nuove sicurezze antifasciste, come mostra Carbonia. Le scritte sui muri della città diventano narrazione, visiva e popolare, della sua storia democratica che danno nuove voci alle pietre e alla stessa planimetria fascista della piazza e della città autarchica. Carbonia, fondata nel 1938 come “città del carbone” dal regime fascista, è emblematica della contraddizione italiana: da un lato il simbolo della pianificazione autoritaria e del corporativismo fascista, dall’altro una città che nel dopoguerra si è trasformata in roccaforte antifascista e comunista. Berlinguer coglie questo aspetto paradossale per sottolineare la capacità del popolo di riappropriarsi del proprio destino, rovesciando il senso originario imposto dalla dittatura. Le scritte sui muri «Brescia: fascisti assassini» e «Carbonia non deve morire» diventano una narrazione visiva potente, che unisce la lotta antifascista del presente sia alle memorie del passato, lontano e vicino, e sia al futuro di vita durevole che la città rivendica. Carbonia non deve morire, di fatto, volge l’interdizione al morire scritta sui muri esprimendo in tal modo un’affermazione di vita, sostenendo un preciso voler vivere che aveva una particolare risonanza nei corpi e nel suolo della città. Nell’esperienza lavorativa il voler vivere e il saper vivere dei minatori era la posta dei quotidiani rischi del sottosuolo. Tali rischi erano superati quando, insieme ai minerali, essi producevano spazi e tempi di lavoro resi sicuri per sé e per altri. Carbonia come luogo che vuole vivere e far vivere chi la abita traeva forze culturali da mortali esperienze risolte dai minatori, ma anche dalle donne che l’avevano fatta diventare città governando a lungo e in modi vari precarie sussistenze, perfino con cruciali attività procurative di risorse selvatiche, dati i salari insufficienti per vivere. Nel discorso politico di Berlinguer Carbonia è una città ferita, ma democraticamente viva e vitale. Nel resoconto giornalistico la vivace presenza di giovani nella piazza dice nuovi bisogni di una società locale che si vuole moderna per un futuro sicuro. Carbonia, pertanto, è il luogo pratico e simbolico di un antifascismo non retrospettivo, ma di un oggi che vuole assicurare un domani di vita egualmente condiviso.
L’immagine che Berlinguer tratteggia di Carbonia è emblematica e potente: una città che si svuota, che ha perso quasi 20.000 abitanti in trent’anni, segnata dalla crisi delle miniere, dall’abbandono industriale, dalla scomparsa delle prospettive, nonostante il recente passaggio delle miniere all’ENEL. Carbonia è luogo pratico e simbolico della de-industrializzazione in corso. L’inversione di questa tendenza riguarda non solo la città, ma l’Isola, il Meridione e l’Italia.
La prospettiva di un futuro vitale, democraticamente condiviso, riguarda nell’immediato Carbonia specialmente come luogo pratico e simbolico di una nuova rinascita economica della Sardegna, di cui Carbonia costituisce un nodo centrale. La deindustrializzazione del Sulcis-Iglesiente è presentata da Berlinguer con una fotografia drammatica ma lucida: in trent’anni Carbonia passa da 50.000 a 31.000 abitanti; le miniere si svuotano, le industrie chiudono, l’agricoltura è in abbandono. Il caso emblematico del contratto stipulato dall’ente pubblico EFIM con il Sud Africa – mentre si smobilitano le miniere locali – è una denuncia forte dell’assurdità delle politiche industriali. Qui si prefigura il concetto moderno di sovranità economica e valorizzazione delle risorse locali, temi più che mai attuali. Uno degli effetti più gravi della crisi economica sarda, secondo Berlinguer, è l’emigrazione di massa e la desertificazione sociale. In 20 anni, 300.000 persone lasciano l’isola. La generazione di mezzo è “assente”, e questo svuota il tessuto sociale e produttivo: le piazze piene di anziani e giovani non sono solo una fotografia del comizio, ma il simbolo di una rottura del ciclo vitale di una società. Egli propone un modello di sviluppo non più legato a “poli industriali” autocentrati e inespansivi, ma un sistema integrato, diffuso e radicato nel territorio, che connette agricoltura, zootecnia, energia locale, servizi pubblici. La nuova legge per la Rinascita, Legge 509 del 1974, è vista come uno strumento potenzialmente valido, ma inutile senza una seria politica di programmazione regionale che modifichi il modo dispersivo e corruttore che ha distribuito ingenti risorse, senza affrontare il problema centrale per la Sardegna della trasformazione agraria, e senza un cambiamento politico alla guida della regione. Le locali risorse combustibili e minerarie offrivano importanti punti di connessione di tale innovativa integrazione per una reale rinascita della Sardegna, indicando che il Meridione non era luogo da assistere, ma da valorizzare inclusivamente in ambito nazionale. Carbonia è luogo pratico e simbolico di vera rinascita della Sardegna.

La Sardegna, nei due discorsi di Berlinguer, diventa un laboratorio di analisi del “divario interno” italiano, tra Nord e Sud. Uno dei passaggi più duri è quello in cui Berlinguer definisce il potere della Democrazia Cristiana una «piovra clientelare, corrotta e corruttrice». È una critica senza mezzi termini a un sistema di potere parassitario, che distribuisce risorse non per sviluppare, ma per comprare consenso. Egli contrappone a questa degenerazione politica una visione di governo regionale come strumento collettivo di trasformazione sociale, in cui legalità e programmazione sono centrali. Berlinguer esprime una posizione lucida: la legge 509 rappresenta una possibilità concreta di rilancio per la Sardegna, ma solo se sarà applicata con criterio e senza ripetere gli errori del passato. Il vecchio Piano di Rinascita – nato con buone intenzioni – è stato dilapidato da gestioni inefficienti e frammentarie. La 509 diventa quindi il banco di prova di una nuova politica economica, orientata alla trasformazione e non all’assistenza, secondo un nuovo modello di sviluppo per la Sardegna. La Sardegna non può più essere pensata come “zona da assistere”, ma come territorio da valorizzare per l’intero Paese. Tale approccio è sorprendentemente moderno: inclusivo, territoriale, sostenibile. Prefigura concetti oggi fondamentali come la coesione territoriale e lo sviluppo equo. Il Mezzogiorno come risorsa, non come zavorra. Berlinguer rompe uno stereotipo radicato: il Sud come peso per il Nord. Al contrario, afferma che il rilancio del Mezzogiorno è interesse dell’intera nazione. Cita due esempi: la crisi energetica, a cui la Sardegna può contribuire con le sue risorse fossili in abbandono, e l’alimentazione a cui l’allevamento sardo può dare sostegno per ridurre le importazioni di carne. Carbonia è luogo pratico e simbolico di un nuovo meridionalismo per una nazione coesa.
La Sardegna, insomma, non è periferia. Anzi è posta al centro della politica economica nazionale, essendo situata da Berlinguer in una visione nazionale integrata. Cruciale rimane la mancanza di un governo regionale nuovo, popolare, progressista. Berlinguer denuncia l’instabilità cronica della politica sarda che ha dato 13 presidenti in 5 anni e propone una rottura con il passato. Serve una maggioranza stabile e autorevole, fondata sull’unità popolare e su una base realmente progressista, che non può escludere il PCI. Il messaggio è chiaro: o si cambia davvero, o si ripeteranno gli stessi fallimenti. Berlinguer accusa il PSI di doppiezza perché mentre critica i governi passati, non ne rompe davvero gli schemi, cercando solo di guadagnare un assessore in più. Egli critica la politica del piccolo cabotaggio, incapace di visione e di coraggio. In questa parte emerge anche l’indignazione verso le ambiguità riformiste, che non rompono con la DC ma la subiscono.
Il tema della rinascita della Sardegna, partito da Carbonia, assume toni quasi epici. Berlinguer usa il linguaggio della rigenerazione, della rinascita morale e politica. Incoraggia a dare fiducia al PCI, in quanto partito diverso dagli altri, «un partito la cui avanzata è necessaria per rigenerare anche gli altri partiti». Il cambiamento richiesto non è tecnico, ma etico-politico e strutturale-istituzionale. I suoi discorsi hanno un carattere inclusivo e mobilitante. Egli non parla solo ai comunisti, ma a tutti coloro che hanno votato “no”: giovani, donne, ceti intermedi, contadini, intellettuali. Il PCI viene presentato non come un partito settario, ma come forza inclusiva, indispensabile per il cambiamento: «Non diciamo che solo noi possiamo farcela, ma che senza di noi non è possibile». Il suo discorso è venato da ispirazioni di egemonia etico-culturale gramsciana: orientare conoscenze e coscienze verso nuovi valori etico-politici per acquisire la direzione politica di un blocco socio-politico più ampio, rigenerato e rigenerante in consenso e autorevolezza.
Carbonia è luogo pratico e simbolico di rigenerazione democratica per il futuro. Il ritratto della crisi economica sarda che Berlinguer offre è lucido e impietoso. Le miniere chiudono, l’agricoltura è in crisi, i giovani partono. A vent’anni dal Piano di Rinascita, il saldo è negativo. Si preferisce il profitto immediato all’investimento strategico sul territorio. È un capitalismo miope, incapace di valorizzare le risorse nazionali. La Sardegna, terra ricca di potenzialità, viene trattata come marginale, dimenticata, quando non sfruttata.
Ma la crisi non è solo economica: è anche e soprattutto sociale. I sardi emigrano, le famiglie si spezzano, i paesi si svuotano, le generazioni si separano. La Sardegna perde la sua “generazione di mezzo”, quella che lavora, produce, costruisce futuro. Il paesaggio che Berlinguer osserva è fatto di vecchi e bambini: una società che rischia di non rigenerarsi più. L’emigrazione, da scelta, è diventata necessità. E questa necessità è la sconfitta di una Repubblica che, a trent’anni dalla Liberazione, non ha ancora garantito uguaglianza di opportunità a tutti i suoi cittadini.
Un elemento di rottura, però, esiste. Ed è la nuova partecipazione femminile. Berlinguer la legge come un’eredità del referendum sul divorzio: le donne non sono più silenziose spettatrici della politica, ma soggetti attivi. A Carbonia, nel comizio del 1974, la presenza femminile di differenti generazioni è forte e visibile. Questo dato, che oggi potremmo dare per acquisito, allora costituiva una rivoluzione politico-culturale. Il voto delle donne non è più solo opinione privata: è azione pubblica, coscienza civile, scelta autonoma. La Sardegna, spesso vista come periferica, anticipa un cambiamento profondo nella società italiana.
Il bersaglio principale della critica di Berlinguer è la Democrazia Cristiana, descritta come «una piovra clientelare, corrotta e corruttrice». Parole dure, che però descrivono con precisione un sistema politico bloccato, che distribuisce potere non in base al merito o alla progettualità, ma in base all’appartenenza. La politica, da strumento di trasformazione, è diventata meccanismo di conservazione. Le risorse pubbliche sono usate per mantenere consenso, non per costruire sviluppo. Berlinguer propone un’alternativa: una politica etica, orientata al bene comune, fondata sulla partecipazione popolare.
Nel suo discorso, Berlinguer riconosce che la nuova legge di Rinascita rappresenta una possibilità concreta per il rilancio della Sardegna. Ma l’entusiasmo è temperato dalla consapevolezza: il rischio è che, come il Piano di Rinascita, venga svuotata di senso da una cattiva gestione. Serve programmazione, visione, controllo democratico. E serve soprattutto una politica che abbia il coraggio di rompere con i meccanismi che hanno prodotto il fallimento precedente.
Berlinguer non si limita alla denuncia: propone un modello alternativo di sviluppo. Non più assistenzialismo, ma valorizzazione del territorio. Agricoltura, allevamento, industria leggera, servizi pubblici: tutto deve concorrere a costruire una società più equa e moderna. L’idea è quella di una trasformazione strutturale, in cui il lavoro non sia più merce rara ma diritto garantito. Una delle intuizioni più moderne di Berlinguer è il rovesciamento della prospettiva sul Mezzogiorno. Il Sud non è una zavorra, ma una risorsa. La crisi energetica e alimentare degli anni Settanta lo dimostra: la Sardegna può produrre energia, carne, latte, conoscenza. Ma ha bisogno di investimenti, non di elemosine. In questa visione, il rilancio del Sud non è una concessione solidaristica, ma un interesse nazionale. Berlinguer è consapevole che senza un cambiamento radicale nella guida della Regione Sardegna, nessuna riforma sarà possibile. La sua proposta è chiara: serve una maggioranza popolare, progressista, onesta, fondata su un progetto comune e sulla partecipazione del Partito Comunista Italiano. Non è solo una questione di numeri: è una questione di credibilità. Senza un cambiamento di rotta, si rischia di affondare ancora una volta. Berlinguer denuncia la strategia del PSI: criticare la DC, ma senza rompere davvero con essa; chiedere rinnovamento, ma solo per ottenere più posti di potere. È una critica alla politica del compromesso senza progetto, che finisce per perpetuare l’esistente. Nel finale del suo discorso, Berlinguer rivendica tenacemente il ruolo governativo del PCI. Non come partito egemone, ma come forza necessaria per il cambiamento. «Non diciamo che solo noi possiamo farlo, ma diciamo che non si può farlo senza di noi». È una visione politica fondata sulla responsabilità, sull’etica pubblica, sulla coerenza. Il PCI non chiede voti per sé, ma per una prospettiva di giustizia, equità e sviluppo.
I discorsi di Berlinguer sono un esempio magistrale di comunicazione politica radicata nel territorio e nella storia. Egli collega le sofferenze personali e locali a problemi strutturali nazionali, offrendo una visione alternativa e unificante. Acquisisce la memoria, l’orgoglio popolare e la sofferenza sociale come forze per mobilitare consensi verso un cambiamento democratico. Non si limita alla denuncia, ma espone un progetto politico con un campo differenziato di valori culturali, economici, sociali, e una visione complessiva specifica, chiara e strutturata, pur nella consapevolezza delle difficoltà.
Nella configurazione delle relazioni politiche che Berlinguer prospetta nel suo discorso si intravede il “compromesso storico” come grande alleanza democratica che include il PCI nel governo, con responsabilità e potere per rinnovare lo Stato e la società italiana. Si scorge, inoltre, la “diversità” rigenerativa del PCI che si offre per aprire un capitolo del tutto nuovo, a partire dalla Sardegna, con una profonda rigenerazione di valori democratici nella società e nel governo dello Stato, in tutte le sue articolazioni. Egli rivolge il suo discorso non solo ai comunisti, ma a tutte le forze che il 12 maggio sono state protagoniste del “no” al referendum sull’abrogazione del divorzio: operai, intellettuali, ceti intermedi delle città e contadini, giovani, donne, affinché la grande occasione delle elezioni regionali, il 16 giugno, non sia sprecata. La sorprendente presenza femminile di differenti generazioni nel comizio di Carbonia, sottolineata dal giornalista come frutto della mobilitazione per il referendum sul divorzio del 1974, con il 72% di “no” a Carbonia, mostra una Sardegna tutt’altro che conservatrice in cui le donne, in particolare, si presentano come nuovo soggetto politico di cambiamento democratico.
Il discorso di Berlinguer a Carbonia è assai importante. Offre una sintesi del suo pensiero che si svolgerà nel corso del tempo e delle occasioni, con varie versioni e finalità politiche: dal “compromesso storico” alla “diversità” come insieme di pratiche politiche alternative al degrado democratico.
Il “discorso di Carbonia”, fatto da Enrico Berlinguer, non è solo un comizio elettorale. Per certi aspetti, appare come un manifesto politico. Per altri versi, offre una lezione di metodo. Per altri ancora, indica punti di vista e di visione democratica ben connessi. Berlinguer ci invita a guardare il presente con occhi lucidi per non rinunciare al futuro. Carbonia, per lui, è una città pratico-simbolica ferita, ma non vinta e ancora protesa verso la produzione di un futuro di equità e di sicurezza vitale. E proprio da lì, da una città che molti davano per finita, lancia un messaggio di impegno per rigenerare le vite della Sardegna e dell’Italia.
Perché, come dicevano quei muri, Carbonia non deve morire, deve vivere. Deve vivere per indicare percorsi vitali di luoghi, territori, persone nella democrazia delle sicurezze create e condivise equamente.

Il discorso di Berlinguer a Carbonia fra ricordi, lasciti e progetti

Non sono stata una fervente berlingueriana. Confesso. In primo luogo non condivisi la parte che egli ebbe nel 1969, come vicesegretario, nella radiazione dei compagni che diedero vita alla rivista “Il manifesto”. Sottoscrissi una lettera di protesta rivolta ai dirigenti del PCI. I compagni di Carbonia non furono espulsi. Si dice che Luigi Pirastu, nel Comitato regionale che ne discusse, sostenne che a Carbonia prevaleva una base stalinista. In realtà i firmatari della lettera, che sosteneva l’esperienza editoriale delle persone accusate di frazionismo, erano giovani e non stalinisti. Tuttavia, questa tesi fu accolta. Sarebbe interessante leggere il verbale di quella riunione. Non avevo condiviso neppure le ragioni che, Berlinguer segretario della FGCI nell’agosto del 1951, gli avevano fatto accostare Maria Goretti alla partigiana Irma Bandiera, come modello di autonomia femminile pagata con la vita. Mi fu difficile ingoiare l’adesione alla Nato, per quanto edulcorata da esigenze di riforma dall’interno, che emerse nell’intervista a Giampaolo Pansa del 15 giugno 1976. D’altra parte, ero così gramscianamente contraria ai comunismi realizzati da poter accettare una Nato da riformare. Non mi piacque neppure la scelta berlingueriana della parola «austerità», usata dal 1977 al 1983, per criticare privilegi, sprechi e consumismi eccessivi, coniugando la critica con una nuova giustizia morale e politica. Avrei preferito la parola “rigore”, anche in riferimento alle esigenze di riforme fiscali.

Quando Berlinguer giunse a Carbonia per il comizio, apprezzavo assai le scelte politiche di Berlinguer per connettere lo sviluppo della democrazia all’avvicinamento del socialismo in Italia e inEuropa. Vari pregi politici di Berlinguer avevano appannato quei miei dissensi, facendomelo sentire più vicino. Prima del suo comizio il gruppo dei comunisti eletti fu convocato nella stanza della Giunta per un incontro con Berlinguer. Ero presente a quell’incontro con Pietro Cocco, Vittorio Piano, Benito Labate, Gianfranco Fantinel, Maria Isabella Piras, Antonio Saba, Antonio Puggioni, Egidio Concu, Antonio Comina, Giuseppe Casula, Emilio Podda, Egidio Corrias, Salvatore Piras. Eravamo tutti in prima e seconda fila attorno a un grande tavolo. Berlinguer era affiancato da Antonio Tatò che prendeva appunti. Sarebbe assai interessante poterne avere accesso. Parlò soprattutto il sindaco Pietro Cocco, dando informazioni cruciali sulla vita della città. Non ricordo cosa farfugliai. Mi è rimasta assai forte la memoria dell’attenzione di Berlinguer che ascoltava e mi ascoltava. Riemerge ogni volta in cui noto dirigenti distratti quando dovrebbero ascoltare. Berlinguer sapeva ascoltare, oltre che parlare. Berlinguer sapeva anche vedere. Le donne, giovani e anziane, erano una presenza in parte nuova nel comizio che avveniva dopo la vittoria contro il referendum per l’abolizione del divorzio. Berlinguer le seppe vedere e seppe capirne l’urgente istanza di modernità, data la percentuale del 72 per cento a Carbonia che distanziava la media regionale del 55 per cento. Le compagne per allestire il palco avevano fatto prevalere il rosa e le gentili gerbere. Egli capì e disse un grazie per l’allestimento del palco. Fu ricambiato con un significativo mazzo di rose rosse che, a nome delle compagne, alla fine del comizio gli diede Luisa, giovane e bella che si era molto impegnata nell’allestimento del palco. Erano briciole di politica che, a quei tempi, erano anche briciole di poetiche. Briciole che nutrivano certi luoghi nel campo dei comunisti e della democrazia italiana: luoghi in cui le donne cercavano di distinguersi sia per le grandi controversie di genere, sia per marcare di sé perfino le qualità delle piccole e invisibili cose.

Eravamo allora orgogliose di essere donne comuniste. Alcune son diventate convinte di ogni svolta, giustificatrici di ogni calo elettorale, soddisfatte di ogni partecipazione governativa. Alcune sono diventate comuniste tristi. Altre, arrabbiate o rabbiose. Altre solo tenaci. Altre “libresche”, rintanate in rifugi letterari o filosofici, offerti anche da teorie di nuovi marxismi.
Credo che non vadano dispersi gli stimoli che la mostra di Berlinguer a Cagliari ha rinverdito o sollecitato. Credo che debba essere promosso un incontro per nuovi impegni di volontaria partecipazione democratica. Una via minima mi pare riguardare la materialità della nostra Costituzione formale, ovvero la realizzazione dei suoi principi. La Costituzione italiana non affronta tutti i problemi attualmente in campo: dall’intelligenza artificiale al fine vita e alla complessità delle questioni ambientali. Tuttavia, può essere un utile punto di partenza che richiama sia l’unità delle opposizioni democratiche, sia l’attuale governo che ha votato fedeltà alla Costituzione, sia le destre con il loro populismo che oscura il disfacimento del popolo impoverito, mentre subisce i privilegi dei vecchi e dei nuovi arricchimenti. Può essere utile, se si vuole.

Si vuole? E chi vuole? E come?

L’esposizione cagliaritana su I luoghi e le parole di Enrico Berlinguer, se non vuole essere fine a sé stessa e aspira ad avere un seguito di iniziative, può mostrare e a dire assai di più. Può nutrire nuove aspirazioni democratiche. Può esprimere nuove volontà di dare un futuro a progetti di cambiamento egualitario, volontà che l’attuale crisi richiede e che la mostra smuove in ogni intima coscienza profondamente democratica.

Luoghi e parole di Berlinguer in Sardegna non appaiono tutti in mostra. Questo scritto nasce dall’esigenze di dare presenza a luoghi e a parole mancanti, senza esaurirsi in un completamento dell’esposizione. Sorge, infatti, dall’esigenza di un nuovo confronto con le parole di Enrico Berlinguer che incoraggiavano a rafforzare una vita in comune democraticamente condivisa e che la mostra, ora, spinge avanti e altrove.

Paola Atzeni

Il 7 ottobre del 1964, sessant’anni fa, moriva a Roma Velio Spano. Era nato a Teulada il 15 gennaio del 1905 e dopo aver trascorso la gioventù al seguito della sua famiglia a Guspini, dove suo padre era segretario comunale, aderisce ancora studente al Partito Comunista d’Italia.
La svolta decisiva della sua vita, raccontata nel saggio “Gramsci Sardo”, pubblicato nel 1937 in occasione della morte di Antonio Gramsci, avviene quando si reca a Roma per gli studi universitari, ed è in quel tempo che conosce e inizia la frequentazione di Antonio Gramsci. Durante la permanenza romana condivide con Altiero Spinelli la direzione del gruppo comunista universitario, successivamente entra in clandestinità a causa della messa al bando dei partiti ad opera del regime fascista, svolgendo la sua militanza politica al nord prevalentemente a Torino.
Sottoposto ad una stretta sorveglianza dell’Ovra nel 1928 viene arrestato e condannato dal Tribunale Speciale fascista, viene scarcerato nel 1932 a seguito dell’amnistia concessa in occasione del decennale dalla “Marcia su Roma”. Da qui inizia una lunga vicenda umana e politica che lo vedrà impegnato su diversi fronti: protagonista della lotta antifascista in Italia e, su incarico del partito, all’estero prima in Francia, successivamente in Spagna con le Brigate Internazionali guidate da Luigi Longo contro le milizie fasciste di Francisco Franco e successivamente in Tunisia contro il regime del maresciallo Petain.
L’esperienza africana è indubbiamente quella più rilevante, nel 1935 lo troviamo impegnato in Egitto a svolgere attività contro la guerra coloniale in Etiopia, tra le truppe italiane di passaggio a Suez, nel 1937 in Spagna, nel 1938 viene inviato dal partito in Tunisia dove svolgerà nel corso degli anni un ‘azione di resistenza contro i nazifascisti a fianco di eminenti figure politiche: Giorgio Amendola, Maurizio Valenzi (che diverrà negli anni ‘70 sindaco di Napoli), Loris, Ruggero, Diana e Nadia Gallico, Marco Vais, i fratelli Bensasson, per citarne alcuni tra i più noti. E’ in questo frangente che sposerà Nadia Gallico che diverrà la sua compagna di lotte e di vita.

Nell’esperienza tunisina esercita in clandestinità l’attività di giornalista e sotto lo pseudonimo di Antiogheddu pubblica diversi articoli rivolti anche alle vicende sarde con un’attenzione particolare alla neonata Carbonia e ai minatori del bacino minerario.
Il Governo di Vichy alleato dei nazifascisti, lo condannerà a morte per due volte in contumacia. A questo proposito vorrei ricordare un curioso aneddoto relativo all’ incontro con il Generale De Gaulle capo della resistenza francese, il Generale francese si presentò al suo interlocutore, con la seguente frase: «Piacere Charles De Gaulle una condanna a morte”, ottenendo in risposta “Velio Spano, due condanne a morte».
Ritornato in Italia dopo l’armistizio, esercita nel Sud Italia, appena liberato, una funzione politica rilevante, partecipa nel gennaio del 1944 al Congresso di Bari all’incontro dei Comitati di Liberazione Nazionale, in rappresenta della delegazione del PCI, insieme ad Eugenio Reale e Marcello Marroni.
Dopo la proclamazione della Repubblica sarà eletto nell’Assemblea Costituente che darà vita alla Costituzione Repubblicana nel 1948, della stessa farà parte sua moglie Nadia Gallico Spano. Una piccola parentesi su Nadia (nella foto) che ho avuto l’onore di conoscere da giovane militante comunista, in occasione delle sue frequenti visite a Carbonia, di lei vorrei sottolineare oltre all’attività di direzione politica esercitata in Sardegna, l’importante funzione politica e sociale nel partito sulla scala nazionale, tra le masse popolari, nelle borgate romane e un’importante attività di organizzazione di salvataggio da fame e miseria di bambini meridionali e sardi pregevolmente testimoniata nel libro: “Cari bambini vi aspettiamo con gioia” e successivamente nella sua autobiografia “ Mabruk”.

Velio Spano fu il primo comunista italiano a recarsi in Cina nel 1949 dove si trattenne per diversi mesi e fu autore per il quotidiano del Partito l’Unità di diversi reportage sulla Rivoluzione Cinese e la conclusione vittoriosa della “Lunga Marcia di Mao Tse Tung”. Nel corso di questa esperienza ebbe modo di entrare in relazione oltre a Mao, con alcuni dei principali dirigenti che segneranno la storia cinese sino alla fine del novecento, Ciu en Lai e Deng Xiao Ping.
Una biografia, la sua, troppo ricca ed impegnativa da raccontare in questo breve spazio per cui mi permetto
di suggerire a chi intendesse approfondirne l’opera ed il pensiero, la lettura di due testi pubblicati dall’editore della Torre nel 1978, a cura dello storico sassarese Antonello Mattone: “Vita di un rivoluzionario di professione” e “Per l’unità del popolo sardo”, ai quali si aggiunge una pubblicazione monografica di Rinascita Sarda del 1994 a trent’anni dalla sua morte, a cura di Giorgio Caredda e Giuseppe Podda, oltre ovviamente ai discorsi parlamentari e alla corposa pubblicazione di articoli sull’Unità, Rinascita, libri e giornali.
L’associazione “Amici della Miniera” in collaborazione in collaborazione con “CSC Umanitaria Fabbrica del Cinema”, il “Circolo Soci Euralcoop”, la “Sezione di Storia Locale di Carbonia”, con le istituzioni locali e con la rete di associazioni che opera nella città, ha deciso di ricordarlo con un convegno nel quale si evidenzia la sua vicenda politica anche attraverso l’ausilio di una mostra di fotografie, giornali e documenti storici suddivisa in diverse sezioni distinte che mettono in evidenza la sua vita attraverso le immagini fotografiche, l’impegno politico dai resoconti dei giornali, il viaggio in Cina nel 1949, Carbonia e lo sciopero dei 72 giorni del quale fu insieme ai minatori, uno dei principali protagonisti, la morte nel 1964 per finire con la sua produzione letteraria.
Velio Spano verrà eletto il 18 aprile del 1948 senatore della Repubblica nel collegio minerario, ma ciò che legherà indissolubilmente la sua figura alla città di Carbonia sarà determinato da un altro avvenimento storico, l’attentato al segretario del Partito Comunista Italiano Palmiro Togliatti (nella foto in un comizio tenuto in piazza Roma, a Carbonia), il 14 luglio del 1948.


A seguito di questo efferato episodio, in tutta Italia si verificarono tumulti, moti di piazza e scontri con le forze dell’ordine, tanto da temere una “ guerra civile” e solo l’invito alla calma da parte di Palmiro Togliatti dal letto dell’ospedale fu decisivo per la loro cessazione; in questo stato di cose Carbonia non costituì un eccezione e bisogna ricordare – tenuto conto doverosamente del contesto in cui si svolsero – che, purtroppo, avvennero anche fatti di degenerazione esecrabili, mi riferisco in particolare alla vicenda dell’aggressione di Fiorito a Bacu Abis nonché a episodi di disordini scoppiati in città.
Tale insieme di circostanze innescò il pretesto per un’azione repressiva della Polizia guidata dal commissario Antonio Pirrone – un passato da fascista e Repubblichino – che culminò con la decapitazione del gruppo dirigente amministrativo, politico e sindacale della città di Carbonia.
Furono spiccati, infatti, mandati di cattura per Renato Mistroni (nella foto in occasione del 50° della città di Carbonia) primo sindaco della città, per Antonio Selliti segretario della Camera del lavoro, che riuscirono ad espatriare in Cecoslovacchia e per Silvio Lecca rappresentante del Partito Sardo d’Azione.

Sono questi anni che verranno ricordati in tutto il paese per l’azione di repressione del movimento operaio e sindacale da parte della Polizia del ministro degli Interni guidata da Mario Scelba.
E’ in questa temperie che Velio Spano che nella sua qualità di senatore della Repubblica godeva dello status dell’immunità parlamentare, viene chiamato a ricoprire l’incarico di segretario della Camera del lavoro e del movimento dei minatori di Carbonia.
Le cronache dei giornali dell’epoca sono utili a ricostruire il clima poliziesco nel quale si operava, già a settembre del 1948 il predetto commissario Antonio Pirrone disperdeva con l’uso della forza pubblica un comizio di Velio Spano e tratteneva arbitrariamente lo stesso, in uno stato di fermo per diverse ore, prima negli uffici del Comune e successivamente dell’Albergo Centrale, vicenda che si concluse con l’intervento di un ufficiale dei carabinieri pienamente consapevole dell’abuso del commissario Antonio Pirrone.
Analoga vicenda si manifestò in occasione di un comizio nel settembre del 1949, questa volta protagonista Nadia Gallico Spano anch’ella parlamentare, circostanza descritta fedelmente nell’edizione sarda dell’Unità del 2 settembre. Ne conseguì anche in questo caso una denuncia alla magistratura per abuso e violazione dei compiti di istituto disciplinati dalla legge e a fine anno del 1949 il commissario Antonio Pirrone concluse la sua esperienza in città e venne opportunamente trasferito da Carbonia a Messina.
Negli anni del primo dopoguerra quindi, Velio Spano con l’elezione a segretario regionale assume in Sardegna un ruolo fondamentale nella direzione del Partito Comunista e nella battaglia per l’Autonomia alla quale imprime una svolta decisiva Palmiro Togliatti nel 1947 con lo storico discorso alle Manifatture Tabacchi alla conferenza dei comunisti sardi. E’ in questo contesto che Velio Spano già affermato dirigente nazionale, diviene insieme a Renzo Laconi (nella foto), il principale interprete nella costruzione del partito nuovo e di una nuova cultura autonomistica in Sardegna.


Mi pare significativo, a questo proposito, richiamare un giudizio esterno relativo a quegli anni, contenuto in un libro a cura di Eugenia Tognotti “Americani comunisti e zanzare”. Nello specifico si tratta di una relazione datata 7 gennaio 1949 (siamo a meno di un mese dalla conclusione dello sciopero dei 72 giorni) commissionata dalla Fondazione Rockfeller che realizzava attraverso l’Erlaas la lotta antimalarica in Sardegna, dalla quale emerge un giudizio su Spano abbastanza lusinghiero considerando che, lo stesso documento con molta probabilità fu redatto da agenti dell’Intelligence USA, del quale riassumo un breve stralcio e del quale segnalo un’imprecisione, Spano non fu mai in Russia in quel periodo: «Ad un certo punto ci fu anche un movimento in favore di un partito comunista sardo separato dal PCI nazionale. Questa situazione venne presto corretta da Velio Spano (alias Paolo Tedeschi) che durante il suo esilio dall’Italia si era impegnato in un’intensa attività politica e di reclutamento nell’Europa Occidentale in Russia e nel Nord Africa. Rapidamente e con grande energia costruì un’organizzazione efficiente, eliminando ogni tendenza alla deviazione o al separatismo. Di conseguenza il PCI in Sardegna è particolarmente sensibile ad ogni accenno di autonomia ed è rigidamente controllato dal quartier generale del partito. Velio Spano che è un sardo del sud di origine medio-borghese, ha una visione molto lucida dello scenario politico sardo: negli anni cruciali del 1945/46 che videro la rapida espansione del comunismo in tutta Italia, il partito in Sardegna ha fatto dei rapidi progressi sotto la sua direzione, specialmente nel Sulcis, dove la politica di infiltrazione in posizioni di prestigio nei sindacati dei minatori, è stata particolarmente efficace».
Potrebbe apparire singolare un’attenzione così interessata da parte americana verso la sinistra e i comunisti, ma dalla lettura di documenti declassificati di recente, provenienti dal National Archives di Washington, provano l’attenzione alle vicende del bacino minerario di Carbonia e Iglesias ebbe inizio fin dal settembre del 1943 dopo l’armistizio e proseguì ininterrottamente nel tempo.
Spano si afferma quindi come una personalità di grande spessore politico ed intellettuale ed è dotato di un carisma riconosciuto nella sua organizzazione politica, tra i minatori, ma lo è altrettanto dai suoi avversari che ne hanno timore e rispetto, c’è tra le altre una vicenda che mi piace ricordare, riguarda il contraddittorio tra Padre Lombardi (noto alle cronache dei tempi come il Microfono di Dio) e Velio Spano.
Il confronto venne ospitato a Cagliari il 4 dicembre del 1948 presso il Cinema di Sant’Eulalia, all’esterno però furono piazzati degli altoparlanti che consentirono a migliaia di persone di assistere alla tenzone con le inevitabili tifoserie. Questa vicenda ebbe una grande risonanza anche nelle cronache del tempo, in Sardegna giunsero inviati di giornali stranieri oltre alle principali testate italiane, ma a noi arriva anche attraverso il racconto letterario: c’è un capitolo del romanzo di Giulio Angioni l’Oro di Fraus che lo celebra e una in poesia in “limba sarda” attraverso una riduzione riassuntiva a cura di Pietro Soru dal titolo evocativo: Roma o Mosca? eseguito secondo la struttura metrica della quartina che, in questo caso, sostituisce quella più tradizionale dell’ottava che, a quei tempi, era una forma di espressione molto praticata nella tradizione orale della poesia sarda.
Questo episodio avviene nel mezzo dello sciopero della non collaborazione dei 72 giorni dei minatori di Carbonia, una lotta importantissima per la sopravvivenza della città, che si concluderà vittoriosamente il 18 dicembre del 1948 a distanza di soli 10 anni dalla sua fondazione.
Per tanti questa data, il 18 dicembre del 1948 è stata concepita come un nuovo inizio, una sorta di rifondazione della città, è un’espressione che ho avuto modo di ascoltare da diversi protagonisti di quella lotta, alcuni dei quali sono stati discepoli di Velio Spano: da Pietro Cocco, Antonio Puggioni, Antonio Saba per citare alcuni dei più noti; Tore Cherchi nel suo libro “Città Industriale e Post Industriale” riassume efficacemente questo concetto: «Due date, il 18 dicembre del 1938 e il 18 dicembre del 1948, fra loro distanti esattamente 10 anni, segnano il primo periodo di storia della città. La prima è l’inaugurazione della città intesa come spazio costruito, l’urbs appunto. La seconda potrebbe essere considerata come conclusiva del progressivo divenire degli immigrati, infine furono cittadini e cittadine per atto di volontà individuale e collettiva, cives non solo per condizione giuridica. Il 18 dicembre del 1948 mostra plasticamente che la civitas è formata.»
Le cronache sui quotidiani del tempo, ricostruiscono con molto realismo la complessità e la drammaticità di quella lotta – compresa la dialettica interna alla CGIL – che mi pare non sia esagerato affermare, assunse una forma epica e così è giunta sino a noi; su tutte ho il piacere di segnalare la prima pagina dell’Unione Sarda del 17 dicembre del 1948 a firma di un giovane cronista di allora Peppino Fiori, che abbiamo poi conosciuto come un affermato giornalista televisivo, scrittore di successo e, infine, senatore della Repubblica eletto come indipendente nella liste del PCI.
La conclusione vittoriosa di quella lotta fu per i cittadini di Carbonia uno spartiacque, anche se le vicende successive degli anni ’50 riproposero nuovi problemi e nuovi dolori, licenziamenti e conseguente emigrazione nel nord Italia e verso le miniere della Francia, Belgio e Germania.
L’impegno istituzionale di Velio Spano in Senato per la Rinascita, il Bacino minerario, rimase costante sino alla data della sua scomparsa, ma occorre dire che l’attenzione per la sorte della città di Carbonia fu un suo continuo cruccio, su questo punto suggerisco in particolare la lettura di un suo discorso al Senato della Repubblica nella seduta del 12 ottobre del 1953, nella quale conclude il suo appassionato intervento con un’esortazione: «Salviamo Carbonia».
Credo che la decisione di ricordarlo a sessant’anni dalla sua scomparsa sia un gesto importante che assume un valore di testimonianza e insieme di gratitudine per il suo impegno politico coerente, per una militanza intesa come servizio e per un’intera vita spesa per affermare i valori di democrazia e di libertà!

Antonangelo Casula

 

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Si è svolto sabato scorso 26 novembre, nel salone della Sezione di Storia Locale di Carbonia della Grande Miniera di Serbariu, il convegno “In ricordo di Antonio Puggioni, dirigente politico e sindacale nelle istituzioni”.

L’evento, organizzato dall’Associazione Amici della Miniera, con il patrocinio del comune di Carbonia, rientra in un programma che prevede il ricordo di alcune figure che hanno avuto ruoli di rilievo nella storia della città, del territorio del Sulcis Iglesiente e dell’intera Sardegna.

I lavori, coordinati dalla prof.ssa Anna Lai, sono stati aperti da Mario Zara, presidente dell’Associazione Amici della Miniera. Il ricordo di Antonio Puggioni è stato affidato prima alla proiezione di un’intervista realizzata nel 1985 dagli studenti della scuola media Zanella e poi agli interventi degli ospiti, il primo dell’ex sindaco Antonangelo Casula che ha ricostruito la lunga esperienza di vita, in particolare quella politica e sindacale, di Antonio Puggioni (alleghiamo il testo integrale).

Don Amilcare Gambella, parroco della chiesa di San Ponziano, si è soffermato sul rapporto di Antonio Puggioni con la chiesa, in particolare con due parroci che hanno segnato la storia della città di Carbonia, Don Vito Sguotti e Don Luigi Tarasco; Giampaolo Cirronis, giornalista e direttore del periodico “La Provincia del Sulcis Iglesiente” ha parlato del suo rapporto con Antonio Puggioni che, negli ultimi due anni e mezzo della sua vita (è scomparso il 24 agosto 1998), ha curato una rubrica del periodico, sulla storia politica e sindacale della città e del territorio, con un occhio di riguardo sul ruolo della chiesa; l’ex sindaco Antonio Saba ha parlato brevemente del suo rapporto di amicizia e di impegno politico con Antonio Puggioni; Salvatore Figus, operatore culturale, si è soffermato sui rapporti dei giovani iscritti al PCI con Antonio Puggioni, uomo di punta del partito fin dagli anni giovanili; e, infine, il senatore Francesco Macis, ha ricostruito l’impegno di Antonio Puggioni nelle istituzioni, in particolare in Consiglio regionale, dove ha lavorato al suo fianco per alcuni anni.

In conclusione, è stato dato spazio al pubblico presente in Aula ed è intervenuto il figlio Antonello (presenti anche le due figlie, Cristina ed Annamaria, mentre la moglie non se l’è sentita di partecipare) che ha ringraziato tutti per l’iniziativa in ricordo della figura del padre.

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L’intervento di Antonangelo Casula

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IN RICORDO DI ANTONIO PUGGIONI –  DIRIGENTE POLITICO SINDACALE E DELLE ISTITUZIONI. Intervento di Antonangelo Casula, Carbonia 26 novembre 2016.

Il presidente dell’Associazione Amici della Miniera, Mario Zara, ha illustrato le modalità relative allo svolgimento della nostra conversazione odierna dedicata al ricordo di Antonio Puggioni.

Il filmato che abbiamo appena visto e le immagini che lo ritraggono nel lungo arco della sua vita privata e  politica, fanno rivivere un emozione particolare, che rende ancora più interessante e piacevole questo incontro.

Il titolo assegnato a questa iniziativa, Antonio Puggioni – dirigente politico, sindacale e delle Istituzioni, richiede un particolare impegno a partire dalla mia introduzione, nella quale vorrei insieme alla ricostruzione del suo profilo pubblico prevalentemente conosciuto, contribuire a portare alla luce aspetti meno noti della sua vicenda politica, personale ed umana.

Antonio Puggioni nasce a Scano Montiferro, nell’attuale provincia  di Oristano, il 14 giugno del 1927 e  si trasferisce all’età di dodici anni, nel 1939 insieme alla famiglia, a Carbonia.

Il 1 aprile del 1942, non ancora quindicenne, viene assunto dalla Società Carbonifera Sarda in qualità di aiuto meccanico.

Nel gennaio1943 si arruola presso la Scuola militare di Pola (in quel periodo l’Istria apparteneva ancora all’Italia) nel Corpo Reale Equipaggi Marittimi come allievo motorista navale.

Il 9 settembre dello stesso anno (il giorno successivo all’annuncio dell’armistizio) viene fatto prigioniero dai tedeschi a Pola e la mattina del giorno successivo il 10 settembre, viene liberato dai partigiani di Tito a Passino presso Trieste, nello stesso anno viene fatto prigioniero nella periferia di Trieste e liberato per una seconda volta da una formazione di partigiani italiani.

A dicembre del ’43, rifugiato a Sant’Orso in provincia di Vicenza, viene arruolato nella Brigata Partigiana- Martiri della Val Leogra – Battaglione Ramina Bedin.

L’esperienza partigiana, per quanto mi risulta è una vicenda della sua vita nota a pochi, dura sino alla conclusione del conflitto e a giugno del 1945 fa ritorno in Sardegna, a Carbonia, dove viene riassunto nella miniera di Nuraxeddu per essere successivamente trasferito nel 1946 nell’officina meccanica della miniera di Serbariu.

Eletto prima nella Commissione Interna, diviene nello stesso anno segretario del Comitato di coordinamento delle commissioni interne  della miniera, membro della segreteria della Lega dei Minatori e infine componente dell’Esecutivo della Federazione provinciale dei minatori diretta per lungo tempo da Martino Giovannetti, il padre di Daverio.

Diviene nell’arco di pochi anni, al fianco di Velio Spano, Renato Mistroni, Antonio Sellitti, Pietro Cocco, Marco Giardina, e di tanti altri, uno dei principali dirigenti della classe operaia di Carbonia e del Sulcis.

E’ uno dei protagonisti della battaglia dei 72 giorni conclusasi il 18 dicembre del 1948a 10 anni dalla fondazione della Città, data che possiamo considerare – la citazione non è mia  ma la ritengo molto appropriata  data della rinascita morale della Città.

Non mi dilungherò, soprattutto per ragioni di tempo, su queste importanti vicende, essendo abbastanza  note ai più e sulle quali proprio Antonio ci ha lasciato importanti e dettagliate testimonianze, raccolte in una serie di articoli pubblicati sulla Provincia del Sulcis Iglesiente a cura di Giampaolo Cirronis e che saranno oggetto proprio di una sua successiva testimonianza nel corso di questo dibattito e saranno riprese certamente da Antonio Saba, con il quale ha condiviso insieme ad un’amicizia durata una vita, tutti i momenti cruciali della storia politica della nostra città.

Ancora giovanissimo, parliamo di un ragazzo di 21 anni è già protagonista in una temperie di lotte particolarmente difficili – mi riferisco alla battaglia per la sopravvivenza della città – che in tanti a quei tempi avrebbero voluto cancellare dall’atlante di geografia.

Inizia, dunque, al fianco di tanti altri protagonisti, un percorso di formazione  di quadro dirigente – come si usava dire allora  della vita politica e sindacale del Bacino Minerario, nel gennaio del 1949 viene inviato a Bologna al primo corso semestrale del P.C.I. presso la Scuola di partito in via dei Bottieri, al suo ritorno a Giugno viene eletto segretario della Lega dei minatori e segretario della Camera del Lavoro,  inoltre viene eletto nel Comitato Federale del  PCI della Federazione di Cagliari, a quei tempi non vigeva la regola dell’incompatibilità tra incarichi politici e sindacali.

Nel 1950 iniziano – chiamiamoli così – i primi inconvenienti del mestiere, viene arrestato per adunata sediziosa, corteo non autorizzato e aggressione delle forze dell’ordine, liberato dopo cinque mesi e condannato a dieci mesi con il beneficio della condizionale.

Viene sottoposto ad altri tre processi e di nuovo arrestato nel 1951, ne da conto anche l’avvocato Umberto Giganti anch’egli recluso in seguito ai fatti del 1948 in una lettera alla moglie Ina datata 9 febbraio 1951, contenuta nel libro “ La prigionia di un sogno” a cura di sua figlia Pia Giganti, dalla quale riporto testualmente: «Pelessoni è stato in causa ieri. E’ stato condannato a due anni di reclusione ma è uscito perché la pena gli è stata condonata. Puggioni è stato invece arrestato, per quella montatura della Cassa operaia, e si trova qui. Temo che dovrà rimanerci per un pezzo.»

Questa era la sorte comune per tanti dirigenti comunisti, socialisti di allora i tempi del “famigerato”  commissario Pirrone e della polizia di Scelba.

Il già citato Umberto Giganti, uscito dal carcere e rieletto in Comune, nella qualità di assessore anziano, subentrerà nel 1953/4 a Pietro Cocco nell’esercizio delle funzioni di sindaco, il quale fu destinatario di un provvedimento di sospensione dalle sue funzioni emanato dal prefetto di Cagliari.

La vita non era semplice a quei tempi in politica, sia nel sindacato che nelle istituzioni.

Puggioni viene eletto in Consiglio comunale per la prima volta nel maggio del 1952, assume l’incarico di assessore delle Finanze e del Bilancio e nel novembre dello stesso anno nominato Ispettore regionale degli Enti locali del PCI.

Nell’anno successivo, il 1953, viene nominato vicesindaco del comune di Carbonia.

Il 27 maggio del 1956 alle elezioni amministrative, viene riconfermato consigliere comunale.

L’attività politica e sindacale si intreccia con quella amministrativa e per riprendere un filo cronologico, nel 1954 viene nominato responsabile di zona del PCI e membro  della segreteria provinciale di Cagliari.

Nel 1957 viene chiamato insieme a Giovanni Lai e Girolamo Sotgiu a far parte della segreteria regionale del PCI in una fase che possiamo definire senza alcun eufemismo, di transizione.

Siamo in una fase successiva al terremoto del 1956, del quale ricordiamo la successione di avvenimenti storici sulla scala internazionale: il XX Congresso del PCUS con il rapporto segreto di Kruscev, l’invasione dell’Ungheria da parte delle truppe del Patto di Varsavia, VIII Congresso del PCI.

In questo quadro, in questi anni, nel PCI in Sardegna si afferma la segreteria di Renzo Laconi con  un conseguente ridimensionamento del ruolo di Velio Spano e del quadro dirigente di partito che a lui faceva riferimento, soprattutto del Bacino Minerario.

Antonio Puggioni era come la prevalenza del gruppo dirigente di Carbonia e del Sulcis, particolarmente legato a Velio Spano.

L’esito personale di questa fase politica per Puggioni può essere riassunto nella nota locuzione latina: Promoveatur ut amoveatur (sia promosso affinché sia rimosso).

Quindi dopo il matrimonio nel 1958 con Nilde Lampis compagna per tutta la sua vita, nel 1959 su incarico della direzione nazionale del partito, parte in incognito insieme alla consorte per l’Unione Sovietica, con un  passaporto intestato ai coniugi Calvi.

Il 1959 si presenta come un anno di svolta significativo nella vicenda personale e politica di Puggioni.

Il 28 aprile una prima tappa a Berlino orientale, in una città non ancora divisa dal muro, a maggio a Praga sino ad agosto dello stesso anno e, da questa data sino ad aprile del 1961, a Mosca.

Questa esperienza si rivelerà comunque molto importante, a partire dagli aspetti squisitamente politici, ed gli consentirà di entrare in contatto con personalità eminenti del movimento comunista internazionale; quindi si ritrova prima a Radio Praga al fianco di Aldo Tolomelli (divenuto in seguito senatore dell’Emilia) e di Francesco Moranino che vi svolgeva un attività di coordinamento squisitamente politico.

Moranino ex capo partigiano della Val d’Ossola era espatriato dall’Italia in ragione di una sentenza relativa a fatti dolorosi avvenuti nel corso della guerra partigiana e culminati in una sua condanna per la quale fu fatto decadere (prima circostanza nel Parlamento repubblicano) dall’incarico parlamentare.

Nell’URSS inizia a lavorare nella redazione italiana di Radio Mosca, nella quale anche la moglie Nilde trova occupazione nel lavoro di segreteria.

Questa esperienza, si rivelerà nel tempo fruttuosa, poiché oltre a consentire una importante confidenza con gli strumenti di comunicazione e l’attività di una redazione giornalistica, ne affinerà in meglio il   linguaggio, che come lo ricordiamo tutti, riusciva ad essere diretto, chiaro e semplice.

Chi ha avuto modo di ascoltare Puggioni sia in occasioni pubbliche, che in conversazioni private, sicuramente ne avrà apprezzato la proprietà di linguaggio, la capacità di scandire tempi e toni in maniera sempre molto efficace.

A Mosca risiede in un piccolo appartamento presso l’Hotel Ucraina ed entra subito in contatto con personalità del mondo sovietico moscovita, ma anche con una presenza italiana importante, tra le quali mi  preme segnalare quella con il “mitico” Giovanni Germanetto, giunto nell’URSS nel 1922, autore di un famoso libro “Le memorie di un barbiere” e insieme a Paolo Robotti “Trent’anni di lotte dei comunisti italiani”.

Frequenta e stringe amicizia con Giulia Schucht, la moglie di Antonio Gramsci, e con sua sorella Eugenia.

Di quello stesso periodo è l’amicizia Maurizio Ferrara corrispondente dell’Unità da Mosca (che successivamente sarà direttore de l’Unità), sua moglie Marcella che fu collaboratrice nella segreteria di Palmiro Togliatti.

In quelle circostanze Nilde si trovò più volte a prendere in braccio l’allora piccolo Giuliano, che diventerà noto a tutti noi per la militanza in un altro schieramento.

Sono anni in cui maturano una serie di rapporti sul piano politico ed umano con dirigenti nazionali che si recano a Mosca, tra i quali Nilde mi ha segnalato tra tutti, quello con Pietro Ingrao.

Inoltre, c’è una frequentazione molto importante per tutti gli avvenimenti di carattere culturale che si svolgevano attorno alla residenza dell’Hotel Ucraina e, infine dulcis in fundo, la frequentazione costante della vita culturale moscovita e del Teatro Bolscioi.

Sono anni importanti e prima di venire assegnato a nuova funzione in Polonia, nell’aprile del 1961 – alla quale oppone un diniego – l’esperienza si conclude con il rientro repentino a Carbonia, preceduto da un breve intervallo a Berlino Est che dura da aprile a luglio e con un intervallo romano dove vengono ricevuti insieme ad altri compagni provenienti da analoghe esperienze, da Palmiro Togliatti.

Nel luglio del 1961, appena rientrato a Carbonia, assume l’incarico di segretario del Comitato cittadino del PCI ed eletto nella segreteria della federazione del Sulcis, appena costituita al fianco di Licio Atzeni che è stato il primo segretario della federazione del PCI del Sulcis.

Una breve notazione, Licio Atzeni era il padre del noto e indimenticato scrittore Sergio Atzeni ed era la figura che ha ispirato il personaggio principale del libro “Il figlio di Bakunin” dal quale ha preso spunto per l’omonimo film,  il regista cinematografico Gianfranco Cabiddu.

Alle elezioni amministrative del novembre 1964 viene rieletto consigliere comunale, in una consiliatura nella quale si succedono due sindaci Antonio Saba ed Aldo Lai, quest’ultimo alla guida di una coalizione di centro sinistra in sintonia con il quadro politico nazionale di quella stagione politica, ma questa esperienza si conclude in modo traumatico con l’arrivo del commissario prefettizio, dottor Pandolfini se la memoria non mi inganna che amministrerà la Città sino alle elezioni del 17/18 novembre del 1968.

Antonio Puggioni viene eletto in questa tornata e rieletto consigliere alle elezioni amministrative del novembre del 1973 e siederà in Consiglio comunale sino alle elezioni del giugno 1979, in una consiliatura che, per ragioni di allineamento elettorale nazionale, dura sei e non cinque anni come previsto.

Riprendendo il filo dell’impegno politico a luglio del 1965 viene nominato Segretario della Federazione del PCI del Sulcis e nel 1969 viene eletto consigliere regionale nella VI Legislatura e riconfermato  nel 1974 VII legislatura nell’incarico di consigliere regionale che si concluderà nel 1979.

Su questo punto, quello dell’esperienza nel Consiglio regionale mi limito  a questa enunciazione poiché abbiamo chiesto al senatore Francesco Macis che è stato suo collega nei banchi del Consiglio, di tracciare nel suo intervento un profilo significativo dell’esperienza politica e istituzionale  condotta come legislatore.

Nel 1981, dopo un incarico di breve durata nel Comitato di gestione dell’USL n° 17 di Carbonia, Antonio Puggioni lascia tutti gli incarichi per dedicarsi ad attività private.

Come avete avuto modo di constatare, nella mia esposizione, ho cercato di seguire un ordine cronologico preciso  nel segnare il percorso della vita di Puggioni e a questo proposito devo dirvi che, mi è stato di particolare aiuto, proprio un suo scritto autografo nel quale ha segnato le tappe più significative delle esperienze della sua vita terrena che si è conclusa con la sua morte avvenuta a Carbonia il 24 agosto del 1998.

Una vita costellata da un impegno politico molto assorbente che però non gli ha impedito di essere molto presente nella vita familiare come marito e nell’educazione dei tre figli, Antonello, Cristina ed Annamaria che lo ricordano come un padre affettuoso e attento.

Vorrei aggiungere qualche ricordo personale del rapporto che ho intrattenuto personalmente con Antonio e qualche valutazione di carattere politico.

Una delle sue caratteristiche principali era costituita dalla capacità di dialogo e di intessere rapporti sul piano personale, sia con il mondo esterno, mi riferisco al dialogo con le altre forze politiche che con quello interno al proprio partito.

Assegnava al tema del rapporto con le persone un grande valore e questo era un suo grande pregio.

Una dialettica votata sempre alla ricerca dei punti d’incontro e di unione  soprattutto quando le distanze tra le posizioni in campo  rischiavano di diventare incolmabili.

Una capacità non certo unica, ma abbastanza rara, il saper mantenere in vita il filo del dialogo anche nelle situazioni di maggiore difficoltà.

Non fu mai un uomo di rottura, ma di dialogo, anche su piano sociale, lo testimoniano i rapporti con l’Azienda Mineraria, tra i minatori e nel rapporto con il clero e la sfera religiosa.

A questo proposito, mi preme ricordare il suo rapporto ed il ricordo affettuoso che aveva di don Vito Sguotti, che è stata una figura importante nella storia della Città, ben al di là della sua funzione di Sacerdote, quello con don Luigi Tarasco, cappellano dell’Ospedale Sirai, con i quali ha condiviso alcuni dei passaggi difficili dei primi anni di vita di Carbonia e, in ultimo, nella seconda metà degli anni ‘80, con fra Nazareno da Pula, con don Amilcare Gambella, che lo ricorderà nell’intervento successivo al mio, anni nei quali si era riavvicinato anche dal punto di vista spirituale alla fede e alla Chiesa.

Era inoltre animato da una curiosità culturale ed intellettuale non comune, per le vicende del Bacino Minerario e della sua classe operaia, era un lettore vorace e sempre impegnato nella ricerca di documenti.

Per questa sua attitudine alla ricerca ed all’accumulo di carte, atti, documenti, fotografie, pubblicazioni ,era avvertito come un pericolo, lo dico simpaticamente, soprattutto nelle sezioni di partito.

Questa tenacia gli ha consentito di acquisire e conservare un patrimonio documentale di grande rilievo del quale troviamo già da tempo, un significativo riconoscimento con delle citazioni in pubblicazioni di carattere nazionale, quali: “Carbosarda”, a cura di Giuseppe Are e Marco Costa, nella collana Mondi Operai nell’Italia del Novecento;

Ricordo di aver ricevuto da lui in dono, copia originale del Piano Levi, copia dell’Atto costitutivo della Società delle miniere di Iglesias, stipulato a Parigi nel 1867.

In questo lavoro era particolarmente scrupoloso ed aveva metodo e questo è stato tra gli altri, uno dei  tratti moderni della personalità di Puggioni sui quali intendo soffermarmi, perché sono un coniugato di sensibilità e lungimiranza insieme.

Tra le sue attività, delle quali mi aveva parlato e di cui ebbi modo di prendere visione, c’è un’interessante rassegna biografica di figure che hanno segnato la storia della città di Carbonia attraverso le lotte, la quotidianità, l’impegno istituzionale e religioso delle quali ha tracciato un ritratto di grande valore per la nostra memoria collettiva: Renato Mistroni, Silvio Lecca, Don Vito Sguotti, Pietro Cocco, Marco Aurelio Giardina, Giorgio Carta, Francesco Piga Onnis, Giuseppe Cabua, Claudino Saba e moltissimi altri.

Questo lavoro testimonia una grande sensibilità e la volontà di non disperdere un patrimonio di conoscenze e di memorie il cui valore culturale, sociale ed antropologico è di un’importanza inestimabile per tutti noi.

Devo aggiungere che proprio su questa traccia l’indimenticato compagno ed amico Sergio Usai, alla guida dell’associazione “La nostra storia – Le nostre radici”, si era impegnato a proseguire in un analogo lavoro di implementazione riguardante figure importanti della città e del mondo dello sport cittadino, che è bene tenere presente in memoria.

In ultimo, mi avvio a concludere, voglio esprimere il mio sincero apprezzamento per l’organizzazione di questa  conversazione.

Non è questa la prima occasione in cui l’associazione “Amici della Miniera” dedica un’iniziativa in ricordo di personalità che si sono distinte nella nostra comunità, segnalo quella dedicata alla figura di Silvio Lecca alcuni anni orsono, altre analoghe ci saranno in futuro, a partire dalla prossima in programma, dedicata alla figura di Aldo Lai.

E’ quindi doveroso apprezzare ed elogiare il proposito dell’associazione e di Mario Zara che la dirige,  perché rimanga così forte e determinata la volontà di restituire alla memoria collettiva una piena e completa evidenza di protagonisti della nostra comunità cittadina, qual è stato Antonio Puggioni.

Nel concludere il mio intervento, vorrei ringraziare l’associazione, per avermi concesso l’onore ed il piacere di contribuire a farlo insieme a tanti altri amici e compagni intervenuti a questa iniziativa.

Antonangelo Casula

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Sabato 26 novembre 2016, alle ore 16.30, presso la Sezione di Storia Locale di Carbonia (Grande Miniera di Serbariu) si terrà il convegno “In ricordo di Antonio Puggioni, dirigente politico e sindacale nelle istituzioni”.

L’evento è organizzato dall’Associazione Amici della Miniera, con il patrocinio del comune di Carbonia. I lavori verranno coordinati dalla prof.ssa Anna Lai.

Il programma dei lavori prevede la presentazione e l’apertura di Mario Zara, presidente dell’Associazione Amici della Miniera.
I lavori verranno aperti con una breve proiezione di fotografie e di un estratto dell’intervista realizzata nel 1985 dagli studenti della scuola media Zanella.
Seguiranno l’intervento di un rappresentante dell’Amministrazione comunale e l’intervento introduttivo di Antonangelo Casula, ex sindaco di Carbonia.

Sono previsti poi interventi di contributo e testimonianza, di:

Don Amilcare Gambella, parroco della chiesa di San Ponziano
Antonio Saba, ex sindaco di Carbonia
Giampaolo Cirronis, giornalista e direttore del periodico “La Provincia del Sulcis-Iglesiente”
Salvatore Figus, operatore culturale
Senatore Francesco Macis

E, infine, gli interventi del pubblico e il saluto dei familiari.

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