5 December, 2025
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I pareri sulla Sanità che vengono quotidianamente diffusi agli italiani sono come i racconti di Storia: dipendono da chi li racconta. Da oltre 30 anni i pareri provengono dai burocrati e dai politici. Essi si limitano a fornire la descrizione dei guasti alla sanità pubblica e non forniscono mai progetti per risanarla. All’inizio non fu così: la Sanità pubblica fu un progetto esclusivo concepito da tre medici, deputati dell’Assemblea Costituente, che stavano preparando la nascita della nuova Repubblica.
Il 1° gennaio 1948 per la prima volta nella storia si parlò di Sanità pubblica a carico dello Stato. Nell’ articolo 32 della Costituzione sta scritto: «La Repubblica tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo…». L’articolo venne concepito e scritto da quei tre Medici che gli avevano dedicato l’intero anno 1947 con studi e discussioni. Essi erano  il dottor Giuseppe Caronia, clinico pediatra a Roma, democristiano; il dottor Mario Merighi, primario di medicina a Mirandola, socialista; il dottor Alberto Cavallotti, primario di un nosocomio milanese, comunista. Essi spiegarono che la qualifica di “diritto fondamentale” dato alla salute era giustificata dal fatto che qualunque essere umano si trovi in stato di malattia è equiparabile ad un essere in stato di schiavitù o di dipendenza da altri, correndo il rischio di perdere la dignità e di non poter esercitare i propri diritti. Da questa considerazione i Costituenti hanno derivato il principio che la Sanità Pubblica deve essere basata sulla “solidarietà” e nessuno deve vivere l’esperienza d’essere trascurato e offeso dall’abbandono sociale nel momento della sofferenza. Tina Anselmi, che fu ministro della Sanità nel biennio 1978/1979 costruì la sua legge 833/78 ispirandosi ai documenti lasciati ai posteri da quei tre medici nell’anno 1947. Nel ventennio tra il 1992 e il 2009 quel principio venne modificato a fondo. L’ultimo colpo gli venne dato dal tracollo economico internazionale iniziato con la crisi dei “subprime”, e il fallimento di Lehman Brothers negli Stati Uniti, che coinvolse anche l’Europa; l’Italia finì sull’orlo del fallimento. In quel ventennio i principi solidaristici dei tre medici costituenti italiani vennero radicalmente modificati. Si passò da una gestione della sanità basata sui valori umani della Costituzione ad una gestione basata sul diritto aziendale . Si passò dal principio della solidarietà al principio del bilancio fondato sull’interesse economico. Il cittadino passò dallo stato di titolare di un “diritto fondamentale “ allo stato di “cliente” di un’azienda (ASL).
In questa storia di sanità pubblica, iniziata dai tre medici Costituenti, le figure dei medici pubblici in qualità di programmatori vennero fatte drasticamente scomparire e in quella funzione vennero sostituiti da esperti burocrati. Perciò da circa 30 anni la Sanità è in mano ai “manager”. Essi sono liberi professionisti, abilitati a gestire aziende, incaricati dal potere politico regionale, e non sono tenuti a rendere conto del loro operato alle amministrazioni comunali e provinciali.
Dopo 33 anni di tale gestione, e dopo i risultati fallimentari conseguiti, dati i giganteschi problemi demografici ed economici che si prospettano, è lecito pensare di tornare ai valori dei tre medici costituenti.
Ciò implica il dover cambiare la visione attuale sulla Sanità pubblica e riprogrammarla secondo principi diversi da quelli adatti a gestire una impresa economica.

Ipotesi di proposta.

Il problema strutturale globale riguarda l’intero apparato sanitario “su campo”. Esso è costituito da:
– Gli ospedali per acuti,
– Gli ospedali per cronici,
– L’organico dei medici,
– L’organico degli infermieri e dei tecnici,
– La medicina di base,
– Le case della salute,
– Gli ospedali di comunità.

E’ necessario ridefinire la natura di ognuna di queste entità ridefinendo anche i rapporti fra di esse. Il nuovo contesto globale deve favorire la comunicazione fra: ospedali, apparato tecnico amministrativo, i professionisti, le loro gerarchie e la sanità territoriale.

Gli ospedali.

Le leggi emanate dal Governo Amato I e II , e la riforma del titolo V, parte II della Costituzione hanno avuto l’effetto di:
a – depotenziare e chiudere gli ospedali provinciali di I livello.
b – Accentrare le funzioni diagnostiche e terapeutiche negli ospedali regionali di II livello.
Il depotenziamento della sanità provinciale ha provocato l’iper-affluenza dei pazienti dalle province agli ospedali regionali.
Gli ospedali regionali di II livello (come Brotzu e Santissima Annunziata) furono concepiti per le ultraspecializzazioni mediche ma, a causa della riduzione del sistema sanitario nelle province, essi sono stati costretti ad assumersi anche le funzioni degli ospedali provinciali. La nota crisi che ne è nata, e che ha visto pochi mesi fa anche la necessità di chiudere temporaneamente il Brotzu, per sovraccarico, impone di restituire, gli ospedali regionali di II livello, alle funzioni ultraspecialistiche per cui erano nati.
Di conseguenza si devono restituire gli ospedali provinciali di I livello (come Carbonia e Iglesias) alle funzioni che avevano in passato a servizio dei malati del territorio.
Gli ospedali provinciali di I livello devono tornare ad occuparsi pienamente di tutte le patologie chirurgiche e internistiche, riservando a quelli di II livello (di Cagliari e Sassari) la cardiochirurgia, la
neurochirurgia, e i trapianti d’organo.
Negli ospedali di I livello provinciali vanno riattivate tutte le chirurgie di base e i Servizi di Anatomia Patologica, Radiologia, Endoscopia digestiva e respiratoria, Radioterapia, Chemioterapia. Se questa riattivazione degli ospedali avverrà contestualmente a una riorganizzazione della medicina di base, ne conseguirà il crollo immediato delle liste d’attesa per i ricoveri e gli interventi. Dato il quadro demografico attuale ne beneficerà l’utenza costituita da ultra-cinquantenni e, sopratutto, da anziani non autosufficienti. Per essi è urgente la rapida riattivazione dei centri ospedalieri vicini al fine di contrastare il fenomeno di rinuncia alle cure derivato dalla difficoltà e onerosità del trasporto dei malati.
Un beneficio collaterale certo sarà la ricostituzione di una efficiente rete di medici di base del territorio, ben supportata dalla disponibilità degli ospedali provinciali restituiti alla loro operatività.
Gli attuali ospedali provinciali, nati nel dopoguerra, destinano oggi i pochi posti letto rimasti (20-25 per U.O.) per i pazienti acuti.
Bisogna sapere che gli stessi ospedali vennero progettati per almeno il triplo dei posti letto. Questo fatto è purtroppo sconosciuto sia ai cittadini che ai politici.
Gli ospedali di Carbonia e Iglesias, ai quali il piano ospedaliero destina 250 posti letto, fino a 30 anni fa avevano 750 posti letto (500 in più).
Considerata la maggiore capienza potenziale, sarebbe possibile l’apertura di nuove Unità Operative per pazienti cronici (geriatrici), a fianco alle Unità Operative per acuti. Tale riutilizzo avrebbe importanti effetti sulle liste d’attesa e sulla famiglie.

Per avviare il progetto di nuova responsabilizzazione della politica locale territoriale all’interno della ASL e, contemporaneamente, valorizzare il personale si deve convenire su un punto fermo: la struttura sanitaria e la struttura amministrativa necessitano di due gerarchie fra loro indipendenti.

I medici.

I medici rappresentano la componente professionale essenziale per l’assistenza ospedaliera e territoriale. Sono irrinunciabili per il riavvio del Sistema sanitario. L’organico dei medici di ogni Unità Operativa ospedaliera deve avere una struttura gerarchica ben definita. La gerarchia è la catena di comando che muove simultaneamente tutti i pezzi del motore della Sanità.
Fino alla riforma di Francesco Di Lorenzo del 1992 gli organici dei medici ospedalieri erano formati da:

– un orimario: con funzioni di capo della scala gerarchica.
– due aiuti: medici esperti idonei ad assumere funzioni primariali, soggetti alla autorità del primario.
– setto-otto assistenti (medici soggetti all’autorità degli aiuti e del primario).
Il DPR 229/1992 di Francesco Di Lorenzo abolì la figura gerarchica del primario della Divisione ospedaliera e quella degli Aiuti. Scomparvero così la scala delle responsabilità e anche quella del merito. Prima d’allora il funzionamento della gerarchia dei medici era regolata dalla legge 128/69. Essa legge, all’articolo 7, definiva il ruolo del primario. Egli, oltre al compito di direttore della Divisione, aveva la funzione di legale responsabile della compilazione e della sorveglianza delle cartelle cliniche; aveva, inoltre, il compito di “vigilare” sul personale medico e infermieristico; era il responsabile del benessere e della cura dei malati. Per “compito di vigilanza” si intendeva l’obbligo di di fare verifiche sulla qualità dell’attività professionale dei medici e di sorvegliarne la disciplina. Curava con rigore la disciplina degli infermieri, dei tecnici, e del personale ausiliario. Egli era tenuto a prendersi cura della formazione continua e dell’addestramento dei medici. Essendo il responsabile della accuratezza delle cure ai malati, doveva sempre verificare:
1. L’esattezza delle diagnosi e approvarle;
2. L’appropriatezza delle cure e approvarle;
3. La conformità morale e professionale nei rapporti fra il personale e i malati.
Di fatto svolgeva la funzione di “Maestro” addestratore alla professione sanitaria.
La divisione ospedaliera (attuale Unità operativa) aveva funzioni di cure , e di scuola di formazione post-universitaria per i giovani medici.
Non esisteva il problema che oggi lamentano i medici ospedalieri : cioè l’assenza di prospettive di carriera. Era possibile avanzare di grado diventando prima aiuto e poi primario, acquisendo titoli professionali e idoneità nazionali ministeriali.
Gli ospedali che avevano in organico i primari migliori formavano i medici migliori. Essi erano la sede in cui nascevano e crescevano quei chirurghi e quegli internisti che nel tempo sarebbero subentrati ai medici anziani nelle funzioni di primari e vice-primari. All’uscita di scena di un primario non si creava mai il vuoto gerarchico. Il primario usciva di scena quando era pronto il suo sostituto, che era sempre un aiuto già formato per fare il primario. In Germania tutt’oggi il primario che si prepara alla pensione indica il successore due anni prima della sua uscita di scena, e per due anni concentra su di lui tutti gli sforzi per trasferirgli le sue competenze.
L’ospedale italiano fino al 1992 era, globalmente, una scuola di formazione continua. I medici che entravano in quella scuola ne ereditavano cultura, esperienza, professionalità, e avevano la possibilità di carriera primariale. Gli stipendi fra questi tre gradi (assistente, aiuto, primario) erano differenziati in progressione. Il miglioramento del trattamento economico era sincrono col miglioramento delle capacità professionali e dei titoli acquisiti con concorsi nazionali, fino alla posizione apicale.
Tutti i Primari erano componenti del Consiglio dei sanitari; fra di essi veniva eletto il Direttore sanitario.
Era un meccanismo di valorizzazione che consentiva ai medici di produrre le scelte programmatiche da affidare poi alla parte amministrativa perché potessero essere realizzate.
Attualmente non è così: oggi il Direttore sanitario viene scelto dal Direttore generale della ASL. Questa soggezione di nomina genera scarsa autonomia di giudizio; inoltre il parere espresso sia dal Direttore sanitario che dal Consiglio dei Sanitari non ha peso o non viene neppure richiesto. Questo meccanismo demotiva i medici che, sviliti ed estraniati dalle scelte, sono impediti dal partecipare attivamente alla programmazione.
Oggi il Direttore generale della ASL viene designato da organismi politici regionali lontani dai territori provinciali, mentre in passato veniva nominato, con incarico di presidente, dai Consigli comunali del territorio. Tale differenza comporta che le decisioni prese allora col sistema precedente corrispondevano alle istanze dei cittadini del territorio; oggi no.
Questa “estraneità” al territorio, dell’attuale Direttore generale rispetto ai precedenti presidenti di USL, è una delle cause del distacco fra cittadini e sanità pubblica, e anche fra medici dell’ospedale e medici del territorio. Dapprima i medici dell’ospedale e quelli del territorio erano in rapporto diretto fra di loro perché avevano al di sopra un’unica autorità territoriale locale unificante. Ne conseguiva che il medico di base che curava un paziente, di fatto, continuava a seguirlo attraverso i medici dei reparti che erano la proiezione ospedaliera della medicina di base. Questo “continuum” tra medici di base e ospedalieri era una garanzia di sinergia delle cure e di sostegno interno fra i due sistemi.
La legge di Francesco Di Lorenzo comportò tre trasformazioni:

1 – Tutti i medici vennero classificati allo stesso livello gerarchico; ne conseguì la scomparsa dello “avanzamento” nella carriera direttiva e da allora si ignorarono le diverse competenze professionali e il merito.
2 – La scomparsa degli aiuti comportò la scomparsa delle figure professionalmente autorevoli che potevano sostituire il primario in sua assenza.
3 – Colla scomparsa del primario (quello della legge 128/69) scomparve il capo-scuola ospedaliero, e cessò l’esistenza di chi doveva, per legge, formare i medici destinati a divenire i futuri primari.
L’esperienza che stanno vivendo oggi gli ospedali dimostra che l’uscita di scena del primario comporta la fine dell’Unità 0perativa. I medici più giovani che intendono continuare a lavorare ad un alto livello
professionale, una volta privati del primario, sono costretti a trasferirsi in altri ospedali ancora dotati di primari.
Da questa esposizione emerge l’evidenza che l’organico dei medici è vario ed è composto da diverse figure a diversi livelli di formazione. Esistono i medici appena laureati dalle Università, ed esistono i medici con un grado di formazione professionale più avanzato. Dal momento dell’uscita dall’Università i medici vanno considerati “medici in formazione per sempre”.
La formazione avviene per gradi solo all’interno degli ospedali. Qui essi vengono culturalmente costruiti attraverso l’esperienza nell’applicazione delle regole riconosciute dalle Società scientifiche. La loro esperienza avviene attraverso l’imitazione dei medici più anziani.
I medici vengono formati da altri medici e, una volta lasciata l’Università per l’ospedale, il nuovo campo di studio è costituito dal malato e dall’apparato che lo cura. L’apparato di cura ospedaliero è formato
dalla équipe di specialisti, dai servizi di laboratorio, Radiologia, Anatomia patologica, dal personale Infermieristico, dal Pronto soccorso, e dagli altri reparti ospedalieri. Ogni giorno di lavoro in ospedale è una giornata di studio e formazione. All’apice della piramide docente è il primario. Egli è il riferimento concreto per l’applicazione della scienza, per la formulazione della diagnosi definitiva e per la programmazione terapeutica.
Ne consegue che l’Amministrazione che programma l’assunzione di nuovi medici per le Unità operative non può esimersi dall’arruolare per primi i medici formatori di altri medici: i primari.

Infermieri.
Vengono distinti, in base alla formazione, in:
– Infermieri laureati,
– Infermieri diplomati,
– Capo sala.
L’infermiere Capo sala di un reparto di degenza è il capo di tutti gli infermieri della stessa Unità operativa. Deve avere competenza organizzativa e autorità professionale e disciplinare su tutto il personale infermieristico. La sua autorità gli deriva direttamente dal primario.
Agli infermieri vengono affiancati gli OSS.
Oggi si lamenta la scarsità di personale infermieristico. In realtà l’ospedale può risolvere il problema della carenza di personale assumendo le funzioni di scuola infermieristica e generare infermieri diplomati e anche OSS.
Gli infermieri che vogliono acquisire la laurea devono rivolgersi alle scuole di formazione in Scienze Infermieristiche dell’Università.
Quanto detto per i “medici in formazione per sempre” vale anche per gli infermieri. I nuovi infermieri diplomati e laureati, acquisiscono le capacità della professione pratica imitando gli infermieri professionalmente più anziani posti ad uno scalino gerarchico più elevato.
E’ necessario che anche tra di essi esista una rigorosa gerarchia in cui il capo è tenuto alla verifica costante della qualità delle prestazioni assistenziali e abbia autorità disciplinare e premiante.
Un capitale umano d’alto livello infermieristico diventa un capitale sociale che estenderà il beneficio professionale maturato anche ai malati del territorio extraospedaliero.

Conclusione.

E’ illogico che gli ospedali siano in mano a esperti di amministrazione che conoscono bene i conti ma non conoscono cosa sia la Sanità. Il pubblico che si lamenta coi suoi politici della Sanità di oggi non può perdere tempo nel piagnisteo quotidiano sui giornali ma deve fornire argomenti concreti che dimostrino lo stato di abbandono politico amministrativo persistente. Dalla nostra provincia devono nascere richieste concrete come il raddoppio dei posti letto nei nostri ospedali. Oggi gli ospedali hanno posti letto solo per “acuti”, come infartuati, emorragici o incidenti della strada. Per questo hanno pochissimi posti letto. In realtà è necessario che possano accogliere, in posti dedicati, anche i pazienti sub-acuti, per esempio: anemici, portatori di dolore cronico, sofferenti di deperimento per tumori avanzati. Pazienti, questi, che sono abbandonati alle famiglie. I casi di pazienti cronici non autosufficienti verranno seguiti dalle RSA. Abbiamo bisogno di primari da assumere, medici da mettere sotto la guida di Primari, personale medico e infermieristico sotto una chiara gerarchia. Ci servono soldi per aumentare le entrate del personale che si dedichi, senza lungaggini temporali, a diagnostica strumentale impegnativa come: le procedure radio ed ecoguidate, le colonscopie, le gastroscopie, le broncoscopie e le cistoscopie, e a far funzionare le sale operatorie, le radiologie, e tutti servizi tecnologici. Ci serve aggiornamento tecnologico come risonanza magnetica avanzata, anatomia patologica, virologia, PET e chirurgia robotica.
Vogliamo scommettere che ridurremo le fatiche compensatorie delle case di cura private e che i giovani medici faranno a gara per venire nei nostri ospedali a lavorare e imparare?

Mario Marroccu

Il distacco comunicativo, sui temi sanitari, tra Regione, Province e Comuni, è una delle cause del fallimento del sistema sanitario regionale. L’incomunicabilità iniziò nel dicembre del 1992 quando il ministro Francesco Di Lorenzo escluse i politici provinciali dalle amministrazioni delle USL, e inventò i “manager”. Tale incomunicabilità peggiorò per una malintesa interpretazione della riforma del titolo quinto della Costituzione, avvenuta il 18 ottobre 2001 quando, di fatto si passò dal SSN unico ai 21 SSR (Sistemi Sanitari Regionali). La Costituzione, riformata agli articoli 114 e 117, da allora conferisce alla Regione una “potestà legislativa” che prima non aveva; al tempo del Sistema Sanitario Nazionale unico, infatti, tale potere era riservato solo allo Stato. Esattamente la Costituzione afferma, all’articolo 117, che la Regione ha la potestà di produrre leggi regionali “concorrenti” per gestire il proprio Sistema Sanitario Regionale. La potestà legislativa concorrente delle Regioni prevede che sia lo Stato che le Regioni possano legiferare nelle stesse materie. Lo Stato stabilisce i principi fondamentali (in questo caso i LEA) mentre alle Regioni spetta il compito di emanare leggi attuative e di dettaglio per il resto. La Regione Sardegna, pertanto, ha la potestà legislativa per poter delegare la competenza di gestire la Sanità alle Province e ai Comuni. Con una legge ad hoc la Sardegna potrebbe disporre che vengano delegate le funzioni di Presidente della ASL ad un rappresentante politico del luogo. Nominato il Presidente, la Regione può affiancargli un Consiglio di amministrazione, che sarà formato da una rappresentanza di sindaci della stessa Provincia. Con queste figure politiche, poste al vertice della ASL, le amministrazioni locali possono riottenere il titolo per controllare la ASL. 

Nota bene: esiste già un embrione di questa idea nell’attuale Piano sanitario regionale in cui si riconosce alla Commissione Sanitaria Provinciale la funzione di controllo (esterno e puramente teorico) sul Direttore Generale della ASL; tuttavia tale Commissione è del tutto ininfluente ed è senza reali poteri. Ciò che si ipotizza in questa proposta è la costituzione di una struttura, di natura politica locale, posta all’interno dell’organismo dirigenziale della ASL, che affianchi e sovrasti politicamente il Direttore generale. 

Il Sistema Sanitario Nazionale varato nel 1978 funzionava molto bene. Ebbe il difetto di non rispettare la regola del pareggio di bilancio e di indebitare lo Stato. Nella storia fu la sanità più stimata dagli italiani. 

Aveva due caratteristiche: una buona e una cattiva. La buona consisteva nell’impegno, posto dai politici locali, nel garantire una sanità apprezzata dalla popolazione. La caratteristica deleteria consisteva nell’abuso, delle “spese a piè di lista” delle USL, per ottenere i rimborsi di spese eccessive su quelle programmate, giustificandole come necessarie. Spese che avvennero senza freni. I debiti registrati nella Sanità pubblica furono tali da indurre i governi successivi che amministrarono l’Italia dal 1992 in poi, a eliminare le figure dei politici locali dalle USL. Al loro posto, alla direzione delle ASL, vennero incaricati i “manager”. Questi erano figure monocratiche che riassumevano, in una unica persona, tutti i poteri e tutte le funzioni che prima appartenevano ad una macchina amministrativa più complessa, e rappresentativa del territorio, fatta di amministratori locali. La riforma dei “manager” ebbe il pregio di mettere sotto stretto controllo la contabilità e rispettare il pareggio di bilancio; ebbe, tuttavia, il difetto di attribuire a quella figura amministrativa anche una funzione a cui non poteva essere adeguata: la funzione di interprete della volontà popolare. Compito che è sempre stato delegato, e sarà, ai politici locali e provinciali. Il manager, a causa della sua natura prettamente tecnica, aveva come primo obiettivo la contabilità, anche a costo di andare contro le aspettative di assistenza. Attraverso questa via, in circa tre decenni, la Sanità pubblica si è sgretolata. 

Una volta riconosciuta l’inadeguatezza della Sanità dei “manager”, oggi si potrebbero riprendere in considerazione gli strumenti politici del passato che resero efficiente la Sanità pubblica. Ciò è possibile restituendo incarichi di gestione ai politici locali imponendo, tuttavia, la loro esclusione dal controllo della contabilità; questa dovrebbe restare un dominio esclusivo e indipendente del Direttore generale della ASL. Una figura “estranea” nata a quello scopo. 

L’articolo 117 della Costituzione, così come modificato nel 2001, ci offre lo strumento legittimo per procedere; esso conferisce la “potestà legislativa” alle Regioni in tema di sanità. In sostanza, attraverso la “legiferazione concorrente”, le Regioni possono produrre norme proprie adatte a cambiare la propria sanità futura. 

La Regione Sardegna può legiferare sulla struttura organizzativa delle sue ASL restituendo ai nostri Comuni e alle Province la funzione di controllo al loro interno. Una volta stabilito il vincolo del pareggio di bilancio, riservato in esclusiva al manager, si potrebbe mettere l’intera amministrazione sotto il controllo politico dei sindaci e del presidente della Provincia. Sarebbe sufficiente un’integrazione all’articolo che indica gli organi direttivi delle ASL introducendo le figure del: 

– Presidente della ASL (eletto dai sindaci e incaricato dalla Giunta regionale), e del 

– Consiglio di amministrazione (eletto con regole simili a quelle per la Provincia). 

La loro azione verrebbe supportata dal Consiglio dei sanitari, formato da tutti i primari, da un rappresentante dei medici, da uno degli infermieri e da uno dei tecnici. Il Consiglio dei sanitari avrebbe le funzioni di organo propositivo e consultivo per il Presidente, per il Consiglio di amministrazione, e per il Direttore generale. 

Una volta restituita la rappresentanza politica territoriale alle ASL, sarebbe da considerare come ricostituita la “cinghia di trasmissione” tra cittadini e direzione tecnica della ASL. 

Proposta 

Si disegna una proposta che modifica un articolo della legge di istituzione del Servizio Sanitario Regionale. Si tratta dell’articolo che istituisce gli organi dirigenti della ASL. 

Gli organi della ASL sono: 

il Presidente: viene eletto dal Consiglio dei sindaci di tutto il territorio con le regole utilizzate per la Provincia; è incaricato dalla Giunta regionale. Ha funzioni politiche di proposta, programmazione e controllo. Rappresenta il Consiglio di amministrazione raccogliendo le istanze popolari. 

Il Consiglio di amministrazione; ha funzioni politiche di proposta, programmazione e controllo. 

Viene eletto, contestualmente al Presidente, dalle amministrazioni locali territoriali secondo lo stesso metodo dettato dalla legge regionale per i consigli provinciali. Si limiterebbe a 6 rappresentanti, più il Presidente. Ha la funzione di rappresentare le istanze popolari nel bisogno di salute. 

Il Consiglio dei sanitari; formato da tutti i medici di II livello, da un rappresentante dei medici di I livello, da un rappresentante degli infermieri, da un rappresentante dei tecnici, e da un rappresentante dei medici di base eletti dai rispettivi gruppi. È presieduto dal Direttore sanitario della ASL. 

Ha funzioni di rappresentanza delle istanze provenienti da tutto il personale sanitario ospedaliero e territoriale presso il Consiglio di amministrazione, il Presidente, il Direttore generale, il Direttore amministrativo. È inoltre di supporto tecnico, di proposta e di verifica al fine di migliorare l’efficacia dell’azione dell’apparato sanitario. 

Il Direttore sanitario della ASL viene eletto dal Consiglio dei sanitari. Viene indicato dal Presidente della ASL al Direttore generale che gli conferisce l’incarico. Assieme al Direttore amministrativo egli ha funzioni di supporto tecnico del Direttore generale, e di consulente del Presidente. Rappresenta il Consiglio dei sanitari. 

Il Direttore generale, incaricato dalla Giunta regionale. È il capo della gerarchia amministrativa. Pianifica la programmazione amministrativa informando il Presidente, il Consiglio di amministrazione e il Consiglio dei sanitari, il Direttore amministrativo. Ne recepisce i pareri e suggerimenti; decide di acquisirli o meno in autonomia, dandone il motivo. È il responsabile del pareggio di bilancio. Ha il potere esecutivo. 

Il Direttore amministrativo; è la seconda figura nella gerarchia amministrativa, ha funzioni esecutive in subordine al Direttore generale. 

Questa proposta deriva dall’assunto che le figure tecniche qualificate per cogliere i bisogni sanitari specialistici necessari alla popolazione sono i medici, gli infermieri e, soprattutto, lo è il massimo referente dell’apparato sanitario che è il primario ospedaliero (dirigente di II livello). I primari delle Unità operative hanno il polso dei bisogni sanitari della popolazione e dei provvedimenti tecnici per soddisfarli. Da essi dovrebbero nascere le indicazioni alle amministrazioni delle ASL; indicazioni che, raccolte dal Consiglio dei sanitari, vengono comunicate al Presidente e al Direttore generale. Si tratta di un campo dei bisogni ben preciso: il bisogno in medici specialisti, in personale infermieristico e tecnico, in nuove tecnologie diagnostiche e terapeutiche, e in nuove strutture (Unità operative). In questa visione la parte amministrativa avrebbe competenza sulle manovre contabili per realizzare i progetti programmati, e avrebbe la fondamentale funzione di dare assistenza ai medici nel compimento della loro missione curativa secondo le necessità registrate. 

Su tutti, a capo del Sistema formato da medici e amministrativi deve esistere una figura che funga da interfaccia tra: popolazione (utenti), personale sanitario, e personale amministrativo. L’interfaccia deve necessariamente riassumere in sé la complessa funzione di rappresentante della politica territoriale all’interno di una struttura contemporaneamente tecnica e amministrativa: tale figura è il Presidente. 

Il Presidente ha la funzione di intermediatore tra politici locali e amministrazione della Sanità pubblica. Si tratta di quella interfaccia che venne negata dalle leggi di riforma varate con i vari DPR dal 1992 al 1999. 

Secondo la logica di questa ipotesi di proposta il capo della ASL deve essere un rappresentante politico del territorio (un sindaco o il presidente della provincia). La programmazione del servizio reso dai medici deve essere competenza del rappresentante del Consiglio dei sanitari; la funzione amministrativa-contabile, e del controllo di legittimità degli atti, deve essere competenza del Direttore generale (“o manager”), in qualità di responsabile unico della programmazione finanziaria e garante del pareggio di bilancio. Il Presidente della ASL deve avere le attribuzioni della “figura politica” di controllo e proposta, e occupa il vertice della piramide gerarchica della ASL. La base della piramide è formata dai cittadini elettori del territorio. 

Nella logica di questa esposizione, che è conforme agli articoli 114 e 117 della Costituzione, la catena di legittimità inizia con il consenso degli elettori; all’altro estremo si conclude con il Presidente della ASL. 

I cittadini elettori eleggono i sindaci; i sindaci designano fra di loro il Presidente della ASL; il Presidente della ASL ottiene l’incarico dall’assessore regionale; il Presidente della ASL sarà il Presidente del Consiglio di amministrazione; il Presidente riceve gli input sulla programmazione tecnico-sanitaria dal Consiglio dei sanitari; il Consiglio dei sanitari elegge il Direttore sanitario al proprio interno. Il Presidente dà gli input programmatici al Direttore generale. Il Direttore generale domina la macchina amministrativa ed ha la responsabilità dell’equilibrio di bilancio. 

Questa proposta è un disegno che indica concretamente la composizione della gerarchia politico-amministrativa destinata al riavvio della Sanità pubblica territoriale e regionale. 

Poste queste basi, si possono individuare i principi guida per la struttura da dare al personale di: organici dei medici, infermieri e tecnici, delle Case della salute, di comunità, territorio, ospedali. 

Mario Marroccu

Farsi male con le proprie mani è una cosa molto complicata. Si cerca di ottenere il massimo bene possibile per poi scoprire, dopo molti anni, che il risultato ottenuto è stato il peggioramento di ciò che si aveva. I filosofi lo chiamano “eterogenesi dei fini”. Pare che questo sia capitato alla Sanità pubblica italiana.
Sappiamo che per raggiungere il fine del benessere sanitario, dal 1948 ad oggi, sono stati fatti grandi sforzi per dare efficienza alla Sanità pubblica secondo l’articolo 32 della Costituzione e sono state varate leggi per migliorare la sua gestione che, tuttavia, una volta applicate, hanno portato ad una Sanità in cui la salute è realmente garantita solo ad una minoranza di cittadini dotati di risorse economiche proprie. I più devono iscriversi alle “liste d’attesa”.
Approvato l’articolo 32 della Costituzione per la Sanità, si dovette attendere il 1978 per avere la legge di istituzione del Servizio Sanitario Nazionale n. 833/78. Il SSN nacque per superare il precedente sistema della Casse mutue che garantiva cure solo a specifiche categorie di lavoratori e cittadini lasciando ampie disuguaglianze nell’accesso alle cure.
L’obiettivo politico del dopoguerra era teso a realizzare un sistema universalistico basato su tre principi cardine:
1 – L’Universalità: assistenza per tutti,
2 – L’Uguaglianza parità di accesso alle cure,
3 – la Globalità: non solo cure ma anche prevenzione e riabilitazione.

Nacque così la Sanità di Stato per la tutela della salute di tutti nell’interesse della collettività. Il compito venne affidato alle USL (Unità Sanitarie Locali). Esse erano strutture organizzative sub-provinciali affidate alla gestione dei politici locali (sindaci). Il programmatore e finanziatore era lo Stato.
Dopo 14 anni quella Sanità finì perché troppo costosa. Venne ritenuta responsabile dello indebitamento dello Stato a causa della spesa sanitaria lasciata in mano ai politici territoriali. Di conseguenza, appena se ne presentò l’occasione, come fu nel 1992, si fecero leggi per estrometterli.
Tale operazione di estromissione degli amministratori locali dalle USL venne adottata per fermare le ingenti spese “a piè di lista” che a fine anno obbligavano lo Stato a ripianare i debiti contratti.
Si ritenne che le spese fossero frutto di sprechi provocati dalla lottizzazione del potere locale. La crisi del 1992 fu l’occasione per giustificare la trasformazione delle USL in ASL (Aziende Sanitarie Locali).
Le nuove istituzioni sanitarie erano aziende dotate di personalità giuridica pubblica ma di autonomia imprenditoriale, gestionale e patrimoniale tipiche delle aziende private. Eliminati i politici locali si provvide a nominare, a capo delle ASL, i “Manager”, ideali esecutori delle direttive che imponevano alle ASL l’obbligo del “pareggio di bilancio“. Essi vennero dotati di strumenti di contabilità per monitorare costi ed efficacia come fanno i privati. L’obbligo del pareggio di bilancio occupò il primo posto nella lista dei compiti di mandato del Manager.
La crisi istituzionale e politica del 1992, iniziata con “Tangentopoli, e la fine della “Prima Repubblica”, aveva creato un vuoto di potere e una forte spinta al cambiamento. Lo spirito della riforma Sanitaria di Tina Anselmi, basato su Universalità, Equità e Globalità crollò davanti alla necessità di stringere i cordoni della borsa per ottenere il pareggio di bilancio. Lo Stato si liberò del problema della gestione della Sanità e lo trasferì alle Regioni presentandolo come un atto di distribuzione democratica di prerogative statali alle amministrazioni regionali. Ne conseguì che da un’unica Sanità di Stato nacquero 21 Sanità regionali. La redistribuzione della competenza in sanità dallo Stato alle regioni, e la trasformazione gestionale da pubblica a privatistico-contabile, avvenne in un decennio circa e con plurime riforme: il DPR 502/1992 di Francesco di Lorenzo, il DPR 517 /1993 di Maria Pia Garavaglia, il DPR 229/1999 di Rosy Bindi.
Queste riforme ottennero l’equilibrio di bilancio nelle ASL ma i legislatori non previdero quali sarebbero state le loro conseguenze sul funzionamento del Sistema Sanitario futuro.
Nonostante le buone intenzioni delle riforme, da allora, l’universalità, l’equità e globalità delle cure sono andate decadendo fino allo stato attuale. Ad aggravare questa carenza si è aggiunta l’assenza di una programmazione sanitaria pubblica che tenesse conto delle modifiche nella composizione demografica della cittadinanza. Oggi, infatti, da quello che chiamiamo “inverno demografico”, stanno nascendo nuove e crescenti necessità di assistenza sanitaria.

L’evoluzione della curva demografica fa ritenere che fra 15-20 anni la metà della popolazione italiana sarà formata da pensionati. Dati i pochi bambini di oggi si può prevedere che fra 20 anni avremo pochi lavoratori attivi, capaci di produrre reddito e di conferire tributi alle casse dello Stato. Ne consegue che mancheranno i soldi sia per le pensioni sia per la Sanità pubblica. Già oggi gli ultra-sessantacinquenni sono, in Italia, il 25% della popolazione; in Sardegna sono di più. I nuovi nati sono 1,2 per coppia in Italia; in Sardegna sono 0,8 per coppia. Nel Sulcis Iglesiente la percentuale di bambini è ancora più bassa. Siamo nella via dello spopolamento. Lo spopolamento nel nostro territorio è vieppiù aggravato dall’emigrazione dei nostri giovani verso le città per lavoro. Pertanto, oltre allo spopolamento, stiamo registrando l’invecchiamento relativo degli abitanti della nostra Provincia. Il dato demografico che pesa sulle province è tale da suggerire ai governanti sardi l’immediata riattivazione di tutti gli ospedali provinciali, pena la rinuncia alle cure per molti. I tanti vecchi sempre più soli, che domani saranno più numerosi, avranno bisogno di essere assistiti in ospedali vicini.
Il fenomeno demografico è stato ignorato a favore degli indirizzi programmatici finalizzati alla riduzione della spesa pubblica. Ne è derivato il disimpegno progressivo dello Stato dalla Sanità. Il primo atto del disimpegno avvenne con le tre leggi di riforma sanitaria degli anni novanta: quelli che estromisero i politici dalla gestione della Sanità pubblica. Tuttavia la norma più radicale escludente le Province e i Comuni dalla Sanità avvenne con una modifica della Costituzione. Si tratta della variazione del Titolo V, parte seconda. Per dare l’avvio a questa nuova Sanità di oggi vennero modificati soprattutto gli articoli 114 e 117. La modifica passò con la legge del 3 ottobre 2001, dopo referendum popolare.
Con quella modifica la Sanità divenne competenza delle regioni (legislazione concorrente). Allo Stato restò solo il compito di enumerare i principi generali dell’assistenza: i LEA (Livelli Essenziali di Assistenza). Nonostante l’intento democratico di coinvolgere pienamente le Regioni nella Sanità, si ebbe un effetto secondario non ricercato: la disgregazione della Sanità di Stato distribuita a 21 Regioni che dettero luogo a 21 diversi Sistemi sanitari regionali. Accadde che, nel rispetto dell’obiettivo dell’equilibrio di bilancio, le regioni ricche fecero bilanci ricchi mentre le regioni povere poterono fare bilanci modesti erogando un’assistenza sempre più inefficiente. L’aver ignorato questo aspetto condusse la Sanità nazionale in un percorso di divaricazione, tra nord e sud, della possibilità di tutti di poter accedere all’assistenza sanitaria e sociale con uguali diritti, e rese impossibile rispettare i parametri di Eguaglianza richiesti dalla Costituzione. L’opera formidabile attuata da Tina Anselmi (Equità, Universalità, Uguaglianza) venne demolita irreversibilmente con quell’atto costituzionale. Da allora sono comparse inaccettabili diseguaglianze regionali; l’equità nell’accesso all’assistenza sanitaria pubblica è ora un obiettivo irraggiungibile, ed è fonte di sofferenza per operatori e utenti. Oggi si comprende che, quando la Sanità pubblica era una competenza esclusiva dello Stato, esisteva un unico Sistema Sanitario Nazionale. In quel Sistema “unico” avevamo la garanzia di un unico gestore e di un unico Fondo per un unico Sistema Sanitario Nazionale, così come lo aveva ideato Tina Anselmi. Allo stato attuale le tre leggi di riforma degli anni novanta e le modifica del Titolo V della Costituzione hanno creato una vasta struttura sanitaria molto complessa e ormai i 21 Sistemi sanitari regionali sono entità definitive.
Dopo le riforme lo stesso assessorato regionale sardo è stato modificato: prima delle riforme era una struttura che gestiva direttamente il Sistema sanitario regionale. Dopo le riforme, a partire dal primo gennaio 2017, gli venne affiancata una nuova struttura chiamata ATS (Agenzia Tutela Salute) a cui vennero delegate molte storiche funzioni assessoriali. ATS era una espansione amministrativa della Regione concepita come una super ASL, posta a capo di tutte le ASL provinciali, con la funzione di ottimizzare i processi complessi come: gestione dell’erogazione di prestazioni sanitarie, pianificazione dei programmi di prevenzione, promozione della salute nel territorio, vigilanza sulla sicurezza alimentare, salute degli ambienti di lavoro, controllo delle strutture sanitarie, monitoraggio della spesa sanitaria, eccetera. Dopo tre anni il Governo regionale sardo ritenne più conveniente restituire alle ASL molte funzioni date ad ATS e, al suo posto, istituì ARES (acronimo di Azienda Regionale della Salute). Venne deliberata nel settembre 2020 allo scopo di gestire funzioni di supporto tecnico amministrativo per le ASL come: acquisti, personale, sanità digitale e formazione. Il suo obiettivo, che una volta era dell’assessorato, è quello di coordinare e rendere più efficienti i servizi sanitari e socio-sanitari in modo omogeneo su tutto il territorio regionale.

ARES è una struttura molto complessa che occupa, solo nel ruolo amministrativo, 415 dipendenti e svolge una funzione di intermediazione tra l’assessorato della Sanità e le ASL di tutta la Sardegna. Il complessivo apparato burocratico sanitario, che va dall’assessorato ad ARES e alle ASL, ideato per gestire la Sanità regionale è oramai definitivo, irrinunciabile e fondamentale per il funzionamento della Sanità pubblica sarda.

Nonostante questi grandi sforzi e la complessità strutturale raggiunta dal Sistema sanitario, le cose non sono migliorate. Davanti al quadro deprimente dello stato della sanità pubblica sarda, alla carenza di medici, infermieri e posti letto, alla difficoltà di essere inseriti in liste per interventi chirurgici, o per radioterapia, o per diagnostica endoscopica complessa, o per banalità come ricevere un consulto, non si può che valutare grave la crisi del sistema sanitario nostrano. Dopo tanti sforzi per escogitare nuove leggi l’assistenza sanitaria è peggiorata di anno in anno. E’ avvenuto il contrario di ciò che si voleva. L’espressione “eterogenesi dei fini” dei filosofi è un concetto che si attaglia bene al nostro caso: significa che eventi e progressi storici spesso non derivano dall’intenzione iniziale ma dall’azione complessa di diversi fattori e, spesso, gli esiti sono inaspettati e opposti a quelli voluti. Pensare, oggi, di poter risolvere il tutto con nuove riforme o nuove spese o nuova burocrazia, è probabilmente anch’esso un tentativo inane.
Partendo da queste considerazioni, probabilmente, si può tentare di intervenire su ciò che già abbiamo a disposizione, senza procedere a nuove, radicali ma inutili riforme.

Mario Marroccu 

Il più antico criterio su cui fondare la “Sanità” lo idearono, 1.000 anni avanti Cristo, i sacerdoti di Apollo in Grecia. Per essi la Sanità doveva avere una natura“magico-misterica” perché era basata sul favore degli dei. Da lì venne la Sanità dei “guaritori”. Nel V secolo avanti Cristo Ippocrate mise le basi della Sanità moderna inventando la “clinica”; deriva dal termine greco “klinos” che significa letto. Il medico doveva osservare a lungo il malato nel suo letto rilevando i segni e i sintomi al fine di identificare il quadro “clinico”, classificarlo e ritagliare su di esso la terapia. Era la Sanità laica da cui in seguito originerà la sanità moderna. Poi vennero i dettami della Sanità del primo secolo basata sul “soccorso caritatevole” descritto dalla parabola del “Buon Samaritano”. In quella parabola vennero poste la basi della complessa struttura sanitaria, che ancora oggi esiste, formata da tre elementi:

1 – il cittadino malato (l’uomo che scendeva da Gerusalemme a Gerico);

2 – la struttura dove avviene il ricovero dotata di personale che esegue le cure in cambio di una remunerazione (l’albergo e l’oste che prese in cura l’uomo aggredito);

3 – i cittadini che pagano le spese per le cure per la Sanità pubblica (il Buon Samaritano). Il criterio a cui si ispirava la parabola era il “soccorso solidale” per chiunque, ricco o povero, umile o potente, che in quel momento fosse in disgrazia. Nel IV secolo d.C. San Basilio di Cappadocia edificò la prima struttura ospedaliera della Storia: la Basiliade. Era una cittadella della carità con locande, ospizi e lebbrosario, dove i monaci raccoglievano tutti i poveri e malcapitati trovati nelle strade del paese, e qui li nutrivano, alloggiavano e curavano. Il criterio con cui venne strutturata questa Sanità era la “carità per i poveri”. Nel V-VI secolo in Italia, con Benedetto da Norcia, emerse una simile Sanità organizzata col criterio di “soccorrere i bisognosi di assistenza” identificati come “poveri cristi”. Gli “Hospitalia” benedettini erano finanziati dalle classi sociali ricche che offrivano denaro in cambio di uno sconto sui loro peccati nel momento del giudizio finale. Da allora i cosiddetti “ospedali” vennero gestiti da associazioni laiche e religiose con donazioni, oppure finanziati dalle Signorie. Nel XV secolo il cardinale Enrico Rampini trovò riprovevole la gestione falsamente disinteressata dei 16 ospedaletti, gestiti dal volontariato laico, che esistevano dentro le mura della città governata dai Visconti e dagli Sforza, e li fece chiudere tutti. Fu una bonifica radicale della millenaria “sanità laico-religiosa” finanziata dal volontariato. Al loro posto edificò il primo vero grande ospedale nato in Europa: l’“Ospedale Maggiore” di Milano. Quest’uomo mise le basi degli ospedali moderni. Per la prima volta negli ospedali di nuovo tipo entrarono a lavorarci anche i medici e le ostetriche. Cessò il tempo delle cure erogate da persone caritatevoli ed entrarono nella scena gli infermieri e i contabili stipendiati. L’Ospedale Maggiore divenne ospedale per “acuti”, cioè per quei ricoverati che nell’arco di pochi giorni guariscono o muoiono. I malati cronici, cioè quelli che non guariscono ma che vivono a lungo, vennero sistemati in un ospedale per “cronici” situato all’esterno delle mura della città. Le RSA del tempo. Da quanto premesso si può affermare che i vari sistemi sanitari, che si sono succeduti nella Storia, avevano caratteristiche fra loro molto diverse. La loro organizzazione e finalità era conseguente al periodo storico che viveva un proprio peculiare problema capace di influenzare il tipo di sanità più adatta: poteva prevalere il problema economico (carestie), oppure quello politico (guerre, dominazioni), oppure quello religioso (assistenza in base al credo), o quello sanitario (epidemie ricorrenti). Quando prevalevano le malattie epidemiche mortifere come la peste o il colera, gli ospedali erano organizzati per isolare, assistere, o per smaltire i cadaveri. Quando prevalevano le malattie croniche come la lebbra o la tubercolosi si sviluppavano i lebbrosari o i tubercolosari. Dal 1800, con la comparsa delle miniere e delle industrie metalmeccaniche ed energivore sono comparse la malattie da lavoro industriale (silicosi, e i traumi per incidenti sul lavoro). Oggi abbiamo malattie in rapporto all’inquinamento, all’alimentazione, allo stile di vita, all’età. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale vi erano tre problemi sanitari da contenere: le epidemie (tbc, colera, tifo, epatite, influenza, poliomielite, malattie esantematiche), i deperimenti organici da povertà, il contrasto alla elevata mortalità infantile. Allora gli ospedali si specializzarono nella cura delle malattie internistiche, impararono ad utilizzare i neo-arrivati antibiotici e a sviluppare la pediatria. Gli ospedali, in tutte le province, erano dotati di reparti di Ostetricia con sale parto e personale dedicato. Invece fino agli anni ‘50 del ‘900 si nasceva, drammaticamente, in casa. Dopo la Costituzione italiana del 1948 si iniziò a interpretare e ad applicare l’articolo 32. Quell’articolo fu una rivoluzione storica perché per la prima volta si riconosceva in Costituzione il diritto di tutti ad essere curati a spese dello Stato. Nacque quindi una nuova voce di spesa pubblica: quella per il finanziamento della Sanità pubblica. La spesa pubblica italiana crebbe repentinamente per garantire la Sanità per tutti “dalla culla alla tomba”. Su questo principio si fondò la legge di Riforma Sanitaria del 1978 del ministro Tina Anselmi. Essa aveva fondato il primo Sistema Sanitario Nazionale (SSN). I criteri base per costruire il SSN furono gli stessi della parabola del Buon Samaritano. Con una differenza: rispetto alla parabola, in cui il Buon samaritano per propria iniziativa cedeva gratuitamente i suoi danari per curare il ferito, nella legge costituzionale il cittadino era tenuto a pagare le tasse allo Stato per finanziare la spesa sanitaria pubblica. Tale differenza comporta che mentre la Sanità caritativa viene somministrata volontariamente in cambio di un premio nell’altra vita, il cittadino della Costituzione deve pagare doverosamente le tasse altrimenti subirà una sanzione. Il finanziamento pubblico della Sanità è un atto politico-amministrativo. La legge di Tina Anselmi fu un passo storico millenario: aveva creato il criterio della solidarietà obbligatoria a beneficio di tutti. Fu un successo: era nata la Sanità Pubblica italiana. Poi venne il criterio dell’equa distribuzione dei poteri di comando e di doveri di controllo di tutti gli attori del sistema. La gestione della Sanità pubblica provinciale venne affidata ai Sindaci dei territori che eleggevano al loro interno il Presidente della USL (Unità Sanitaria Locale). L’erogazione del servizio era affidata ai medici. L’amministrazione tecnico-finanziaria era competenza del Direttore Amministrativo. Al di sopra di essi era posto l’assessore regionale della Sanità. Al di sopra dell’assessore regionale era posto il ministro della Sanità. Al di sopra di quest’ultimo era il ministro alle Finanze-Tesoro, che controllava la spesa e riscuoteva le tasse dai cittadini. Il controllo nelle regioni spettava agli assessori. Il controllo della spesa e del funzionamento del sistema sanitario spettava ai Sindaci. Il controllo sui Sindaci spettava ai cittadini nel momento del voto. Questa catena di controllo era logica ed efficiente. Ne risultò la migliore Sanità dal 1948 al 2025. Nell’anno 1992 esplose lo scandalo politico-amministrativo più grave della Storia dal dopoguerra ad oggi: i conti pubblici erano fuori controllo in tutti in servizi dello Stato. Le indagini giudiziarie portarono alla conclusione che l’anomalia fosse conseguenza di manovre politiche pilotate dalla corruzione. Per evitare il fallimento dello Stato cadde il governo; in sua vece nacque il governo Amato destinato a riequilibrare le finanze e aggiustare la morale della politica. Il precedente apparato dei partiti politici venne smantellato assieme alle loro opere. Nell’ipotesi che tutto fosse guasto si demolirono anche strutture buone ed efficienti come il Sistema Sanitario Nazionale. Ai Sindaci venne tolto il potere di gestire la Sanità ospedaliera e territoriale. Al loro posto vennero nominati i “Manager” che ebbero il mandato di gestire le ASL (Aziende Sanitarie Locali) come se fossero aziende private. Essi lo fecero applicando i criteri di gestione e programmazione tipici delle aziende commerciali nate a fini di lucro. Al posto del criterio della sanità per tutti ad ogni costo divenne predominante un nuovo criterio: «Il risparmio sulla spesa sanitaria al fine di riequilibrare il bilancio dello Stato». La “riduzione delle spesa” fu il nuovo metodo di gestione. Tutte le leggi varate dai nuovi ministri della Sanità, da Francesco Di Lorenzo nel 1992 a Maria Pia Garavaglia, e a Rosy Bindi nel 1999 esclusero i Sindaci dalla gestione dalla Sanità pubblica. Le leggi di risparmio si indurirono durante l’ultimo governo Berlusconi che era finito nella gravissima crisi del 2008. L’Italia era sull’orlo del fallimento in seguito alla grande recessione mondiale del 2006, estesa fino al 2013. Fallimento precipitato da una crisi della Borsa americana con la debacle delle banche Goldman Sachs, Lehman Brothers, Merryl Linch, eccetera. Il criterio del risparmio sulla gestione della cosa pubblica si irrigidì ulteriormente con i Governi Monti del 2011 e di Letta nel 2013 e vi furono conseguenze a danno della Sanità. Ne conseguirono:

– la riduzione dei posti letto negli ospedali,

– accorpamento di reparti ospedalieri,

– accorpamento di ospedali,

– chiusura di reparti specialistici e di interi ospedali,

– mancata sostituzione del personale andato in pensione,

– blocco di nuove assunzioni.

Tali atti vennero affidati ai nuovi Direttori Generali delle ASL (Aziende Sanitarie Locali) che, resi autonomi dai sindaci, al fine di risparmiare portarono alla demolizione sistematica di quella Sanità ospedaliera e territoriale costruita dalla legge 833/78 di Tina Anselmi. Questa ricostruzione storica, per sommi capi, della Sanità negli ultimi 3000 anni serve a dimostrare che non esiste una sola forma di sanità che rimane uguale a se stessa per sempre. Si dimostra invece che esistono tante forme di Sanità e ognuna viene concepita secondo criteri di adeguatezza al bisogno del tempo in cui si vive. Oggi è necessario individuare, e concordare, quali siano i nuovi bisogni sociali che saranno alla base dei nuovi criteri intorno a cui si dovrà costruire la nuova Sanità che ci serve. In mancanza di questa analisi propedeutica non si può procedere a progettare la nuova Sanità. Finora le dispute quotidiane che si leggono nei giornali ci forniscono ottimi articoli, molto autorevoli, concentrati sulle critiche al presente ma privi di soluzioni concrete per il futuro. Adesso per trovare concretezza tutti sono chiamati a «mettersi gli scarponi e scendere nel terreno» secondo il linguaggio militare. Oggi il mondo è radicalmente cambiato. I criteri per produrre e distribuire Sanità non sono più “misterici” o “ caritativi” o puramente “costituzionali”. Oggi, dando uno sguardo, anche superficiale, nel mondo occidentale, si scopre che c’è bisogno di una Sanità pubblica basata su un nuovo criterio: il criterio demografico. Lo attestano sia l’aspetto che ha la nuova popolazione e le esplicite richieste che emergono dai convegni in cui si chiedono garanzie per una “longevità serena”, e un “nuovo patto generazionale” che liberi i pochi giovani dal peso di dover garantire le cure a un numero crescente di vecchi.

Mario Marroccu

Alcuni giorni fa è stato ricordato l’anniversario di uno degli eventi più incisivi della Storia: la presa della Bastiglia del 14 luglio 1789, simbolo dell’inizio della Rivoluzione Francese. Un mese prima si era riunita l’Assemblea Nazionale Francese per discutere sul come si sarebbe dovuto votare sugli argomenti in discussione: per “Stato” o per “Testa?”. Bisogna sapere che l’Assemblea Nazionale era formata da 1.100 “teste”, o elettori, divisi in tre “stati”: il “Primo Stato” era il Clero, il “Secondo Stato” era la Nobiltà, il “Terzo Stato” era la Borghesia. Fino ad allora avevano votato “per Stato”, pertanto, il Clero e la Nobiltà alleati vincevano sempre sul “Terzo Stato”. Quell’usanza acquisita fin dal 1600 aveva comportato un inevitabile vantaggio per il “primo” e il “Secondo Stato”. Quel giorno, però, i rappresentanti del “Terzo Stato” pretesero che si votasse per “Testa”. La proposta non venne accettata e il “Terzo Stato” fece esplodere la Rivoluzione; il sangue corse fino al 1794. Furono tante le teste di conservatori da tagliare che si dovette inventare una macchina adatta: la ghigliottina.
Da allora si usano i termini di “Destra” e “Sinistra” per indicare la parte politica “conservatrice” e la parte “riformista”. Quei termini si riferivano proprio alla rappresentazione spaziale dei due schieramenti di maggioranza e opposizione nell’Assemblea Nazionale pre-rivoluzionaria. A destra, nel salone dell’emiciclo sedevano il Clero e i Nobili, a sinistra sedevano i Borghesi. Dato che il voto “per stato” faceva vincere sempre la coalizione di clero e nobili, questi avevano acquisito enormi privilegi come l’esenzione assoluta dal pagare le tasse al Re di Francia. Ciò aveva consentito loro di detenere enormi proprietà territoriali e immobiliari. Tutte le spese di Stato, come i vitalizi alla corona e alla nobiltà, gli stipendi ai militari, le guerre, la spesa pubblica per il decoro urbano e la manutenzione di tutte le proprietà statali, erano a carico del “Terzo Stato”.
Da allora il termine “destra” indica la parte politica che vuole conservare i privilegi acquisiti (da cui “conservazione”), evitando riforme che avrebbero potuto modificare l’ordine sociale esistente. Invece, il termine “sinistra” indica la parte politica che vuole una riforma dell’organizzazione sociale che garantisca l’“uguaglianza” di tutti i cittadini davanti allo Stato, l’abolizione dei privilegi e dei doveri che erano opposti e distinti nella società dei tre stati. Successivamente, in questi due secoli e mezzo di distanza dalla Rivoluzione Francese, gli scopi di “destra” e “sinistra” sono cambiati: è avvenuto che obiettivi di sinistra siano diventati di destra, e alcuni di destra siano diventati di sinistra. Per esempio, l’obiettivo di ottenere il “libero mercato” apparteneva alla sinistra rivoluzionaria e oggi è appannaggio della destra. La sinistra borghese di allora fu la genitrice di quel “capitalismo” che oggi è invece diventato un principio economico della destra.
Nei tempi moderni i criteri che differenziavano nettamente destra e sinistra sono diventati più sfumati e talvolta si sono sovrapposti tra le due parti. Al tempo della Rivoluzione la Sinistra rappresentava solo la Borghesia e nessuno aveva mai pensato di dare una rappresentanza ai contadini e agli operai.
Successivamente, per rappresentare questi ultimi che costituivano la maggioranza dei francesi, si formò il ”Quarto Stato”. Con quel completamento della rappresentanza popolare venne realizzata perfettamente la “democrazia”, ovverossia il “governo del popolo” (da “Demos” = popolo; e “Kratos” = potere). Il concetto di “governo del popolo” o “potere al popolo” iniziò a prendere piede negli anni successivi al 1789 anche nella politica degli altri stati del mondo occidentale.
La “democrazia” emerse francamente in Italia con le elezioni del 18 aprile 1948. In quella data, finita la Monarchia, iniziò la Repubblica. Tutti gli italiani, senza distinzione, vennero chiamati a votare per eleggere i membri della Camera dei deputati e del Senato. Questo atto segnò il momento storico di inizio della “democrazia rappresentativa”. Votarono il 92% degli italiani. Fu quello il momento di reale conferimento al popolo del “potere” di governare e “controllare i politici eletti” attraverso elezioni periodiche. I partiti più votati furono la Democrazia cristiana, il partito Comunista italiano, il partito Socialista italiano. Grosso modo corrispondevano agli stessi partiti popolari e borghesi che nell’Assembla Nazionale e nell’Assemblea Costituente della Rivoluzione francese erano i rappresentati dal terzo e quarto stato. Nei decenni successivi al 1948 le differenze ideologiche fra quei partiti si attenuarono moltissimo fino, talvolta, a sovrapporsi.
La massima espressione democratica in Italia si concretizzò con la Riforma sanitaria di Tina Anselmi nel 1978 (due secoli dopo la Rivoluzione Francese) e nacquero le USL (Unità Sanitarie Locali). Tutte le Regioni e Province, vennero suddivise in USL. Ciò venne fatto ad imitazione della grande riforma sanitaria nazionale organizzata dal governo rivoluzionario francese. Una delle menti illuminate rivoluzionarie che avevano attuato la riforma sanitaria francese fu Jean-Paul Marat, triumviro con Georges Jacques Danton e Maximilien Robespierre. Costui era figlio di un sardo cagliaritano, di cognome “Marras”, che pronunciato in francese diventa “Marà”. Successivamente con l’aggiunta di una “t” divenne “Marat”.
Per seguire il piano di Riforma preparato da Marat e soci, tutto il territorio francese venne suddiviso in distretti sanitari e ad ogni distretto furono attribuiti ospedali e medici territoriali. Il numero dei medici era in rapporto alla popolazione (da 7 a 12 ogni 10.000 abitanti). Gli ospedali all’inizio vennero progettati per avere 1.200 posti letto, poi si pensò che fosse meglio decentrare i grandi ospedali, suddividendoli in tanti piccoli ospedali di 150-200 posti letto. Quegli ospedali furono i primi, nella storia della medicina, a far collaborare i medici internisti con i chirurghi, cosicché iniziarono a esistere reparti di medicina e di chirurgia affiancati che collaboravano. Fino ad allora, in nessuna parte del mondo occidentale, fra di essi era mai esistita alcuna affinità. Fu l’evento che fece evolvere la medicina ospedaliera, e che venne copiato poi da tutta Europa. I padri di quella riforma furono grandi personaggi della medicina e chirurgia, come Cabanìs, Desault, Guillotin, Corvisart, Chaussier, Fourcroy e Deschamps. Tutti medici rivoluzionari.
La grande novità rivoluzionaria che essi introdussero fu l’assistenza sanitaria di Stato gratuita per tutti, “dalla culla alla tomba”. Dietro quelle innovazioni c’erano i valori maturati nel “secolo dei Lumi” francese con Voltaire, Rousseau e Montesquieu. Senza il “Contratto Sociale” di Jean-Jacques Rousseau nessuno al mondo avrebbe mai capito perché solo in regime di Democrazia viene riconosciuta la sovranità popolare, il decentramento del governo, la suddivisione dei poteri e la partecipazione diretta dei cittadini al governo della Sanità pubblica.
Lo slogan dei medici illuministi  “la sanità per tutti dalla culla alla tomba” fu anche lo slogan che risuonò in tutti gli anni 1980 in Italia quando si parlò della Sanità italiana come della Sanità più bella del mondo. Nel 1978, su quella basi storiche, il ministro Tina Anselmi introdusse la sua Riforma sanitaria.
Tutto questo vien raccontato per rimarcare la leggerezza con cui, l’enorme valore storico e morale contenuto nella Riforma sanitaria del 1978, venne soppresso dalla modestissima Riforma sanitaria di Francesco di Lorenzo. Riforma nata nel 1992, sulle ceneri della disfatta morale dell’Italia di quell’anno.
La gestione politica delle USL nate dalla Riforma Anselmi del 1978 venne consegnata nelle mani dei rappresentanti popolari del territorio di appartenenza (“democrazia diretta” alla Rousseau); mentre la sola la gestione amministrativa venne affidata ai tecnici amministrativi. Ciò non si ripetè con Francesco Di Lorenzo.
Il nostro territorio del Sulcis Iglesiente, dal 1980 al 1992, con questa perfetta collaborazione tra politici eletti e corpo amministrativo, venne distinto nelle due USL: USL 16 (Iglesias) e USL 17 (Carbonia).
A capo della USL 17 venne posto un cittadino di Carbonia: Antonio Zidda. Suo vice fu un cittadino di Sant’Antioco: Andrea Siddi. Il consiglio d’Amministrazione era costituito da rappresentanti di tutti i Comuni del Sulcis. Sotto tutte le amministrazioni che seguirono gli ospedali Sirai, CTO e Santa Barbara crebbero in dotazione di personale e tecnologia. Non esisteva il problema delle liste d’attesa e dei posti letto. Chi ricorda il Sirai ricorderà anche che il dottor Enrico Pasqui, Direttore sanitario, aveva creato con propria iniziativa un reparto di 40 posti letto chiamato “Medicina seconda”, situato in un padiglione separato dal corpo centrale. In esso trovavano ricovero i pazienti che, dimessi ma ancora da riabilitare, non potevano tornare in famiglia. Il dottor Enrico Pasqui aveva inventato una “RSA” anzitempo. Essa aveva il vantaggio di essere circondata da tutti i servizi: il personale sanitario, la mensa, la farmacia, il laboratorio analisi e gli specialisti medici. Le famiglie in difficoltà ebbero così un grande aiuto senza oneri aggiuntivi. Furono gli anni migliori della Sanità pubblica del Sulcis Iglesiente. Poi arrivò l’anno della svolta: il 1992.
Fu l’anno di “ Tangentopoli”. Gli inquirenti avevano scoperto a Milano un giro d’affari illegale che coinvolgeva anche uomini politici. Si trattava di figure di secondo piano di diversi partiti della maggioranza di Governo. Lo scandalo si estese a tutta l’Italia e provocò la fine di un’epoca iniziata con la fine della Seconda Guerra Mondiale e l’inizio della Repubblica. In quello stesso anno iniziò la reazione contro i partiti e, ovunque fossero presenti amministratori eletti dalla politica, si supponeva l’esistenza di malaffare. In breve tempo i politici vennero allontanati da tutte le amministrazioni dello Stato, fra cui le USL. Alla fine del 1992 il ministro Francesco Di Lorenzo abolì la riforma sanitaria di Tina Anselmi e ideò una sua riforma tesa a ottenere un unico fine: eliminare i politici dalle amministrazioni delle USL. Per questo trasformò le USL in ASL (Aziende Sanitarie Locali) in cui la struttura burocratica dell’amministrazione, privata della presenza dei politici, assunse tutti i poteri. I sindaci vennero di fatto espulsi dal controllo della Sanità. Il comando dell’Azienda assunse una struttura verticistica e venne consegnato nelle mani dei “Manager”: figure apicali, con pieni poteri, create allo scopo di mantenere l’equilibrio di bilancio e fare profitto aziendale. Dopo il ministro Di Lorenzo divennero ministri alla Sanità Maria Pia Garavaglia e poi Rosy Bindi. Costei con la legge 229/99 potenziò ulteriormente la “mission” privatistica delle ASL attraverso l’articolo 3 che recita: «Le Unità Sanitarie Locali si costituiscono in azienda con personalità giuridica pubblica e autonomia imprenditoriale; sono disciplinate con Atto aziendale di diritto privato». A dirigere le Aziende Sanitarie Pubbliche vennero incaricati i “manager”. Con questo atto i sindaci vennero definitivamente esclusi dal controllo della Sanità dei loro territori. Era avvenuto un fatto anti-storico: i politici di Sinistra avevano posto ai vertici della Sanità Pubblica una struttura amministrativa “non” elettiva. Così era avvenuto che ministri di partiti di centrosinistra avevano adottato una legge che, ai tempi dell’Assemblea Nazionale del 1789, sarebbe stata considerata di destra, cioè partorita dal “Primo” e “Secondo Stato”. Jean-Jacques Rousseau avrebbe condannato questa legge come lesiva del “diritto naturale” dei popoli alla “democrazia diretta” e avrebbe condannato l’accentramento dei poteri in poche mani “non elettive”, non controllabili dai cittadini.
Nella stessa legge 229/99 comparvero provvedimenti che consentirono, all’interno della Sanità pubblica, la coesistenza della “sanità a pagamento “ contro il principio rivoluzionario della sanità gratuita per tutti “dalla culla alla tomba”. Rosy Bindi aveva introdotto i ticket sui farmaci e le visite. La Sanità a pagamento si aggravò nel decennio successivo quando i Governi, di tutte le parti politiche, allo scopo di risparmiare, ridussero il personale e i posti letto negli ospedali pubblici. Le carenze assistenziali prodotte da questo provvedimento indussero forzosamente la popolazione a cercare le cure presso strutture sanitarie private. Era avvenuto un ribaltamento dei principi di solidarietà ispiratori della Sanità pubblica.
Con l’accettazione, da parte della Sinistra, di metodi di gestione economico-sociale di Destra, stava avvenendo uno scambio di ruoli tipici delle destra storica con quelli tipici della sinistra storica. Ancora oggi i manager continuano a mantenere chiusi ospedali e reparti specialistici. Del resto, i manager hanno un mandato con un obiettivo che prevale su tutti: quello di proteggere il bilancio aziendale, riducendo la spesa e creando profitto. La funzione di ascoltare l’opinione dei cittadini e curarne gli interessi appartiene alla politica, ma la politica territoriale è stata disarmata dai tempi di Francesco Di Lorenzo ad oggi. Solo qualche raro sindaco agguerrito riesce a proteggere un po’ l’ospedale della propria città. Questa inversione-scambio dei valori storici e del concetto di “democrazia” era iniziato nel 1992 col governo Amato. In sostanza, costui che in altri tempi, per suo orientamento politico, sarebbe stato un rappresentante del Terzo e del Quarto Stato (operai, contadini, borghesia), introdusse tecniche di accentramento di potere e di eliminazione di “democrazia diretta”, esattamente come avrebbero fatto il “Primo” e il “Secondo Stato” pre-rivoluzionario francese. Tale comportamento antistorico è continuato con tutti i Governi che si sono succeduti. Tutti hanno escluso il principio di Jean-Jacques Rousseau della “democrazia diretta” nell’amministrazione della Sanità pubblica. La soppressione della rappresentanza democratica territoriale per il controllo delle ASL è persistente e oggi è evidente che quel metodo ha fallito.

Mario Marroccu

La costruzione della “ Torre di Babele” venne fatta fallire con un metodo semplice: la confusione dalle lingue. Nessuno capiva più l’altro e, mancando la “comunicazione” tra i costruttori, l’edificazione fallì. Lo stesso metodo confusionario venne applicato contro la legge 833/78, confondendo le idee degli italiani tramite una comunicazione in cui vennero adottate terminologie ingannevoli che gettarono il marasma nella mischia del politica del tempo. La storia sanitaria che ne seguì andò avanti a colpi di sorprese, e non si capì mai chi ne fosse l’autore.
All’inizio (1978) il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) era costituito dalle USL (Unità Sanitarie Locali); nel 1992 vennero trasformate in ASL (Aziende Sanitarie Locali). Sembrava solo un cambio di nome, da “Unità” ad “Azienda”, invece stava crollando il mondo. In Sardegna, nel 2017 le ASL vennero unificate in un’altra sigla ancora: ASUR (Azienda Sanitaria Unica Regionale). Con questo atto vennero fatte sparire le ASL che conoscevamo, e comparve una nuova sigla: ASSL (Aree Socio Sanitarie Locali); queste nuove strutture organizzative non erano più “aziende”: di fatto, con la perdita di connotazione di “azienda” le ASL persero la loro autonomia programmatoria e gestionale. L’autonomia nella gestione degli acquisti e delle assunzioni finì nelle mani di una nuova unica entità: ASUR (Azienda Sanitaria Unica Regionale). ASUR , a sua volta, istituì un’altra azienda autonoma chiamata ARES (Azienda Regionale Sanità). In questo modo la parte politica regionale, delegando i suoi poteri ad una nuova struttura di tipo privatistico, ma di natura giuridica pubblica, rinunciò a gestire direttamente la Sanità Regionale. Ecco perché, da allora, i concorsi e le assunzioni furono “regionali”, con un contratto di dipendenza da ARES, e i neo-assunti potevano scegliersi la sede ospedaliera che preferivano, cioè quella più prestigiosa. Ne conseguì che il nuovo personale sanitario specialistico si accentrò negli ospedali di Cagliari e Sassari, mentre si impoverivano gli ospedali delle Province. Quanti si resero conto di cosa stesse succedendo in quel periodo? Quasi nessuno. Una cosa è certa: la distruzione della catena di comando della Sanità Ospedaliera delle USL precedenti ebbe la conseguenza di distruggere anche del capitale medico specialistico provinciale. Da allora non si capisce bene dove sia la testa e il corpo degli ospedali. Sono come navi alla deriva a cui manca sia il personale per governare i motori sia il Comandante e gli Ufficiali. Chi si fiderebbe a salirci?
Questa decapitazione della “catena di comando” delle strutture sanitarie delle province iniziò con l’opera di moralizzazione avviata nel 1992, l’anno dello scandalo della corruzione politica. Il 30 dicembre di quell’anno il ministro alla Sanità Francesco di Lorenzo eliminò la figura del “Presidente” delle USL e, con lui, il suo Consiglio di Amministrazione per il semplice fatto che allora i “Presidenti” USL erano Sindaci o Consiglieri comunali. In quel momento storico, i politici avevano lo stigma della corruzione e della condanna dell’opinione pubblica. Con lo stesso metodo vennero distrutte le “Partecipazioni statali”, considerate corrotte, e la conseguenza fu che ancora oggi, come si vede nei tristissimi fatti del polo industriale di Portovesme, stiamo pagando quella politica autolesionistica. In quell’opera moralizzatrice si dettarono le regole sul controllo delle spese dei candidati in campagna elettorale, con strascichi fino ad oggi. Per paura dei Sindaci, che erano di estrazione politica-partitica, e quindi potenzialmente corrotti, ma che in realtà nella gestione della Sanità erano stati eccellenti, essi vennero estromessi dal Sistema sanitario nazionale e al loro posto, e dei loro consiglieri, venne creata la figura del “Manager” derivandolo dalle aziende private. Si pensava che il “privato” fosse eticamente più sano del pubblico e per questo le USL (Unità Sanitarie Locali) divennero “Aziende Sanitarie Locali” (ASL).

Il Manager privato ha, per definizione, ampie libertà di “scelta” nella gestione dell’azienda; il suo potere nelle scelte decisionali è assoluto, ed agisce nell’interesse economico dell’azienda (lucro). I Manager vennero presentati ai cittadini come garanzia dell’indipendenza dalla politica. Questo fu l’unico motivo che ne giustificò l’esistenza. Dopo 32 anni di gestione manageriale e, dopo averne verificato il fallimento, è più che accertato che i Manager, inventati in un momento di grande confusione, in realtà non sono per nulla indipendenti dalla politica. Sono sempre legati al carro di un potente politico o di un partito. Allora, quale differenza c’è tra i Presidenti delle USL che governarono la Sanità tra il 1982 e il 1992, dai Manager che la governano dal 1992 ai giorni nostri? La differenza sta nel fatto che i Presidenti erano Sindaci del territorio o loro delegati e i cittadini avevano il vantaggio che essi erano in contatto continuo con i Consigli dei vari Comuni attraverso una cinghia di trasmissione rappresentata dal Consiglio di Amministrazione della ASL, che era formato da vari consiglieri comunali della zona; invece i Manager, scelti rigorosamente da un “elenco di idonei”, di fatto sono sempre provenienti da nomine politiche, ma non dipendono dalla politica degli enti locali. Costoro, al contrario dei Sindaci, sono figure estranee ai Comuni e, pertanto, inavvicinabili, impermeabili alle loro istanze e  come Achille, invulnerabili alle minacce di non essere votati alle future elezioni. Con questo metodo i cittadini, sottoposti alla gestione del Manager, non vincitore di tornate elettorali, non possono né controllare, né aggiustare, e neppure influire sulle scelte della politica sanitaria.
Oggi il problema immediato è: come fare a ricostituire le “catene di comando” degli apparati sanitari ridando il potere di scelta ai cittadini a nominare i propri rappresentanti deputati al controllo del funzionamento dei servizi pubblici? Tale potere-diritto dei cittadini venne sancito dallo articolo 114 della Costituzione. In quell’articolo gli enti territoriali autonomi sono collocati a fianco dello Stato come elementi costitutivi della Repubblica, secondo il principio democratico della sovranità popolare (la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato).
Quando Tina Anselmi presentò la sua bozza della legge di Riforma Sanitaria si premurò di rispettare quell’articolo e dichiarò che le USL (Unità sanitarie Locali) erano “…articolazioni dello Stato…” esattamente come lo sono i Comuni, le Province e le Regioni. Per questo motivo mise le USL sotto il diretto controllo politico dei Comuni. Quando il 30 dicembre 1992 venne fatta la riforma sanitaria n. 502/92 di Di Lorenzo, che aboliva la precedente riforma 833/78, le USL vennero degradate dal ruolo di “articolazioni dello Stato” a quello di “Aziende”. Sembrava un semplice cambiamento della terminologia, invece con quel nuovo termine si toglieva la Sanità dal controllo popolare per metterla sotto il controllo dei Manager. Quella dei Manager fu da subito una gestione fallimentare a causa della contraddizione tra la “mission” dell’azienda, che deve produrre “lucro”, e la “mission” di un servizio pubblico che invece deve produrre “profitto sociale solidale”, così come avviene per l’Istruzione e la Difesa; per tale motivo, non deve produrre “incasso” ma solo spese a carico della comunità solidale.
Questa contraddizione nacque dall’utopia del 1992 che predicava la moralizzazione dello Stato attraverso l’introduzione de principi aziendalistici (simili a quelli del privato) nel servizio pubblico. Oggi questa contraddizione sta continuando a vivere dentro le “Aree Socio Sanitarie Locali” (ASSL) , ex Aziende Sanitarie Locali (ASL), ex Unità Sanitarie Locali (USL), facendo molti danni.
La storia ci racconta che le USL avevano una Dirigenza strutturata come i Comuni. Come i Comuni avevano un Sindaco (Presidente) e un Consiglio politico di gestione (Comitato di Gestione); avevano inoltre un direttore generale per il funzionamento dell’apparato amministrativo. Tale composizione conferiva alle USL una notevole efficienza. E’ ragionevole credere che il ritorno ad una struttura amministrativa dotata di autonomia e una “catena di comandor” simile a quella delle USL e dei Comuni restituirebbe alle “Aziende socio sanitarie locali” l’efficienza che vorremmo.
Rimane da affrontare il problema della organizzazione da dare a tutta la rete sanitaria regionale attuale.
Se si desse ascolto a tutti i pareri e ai suggerimenti che provengono quotidianamente dai giornali e dai convegni sulla crisi sanitaria, anche i più esperti entrerebbero in confusione. E’ una Babele. La “confusione delle lingue” dei mille pareri continua a gettare disordine e immobilismo. Il 99% degli interventi riguarda la descrizione di varie sofferenze patite dai malati; 1% (l’un per cento) riguarda l’esame delle cause.
Nelle pagine dei giornali di questi giorni risalta la dichiarazione di un chirurgo del Brotzu il quale, con la concretezza e la concisione che solo un chirurgo possiede, in sostanza dice «… la causa del disagio dell’ospedale Brotzu sta nella destrutturazione degli ospedali delle Province…». A causa di ciò è conseguita l’alluvione continua di pazienti dal Campidano e dal Sulcis verso Cagliari. Fra tutte le cose dette, questa ha lo stesso valore di un “filo d’Arianna” utile a districarsi nella Babele; ad esso converrebbe aggrapparsi per trovare una via d’uscita.

Come porre riparo alla destrutturazione della rete ospedaliera provinciale? La risposta esiste già nelle leggi nazionali e nelle delibere regionali. E’ già tutto scritto. Non c’è bisogno di inventare nulla. Le leggi nazionali sono: la Costituzione, il DM 70/2015, il DM 77 / aggiornato al 2023, la legge sulla “rete ospedaliera sarda” del 2017.
La legge DM 70/2015 stabilisce:
a) come devono essere strutturati gli ospedali,
b) definisce gli ospedali sede di DEA di I e di II livello. Intendendo con DEA i Dipartimenti di Urgenza e Accettazione. La legge identifica con esattezza gli ospedali che sono destinati alle urgenze. Questi sono il centro motore della Sanità. Se noi oggi andassimo a visitare gli ospedali, scopriremmo che soltanto davanti agli ospedali pubblici (e mai davanti a quelli privati) esistono le lunghe file d’attesa di pazienti che aspettano d’essere visitati, e le file di ambulanze in attesa del ricovero dei loro trasportati.
Davanti alla visione delle file di pazienti che si presentano per patologie urgenti risulta chiaro come sia assurdo pensare di negare a tali richiedenti l’assistenza sanitaria gratuita universalistica.

Il problema grave a cui stiamo assistendo sta negli ospedali d’urgenza DEA e nel fatto che i DEA di I livello delle Province sono stati immiseriti in personale e deprivati di attrezzature.
Se la legge DM70/2015 fosse stata rispettata ciò non sarebbe successo.
La legge DM 77 / aggiornata al 2023:
Questa legge riporta tutte le indicazioni del Decreto Draghi sul PNRR nel capitolo della Mission 6.
Essa riguarda :
– Case della salute
– Case della Comunità
– Medici di base
-Personale
– Attrezzature
– Finanziamenti.
Il rispetto di questa legge avrebbe evitato il blocco della sanità territoriale e la crisi degli ospedali.
La legge regionale sarda sulla “rete ospedaliera” del 2017 indica la distribuzione degli ospedali nel territorio sardo e chiarisce con esattezza quali sono gli ospedali DEA di I livello e i DEA di II livello.
Va precisato che in Sardegna sono attivi 29 ospedali. Due (2) di essi sono sede di DEA di II livello (Brotzu e Santissima Annunziata di Sassari).
8 (otto) sono ospedali DEA di I livello, e sono distribuiti uno per provincia. Essi sono:
1 – Sassari (Santissima Annunziata)
2 – Olbia (San Giovanni Paolo II)
3 – Nuoro (San Francesco)
4 – Lanusei (Ogliastra)
5 – Oristano (San Martino)
6 – San Gavino Monreale (Medio Campidano)
7 – Carbonia (Sirai)
8 – Cagliari (Santissima Trinità – Is Mirrionis).
La differenza tra DEA di I e di II livello sta nel fatto che i DEA di II livello trattano le patologie più rare e impegnative come: Neurochirurgia; Cardiochirurgia; Radioterapia; Chirurgia toracica; Trapianti d’organo. Le altre patologie devono essere curate a dagli Ospedali DEA di I livello, alla pari con quelli di II livello.
I 19 ospedali restanti possono essere inquadrati come ospedali zonali di base oppure come ospedali di Comunità per cronici.
La riattivazione immediata degli 8 ospedali di I livello salverebbe l’intera sanità regionale.
Inoltre, è necessaria l’eliminazione dell’Azienda Unica Regionale e la ricostituzione delle Aziende Sanitarie Locali. Queste dovrebbero essere dirette da un Direttore Generale per la parte amministrativa e presiedute da un Presidente, per la parte politica. Il Presidente della ASL sarebbe coadiuvato dal Consiglio dei sanitari (Medici, Infermieri e Tecnici) e dalla Commissione Sanitaria provinciale (formata dai Sindaci della Provincia).

Mario Marroccu

Il disastro sanitario ed economico del Sulcis Iglesiente non è nato dal nulla. Ha radici nei fatti politici del 1992. E’ utile fare un viaggio nella storia di quegli eventi sia per capire e, forse, per porre qualche riparo.
Lo stato di salute della sanità pubblica è oggi talmente grave e la sua gravità è talmente complessa che, a questo punto, è difficile anche il solo sospettare che veramente esista fisicamente qualcuno che abbia programmato tanto degrado. Dovrebbe essere un genio fornito di una maligna intelligenza superiore.
Ammesso che esista un soggetto del genere, a che scopo lo avrebbe fatto? C’è chi sostiene che il danno al servizio sanitario nazionale sia stato progettato da un’ignota organizzazione al fine di favorire la sanità privata. Sarebbe un’organizzazione di matti veramente sciocchi perché sostituirsi del tutto alla Sanità pubblica non conviene a nessuno. Per esempio: a chi converrebbe accollarsi i malanni di tutti i vecchi d’Italia, soli, inguaribili e con in tasca i pochi soldi per la sopravvivenza? A chi converrebbe l’onere di assistere tutti i malati di cancro, debilitati nel fisico, nella famiglia e, soprattutto, nel conto in banca? Chi glielo farebbe fare ad assumersi l’impegno di prendersi in cura i pazienti in Rianimazione in uno stato di coma più o meno profondo? Perché dovrebbero pagare le ingenti spese dei trapianti d’organo a pazienti senza speranza e non solvibili? E gli infarti del miocardio? E tutti i casi di diabete ai limiti della invalidità? E i tossicodipendenti? E le malattie rare? I morti sul lavoro? E gli psichiatrici? E gli incidenti stradali? Chi glielo farebbe fare ad assumersi il compito costosissimo di affrontare le epidemie tipo Covid-19 o le campagne vaccinali, o le spese dell’Inail e dei Pronto soccorso?
Gli imprenditori privati non sono matti. A sé riservano le cliniche dove si curano le malattie, tutto sommato, più semplici, facili, guaribili e, soprattutto, di pazienti solventi. Ciò che compete alla Sanità pubblica è diversissimo da ciò di cui si occupa la sanità privata.
E’ assolutamente vero che negli Stati Uniti d’America esistono le assicurazioni private costosissime che si limitano a poche malattie e per tempi di cura molto limitati; in genere non pagano le spese del pronto soccorso o fanno dimettere i malati dopo tre giorni da un intervento a cuore aperto, per risparmiare sulla degenza in ospedale. Bisogna sapere che in America esiste anche una Sanità pubblica, che si chiama “Medicare”, a beneficio di chi non può pagarsi l’assicurazione privata e che, oltre ad essere molto carente, costa allo Stato il doppio di quanto costa il Sistema sanitario italiano. A questo punto, oltre al sospetto che dietro ci sia l’interesse di qualcuno, potremmo anche considerare il sospetto che dietro il nostro disastro sanitario ci sia in realtà qualche grosso errore commesso da politici poco accorti. Può anche essere accaduto che la grande Riforma sanitaria varata col DPR 833 del 1978 si sia inceppata a causa di leggi successive fatte male; può anche darsi che quelle nuove leggi non siano state lette con attenzione e che i votanti abbiano votato senza vedere gli errori che hanno prodotto queste conseguenze.
Anche questo sospetto, paradossalmente, è sommamente ingiusto, perché è anche vero che i politici italiani furono i primi al mondo a riconoscere nella Costituzione del 1948, all’articolo 32, il diritto di tutti alla salute. Quell’articolo, nella sua semplicità e completezza, fu uno degli elaborati intellettuali più geniali che un Costituente potesse generare: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti». Fu una frase rivoluzionaria contenente due principi: l’inviolabilità assoluta del diritto alla salute e la certificazione che tale bene è di rilevanza collettiva. Così fu sancita la solidarietà nazionale. Altro che privatizzazione! Altro che svantaggio a danno dei molti che non possono permettersela! Tutte le leggi che vanno contro questo principio sono incostituzionali e, se qualcuno avesse votato nuove norme contrarie a questo principio per disattenzione, sarebbe gravemente colpevole.
Esaminiamo cosa è avvenuto nella storia delle Riforme sanitarie italiane. Nell’anno 1968 la legge Mariotti istituì gli “Enti ospedalieri” che sostituirono gli ospedali caritativi provenienti dalla tradizione ospedaliera medioevale. La stessa legge istituì il “Fondo ospedaliero nazionale” e attribuì la competenza di gestione degli ospedali alle Regioni. Quel Fondo e quella legge ospedaliera furono la base su cui si costruì la Grande Riforma sanitaria con la legge 833 del 1978, concepita dalla Commissione parlamentare di Tina Anselmi. Ella raccontò in quei giorni che quell’idea era nata da discussioni e progetti formulati da gruppi partigiani riuniti intorno ai fuochi dei bivacchi di montagna. La legge 833/78 rappresentò un’utopia che si concretizzava in un documento scritto. Il sogno prese forma nella premessa della legge nel cui testo sta scritta la frase: «…Il Sistema sanitario nazionale è costituito dal complesso delle funzioni, delle strutture (ospedali), dei servizi e delle attività destinate alla promozione, al mantenimento, e al recupero della salute fisica e della salute psichica di tutta la popolazione». In nessuna legge del mondo era mai stata scritta questa premessa.
Mentre gli ospedali, dal medioevo al ‘900, erano stati sempre amministrati da comitati caritativi religiosi o filantropici, nella nuova legge si volle che gli ospedali fossero amministrati da rappresentanti popolari democraticamente eletti. Fu una rivoluzione. I cittadini, dopo 1.500 anni dall’istituzione degli ospedali dai tempi di San Benedetto e San Basilio, divennero per la prima volta i proprietari e gestori diretti degli ospedali. La comunicazione fra cittadino e gestore divenne immediata perché il Sistema venne dato in mano ai sindaci e ai consiglieri comunali. Essi avevano il compito di eleggere l’”Assemblea generale” che era formata da consiglieri comunali e l’Assemblea eleggeva il presidente della Usl (Unità sanitaria locale). Furono gli anni più produttivi della storia sanitaria italiana.
Scomparvero le Casse mutue e comparve il Ssn (Sistema sanitario nazionale), finanziato dal sistema fiscale universale. Ne conseguì anche che ai grandi miglioramenti si associò il crescere della spesa pubblica dello Stato. Per contenerla il ministro Carlo Donat Cattin nel 1987 abolì l’Assemblea generale ma mantenne il presidente della Asl e il Comitato di gestione, eletto dai sindaci dei Comuni del territorio.
Secondo gli indicatori economici internazionali, l’Italia godeva di un generale benessere economico tanto che nell’anno 1991 venne dichiarata quarta potenza industriale del mondo e il PIL pro capite risultava superiore a quello dell’Inghilterra.
Appena un anno dopo, la Repubblica entrò nel suo “annus horribilis”: il 1992. La commissione governativa presieduta dall’economista Piero Barucci rivelò che l’economia era al collasso a causa di un imponente debito pubblico causato dalle Partecipazioni statali. Eni, Enel, Iri, Ina, Efim, stavano portando al tracollo lo Stato. L’indebitamento aveva messo in crisi il Governo espresso dal CAF (Craxi-Andreotti-Forlani). Caduto il Governo Andreotti II e dimessosi Francesco Cossiga, si andò a nuove elezioni sotto l’effetto dell’esplodere dello scandalo di Tangentopoli. A febbraio era iniziata l’indagine della procura di Milano diretta da Francesco Saverio Borrelli e condotta da Antonio di Pietro, in seguito alle rivelazioni di Mario Chiesa, il direttore del Pio Albergo Trivulzio. Oscar Luigi Scalfaro, sostenuto dalla corrente dei “moralizzatori”, venne eletto presidente della Repubblica e immediatamente indisse le nuove elezioni; queste avvennero ad aprile contemporaneamente all’esplosione della sfiducia popolare nei partiti storici, in un clima di forte instabilità politica. I partiti tradizionali crollarono ed emerse la Lega Nord che passò da 2 a 80 parlamentari. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiutò di concedere incarichi di Governo a Bettino Craxi e nominò presidente del Consiglio il deputato Giuliano Amato. La Prima Repubblica era finita con un’ondata di arresti e di avvisi di garanzia. A maggio, ad opera della mafia, avvenne la strage di Capaci, seguita due mesi dopo da quella di via d’Amelio. Lo Stato era preso fra molti fuochi. Giuliano Amato si trovò ad affrontare una condizione di dissesto economico più grave dal dopoguerra ad allora. Si correva il rischio di non poter pagare gli stipendi pubblici. La Nazione si sarebbe fermata.
La Banca d’Italia fu costretta a vendere 48 miliardi di dollari per difendere il cambio e la lira fu svalutata del 30%. La lira uscì dallo Sme (Sistema monetario europeo); era il 16 settembre 1992, il “mercoledì nero”. Giuliano Amato per sostenere le casse dello Stato procedette al “prelievo forzoso” retroattivo del 6 per mille dai conti correnti degli italiani e, in base alle indicazioni del ministro del Tesoro Piero Barucci, dette avvio ad una grande operazione di privatizzazione delle Partecipazioni statali (banche, energia elettrica, trasporti pubblici, Alitalia, industrie manifatturiere, industrie dell’acciaio, comunicazioni, poste, idrocarburi, assicurazioni, agroalimentare, etc.). Lo Stato si spogliava di tutte le sue pregiate proprietà, nell’intento di allontanare la politica dalla gestione delle imprese statali. Su tutta la gestione pubblica, sotto l’effetto delle indagini di Tangentopoli, cadde il sospetto di possibile collusione con la corruzione e vennero varate leggi e norme fortemente restrittive nell’intento di arginare l‘idea che il malaffare fosse in agguato ovunque ci fosse la gestione del politico. In questo crollo finirono anche le miniere del Sulcis Iglesiente e le industrie di Portovesme espressione dell’Eni. Gli operai di Portovesme, per fermare i licenziamenti in massa di oltre 20mila operai promossero la famosa “Marcia per lo sviluppo”. Gli operai iniziarono a marciare il 19 ottobre e, al suono di tamburi di latta, saltarono il mare. Raggiunta Civitavecchia, percorsero a piedi le vie del Lazio fino a Roma, dove vennero accolti da Papa Woytila ma non da Giuliano Amato.
A fine anno, il vortice autodistruttivo coinvolse anche il Sistema sanitario nazionale quando il ministro della Sanità Francesco di Lorenzo il 31 dicembre varò il decreto che iniziò la “privatizzazione” del Sistema sanitario pubblico col DPR 502/1992. Le Unità sanitarie locali (Usl), rette dai sindaci, vennero trasformate in entità rette dai “Direttori generali con autonomia gestionale di diritto privato” nominati dalla Regione all’interno di un elenco di idonei. La “mission” del Sistema sanitario cambiò in modo radicale per due motivi. Primo, i sindaci, che rappresentavano la parte politica, vennero espulsi dalla gestione del sistema sanitario locale; secondo, l’obiettivo dei nuovi amministratori non fu più quello di soddisfare le richieste della popolazione locale ma venne sostituito dall’“equilibrio di bilancio”.
Questo dava ai direttori generali l’opportunità di poter modificare la risposta alle richieste provenienti dal territorio, ignorandone la soddisfazione globale e mettendo al centro il calcolo ragionieristico della salute che doveva ora attenersi a un nuovo criterio: i Livelli essenziali di assistenza (Lea). Oggi, a distanza di 32 anni, sappiamo che tutte le premesse alla legge, che promettevano Uguaglianza, Equità e Prossimità dell’assistenza sanitaria in tutto il territorio nazionale non sono state rispettate. Ciò avvenne a causa della mancanza del “controllore”, cioè la parte politica elettiva rappresentata dai sindaci. Al ministro Francesco di Lorenzo, seguirono le ministre Maria Pia Garavaglia e Rosy Bindi che perfezionarono l’“aziendalizzazione delle Asl”.
Nell’anno 2003 il Governo Berlusconi dettò regole per ridurre la spesa sanitaria dello 0,5% l’anno; ciò comportò il blocco del turn-over del personale andato in pensione e portò all’assottigliamento e disgregazione dei reparti ospedalieri. Col Governo Monti, il ministro Balduzzi emanò norme restrittive per i reparti ospedalieri che, ridotti in povertà di personale dalle norme precedenti, non potevano più funzionare. Ne conseguì la chiusura di ospedali.
Nel 2015 il DM 70 del Governo Renzi pose regole stringenti, basate anch’esse sul risparmio; ne conseguì un peggioramento ulteriore degli ospedali provinciali che portò alla desertificazione del sistema sanitario territoriale a vantaggio della centralizzazione della Sanità. In Sardegna la Sanità pubblica venne centralizzata a Cagliari e Sassari.
Nel 2017 la regione Sardegna, presidente Francesco Pigliaru e assessore della Sanità Luigi Arru, istituì la Ats (Azienda tutela salute). Con tale legge le 8 Asl sarde vennero ridotte a 1 soltanto, che assunse tutte le funzioni delle altre 7. Sopravvissero:
– l’Ats (a Cagliari e Sassari)
– il Brotzu di Cagliari
– il Policlinico Universitario di Cagliari
– il Policlinico Universitario di Sassari
Alle altre 7 Asl venne tolto il nome di “Azienda” e divennero “Aree sanitarie locali”. Erano diventate periferie sanitarie e persero l’autonomia programmatoria e amministrativa precedente. Ne conseguì l’esplosione delle “liste d’attesa” e l’insoddisfazione popolare. Alle elezioni del 2019 la popolazione sarda mandò a casa la Giunta Pigliaru e promosse una nuova maggioranza guidata dalla “Lega” di Matteo Salvini che, capeggiata da Christian Solinas, prometteva di restituire le vecchie ASL alle 8 province sarde. In effetti, la Giunta Solinas produsse rapidamente una sua riforma sanitaria regionale e l’assessore Mario Nieddu varò la legge regionale 24/2020 con cui istituì la Ares (Azienda regionale salute). In realtà però le vecchie Asl non vennero integralmente ricostituite; al posto delle “Aree territoriali sanitarie” vennero identificate le Asl 1-2-3-4-5-6-7-8 che, a parte il nome, non hanno nulla delle precedenti Asl; infatti, non hanno il diritto né di assumere personale, né di far acquisti e programmare. In sostanza non esistono; l’unica vera Azienda capace di programmare e gestire, centralizzando tutti i poteri gestionali, è la Ares di Cagliari e Sassari. Oggi lo stato di degrado direzionale e amministrativo nelle Province è ulteriormente peggiorato e l’insoddisfazione e infelicità dei cittadini sono esplose nelle elezioni regionali del 25 febbraio 2024 con la bocciatura del Governo regionale sardo.
Recentemente un politico esperto ha suggerito di cercare nella legge 833/78 gli strumenti per uscire dalla crisi sanitaria. Quale può essere lo strumento?
Lo strumento che si deve utilizzare nella pubblica amministrazione è sempre lo stesso: il rispetto delle regole democratiche. Queste regole prescrivono che la volontà popolare sia affidata ai propri rappresentanti eletti e, nel territorio, i rappresentati ufficiali dello Stato sono i sindaci. E’ certo che i sindaci non possono entrare nel merito di tutto, ma possono essere i “custodi” degli interessi della gente. Fra questi, oggi, l’interesse più sentito è la Sanità. Dare un nuovo ruolo ai sindaci nelle Asl è fortemente indicato.

Mario Marroccu

Rodolfo Valentino fu il massimo attore di film muto degli anni ‘20. Fu tanto amato da suscitare, nei suoi fans, il primo fenomeno di massa mai visto: la “divinizzazione”, essendo ancora in vita. Da quel fatto, ancora oggi deriva l’espressione “divo del cinema”.
La sua fama mondiale era esplosa col film “I quattro cavalieri dell’Apocalisse”, per effetto di una famosa scena in cui egli ballava il “tango argentino”. Morì a 31 anni nel più importante ospedale di New York, dopo un’operazione per appendicite acuta complicata da peritonite. In tutto il mondo, i suoi ammiratori dettero luogo a scene di disperazione isterica.
Nel 1977 si ricoverò nel reparto Chirurgia dell’ospedale Sirai di Carbonia il suo sparring partner. Anche costui era un pugliese che era emigrato in America da ragazzino. Aveva conosciuto Rodolfo Valentino a San Francisco e con lui aveva fatto squadra nelle gare di tango organizzate dalle balere americane. Erano gare pazzesche che duravano ininterrottamente per più giorni, senza dormire e senza fermarsi mai. Chi sopravviveva alla fatica vinceva cospicue somme di denaro. Quando costui si ricoverò al Sirai, a causa di una gangrena alla gamba destra, raccontò che talvolta in quelle gare vinceva Rodolfo Valentino e talvolta lui stesso. In valigia aveva articoli e fotografie di rotocalchi americani dell’epoca che lo ritraevano col “divino” e le mostrò con fierezza. Era tutto vero: era proprio il compagno di gare di Rodolfo Valentino. Invecchiando si ritrovò in solitudine e decise di tornare in Italia ma, non avendo più parenti in Puglie, decise di venire ad invecchiare a Carloforte.
Trascorreva le giornate fumando come aveva sempre fatto. In valigia, oltre ai rotocalchi americani degli anni ‘20, aveva stecche di sigarette americane. Il primario, professor Lionello Orrù, lo avvisò che per tentare di fermare la gangrena era necessario smettere di fumare lui, magrissimo, sempre sorridente e molto cortese, continuò a fumare nascondendosi in bagno o nei balconi. La suora ogni giorno gli sequestrava le stecche di sigarette ma l’indomani, sotto il materasso, si materializzavano altre stecche di Chesterfield e Pall Mall.
La gangrena peggiorò. I farmaci vasodilatatori erano chiaramente inutili e lui concordò: «Professore, non posso smettere di fumare e non posso più tollerare i dolori alla gamba. Me la tagli». Fu una scena incredibile. Lui, che aveva vissuto in virtù delle doti atletiche delle sue gambe nelle esibizioni di ballo col “divino”, preferiva rinunciare alla gamba destra piuttosto che alle sigarette. Il professore lo accontentò e dette disposizione ai suoi “aiuti” di eseguire l’amputazione a livello della coscia destra. Egli avrebbe seguito l’intervento. L’indomani il ballerino era sereno e sorridente. Continuò a fumare.
Non si capì mai chi gli portasse le sigarette: si trattava di un miracolo derivato dalla sua pensione in dollari americani. Dopo una settimana comparvero i segni della gangrena anche alla gamba sinistra. Il professor Lionello Orrù lo mise in guardia: «Se continua a fumare perderà anche l’altra gamba». Nei giorni successivi i dolori alla gamba sinistra peggiorarono e la gangrena salì dal piede alla caviglia. Nonostante tutto continuò a fumare e nessun discorso del Primario lo fece desistere. Fu lui stesso a risolvere il problema con questa proposta: «Professore mi tagli anche l’altra gamba perché io voglio continuare a fumare ma non tollero più i dolori che mi dà». Il professore lo accontentò e dette disposizione agli “assistenti” di eseguire l’intervento di amputazione, lui avrebbe seguito l’operazione. Il primario desiderava che tutti i chirurghi eseguissero correntemente quel tipo di intervento così come le operazioni per peritonite, per occlusione intestinale e per rottura traumatica di milza. Voleva che chiunque fosse presente in servizio, in sua assenza o in assenza degli “aiuti” più esperti, fosse in grado di eseguire con urgenza quel genere di operazioni salva-vita.
Era l’anno 1977 e l’ordinamento degli ospedali era ancora sotto le leggi Mariotti 132/ ‘68 e 128/ ‘69 ed esisteva nei reparti ospedalieri una struttura gerarchica dei medici ben definita; essa era formata dal primario, dagli “aiuti” e dagli “assistenti”. Tale struttura aveva un duplice fine. Primo creare una scala di responsabilità e di autorevolezza. Secondo: addestrare i medici e formarli alla professione.
La legge 128/’69 definiva esattamente, all’articolo 7, che il Primario aveva tutti i poteri, le responsabilità e tutti i doveri: doveva vigilare sul lavoro di medici ed infermieri e aveva la responsabilità di tutti i malati; era il giudice unico sui criteri diagnostici e terapeutici a cui dovevano attenersi gli “aiuti” e gli “assistenti”; formulava la diagnosi definitiva; doveva inoltre indicare la terapia medica o la tecnica chirurgica da adottarsi nel caso fosse necessaria un’operazione. Doveva eseguire personalmente sui malati gli interventi diagnostici e le operazioni chirurgiche curative che riteneva di non dover affidare ai suoi collaboratori; era l’unico che poteva autorizzare le dimissioni. Ne derivava che sui primari, con la loro responsabilità assoluta su tutto, ricadessero oneri ed onori; per tale ragione, i detrattori li definivano “baroni”. Un articolo successivo della legge 128 disponeva che il primario si impegnasse a mantenere elevato il livello culturale dei medici con una formazione continua sul campo. Egli era il caposcuola e la sua missione di insegnamento conferiva all’ospedale le funzioni di “ospedale di specializzazione”.
Insomma, per i medici il primario era il maestro e il parafulmine da tutti i guai. Gli “aiuti” venivano dopo il primario. Essi erano i medici più titolati, dotati di una certificazione di idoneità rilasciata da una commissione d’esame nazionale con sede a Roma. La legge disponeva che essi sostituissero il primario, in tutte le sue funzioni, ogni qualvolta fosse assente. Era come se la figura del “primario” fosse sempre presente e non se ne sentiva mai la mancanza. Al terzo livello erano classificati gli “assistenti”; si trattava dei medici più giovani, meno esperti, usciti da poco dall’Università, ma ancora da formare come professionisti specialisti.
Ogni Ospedale era una vera e propria scuola di formazione continua nella pratica medica. L’Università aveva fornito la cultura basilare portando gli studenti alla laurea in Medicina, e l’esame di Stato aveva garantito che il neonato medico fosse idoneo ad esercitare la professione come medico generico.
La costruzione professionale dei medici ospedalieri avveniva in ospedale ed era affidata al primario e agli “aiuti”. Mentre il primario era la figura carismatica autorevole che presiedeva la “scuola”, gli “aiuti” erano gli “istruttori” sempre disponibili e pronti a familiarizzare mentre addestravano gli “assistenti” alla professione.
La “scuola ospedaliera” di formazione alla professione di medico specialista (chirurgo, internista, ostetrico , traumatologo, pediatra, etc.) garantiva la costituzione di un perenne capitale culturale e umano all’interno dell’ospedale. Questo rapporto formativo continuo fra primario, “aiuti” e “assistenti” generava un rapporto di fidelizzazione tra medici, ospedali e territorio, e spesso induceva i medici venuti da lontano a trasferirsi nella città sede dell’ospedale, viverci tutta la vita e perfino formarvi le proprie famiglie. Le Amministrazioni ospedaliere favorivano e proteggevano questa funzione docente all’interno dell’ospedale perché così si garantiva la reputazione, la fiducia e il mantenimento di una sicura forza professionale che si sarebbe replicata, da una generazione all’altra di nuovi arrivati, senza temere mai l’abbandono degli ospedali da parte dei medici. Fin dall’inizio fu tale l’interesse che aveva l’Amministrazione ospedaliera a fidelizzare i medici e, soprattutto, i primari venuti da lontano, da costruire per essi, in prossimità dell’ospedale, degli appartamenti per la residenza loro e delle loro famiglie. Oggi non è più così.
Anche nella Medicina territoriale avveniva lo stesso fenomeno: i medici più anziani e più esperti contribuivano alla formazione professionale di altri medici, e anche lì si realizzava una catena solidale che assicurava la continuità.
Nell’ultimo decennio del secolo scorso, in conseguenza della grave crisi economica dello Stato, esplosa nel 1992, il Governo Amato tentò di arginarla con la privatizzazione delle Partecipazioni statali, ed avviò il processo di privatizzazione anche della Sanità pubblica. Le USL divennero ASL; i presidenti delle USL, che in genere erano sindaci del territorio, vennero sostituiti dai manager e tutto cambiò. Il ministro Francesco di Lorenzo fu l’artefice della legge 502 di controriforma; le ministre Maria Pia Garavaglia e Rosy Bindi modificarono l’assetto degli ospedali e abolirono le diversificate figure dei medici: gli “aiuti” e gli “assistenti” vennero posti ad uno stesso livello, dichiarati “dirigenti medici” e messi, praticamente, alle dipendenze del sistema burocratico. I primari vennero declassati a livello di precari, e ridefiniti col titolo di “direttori di Struttura complessa”, con incarico a termine della durata di 5 anni.
L’incarico poteva essere rinnovato previa valutazione dell’Amministrazione della ASL. Se non confermati venivano riclassificati ad un livello inferiore. Lo stipendio era uguale fra tutti i medici, corretto per anzianità, e con l’aggiunta di un’“indennità” di dirigenza per il direttore del reparto. I reparti e le Divisioni ospedaliere cessarono di esistere e furono sostituite dalla dizione “Unità operative complesse”. Terminologia usata anche per gli Uffici amministrativi. Era finita un’epoca. Del periodo che precedeva il 1992 ai medici era rimasta soltanto la “responsabilità medico-legale”. L’instabilità e l’incertezza, che ricaddero come una spada di Damocle sul loro futuro, ebbero conseguenze.
Il nuovo tipo di “direttore” non aveva più gli “aiuti” che lo coadiuvassero o lo sostituissero. Non aveva più le funzioni di “addestratore” delle nuove generazioni di medici e, in quanto sostituibile da chiunque ogni 5 anni, non aveva alcun interesse a crearsi un “competitor”.
Oggi l’improvvisa assenza del “direttore” per pensionamento o per trasferimento crea uno scompenso organizzativo, non esistendo più gli “aiuti”. Tale vuoto gerarchico e l’instabilità del primario “a tempo”, comportano un vuoto di autorevolezza e operativo.

Adesso stiamo assistendo alla crisi degli ospedali per mancanza di medici specialisti. Tale fenomeno non è dovuto solo alla “scarsità” di nuovi laureati; dipende anche dal fatto che nessun giovane medico si sente sicuro a lavorare in un reparto in cui manca il primario-direttore perché i rischi medico-legali che comporta ogni decisione, soprattutto, se presa in solitudine, sono molto, molto, molto pericolosi; meglio starsene nel territorio o nelle cliniche private. In passato la funzione del Primario era principalmente quella di prendere decisioni ad ogni momento della giornata; da essa derivava la salvezza o no del malato.
L’urgenza-emergenza era sempre in agguato. Il processo clinico che portava alla formulazione della diagnosi e del programma terapeutico costituiva di per sé lo strumento di addestramento dei nuovi medici alla professione ed era la base dalla “scuola-ospedale”. L’addestramento alle responsabilità medico-legali era una formazione imprescindibile: era l’esercizio che faceva la differenza tra il periodo dell’apprendimento universitario e il periodo della formazione professionale in ospedale.
Gli studiosi di “psicologia delle decisioni” nei dipendenti pubblici, hanno concluso ricerche che dimostrano come il sospetto che in tutto ci sia del “marcio”, dal 1992 in poi, ha indotto il ceto politico a produrre leggi che hanno generato un atteggiamento di alta avversione al rischio. Erano gli stessi anni in cui vennero soppresse e sostituite le figure gerarchiche dei primari e degli “aiuti” negli ospedali. Il timore dei dipendenti pubblici a prendere decisioni portò dapprima al rallentamento, poi alla quasi paralisi operativa. Questo è ciò che stiamo sperimentando. Gli illustri studiosi sostengono che l’alta percezione del rischio e delle conseguenze professionali genera il tipico comportamento di astensione prudenziale e il blocco decisionale.
Non è vero che la crisi sanitaria che stiamo vivendo sia da attribuirsi solo alla diminuzione dei nuovi laureati in medicina o ai pensionamenti. Questo fenomeno di decadenza dell’assistenza ospedaliera non ha solo motivazioni contabili.
Fra le cause assumono molta importanza il sovvertimento della politica sanitaria territoriale, sostituita dalla burocrazia e l’ inconsistenza delle gerarchie mediche negli ospedali, dominate anch’esse dalla burocrazia.
Prima o poi si prenderà atto che oltre al valore della contabilità esistono anche i professionisti e i loro principi etici. E’ auspicabile che venga agevolato il libero ritorno ai valori non contabili come: lo spirito critico, l’indipendenza dall’egocentrismo dei poteri centralizzati, lo spirito civico, la coscienziosità, l’altruismo, l’impegno e il sentimento di identità col territorio in cui si opera.
Adesso è urgente, per gli ospedali, ricostituire le figure dei “primari-guida” mancanti nelle Unità operative in crisi. Poi saranno loro ad attirare, con il loro prestigio, i nuovi medici.

Mario Marroccu

Recentemente nei giornali sardi due primari chirurghi, rispettivamente dell’ARNAS di Cagliari e AOU di Sassari, hanno definito gli ospedali delle ASL “ospedali filtro “. Esattamente il concetto che hanno espresso al giornalista è stato: «I nostri reparti chirurgici sono intasati di lavoro perché gli “ospedali filtro” non funzionano». Si era già sentito definire i nostri ospedali “ospedali periferici”, ma è la prima volta che vengono dichiarati non più “centri di cura” ma declassati a semplici “funzioni di filtro”. La degradazione sottende l’incomprensione della Costituzione e delle leggi sanitarie vigenti che declamano l’obbligo di erogare la salute pubblica con criteri di equità e uguaglianza in modo democratico a tutti gli italiani in ogni luogo. Ne consegue che tutti i reparti ospedalieri che producono le cure debbano essere ugualmente ad alto livello di prestazione. Tutti i cittadini, in qualunque ospedale dello Stato, hanno diritto a prestazioni eccellenti. Pertanto, tutti gli ospedali, nell’espletamento delle loro funzioni, sono “centrali “e non sono “periferia” di nessuno. Il contrario, sarebbe un colpevole fatto politico-amministrativo anticostituzionale.

L’idea di periferia sanitaria contrapposta al centro, nacque quando si teorizzò il concetto che gli alti costi dovuti all’evoluzione tecnologica per le malattie poco frequenti dovessero essere contenuti concentrando nei capoluoghi di regione alcune strutture specialistiche. Questo è necessario per le malattie e le procedure chirurgiche poco frequenti come la Neurochirurgia, la Cardiochirurgia, i trapianti d’organo e la Radioterapia per Oncologia. All’inizio, si era pensato che tale meccanismo dovesse essere riservato solo a quegli ambiti patologici infrequenti e costosi, e che solo quelle specifiche strutture dovessero essere centralizzate nei capoluoghi di regione. Naturalmente era inteso che invece le patologie più frequenti dovessero essere sempre trattate negli ospedali dei capoluoghi di provincia e in tutti gli ospedali dello Stato. Non fu così. Se ne abusò inventando il concetto di “Hub and Spoke”. E’ un’espressione inglese che sfrutta il disegno delle ruote del carro come le conosciamo: al centro della ruota c’è il “mozzo”, che in inglese si chiama “hub”. Sul mozzo confluiscono i raggi che in inglese si chiamano “spoke”.
L’espressione figurata della confluenza al centro dei raggi della ruota, rappresenta esattamente il concetto che esistono determinati servizi speciali che devono essere sempre convogliati nel capoluogo di Regione e messi al servizio di tutti indistintamente. Ecco perché, in quegli ospedali, esistono: la Neurochirurgia, la Cardiochirurgia, la Chirurgia pediatrica, i Servizi di trapianti d’organo, la Chirurgia vascolare, la chirurgia toracica, la radioterapia, i centri di immunologia e ematologia. Questi sono ospedali regionali disponibili alla pari per tutti i sardi. I reparti generalistici come la Chirurgia generale, l’Urologia generale, la Traumatologia e Ortopedia, la Medicina interna, la Neurologia, la Psichiatria, la Pediatria, l’Ostetricia e Ginecologia, il Nido pediatrico, l’Anestesia e Rianimazione, la Cardiologia, il Servizio emotrasfusionale. La Radiologia, il Laboratorio delle analisi ematochimiche, microbiologiche e virologiche, la Nefrologia e Dialisi, la Riabilitazione, la Pneumologia, la Diabetologia, l’Anatomia Patologica, l’Oculistica, l’Otorinolaringoiatria, la Geriatria, etc,., sono invece servizi ospedalieri che devono esistere alla pari in tutti gli ospedali capoluogo di provincia. Questi servizi devono avere una dotazione di strumenti e Personale sanitario professionalmente alla pari ovunque.
I Servizi sanitari di Carbonia, Iglesias, Oristano, Olbia, Alghero, San Gavino Monreale e Nuoro, e delle stesse strutture generalistiche ospedaliere di Cagliari e Sassari, devono funzionare parimenti bene e devono essere in condizione di indipendenza funzionale; in sostanza, non devono far confluire nulla verso i reparti generalistici che si trovano a Cagliari e Sassari. Ecco perché, non sono “ospedali di periferia” e neppure “filtro” per altri. Devono essere perfettamente dotati per dare con competenza e qualità tutti i servizi di prossimità ai malati dei propri territori.
In contrasto con la Costituzione e con le leggi sanitarie, dal 1992 in poi, iniziò l’abuso. Si impoverirono progressivamente sia il Personale che le Strutture specialistiche della città capoluogo di Provincia e si obbligarono i pazienti a rivolgersi a Cagliari anche per tutte le altre patologie. Dapprima ciò avvenne in modo inapparente, poi in modo più marcato, fino a diventare tumultuoso in questi ultimi anni, e sottrarre ai nostri ospedali le loro funzioni. Il travaso di malati verso Cagliari si chiama “mobilità passiva”. Con questa leva, indotta ormai anche per le patologie più banali, si sta soffocando lo spirito vitale dei nostri ospedali. Le prestazioni sanitarie rese dai servizi sanitari del Cagliaritano attraverso la “mobilità passiva” vengono pagate secondo un tariffario che si chiama “DRG” . E’ una classificazione del valore delle prestazioni sanitarie inventata dalle assicurazioni sanitarie private americane. Ogni prestazione, secondo il valore in euro stabilito, deve essere pagata da ciascuna ASL sarda alle strutture cagliaritane che le erogano secondo i DRG. Nel tempo tali strutture centralizzate sono state fortemente potenziate e ciò ha dato luogo ad una globale e diffusa applicazione della micidiale teoria dello “Hub and Spoke”. Quanto più esse sono state potenziate, tanto più sono stati depotenziati i nostri ospedali. Quante più prestazioni si chiedono a quelle strutture centralizzate tanto più le nostre ASL si indebitano e impoveriscono. Questo si traduce in perdita di personale e di posti di lavoro per il nostro territorio. Dopo l’epoca delle miniere e dell’industrializzazione, ora stiamo perdendo anche la Sanità. Naturalmente, il nostro impoverimento sta producendo di riflesso l’arricchimento degli ospedali del capoluogo in personale, strumenti e finanziamenti.
Chi potesse osservare tali ospedali, impropriamente arricchiti, vedrebbe dentro le corsie l’intenso traffico di medici e collaboratori. Si tratta di personale sottratto agli ospedali di provincia. La sottrazione avviene secondo i termini di legge. Per capire il meccanismo patologico che induce a questo travaso di soldi, uomini e mezzi, bisogna fare un passo indietro. Nell’anno 1992 Il ministro Francesco di Lorenzo con la legge 502, trasformò le USL (Unità Sanitarie Locali) in ASL (Aziende Sanitarie Locali). Aveva introdotto il seme della privatizzazione della sanità Pubblica. Erano gli anni in cui si stava completando la dismissione delle industrie delle PPSS (Partecipazioni Statali). Quello fu l’anno in cui avvenne la storica “Marcia per il Lavoro”, per attenuare l’impatto dell’uscita dello Stato dalle Partecipazioni statali e quindi anche dalle industrie metalmeccaniche e chimiche.
Contemporaneamente, iniziava timidamente l’uscita dello Stato dalle USL e al posto dei nostri sindaci al loro comando comparvero i manager delle neonate Aziende sanitarie. Prese piede allora la teoria economica dell’“efficienza ed efficacia” che semplicemente significa “spendere di meno mantenendo la stessa produttività” del Servizio sanitario. Nell’anno 2004, il Governo emanò il Dlgs 311 che imponeva la riduzione progressiva dei fondi destinati alla Sanità (-1,4% per anno). Ciò venne ottenuto col blocco del turn-over del personale andato in pensione e la riduzione della spesa corrente in Sanità (assunzioni e manutenzioni).
Nell’anno 2012 la legge Balduzzi (Governo Monti) ridusse i posti letto ospedalieri a 3,7/1.000 abitanti. Un valore ben lontano dagli 8 posti letto per 1.000 abitanti della Germania. Gli effetti negativi di questa legge si videro poi durante la Pandemia Covid del 2020. Nell’anno 2015 col DM 70 del Governo Renzi vi fu un’ulteriore riduzione dei posti letto, in funzione della valutazione di “volumi ed esiti” del lavoro prodotto. Cioè se il lavoro era diminuito, si dovevano chiudere i relativi posti letto ospedalieri.
L’effetto letale di queste leggi per i nostro ospedali è ancora attivo. Per effetto di quelle leggi, potremmo assistere nell’imminente futuro alla chiusura di altri reparti nei nostri ospedali. Usando queste leggi, presto potrebbe venir chiusa l’Urologia di Carbonia che, come si sa, è stata gravemente depotenziata privandola di colpo del Primario e di 4 medici. Purtroppo, a causa di questa perdita, i molti malati urologici del Sulcis Iglesiente si stanno rivolgendo agli ospedali e alle case di cura private di Cagliari.
Questo fenomeno, la cui origine è da ricercarsi in ambienti fuori da questa ASL, ha creato un crollo dei “volumi ed esiti” di prestazioni urologiche. Nessuno può pretendere dai due medici urologi sopravvissuti i “risultati ed esiti” che darebbe lo stesso reparto se avesse ancora in attività tutti i sette medici previsti dall’organico. In forza di quelle leggi, l’assessore Carlo Doria potrebbe chiudere l’Urologia di Carbonia. Speriamo che la cittadinanza e i politici locali spalanchino gli occhi un po’ di più sulla spoliazione che potrebbe ricadere anche su questo servizio. Nessuno è innocente. Non lo sono i politici che non controllano e non lo sono neppure le nostre popolazioni che subiscono senza reagire.
La voluta induzione del calo di produttività dei nostri due Ospedali sta avvenendo con un meccanismo contabile strabiliante. Bisogna riconoscere che i fondi del Piano sanitario regionale vengono equamente suddivisi tra gli abitanti della Sardegna, tuttavia quei soldi non restano nel territorio di destinazione. Rimbalzano in buona parte a Cagliari.

Per esempio, al Sulcis Iglesiente vengono attribuiti 245 milioni però nelle sue casse ne arrivano 209 (cioè 36 milioni in meno). Con quei 209 milioni vanno pagate le spese degli ospedali e quelle dei medici di Medicina generale, comprese farmacie, radiologie e laboratori analisi. I 36 milioni che mancano vanno alle casse di strutture sanitarie prevalentemente cagliaritane. Sicuramente una buona parte di quei milioni serve a pagare i DRG dovuti alla Cardiochirurgia, alla Neurochirurgia, ai Trapianti alla Radioterapia e Oncologia ma un’enorme parte serve a pagare le spese per patologie comuni di: Chirurgia generale, Urologia, Ostetricia e Ginecologia, Oncologia, Ortopedia, Radiologia, Laboratorio, Oculistica, Otorinolaringoiatria, Pediatria, Anatomia patologica e altro che sono state erogate a Cagliari e che invece dovrebbero essere erogate a Carbonia e Iglesias. Purtroppo, noi non riusciamo più a farlo, perché ci mancano i medici, gli infermieri, le attrezzature e i soldi. A causa di queste spese indotte dall’insufficienza dei nostri servizi rispetto alle richieste della popolazione, infatti, ci siamo dovuti indebitare con Cagliari e non possiamo permetterci di assumere personale o acquistare attrezzature. Avviene esattamente il contrario nelle strutture specialistiche delle città capoluogo regionali di Cagliari e di Sassari, dove i finanziamenti sono sempre in attivo proprio per l’afflusso di soldi provenienti da tutte le ASL sarde. Ciò si desume dai dati esistenti in un prospetto sui finanziamenti e spese delle ASL sarde (delibera RAS n. 10/33 del 16 marzo 2023). In questo prospetto la teoria “Hub and Spoke”, per quanto riguarda il flusso di soldi dalla periferia al centro, è perfettamente rappresentata. Naturalmente non si tratta solo di questo ma anche di un riallocamento di personale, mezzi e interi servizi verso gli ospedali più ricchi del capoluogo (vedi il caso della Anatomia patologica del Sirai trasferita in blocco al Santissima Trinità di Cagliari). Oggi i servizi di Anatomia patologica dobbiamo comprarli da altre ASL.
Tutto quanto descritto è possibile perché le ASL delle province sarde non sono più delle vere ASL. Tutti i poteri di autonomia sono stati assorbiti da una struttura pubblica di diritto privato che oggi si chiama ARES, e in passato era ATS. Il patologico ciclo economico che deriva da tale organizzazione sanitaria centralizzata, visto ciò che sta avvenendo, non può essere favorito, pena il fallimento di tutti i nostri ospedali. Ne consegue, che per salvare i nostri ospedali, bisogna contrastare la teoria “Hub and Spoke”, o perlomeno bisogna precisare che quel concetto vale solo per le alte specializzazioni di Neurochirurgia, Cardiochirurgia, Trapianti d’organo, Chirurgia toracica e Chirurgia vascolare, lasciando tutte le altre chirurgie e le patologie internistiche più diffuse agli ospedali di provincia. Si avrebbe il vantaggio di conservare la medicina di prossimità, la cultura ospedaliera esistente storicamente e il vantaggio di contrastare lo spopolamento, la perdita di posti di lavoro e il problema demografico incombente.

La nostra è una popolazione molto invecchiata, e per di più il numero di vecchi è in un preoccupante crescendo, inarrestabile, pertanto, necessita della vicinanza del suo ospedale.

Mario Marroccu

Lo spopolamento delle nostre città e la crisi della Sanità hanno una stessa origine che va combattuta. Analizzando le cause potremmo scoprire di non essere così impotenti come appare. In ogni centro urbano vi sono edifici pubblici o monumenti in cui i cittadini riconoscono la loro appartenenza perché hanno un valore storico, affettivo e esistenziale. Se quei luoghi vengono modificati avviene un danno nella struttura stessa del proprio vissuto. Luoghi come il Comune – sede del potere politico-amministrativo, la chiesa – sede della religione, il tribunale – sede della giustizia e l’ospedale – sede della sanità, sono l’anima vitale della città.
Se in una città viene cancellato il centro urbano, avviene un pericoloso vulnus dell’identità collettiva e sorge nel cittadino un senso di disagio, di frustrazione che sono premessa alla disaffezione, alla fuga e allo spopolamento. Ciò succede quando la città ha insufficiente potere politico e quando ha per vicino un’altra città molto più forte che si appropria di quelle funzioni urbane esistenziali.
Alcuni mesi fa un ex-presidente del Censis spiegò che lo spopolamento delle città di provincia iniziò negli anni ‘90 del Novecento quando l’esercizio della politica negli Enti locali divenne meno appetibile per i cittadini più vocati ad essa. Il fenomeno prese avvio a causa di alcune leggi. La prima fu la legge 142/90 che sottrasse agli organi politici locali il potere di amministrare gli uffici comunali.
A quell’epoca i consiglieri comunali avevano ancora il potere della gestione della Sanità attraverso le USL. Allora la legge istitutiva del Sistema sanitario nazionale dichiarava che le USL erano “articolazioni” dei Comuni, e che i Comuni dovessero esserne gli amministratori. L’assemblea dei sindaci portò gli ospedali al loro periodo d’oro. Ma durò poco. Nel 1992 iniziò la spoliazione dei Comuni. I ministri Francesco Di Lorenzo, Maria Pia Garavaglia e Rosy Bindi approvarono tre leggi (502-517- 229) che tolsero i poteri sulla Sanità ai politici degli enti locali e li consegnarono alle Regioni.
Fu un’opera di “centralizzazione” radicale. Finì il tempo in cui i sindaci assicuravano ai propri ospedali i migliori medici strategici per conquistarsi un prestigio sanitario. L’esclusione dalle decisioni politiche indusse la demotivazione progressiva dei cittadini all’interesse alla politica. La città maggiore che assorbiva le funzioni di gestione della cosa pubblica divenne attraente. Ne conseguì che i cittadini della provincia persero la passione per la partecipazione alla politica nella propria città, svuotata di servizi, e cominciarono a trasferirsi nelle nuove sedi del potere centrale. Cessò l’epoca del fervore per la partecipazione attiva alla politica negli enti locali e, da allora, è cresciuto il disinteresse al dibattito e alle candidature. Alla carenza di potere decisionale nonostante progetti lungimiranti conseguirono il disinteresse degli elettori e l’astensionismo.
Con un’altra legge, varata nel 2001, nota col nome di “Riforma del titolo V della Costituzione”, la centralizzazione dei poteri nella Regione aumentò ulteriormente. Contemporaneamente dallo stesso periodo iniziò il degrado della rete ospedaliera e della medicina territoriale.
A conferma di questa tendenza ad accentrare servizi sociali fondamentali nel 2011, per effetto di una rigida legge di risparmio del Governo Monti, vennero chiusi i tribunali periferici, ed anche la giustizia fu centralizzata. Secondo i sociologi del Censis lo spopolamento, l’immiserimento di servizi e l’impoverimento dell’economia, sono strettamente connessi alla “centralizzazione” voluta da un chiaro progetto che viene da lontano. Anche la salute entrò in quel meccanismo.

Mentre la salute in sé è una competenza della medicina, la “Sanità” intesa come organizzazione per dare salute al popolo è una competenza della politica. Il senso di scoramento che ci prese nel vedere l’impreparazione ad affrontare il Covid nei tre anni passati è ben motivato da quella distruzione delle gerarchie politiche locali. Oggi ci saremmo aspettati che il Sistema sanitario nazionale e quello regionale, con l’esperienza della pandemia, si fossero attrezzati meglio sia per contenere il probabile arrivo di altri virus, sia per l’epidemia demografica in atto.
E’ evidente che il problema sociale futuro sarà l’enorme aumento di richiesta di assistenza sanitaria dovuta al forte invecchiamento della popolazione e alla mancanza di progetti di “presa in carico”. In contrasto con questa evidenza, negli ospedali stanno diminuendo sia i posti letto che il personale nelle Terapie intensive e nelle Rianimazioni; nel contempo, è in campo il progetto di costruire nuove strutture murarie, che chiameremo ospedali, le quali dovranno funzionare senza il personale necessario per lavorarci.
Negli ultimi 20 anni abbiamo assistito alla distruzione del sistema ospedaliero di Iglesias, al decadimento progressivo dell’ospedale Sirai di Carbonia e alla rarefazione dei medici di base.
La Regione, un volta esclusi i Comuni, ha creato una nuova entità amministrativa di tipo privatistico che ha il compito di governare tutte le Aziende Sanitarie Locali. Tale entità si chiama ARES (Azienda Regionale Salute). Le ASL hanno oggi perso una reale autonomia di gestione: non hanno veri poteri di iniziativa e sono di fatto strutture acefale. L’unica testa pensante è ARES regionale. I poteri decisionali di questa nuova entità sovrana della Sanità pubblica sono assoluti. Per “assoluto” si intende esattamente la definizione del vocabolario: “assoluto = che non ammette limitazioni, restrizioni o condizioni, relativamente a se stesso, alla propria volontà o alle proprie attribuzioni”.
Ciò avviene perché la legge istitutiva della ARES non prevede i contrappesi della politica territoriale. Pertanto, si tratta di un’entità che non può essere scalfita dalla critica né può essere influenzata da alcunché se non dalla sua sola volontà. La legge, che ha costituito questo ente regionale, consente alla “Conferenza sanitaria provinciale dei Sindaci” la sola possibilità di esprimere pareri sul programma sanitario annuale. Ma tali pareri non sono vincolanti. Ciò significa che la volontà dei sindaci, se in contrasto con ARES, non ha mezzi per penetrarne la corazza di potere in cui è racchiusa.
La ARES venne istituita dalla regione Sardegna con la legge 24/2020, in piena pandemia, e fu progettata affinché avesse una struttura perfetta, monolitica, come un purissimo cristallo profondamente antidemocratico, impenetrabile alle influenze esterne. Il potere sanitario è tutto contenuto in questa entità e noi, popolo, siamo prigionieri all’esterno.
Mentre assistiamo al collasso della Sanità, scopriamo dalla stampa le notizie su innovazioni che dovrebbero avvenire nelle strutture ospedaliere di Iglesias, di Carbonia e dei Distretti. Si tratta di un bel disegno legato ai fondi messi a disposizione dal PNRR missione 6. Ma si tratta solo di un bel disegno, molto simile a un libro dei sogni.
Il quadro reale dello stato della nostra sanità è invece quello descritto dalle cronache dei quotidiani. Di Iglesias sappiamo molto perché è una cittadina che si lamenta puntualmente, e fa bene, attraverso gli organi di informazione. Di Carbonia sappiamo meno. Tuttavia dalle notizie che trapelano si sa che all’ospedale Sirai il corpo degli anestesisti è allo stremo. Una volta vi erano in dotazione dai 15 ai 20 anestesisti; oggi sono 6. Tre di questi sono in Rianimazione; gli altri tre assistono le sale operatorie.
Uno specialista anestesista-rianimatore è giunto all’età della pensione, pertanto, dovrebbe mancare presto per messa in quiescenza. I due restanti non sono sufficienti per un lavoro che impegna 24 ore su 24, senza interruzioni, tutto l’anno. I tre anestesisti dedicati alle sale operatorie devono assicurare l’urgenza ed emergenza e, pertanto, non possono sempre essere disponibili per le sedute operatorie di chirurgia programmata.

Di fatto, la situazione è gravissima e può portare, essa da sola, alla chiusura dell’Ospedale. La persistenza di queste condizione immobilizzerebbe la Chirurgia Generale. L’Ortopedia ha i limiti della Chirurgia Generale. L’Urologia sarà presto senza primario e probabilmente perderà 4 medici per trasferimento in altri Ospedali. Ne resteranno due che eroicamente dovranno prendersi cura dei problemi urologici dei 119.000 abitanti della ASL 7. Impossibile.
La Medicina è presa tra Covid e malattie non-Covid. Il Pronto Soccorso è ora senza primario; ha pochi medici di ruolo e deve ricorrere a convenzioni con esterni. Inoltre, deve assicurare tutte le urgenze del Sulcis Iglesiente. La Cardiologia è sovraccarica di lavoro ed è fortemente impegnata nel settore dell’urgenza. Il Laboratorio non esiste più in sede da nove mesi. Ora pare che debba riaprire la notte. La Radiologia ha l’organico del personale sottodimensionato. La Dialisi per i nefropatici è ridotta a tre medici e presto ne perderà uno. Come faranno a lavorare anche la notte, il sabato e la domenica, Estate e Inverno, sempre, e per tutto il Sulcis Iglesiente in urgenza, non si sa.
Questo quadro descrive uno stato di necessità sanitaria che, così grave, non si era mai visto. Sembra d’essere alle porte della caduta dell’Ospedale. Tutti i professionisti che lavorano nella struttura amministrativa dell’ospedale manifestano competenza e buona volontà. Se ne avessero i poteri, sicuramente affronterebbero i problemi della carenza di personale e li risolverebbero. Purtroppo, non hanno i poteri né di assumere liberamente il personale che necessita né di procedere liberamente agli acquisti. Tutti i meccanismi amministrativi per il funzionamento della sanità provinciale sono stati trasferiti dai nostri uffici di Carbonia e Iglesias quelli della ARES (vedi le competenze nell’articolo 3 della legge di istituzione).
A chi possono rivolgersi i dirigenti della ASL 7 per procedere alla soluzione dei problemi, senza vincoli, e secondo le necessità? Ai sindaci? Sarebbe la soluzione migliore, ma i sindaci sono stati estromessi dalla gestione della Sanità. Il problema è nato dalla centralizzazione dei poteri a Cagliari; non esistono responsabilità di questo disastro né ad Iglesias né a Carbonia.
Esiste una sola soluzione: cambiare la legge 24/2020 della regione Sardegna. Non è necessario cambiare tutta la legge, è sufficiente attenuare l’articolo 3 e aggiungere una riga dell’articolo 9 per iniziare a tornare alla partecipazione democratica nella sanità, questa (al punto – a -):

Articolo 9
Organi dell’azienda Sanitaria.

Sono organi delle Asl e dell’Azienda ospedaliera:
a) il presidente della ASL, che sarà un eletto tra i componenti della Conferenza provinciale sanitaria dei sindaci.
b) il direttore generale
c) il collegio sindacale”

Dando la carica di presidente a un sindaco si stabilirebbe perlomeno un controllo degli Enti locali all’interno della ASL. Con questo provvedimento si consentirebbe ai sindaci di svolgere realmente le funzioni loro attribuite dal Testo unico degli Enti locali, e salveremmo subito gli ospedali e la medicina di base.
Dai quotidiani apprendiamo che stanno nascendo Comitati per la difesa delle sanità territoriale in tutte le province della Sardegna. Questo movimento popolare in supporto ai sindaci è un bene perché i sindaci non possono essere lasciati soli ad affrontare l’ignoto che sta arrivando sul nostro futuro sanitario.

E’ tempo che tutti, maggioranze e opposizioni, parti sociali e enti locali di tutta la Provincia, comincino a discuterne. Il Sistema Salute è da ripensare prima che lo spopolamento e l’inerzia chiudano le città.

Mario Marroccu