Il «boia di Villeneuve» scoperto nelle miniere di Carbonia. La vicenda del criminale fascista Lorenzo Siddi – di Alberto Vacca
- I crimini e la condanna
Come è noto la Sardegna, a differenza di molte regioni del Centro-Nord Italia, non fu teatro diretto della guerra civile che dilaniò il Paese tra il 1943 e il 1945. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, l’isola fu rapidamente occupata dagli Alleati, diventando territorio di retrovia e sostanzialmente estranea alle operazioni belliche e alla lotta partigiana. Tuttavia, questa apparente marginalità geografica non impedì ai sardi di prendere parte al conflitto che contrappose la Repubblica Sociale Italiana (RSI) e i partigiani della Resistenza.
Numerosi furono infatti i sardi, soprattutto militari, che si trovarono coinvolti nel nuovo scenario bellico della penisola italiana: da una parte combattendo tra le file della Resistenza, dall’altra aderendo alla RSI, per scelta ideologica, senso del dovere o semplice contingenza. Tra questi ultimi si distingue la figura singolare di Lorenzo Siddi, la cui vicenda rappresenta un caso emblematico.
Trovandosi in territorio controllato dai tedeschi al momento dell’armistizio, Siddi aderì alla RSI e si arruolò nel battaglione «M IX Settembre», uno dei primi reparti militari ricostituiti e impegnati in prima linea contro i partigiani e le truppe alleate.
Il battaglione fu attivo dal settembre 1943 all’aprile 1945, inizialmente come compagnia aggregata alla divisione tedesca Brandenburg e successivamente inquadrato nella Guardia Nazionale Repubblicana. Esso fu impegnato in operazioni antipartigiane e collaborazioni con le forze tedesche in diverse zone dell’Italia, tra cui Cassino, Nettuno, Ortona e le Marche, distinguendosi per la durezza degli interventi.
Durante l’estate e l’autunno del 1944, il reparto fu trasferito in Valle d’Aosta, in un contesto segnato dall’intensificarsi dell’attività partigiana. In collaborazione con reparti tedeschi e milizie locali, i militi del «IX Settembre» operarono rastrellamenti nella zona di Aosta, Saint-Vincent e nella valle del Lys, con l’obiettivo di spezzare le linee di collegamento tra i partigiani italiani e le formazioni francesi al di là del confine alpino. Le operazioni furono contrassegnate da violenti scontri con le formazioni partigiane e da pesanti rappresaglie contro i civili sospettati di fiancheggiamento. Sebbene il battaglione riuscisse temporaneamente a ristabilire il controllo di alcune aree montane, subì perdite crescenti ed entro l’inverno fu costretto a ripiegare.
Fu proprio in questo contesto che Lorenzo Siddi – conosciuto nel suo ambiente familiare e nel suo paese di origine come uomo riservato, lavoratore e padre di famiglia – subì una radicale trasformazione. La sua condotta durante le operazioni in Valle d’Aosta, segnata da ferocia e violenza, lo rese tristemente noto come il «boia di Villeneuve», appellativo che ancora oggi evoca il lato più oscuro e controverso della militanza fascista durante la guerra civile.
Sergente maggiore del battaglione «M IX Settembre», al servizio dei nazisti, Lorenzo Siddi – nato il 22 febbraio 1918 a Uras e residente a San Nicolò d’Arcidano – si distinse per efferatezza e fanatismo, operando nella zona di Villeneuve e nei paesi circostanti. Arrivato al seguito delle forze tedesche che occupavano la regione, fu subito coinvolto in operazioni di rastrellamento, torture ed esecuzioni di partigiani e civili sospettati di collaborare con la Resistenza.
Uno dei crimini più atroci a lui attribuiti fu l’eccidio di Villeneuve del 16 ottobre 1944, in cui venne fucilata Aurora Vuillerminaz, detta «Lola», nata a Saint Vincent il 25 febbraio 1922. Staffetta partigiana esperta e coraggiosa, Lola aveva partecipato alla Resistenza operando nel delicato compito di passaggio dei fuoriusciti lungo il confine svizzero. L’ultima sua missione fu quella di guidare alcuni giovani fuoriusciti dalla Svizzera verso Cogne, per unirli alle formazioni partigiane garibaldine. Insieme a lei viaggiavano Ferdinando Giolli, Emilio Macazzola, Giovanni Pavia e Raimondo Lazzari, tutti determinati a unirsi alla lotta partigiana. Durante il tragitto, però, il 15 ottobre 1944, il gruppo fu catturato da una pattuglia fascista appartenente al battaglione IX Settembre. I prigionieri furono condotti nella caserma dei carabinieri di Villeneuve, sede del reparto, e sottoposti a brutali interrogatori. Lorenzo Siddi, capo indiscusso delle operazioni, coordinò personalmente le torture: i prigionieri furono percossi a sangue, con l’obiettivo di estorcere informazioni sulla rete partigiana.
Siddi si accanì particolarmente contro Lola, separata dagli altri in una cella isolata. Nonostante le minacce, le violenze e l’offerta della libertà in cambio della delazione, la giovane staffetta resistette con eroismo, mantenendo il silenzio assoluto fino alla fine. Come raccontato da Raimondo Lazzari, unico sopravvissuto alla strage, fu lo stesso Siddi a condurre Lola, all’alba del 16 ottobre, lungo il sentiero che portava al cimitero di Villeneuve, dove si sarebbe consumata l’esecuzione. In un macabro rituale, il sergente maggiore la prese per il braccio e, mostrandole le montagne che tanto amava, cercò ancora una volta di strapparle nomi di compagni e informazioni decisive. Di fronte al suo rifiuto, ricevette soltanto parole di sdegno. Aurora fu uccisa con due colpi di rivoltella alla testa, precedendo l’esecuzione dei suoi compagni: Ferdinando Giolli, Emilio Macazzola, Giovanni Pavia e Raimondo Lazzari. Prima di morire, con grande dignità, salutò i compagni, chiese loro perdono per non essere riuscita a portarli in salvo e li incitò a inneggiare alla libertà.
Miracolosamente, Raimondo Lazzari, sopravvisse all’eccidio. Alcuni abitanti di Villeneuve, sfidando il pericolo, gli prestarono le prime cure e informarono il comando partigiano di Cogne. Il giorno seguente, fu trasportato fino a Cogne, trovando finalmente salvezza. I corpi degli altri caduti furono lasciati insepolti per diverse ore come monito alla popolazione, in una tragica messinscena della violenza fascista.
Oltre all’eccidio di Villeneuve del 16 ottobre 1944, Lorenzo Siddi si rese responsabile anche della fucilazione di altri tre partigiani: Luigi Ricci, Paolo Pelissier e Romualdo Levy.
Dopo aver compiuto tali crimini in Valle d’Aosta, Siddi fece ritorno in Sardegna nel febbraio del 1946, stabilendosi con la moglie, Maria Frongia, e i figli a Carbonia, in via Raffaello Sanzio 53/11. Qui trovò impiego come minatore nelle locali miniere di carbone. Convinto forse di essere sfuggito alla giustizia, venne invece arrestato il 17 gennaio 1947 e trasferito ad Aosta, dove fu processato insieme ad altri ex commilitoni del battaglione IX Settembre.
Il processo, celebrato davanti alla Corte di assise straordinaria di Aosta, si svolse tra il 30 giugno e il 5 agosto 1947, concludendosi con la condanna a morte di Siddi per collaborazionismo militare con l’invasore tedesco – attuato con la partecipazione a rastrellamenti e a repressioni antipartigiane – e per la commissione di sette omicidi (Luigi Ricci, Paolo Pelissier, Romualdo Levy, Aurora Vuillerminaz, Ferdinando Giolli, Emilio Macazzola, Giovanni Pavia) e di un tentato omicidio (Raimondo Lazzari).
L’iter giudiziario di Siddi non si esaurì tuttavia con la sentenza di primo grado.
La Corte di Cassazione, con decisione del 6 febbraio 1948, accolse parzialmente il ricorso da lui presentato, rilevando la carenza di motivazione circa il diniego delle attenuanti generiche, e rinviò il caso alla Corte di assise straordinaria di Torino. Quest’ultima, con sentenza del 25 ottobre 1948, confermò la condanna a morte, escludendo nuovamente la concessione delle attenuanti.
Un ulteriore ricorso di Siddi venne rigettato dalla Corte di Cassazione il 19 aprile 1949; tuttavia, in quella sede, la pena capitale fu commutata nell’ergastolo.
Nel luglio 1951, la Corte d’appello di Torino respinse una richiesta di condono presentata da Siddi. Pochi mesi dopo, con ordinanza del 18 ottobre 1951, la Corte di Cassazione annullò tale decisione e ridusse infine la pena inflittagli a 20 anni di reclusione.
Nonostante la condanna definitiva, Lorenzo Siddi non scontò integralmente la pena comminatagli. La sua detenzione, iniziata il 17 gennaio 1947, avrebbe dovuto protrarsi fino al 17 gennaio 1967. Tuttavia, in seguito alle amnistie e ai provvedimenti di clemenza adottati nell’Italia del dopoguerra, la pena fu significativamente ridotta. Dopo ripetute istanze di grazia presentate da lui e dalla moglie, il 23 aprile 1954 gli fu concessa la libertà condizionale dal Ministro di Grazia e Giustizia. Il successivo 27 aprile Siddi venne scarcerato, in esecuzione di un decreto emesso nella stessa data dal giudice di sorveglianza del tribunale di Avellino, città in cui era detenuto. In definitiva, scontò poco più di sette anni di reclusione, evitando di pagare pienamente il prezzo dei gravi crimini commessi durante l’occupazione nazifascista in Valle d’Aosta.
- La revisione della propria storia e la costruzione di una falsa memoria
Rientrato a Carbonia nel maggio 1954, Lorenzo Siddi vi rimase fino al giugno 1955, per poi trasferirsi prima a Iglesias e infine a San Nicolò d’Arcidano. Qui assunse un ruolo attivo nella vita politica locale, diventando segretario della sezione del Movimento Sociale Italiano. Nel nuovo contesto politico e sociale, Siddi avviò un’opera sistematica di revisione della propria storia, diffondendo una versione dei fatti completamente falsa e autoassolutoria. Si presentava come vittima di accuse ingiuste, tentando di cancellare la memoria dei crimini per i quali era stato condannato.
Questa ricostruzione venne ribadita anche molti anni dopo, in un’intervista che Siddi, ormai ottantacinquenne, concesse nel 2003 ad Angelo Abis, suo compagno di fede politica. Il contenuto dell’intervista fu riassunto da Abis in un testo che è consultabile online e che offre una ricostruzione fortemente di parte, tesa a riabilitare la figura di Siddi e a negare i crimini per i quali era stato condannato. In quell’occasione, Siddi si dipinse come un perseguitato politico, vittima di una campagna diffamatoria. Raccontò di essere stato arrestato ingiustamente a Bormio nel 1945 su segnalazione di un partigiano sardo e di essere stato successivamente liberato grazie all’intervento di un commissario di polizia sardo.
Nel suo racconto, l’eccidio di Villeneuve, uno degli episodi più gravi a lui attribuiti, veniva radicalmente falsificato. Secondo la sua versione, Aurora Vuillerminaz gli avrebbe sparato durante una perquisizione, e lui, pur avendo avuto il diritto di giustiziare immediatamente i partigiani catturati, li avrebbe invece consegnati al comando superiore. A suo dire, l’esecuzione della giovane donna e degli altri partigiani sarebbe avvenuta per ordine di un tribunale italo-tedesco, senza sue responsabilità dirette.
Sempre nell’intervista ad Abis, Siddi rievocava la propria carriera militare nel battaglione IX Settembre, esaltando il suo coraggio e la fedeltà agli ordini, descrivendosi come un semplice soldato che, infiltrandosi tra le bande partigiane, aveva compiuto azioni di guerra legittime. Tacendo volutamente sulla brutalità delle operazioni antipartigiane e sulle testimonianze che invece documentavano i suoi diretti coinvolgimenti in fucilazioni sommarie, tentava di riscrivere la propria vicenda come quella di un patriota ingiustamente perseguitato.
Dopo la sua scarcerazione, avvenuta nel 1954, Lorenzo Siddi cercò dunque di ricostruirsi una nuova immagine pubblica, nascondendo il suo passato criminale dietro un racconto costruito ad arte e rifiutando fino alla fine ogni assunzione di responsabilità.
- Il nodo irrisolto del fascismo in Italia
La vicenda di Lorenzo Siddi assume un significato emblematico, poiché, da un lato, illustra come la guerra possa trasformare l’individuo da persona retta a carnefice spietato, e, dall’altro, mette in luce l’incapacità dell’Italia di confrontarsi con il proprio passato fascista. La guerra non si limita a devastare città e vite umane, ma travolge anche le coscienze, annienta valori fondamentali e stravolge identità. Essa ha il potere di trasformare persone comuni, magari inizialmente oneste nella vita civile, in esecutori di crudeltà inaudite, capaci di compiere atrocità inimmaginabili in tempi di pace. Lorenzo Siddi, come molti altri protagonisti della tragedia della RSI, esemplifica quanto possa essere sottile il confine tra senso del dovere, fanatismo ideologico e brutalizzazione nell’ambito della spirale della violenza. Non si tratta di esonerare le singole responsabilità, ma di comprendere come il contesto bellico – caratterizzato dalla propaganda, dall’odio politico e dalla disumanizzazione dell’altro – abbia favorito e giustificato azioni che, in circostanze normali, sarebbero state inaccettabili per gli stessi esecutori. Questo insegnamento risulta cruciale per riflettere su quanto ogni società civile debba vigilare contro i meccanismi di banalizzazione della violenza.
La parabola di Siddi rappresenta, dunque, non solo un tragico esempio del potere corrosivo della guerra, ma anche un caso emblematico della mancata revisione del passato fascista da parte dell’Italia repubblicana, un’eredità che continua a lasciare tracce indelebili nella memoria collettiva. La sua storia – da collaboratore della repressione nazifascista a vittima autoproclamata di ingiustizie, da condannato per crimini gravissimi a esponente politico locale della destra postfascista – dimostra come, nel dopoguerra, il nostro Paese abbia scelto troppo spesso la strada dell’oblio e della rimozione, anziché quella della verità e della giustizia.
Siddi non è stato un’eccezione. Numerosi ex appartenenti alla RSI, anche condannati per crimini di guerra o responsabili di gravi episodi di repressione, riuscirono a reinserirsi nella vita civile e politica grazie al clima di clemenza, riabilitazione e amnistia che caratterizzò l’Italia del secondo dopoguerra. L’amnistia Togliatti del 1946 e i successivi provvedimenti di indulto non solo liberarono migliaia di detenuti, ma contribuirono a costruire un’amnesia collettiva su chi fosse stato carnefice e chi vittima durante la guerra civile.
La ricostruzione «eroica» proposta da Siddi della sua adesione alla RSI – come semplice soldato fedele ai superiori, costretto dalle circostanze e tradito da fazioni rivali – riflette la più ampia narrazione, ancora oggi diffusa in certi ambienti, che tende a equiparare moralmente repubblichini e partigiani, fascisti e antifascisti, occultando le responsabilità storiche e politiche del regime mussoliniano. Una narrazione che non si limita a negare i crimini, ma pretende di riscrivere il significato stesso della Resistenza, riducendola a un semplice «conflitto tra italiani», senza più alcun giudizio morale sulla natura dei due schieramenti.
La vicenda di Lorenzo Siddi rivela dunque l’esistenza di una frattura mai davvero ricomposta nella coscienza nazionale. L’Italia repubblicana, pur nata dalla Resistenza e dotata di una Costituzione antifascista, ha convissuto per decenni con la presenza nei suoi apparati politici, amministrativi e culturali di uomini che avevano sostenuto il regime fascista e collaborato con l’occupante nazista. A questo si è aggiunta una volontà politica trasversale – motivata da ragioni di pacificazione interna, di equilibri internazionali e di convenienze elettorali – di «voltare pagina» senza realmente affrontare la memoria del passato.
Anche oggi, a distanza di ottant’anni, le difficoltà nell’assumere pienamente la verità storica sul fascismo e sulla guerra civile si riflettono nei tentativi di rivalutazione, minimizzazione o persino negazione di quel periodo. È su questo terreno che storie come quella di Siddi trovano spazio per trasformarsi da documenti di colpa in strumenti di propaganda.
Fare definitivamente i conti con il fascismo significherebbe, ancora oggi, riconoscere senza ambiguità chi lottò per la libertà e chi si schierò dalla parte della dittatura e dell’oppressione. Significherebbe affermare con chiarezza che non vi fu alcuna equivalenza morale tra Resistenza e RSI. E significherebbe anche saper leggere criticamente storie come quella di Lorenzo Siddi, senza concessioni a narrazioni autoassolutorie o a memorie distorte, per salvaguardare la verità storica su cui si fonda la nostra democrazia.
Alberto Vacca
