5 December, 2025
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I pareri sulla Sanità che vengono quotidianamente diffusi agli italiani sono come i racconti di Storia: dipendono da chi li racconta. Da oltre 30 anni i pareri provengono dai burocrati e dai politici. Essi si limitano a fornire la descrizione dei guasti alla sanità pubblica e non forniscono mai progetti per risanarla. All’inizio non fu così: la Sanità pubblica fu un progetto esclusivo concepito da tre medici, deputati dell’Assemblea Costituente, che stavano preparando la nascita della nuova Repubblica.
Il 1° gennaio 1948 per la prima volta nella storia si parlò di Sanità pubblica a carico dello Stato. Nell’ articolo 32 della Costituzione sta scritto: «La Repubblica tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo…». L’articolo venne concepito e scritto da quei tre Medici che gli avevano dedicato l’intero anno 1947 con studi e discussioni. Essi erano  il dottor Giuseppe Caronia, clinico pediatra a Roma, democristiano; il dottor Mario Merighi, primario di medicina a Mirandola, socialista; il dottor Alberto Cavallotti, primario di un nosocomio milanese, comunista. Essi spiegarono che la qualifica di “diritto fondamentale” dato alla salute era giustificata dal fatto che qualunque essere umano si trovi in stato di malattia è equiparabile ad un essere in stato di schiavitù o di dipendenza da altri, correndo il rischio di perdere la dignità e di non poter esercitare i propri diritti. Da questa considerazione i Costituenti hanno derivato il principio che la Sanità Pubblica deve essere basata sulla “solidarietà” e nessuno deve vivere l’esperienza d’essere trascurato e offeso dall’abbandono sociale nel momento della sofferenza. Tina Anselmi, che fu ministro della Sanità nel biennio 1978/1979 costruì la sua legge 833/78 ispirandosi ai documenti lasciati ai posteri da quei tre medici nell’anno 1947. Nel ventennio tra il 1992 e il 2009 quel principio venne modificato a fondo. L’ultimo colpo gli venne dato dal tracollo economico internazionale iniziato con la crisi dei “subprime”, e il fallimento di Lehman Brothers negli Stati Uniti, che coinvolse anche l’Europa; l’Italia finì sull’orlo del fallimento. In quel ventennio i principi solidaristici dei tre medici costituenti italiani vennero radicalmente modificati. Si passò da una gestione della sanità basata sui valori umani della Costituzione ad una gestione basata sul diritto aziendale . Si passò dal principio della solidarietà al principio del bilancio fondato sull’interesse economico. Il cittadino passò dallo stato di titolare di un “diritto fondamentale “ allo stato di “cliente” di un’azienda (ASL).
In questa storia di sanità pubblica, iniziata dai tre medici Costituenti, le figure dei medici pubblici in qualità di programmatori vennero fatte drasticamente scomparire e in quella funzione vennero sostituiti da esperti burocrati. Perciò da circa 30 anni la Sanità è in mano ai “manager”. Essi sono liberi professionisti, abilitati a gestire aziende, incaricati dal potere politico regionale, e non sono tenuti a rendere conto del loro operato alle amministrazioni comunali e provinciali.
Dopo 33 anni di tale gestione, e dopo i risultati fallimentari conseguiti, dati i giganteschi problemi demografici ed economici che si prospettano, è lecito pensare di tornare ai valori dei tre medici costituenti.
Ciò implica il dover cambiare la visione attuale sulla Sanità pubblica e riprogrammarla secondo principi diversi da quelli adatti a gestire una impresa economica.

Ipotesi di proposta.

Il problema strutturale globale riguarda l’intero apparato sanitario “su campo”. Esso è costituito da:
– Gli ospedali per acuti,
– Gli ospedali per cronici,
– L’organico dei medici,
– L’organico degli infermieri e dei tecnici,
– La medicina di base,
– Le case della salute,
– Gli ospedali di comunità.

E’ necessario ridefinire la natura di ognuna di queste entità ridefinendo anche i rapporti fra di esse. Il nuovo contesto globale deve favorire la comunicazione fra: ospedali, apparato tecnico amministrativo, i professionisti, le loro gerarchie e la sanità territoriale.

Gli ospedali.

Le leggi emanate dal Governo Amato I e II , e la riforma del titolo V, parte II della Costituzione hanno avuto l’effetto di:
a – depotenziare e chiudere gli ospedali provinciali di I livello.
b – Accentrare le funzioni diagnostiche e terapeutiche negli ospedali regionali di II livello.
Il depotenziamento della sanità provinciale ha provocato l’iper-affluenza dei pazienti dalle province agli ospedali regionali.
Gli ospedali regionali di II livello (come Brotzu e Santissima Annunziata) furono concepiti per le ultraspecializzazioni mediche ma, a causa della riduzione del sistema sanitario nelle province, essi sono stati costretti ad assumersi anche le funzioni degli ospedali provinciali. La nota crisi che ne è nata, e che ha visto pochi mesi fa anche la necessità di chiudere temporaneamente il Brotzu, per sovraccarico, impone di restituire, gli ospedali regionali di II livello, alle funzioni ultraspecialistiche per cui erano nati.
Di conseguenza si devono restituire gli ospedali provinciali di I livello (come Carbonia e Iglesias) alle funzioni che avevano in passato a servizio dei malati del territorio.
Gli ospedali provinciali di I livello devono tornare ad occuparsi pienamente di tutte le patologie chirurgiche e internistiche, riservando a quelli di II livello (di Cagliari e Sassari) la cardiochirurgia, la
neurochirurgia, e i trapianti d’organo.
Negli ospedali di I livello provinciali vanno riattivate tutte le chirurgie di base e i Servizi di Anatomia Patologica, Radiologia, Endoscopia digestiva e respiratoria, Radioterapia, Chemioterapia. Se questa riattivazione degli ospedali avverrà contestualmente a una riorganizzazione della medicina di base, ne conseguirà il crollo immediato delle liste d’attesa per i ricoveri e gli interventi. Dato il quadro demografico attuale ne beneficerà l’utenza costituita da ultra-cinquantenni e, sopratutto, da anziani non autosufficienti. Per essi è urgente la rapida riattivazione dei centri ospedalieri vicini al fine di contrastare il fenomeno di rinuncia alle cure derivato dalla difficoltà e onerosità del trasporto dei malati.
Un beneficio collaterale certo sarà la ricostituzione di una efficiente rete di medici di base del territorio, ben supportata dalla disponibilità degli ospedali provinciali restituiti alla loro operatività.
Gli attuali ospedali provinciali, nati nel dopoguerra, destinano oggi i pochi posti letto rimasti (20-25 per U.O.) per i pazienti acuti.
Bisogna sapere che gli stessi ospedali vennero progettati per almeno il triplo dei posti letto. Questo fatto è purtroppo sconosciuto sia ai cittadini che ai politici.
Gli ospedali di Carbonia e Iglesias, ai quali il piano ospedaliero destina 250 posti letto, fino a 30 anni fa avevano 750 posti letto (500 in più).
Considerata la maggiore capienza potenziale, sarebbe possibile l’apertura di nuove Unità Operative per pazienti cronici (geriatrici), a fianco alle Unità Operative per acuti. Tale riutilizzo avrebbe importanti effetti sulle liste d’attesa e sulla famiglie.

Per avviare il progetto di nuova responsabilizzazione della politica locale territoriale all’interno della ASL e, contemporaneamente, valorizzare il personale si deve convenire su un punto fermo: la struttura sanitaria e la struttura amministrativa necessitano di due gerarchie fra loro indipendenti.

I medici.

I medici rappresentano la componente professionale essenziale per l’assistenza ospedaliera e territoriale. Sono irrinunciabili per il riavvio del Sistema sanitario. L’organico dei medici di ogni Unità Operativa ospedaliera deve avere una struttura gerarchica ben definita. La gerarchia è la catena di comando che muove simultaneamente tutti i pezzi del motore della Sanità.
Fino alla riforma di Francesco Di Lorenzo del 1992 gli organici dei medici ospedalieri erano formati da:

– un orimario: con funzioni di capo della scala gerarchica.
– due aiuti: medici esperti idonei ad assumere funzioni primariali, soggetti alla autorità del primario.
– setto-otto assistenti (medici soggetti all’autorità degli aiuti e del primario).
Il DPR 229/1992 di Francesco Di Lorenzo abolì la figura gerarchica del primario della Divisione ospedaliera e quella degli Aiuti. Scomparvero così la scala delle responsabilità e anche quella del merito. Prima d’allora il funzionamento della gerarchia dei medici era regolata dalla legge 128/69. Essa legge, all’articolo 7, definiva il ruolo del primario. Egli, oltre al compito di direttore della Divisione, aveva la funzione di legale responsabile della compilazione e della sorveglianza delle cartelle cliniche; aveva, inoltre, il compito di “vigilare” sul personale medico e infermieristico; era il responsabile del benessere e della cura dei malati. Per “compito di vigilanza” si intendeva l’obbligo di di fare verifiche sulla qualità dell’attività professionale dei medici e di sorvegliarne la disciplina. Curava con rigore la disciplina degli infermieri, dei tecnici, e del personale ausiliario. Egli era tenuto a prendersi cura della formazione continua e dell’addestramento dei medici. Essendo il responsabile della accuratezza delle cure ai malati, doveva sempre verificare:
1. L’esattezza delle diagnosi e approvarle;
2. L’appropriatezza delle cure e approvarle;
3. La conformità morale e professionale nei rapporti fra il personale e i malati.
Di fatto svolgeva la funzione di “Maestro” addestratore alla professione sanitaria.
La divisione ospedaliera (attuale Unità operativa) aveva funzioni di cure , e di scuola di formazione post-universitaria per i giovani medici.
Non esisteva il problema che oggi lamentano i medici ospedalieri : cioè l’assenza di prospettive di carriera. Era possibile avanzare di grado diventando prima aiuto e poi primario, acquisendo titoli professionali e idoneità nazionali ministeriali.
Gli ospedali che avevano in organico i primari migliori formavano i medici migliori. Essi erano la sede in cui nascevano e crescevano quei chirurghi e quegli internisti che nel tempo sarebbero subentrati ai medici anziani nelle funzioni di primari e vice-primari. All’uscita di scena di un primario non si creava mai il vuoto gerarchico. Il primario usciva di scena quando era pronto il suo sostituto, che era sempre un aiuto già formato per fare il primario. In Germania tutt’oggi il primario che si prepara alla pensione indica il successore due anni prima della sua uscita di scena, e per due anni concentra su di lui tutti gli sforzi per trasferirgli le sue competenze.
L’ospedale italiano fino al 1992 era, globalmente, una scuola di formazione continua. I medici che entravano in quella scuola ne ereditavano cultura, esperienza, professionalità, e avevano la possibilità di carriera primariale. Gli stipendi fra questi tre gradi (assistente, aiuto, primario) erano differenziati in progressione. Il miglioramento del trattamento economico era sincrono col miglioramento delle capacità professionali e dei titoli acquisiti con concorsi nazionali, fino alla posizione apicale.
Tutti i Primari erano componenti del Consiglio dei sanitari; fra di essi veniva eletto il Direttore sanitario.
Era un meccanismo di valorizzazione che consentiva ai medici di produrre le scelte programmatiche da affidare poi alla parte amministrativa perché potessero essere realizzate.
Attualmente non è così: oggi il Direttore sanitario viene scelto dal Direttore generale della ASL. Questa soggezione di nomina genera scarsa autonomia di giudizio; inoltre il parere espresso sia dal Direttore sanitario che dal Consiglio dei Sanitari non ha peso o non viene neppure richiesto. Questo meccanismo demotiva i medici che, sviliti ed estraniati dalle scelte, sono impediti dal partecipare attivamente alla programmazione.
Oggi il Direttore generale della ASL viene designato da organismi politici regionali lontani dai territori provinciali, mentre in passato veniva nominato, con incarico di presidente, dai Consigli comunali del territorio. Tale differenza comporta che le decisioni prese allora col sistema precedente corrispondevano alle istanze dei cittadini del territorio; oggi no.
Questa “estraneità” al territorio, dell’attuale Direttore generale rispetto ai precedenti presidenti di USL, è una delle cause del distacco fra cittadini e sanità pubblica, e anche fra medici dell’ospedale e medici del territorio. Dapprima i medici dell’ospedale e quelli del territorio erano in rapporto diretto fra di loro perché avevano al di sopra un’unica autorità territoriale locale unificante. Ne conseguiva che il medico di base che curava un paziente, di fatto, continuava a seguirlo attraverso i medici dei reparti che erano la proiezione ospedaliera della medicina di base. Questo “continuum” tra medici di base e ospedalieri era una garanzia di sinergia delle cure e di sostegno interno fra i due sistemi.
La legge di Francesco Di Lorenzo comportò tre trasformazioni:

1 – Tutti i medici vennero classificati allo stesso livello gerarchico; ne conseguì la scomparsa dello “avanzamento” nella carriera direttiva e da allora si ignorarono le diverse competenze professionali e il merito.
2 – La scomparsa degli aiuti comportò la scomparsa delle figure professionalmente autorevoli che potevano sostituire il primario in sua assenza.
3 – Colla scomparsa del primario (quello della legge 128/69) scomparve il capo-scuola ospedaliero, e cessò l’esistenza di chi doveva, per legge, formare i medici destinati a divenire i futuri primari.
L’esperienza che stanno vivendo oggi gli ospedali dimostra che l’uscita di scena del primario comporta la fine dell’Unità 0perativa. I medici più giovani che intendono continuare a lavorare ad un alto livello
professionale, una volta privati del primario, sono costretti a trasferirsi in altri ospedali ancora dotati di primari.
Da questa esposizione emerge l’evidenza che l’organico dei medici è vario ed è composto da diverse figure a diversi livelli di formazione. Esistono i medici appena laureati dalle Università, ed esistono i medici con un grado di formazione professionale più avanzato. Dal momento dell’uscita dall’Università i medici vanno considerati “medici in formazione per sempre”.
La formazione avviene per gradi solo all’interno degli ospedali. Qui essi vengono culturalmente costruiti attraverso l’esperienza nell’applicazione delle regole riconosciute dalle Società scientifiche. La loro esperienza avviene attraverso l’imitazione dei medici più anziani.
I medici vengono formati da altri medici e, una volta lasciata l’Università per l’ospedale, il nuovo campo di studio è costituito dal malato e dall’apparato che lo cura. L’apparato di cura ospedaliero è formato
dalla équipe di specialisti, dai servizi di laboratorio, Radiologia, Anatomia patologica, dal personale Infermieristico, dal Pronto soccorso, e dagli altri reparti ospedalieri. Ogni giorno di lavoro in ospedale è una giornata di studio e formazione. All’apice della piramide docente è il primario. Egli è il riferimento concreto per l’applicazione della scienza, per la formulazione della diagnosi definitiva e per la programmazione terapeutica.
Ne consegue che l’Amministrazione che programma l’assunzione di nuovi medici per le Unità operative non può esimersi dall’arruolare per primi i medici formatori di altri medici: i primari.

Infermieri.
Vengono distinti, in base alla formazione, in:
– Infermieri laureati,
– Infermieri diplomati,
– Capo sala.
L’infermiere Capo sala di un reparto di degenza è il capo di tutti gli infermieri della stessa Unità operativa. Deve avere competenza organizzativa e autorità professionale e disciplinare su tutto il personale infermieristico. La sua autorità gli deriva direttamente dal primario.
Agli infermieri vengono affiancati gli OSS.
Oggi si lamenta la scarsità di personale infermieristico. In realtà l’ospedale può risolvere il problema della carenza di personale assumendo le funzioni di scuola infermieristica e generare infermieri diplomati e anche OSS.
Gli infermieri che vogliono acquisire la laurea devono rivolgersi alle scuole di formazione in Scienze Infermieristiche dell’Università.
Quanto detto per i “medici in formazione per sempre” vale anche per gli infermieri. I nuovi infermieri diplomati e laureati, acquisiscono le capacità della professione pratica imitando gli infermieri professionalmente più anziani posti ad uno scalino gerarchico più elevato.
E’ necessario che anche tra di essi esista una rigorosa gerarchia in cui il capo è tenuto alla verifica costante della qualità delle prestazioni assistenziali e abbia autorità disciplinare e premiante.
Un capitale umano d’alto livello infermieristico diventa un capitale sociale che estenderà il beneficio professionale maturato anche ai malati del territorio extraospedaliero.

Conclusione.

E’ illogico che gli ospedali siano in mano a esperti di amministrazione che conoscono bene i conti ma non conoscono cosa sia la Sanità. Il pubblico che si lamenta coi suoi politici della Sanità di oggi non può perdere tempo nel piagnisteo quotidiano sui giornali ma deve fornire argomenti concreti che dimostrino lo stato di abbandono politico amministrativo persistente. Dalla nostra provincia devono nascere richieste concrete come il raddoppio dei posti letto nei nostri ospedali. Oggi gli ospedali hanno posti letto solo per “acuti”, come infartuati, emorragici o incidenti della strada. Per questo hanno pochissimi posti letto. In realtà è necessario che possano accogliere, in posti dedicati, anche i pazienti sub-acuti, per esempio: anemici, portatori di dolore cronico, sofferenti di deperimento per tumori avanzati. Pazienti, questi, che sono abbandonati alle famiglie. I casi di pazienti cronici non autosufficienti verranno seguiti dalle RSA. Abbiamo bisogno di primari da assumere, medici da mettere sotto la guida di Primari, personale medico e infermieristico sotto una chiara gerarchia. Ci servono soldi per aumentare le entrate del personale che si dedichi, senza lungaggini temporali, a diagnostica strumentale impegnativa come: le procedure radio ed ecoguidate, le colonscopie, le gastroscopie, le broncoscopie e le cistoscopie, e a far funzionare le sale operatorie, le radiologie, e tutti servizi tecnologici. Ci serve aggiornamento tecnologico come risonanza magnetica avanzata, anatomia patologica, virologia, PET e chirurgia robotica.
Vogliamo scommettere che ridurremo le fatiche compensatorie delle case di cura private e che i giovani medici faranno a gara per venire nei nostri ospedali a lavorare e imparare?

Mario Marroccu

Il distacco comunicativo, sui temi sanitari, tra Regione, Province e Comuni, è una delle cause del fallimento del sistema sanitario regionale. L’incomunicabilità iniziò nel dicembre del 1992 quando il ministro Francesco Di Lorenzo escluse i politici provinciali dalle amministrazioni delle USL, e inventò i “manager”. Tale incomunicabilità peggiorò per una malintesa interpretazione della riforma del titolo quinto della Costituzione, avvenuta il 18 ottobre 2001 quando, di fatto si passò dal SSN unico ai 21 SSR (Sistemi Sanitari Regionali). La Costituzione, riformata agli articoli 114 e 117, da allora conferisce alla Regione una “potestà legislativa” che prima non aveva; al tempo del Sistema Sanitario Nazionale unico, infatti, tale potere era riservato solo allo Stato. Esattamente la Costituzione afferma, all’articolo 117, che la Regione ha la potestà di produrre leggi regionali “concorrenti” per gestire il proprio Sistema Sanitario Regionale. La potestà legislativa concorrente delle Regioni prevede che sia lo Stato che le Regioni possano legiferare nelle stesse materie. Lo Stato stabilisce i principi fondamentali (in questo caso i LEA) mentre alle Regioni spetta il compito di emanare leggi attuative e di dettaglio per il resto. La Regione Sardegna, pertanto, ha la potestà legislativa per poter delegare la competenza di gestire la Sanità alle Province e ai Comuni. Con una legge ad hoc la Sardegna potrebbe disporre che vengano delegate le funzioni di Presidente della ASL ad un rappresentante politico del luogo. Nominato il Presidente, la Regione può affiancargli un Consiglio di amministrazione, che sarà formato da una rappresentanza di sindaci della stessa Provincia. Con queste figure politiche, poste al vertice della ASL, le amministrazioni locali possono riottenere il titolo per controllare la ASL. 

Nota bene: esiste già un embrione di questa idea nell’attuale Piano sanitario regionale in cui si riconosce alla Commissione Sanitaria Provinciale la funzione di controllo (esterno e puramente teorico) sul Direttore Generale della ASL; tuttavia tale Commissione è del tutto ininfluente ed è senza reali poteri. Ciò che si ipotizza in questa proposta è la costituzione di una struttura, di natura politica locale, posta all’interno dell’organismo dirigenziale della ASL, che affianchi e sovrasti politicamente il Direttore generale. 

Il Sistema Sanitario Nazionale varato nel 1978 funzionava molto bene. Ebbe il difetto di non rispettare la regola del pareggio di bilancio e di indebitare lo Stato. Nella storia fu la sanità più stimata dagli italiani. 

Aveva due caratteristiche: una buona e una cattiva. La buona consisteva nell’impegno, posto dai politici locali, nel garantire una sanità apprezzata dalla popolazione. La caratteristica deleteria consisteva nell’abuso, delle “spese a piè di lista” delle USL, per ottenere i rimborsi di spese eccessive su quelle programmate, giustificandole come necessarie. Spese che avvennero senza freni. I debiti registrati nella Sanità pubblica furono tali da indurre i governi successivi che amministrarono l’Italia dal 1992 in poi, a eliminare le figure dei politici locali dalle USL. Al loro posto, alla direzione delle ASL, vennero incaricati i “manager”. Questi erano figure monocratiche che riassumevano, in una unica persona, tutti i poteri e tutte le funzioni che prima appartenevano ad una macchina amministrativa più complessa, e rappresentativa del territorio, fatta di amministratori locali. La riforma dei “manager” ebbe il pregio di mettere sotto stretto controllo la contabilità e rispettare il pareggio di bilancio; ebbe, tuttavia, il difetto di attribuire a quella figura amministrativa anche una funzione a cui non poteva essere adeguata: la funzione di interprete della volontà popolare. Compito che è sempre stato delegato, e sarà, ai politici locali e provinciali. Il manager, a causa della sua natura prettamente tecnica, aveva come primo obiettivo la contabilità, anche a costo di andare contro le aspettative di assistenza. Attraverso questa via, in circa tre decenni, la Sanità pubblica si è sgretolata. 

Una volta riconosciuta l’inadeguatezza della Sanità dei “manager”, oggi si potrebbero riprendere in considerazione gli strumenti politici del passato che resero efficiente la Sanità pubblica. Ciò è possibile restituendo incarichi di gestione ai politici locali imponendo, tuttavia, la loro esclusione dal controllo della contabilità; questa dovrebbe restare un dominio esclusivo e indipendente del Direttore generale della ASL. Una figura “estranea” nata a quello scopo. 

L’articolo 117 della Costituzione, così come modificato nel 2001, ci offre lo strumento legittimo per procedere; esso conferisce la “potestà legislativa” alle Regioni in tema di sanità. In sostanza, attraverso la “legiferazione concorrente”, le Regioni possono produrre norme proprie adatte a cambiare la propria sanità futura. 

La Regione Sardegna può legiferare sulla struttura organizzativa delle sue ASL restituendo ai nostri Comuni e alle Province la funzione di controllo al loro interno. Una volta stabilito il vincolo del pareggio di bilancio, riservato in esclusiva al manager, si potrebbe mettere l’intera amministrazione sotto il controllo politico dei sindaci e del presidente della Provincia. Sarebbe sufficiente un’integrazione all’articolo che indica gli organi direttivi delle ASL introducendo le figure del: 

– Presidente della ASL (eletto dai sindaci e incaricato dalla Giunta regionale), e del 

– Consiglio di amministrazione (eletto con regole simili a quelle per la Provincia). 

La loro azione verrebbe supportata dal Consiglio dei sanitari, formato da tutti i primari, da un rappresentante dei medici, da uno degli infermieri e da uno dei tecnici. Il Consiglio dei sanitari avrebbe le funzioni di organo propositivo e consultivo per il Presidente, per il Consiglio di amministrazione, e per il Direttore generale. 

Una volta restituita la rappresentanza politica territoriale alle ASL, sarebbe da considerare come ricostituita la “cinghia di trasmissione” tra cittadini e direzione tecnica della ASL. 

Proposta 

Si disegna una proposta che modifica un articolo della legge di istituzione del Servizio Sanitario Regionale. Si tratta dell’articolo che istituisce gli organi dirigenti della ASL. 

Gli organi della ASL sono: 

il Presidente: viene eletto dal Consiglio dei sindaci di tutto il territorio con le regole utilizzate per la Provincia; è incaricato dalla Giunta regionale. Ha funzioni politiche di proposta, programmazione e controllo. Rappresenta il Consiglio di amministrazione raccogliendo le istanze popolari. 

Il Consiglio di amministrazione; ha funzioni politiche di proposta, programmazione e controllo. 

Viene eletto, contestualmente al Presidente, dalle amministrazioni locali territoriali secondo lo stesso metodo dettato dalla legge regionale per i consigli provinciali. Si limiterebbe a 6 rappresentanti, più il Presidente. Ha la funzione di rappresentare le istanze popolari nel bisogno di salute. 

Il Consiglio dei sanitari; formato da tutti i medici di II livello, da un rappresentante dei medici di I livello, da un rappresentante degli infermieri, da un rappresentante dei tecnici, e da un rappresentante dei medici di base eletti dai rispettivi gruppi. È presieduto dal Direttore sanitario della ASL. 

Ha funzioni di rappresentanza delle istanze provenienti da tutto il personale sanitario ospedaliero e territoriale presso il Consiglio di amministrazione, il Presidente, il Direttore generale, il Direttore amministrativo. È inoltre di supporto tecnico, di proposta e di verifica al fine di migliorare l’efficacia dell’azione dell’apparato sanitario. 

Il Direttore sanitario della ASL viene eletto dal Consiglio dei sanitari. Viene indicato dal Presidente della ASL al Direttore generale che gli conferisce l’incarico. Assieme al Direttore amministrativo egli ha funzioni di supporto tecnico del Direttore generale, e di consulente del Presidente. Rappresenta il Consiglio dei sanitari. 

Il Direttore generale, incaricato dalla Giunta regionale. È il capo della gerarchia amministrativa. Pianifica la programmazione amministrativa informando il Presidente, il Consiglio di amministrazione e il Consiglio dei sanitari, il Direttore amministrativo. Ne recepisce i pareri e suggerimenti; decide di acquisirli o meno in autonomia, dandone il motivo. È il responsabile del pareggio di bilancio. Ha il potere esecutivo. 

Il Direttore amministrativo; è la seconda figura nella gerarchia amministrativa, ha funzioni esecutive in subordine al Direttore generale. 

Questa proposta deriva dall’assunto che le figure tecniche qualificate per cogliere i bisogni sanitari specialistici necessari alla popolazione sono i medici, gli infermieri e, soprattutto, lo è il massimo referente dell’apparato sanitario che è il primario ospedaliero (dirigente di II livello). I primari delle Unità operative hanno il polso dei bisogni sanitari della popolazione e dei provvedimenti tecnici per soddisfarli. Da essi dovrebbero nascere le indicazioni alle amministrazioni delle ASL; indicazioni che, raccolte dal Consiglio dei sanitari, vengono comunicate al Presidente e al Direttore generale. Si tratta di un campo dei bisogni ben preciso: il bisogno in medici specialisti, in personale infermieristico e tecnico, in nuove tecnologie diagnostiche e terapeutiche, e in nuove strutture (Unità operative). In questa visione la parte amministrativa avrebbe competenza sulle manovre contabili per realizzare i progetti programmati, e avrebbe la fondamentale funzione di dare assistenza ai medici nel compimento della loro missione curativa secondo le necessità registrate. 

Su tutti, a capo del Sistema formato da medici e amministrativi deve esistere una figura che funga da interfaccia tra: popolazione (utenti), personale sanitario, e personale amministrativo. L’interfaccia deve necessariamente riassumere in sé la complessa funzione di rappresentante della politica territoriale all’interno di una struttura contemporaneamente tecnica e amministrativa: tale figura è il Presidente. 

Il Presidente ha la funzione di intermediatore tra politici locali e amministrazione della Sanità pubblica. Si tratta di quella interfaccia che venne negata dalle leggi di riforma varate con i vari DPR dal 1992 al 1999. 

Secondo la logica di questa ipotesi di proposta il capo della ASL deve essere un rappresentante politico del territorio (un sindaco o il presidente della provincia). La programmazione del servizio reso dai medici deve essere competenza del rappresentante del Consiglio dei sanitari; la funzione amministrativa-contabile, e del controllo di legittimità degli atti, deve essere competenza del Direttore generale (“o manager”), in qualità di responsabile unico della programmazione finanziaria e garante del pareggio di bilancio. Il Presidente della ASL deve avere le attribuzioni della “figura politica” di controllo e proposta, e occupa il vertice della piramide gerarchica della ASL. La base della piramide è formata dai cittadini elettori del territorio. 

Nella logica di questa esposizione, che è conforme agli articoli 114 e 117 della Costituzione, la catena di legittimità inizia con il consenso degli elettori; all’altro estremo si conclude con il Presidente della ASL. 

I cittadini elettori eleggono i sindaci; i sindaci designano fra di loro il Presidente della ASL; il Presidente della ASL ottiene l’incarico dall’assessore regionale; il Presidente della ASL sarà il Presidente del Consiglio di amministrazione; il Presidente riceve gli input sulla programmazione tecnico-sanitaria dal Consiglio dei sanitari; il Consiglio dei sanitari elegge il Direttore sanitario al proprio interno. Il Presidente dà gli input programmatici al Direttore generale. Il Direttore generale domina la macchina amministrativa ed ha la responsabilità dell’equilibrio di bilancio. 

Questa proposta è un disegno che indica concretamente la composizione della gerarchia politico-amministrativa destinata al riavvio della Sanità pubblica territoriale e regionale. 

Poste queste basi, si possono individuare i principi guida per la struttura da dare al personale di: organici dei medici, infermieri e tecnici, delle Case della salute, di comunità, territorio, ospedali. 

Mario Marroccu

Farsi male con le proprie mani è una cosa molto complicata. Si cerca di ottenere il massimo bene possibile per poi scoprire, dopo molti anni, che il risultato ottenuto è stato il peggioramento di ciò che si aveva. I filosofi lo chiamano “eterogenesi dei fini”. Pare che questo sia capitato alla Sanità pubblica italiana.
Sappiamo che per raggiungere il fine del benessere sanitario, dal 1948 ad oggi, sono stati fatti grandi sforzi per dare efficienza alla Sanità pubblica secondo l’articolo 32 della Costituzione e sono state varate leggi per migliorare la sua gestione che, tuttavia, una volta applicate, hanno portato ad una Sanità in cui la salute è realmente garantita solo ad una minoranza di cittadini dotati di risorse economiche proprie. I più devono iscriversi alle “liste d’attesa”.
Approvato l’articolo 32 della Costituzione per la Sanità, si dovette attendere il 1978 per avere la legge di istituzione del Servizio Sanitario Nazionale n. 833/78. Il SSN nacque per superare il precedente sistema della Casse mutue che garantiva cure solo a specifiche categorie di lavoratori e cittadini lasciando ampie disuguaglianze nell’accesso alle cure.
L’obiettivo politico del dopoguerra era teso a realizzare un sistema universalistico basato su tre principi cardine:
1 – L’Universalità: assistenza per tutti,
2 – L’Uguaglianza parità di accesso alle cure,
3 – la Globalità: non solo cure ma anche prevenzione e riabilitazione.

Nacque così la Sanità di Stato per la tutela della salute di tutti nell’interesse della collettività. Il compito venne affidato alle USL (Unità Sanitarie Locali). Esse erano strutture organizzative sub-provinciali affidate alla gestione dei politici locali (sindaci). Il programmatore e finanziatore era lo Stato.
Dopo 14 anni quella Sanità finì perché troppo costosa. Venne ritenuta responsabile dello indebitamento dello Stato a causa della spesa sanitaria lasciata in mano ai politici territoriali. Di conseguenza, appena se ne presentò l’occasione, come fu nel 1992, si fecero leggi per estrometterli.
Tale operazione di estromissione degli amministratori locali dalle USL venne adottata per fermare le ingenti spese “a piè di lista” che a fine anno obbligavano lo Stato a ripianare i debiti contratti.
Si ritenne che le spese fossero frutto di sprechi provocati dalla lottizzazione del potere locale. La crisi del 1992 fu l’occasione per giustificare la trasformazione delle USL in ASL (Aziende Sanitarie Locali).
Le nuove istituzioni sanitarie erano aziende dotate di personalità giuridica pubblica ma di autonomia imprenditoriale, gestionale e patrimoniale tipiche delle aziende private. Eliminati i politici locali si provvide a nominare, a capo delle ASL, i “Manager”, ideali esecutori delle direttive che imponevano alle ASL l’obbligo del “pareggio di bilancio“. Essi vennero dotati di strumenti di contabilità per monitorare costi ed efficacia come fanno i privati. L’obbligo del pareggio di bilancio occupò il primo posto nella lista dei compiti di mandato del Manager.
La crisi istituzionale e politica del 1992, iniziata con “Tangentopoli, e la fine della “Prima Repubblica”, aveva creato un vuoto di potere e una forte spinta al cambiamento. Lo spirito della riforma Sanitaria di Tina Anselmi, basato su Universalità, Equità e Globalità crollò davanti alla necessità di stringere i cordoni della borsa per ottenere il pareggio di bilancio. Lo Stato si liberò del problema della gestione della Sanità e lo trasferì alle Regioni presentandolo come un atto di distribuzione democratica di prerogative statali alle amministrazioni regionali. Ne conseguì che da un’unica Sanità di Stato nacquero 21 Sanità regionali. La redistribuzione della competenza in sanità dallo Stato alle regioni, e la trasformazione gestionale da pubblica a privatistico-contabile, avvenne in un decennio circa e con plurime riforme: il DPR 502/1992 di Francesco di Lorenzo, il DPR 517 /1993 di Maria Pia Garavaglia, il DPR 229/1999 di Rosy Bindi.
Queste riforme ottennero l’equilibrio di bilancio nelle ASL ma i legislatori non previdero quali sarebbero state le loro conseguenze sul funzionamento del Sistema Sanitario futuro.
Nonostante le buone intenzioni delle riforme, da allora, l’universalità, l’equità e globalità delle cure sono andate decadendo fino allo stato attuale. Ad aggravare questa carenza si è aggiunta l’assenza di una programmazione sanitaria pubblica che tenesse conto delle modifiche nella composizione demografica della cittadinanza. Oggi, infatti, da quello che chiamiamo “inverno demografico”, stanno nascendo nuove e crescenti necessità di assistenza sanitaria.

L’evoluzione della curva demografica fa ritenere che fra 15-20 anni la metà della popolazione italiana sarà formata da pensionati. Dati i pochi bambini di oggi si può prevedere che fra 20 anni avremo pochi lavoratori attivi, capaci di produrre reddito e di conferire tributi alle casse dello Stato. Ne consegue che mancheranno i soldi sia per le pensioni sia per la Sanità pubblica. Già oggi gli ultra-sessantacinquenni sono, in Italia, il 25% della popolazione; in Sardegna sono di più. I nuovi nati sono 1,2 per coppia in Italia; in Sardegna sono 0,8 per coppia. Nel Sulcis Iglesiente la percentuale di bambini è ancora più bassa. Siamo nella via dello spopolamento. Lo spopolamento nel nostro territorio è vieppiù aggravato dall’emigrazione dei nostri giovani verso le città per lavoro. Pertanto, oltre allo spopolamento, stiamo registrando l’invecchiamento relativo degli abitanti della nostra Provincia. Il dato demografico che pesa sulle province è tale da suggerire ai governanti sardi l’immediata riattivazione di tutti gli ospedali provinciali, pena la rinuncia alle cure per molti. I tanti vecchi sempre più soli, che domani saranno più numerosi, avranno bisogno di essere assistiti in ospedali vicini.
Il fenomeno demografico è stato ignorato a favore degli indirizzi programmatici finalizzati alla riduzione della spesa pubblica. Ne è derivato il disimpegno progressivo dello Stato dalla Sanità. Il primo atto del disimpegno avvenne con le tre leggi di riforma sanitaria degli anni novanta: quelli che estromisero i politici dalla gestione della Sanità pubblica. Tuttavia la norma più radicale escludente le Province e i Comuni dalla Sanità avvenne con una modifica della Costituzione. Si tratta della variazione del Titolo V, parte seconda. Per dare l’avvio a questa nuova Sanità di oggi vennero modificati soprattutto gli articoli 114 e 117. La modifica passò con la legge del 3 ottobre 2001, dopo referendum popolare.
Con quella modifica la Sanità divenne competenza delle regioni (legislazione concorrente). Allo Stato restò solo il compito di enumerare i principi generali dell’assistenza: i LEA (Livelli Essenziali di Assistenza). Nonostante l’intento democratico di coinvolgere pienamente le Regioni nella Sanità, si ebbe un effetto secondario non ricercato: la disgregazione della Sanità di Stato distribuita a 21 Regioni che dettero luogo a 21 diversi Sistemi sanitari regionali. Accadde che, nel rispetto dell’obiettivo dell’equilibrio di bilancio, le regioni ricche fecero bilanci ricchi mentre le regioni povere poterono fare bilanci modesti erogando un’assistenza sempre più inefficiente. L’aver ignorato questo aspetto condusse la Sanità nazionale in un percorso di divaricazione, tra nord e sud, della possibilità di tutti di poter accedere all’assistenza sanitaria e sociale con uguali diritti, e rese impossibile rispettare i parametri di Eguaglianza richiesti dalla Costituzione. L’opera formidabile attuata da Tina Anselmi (Equità, Universalità, Uguaglianza) venne demolita irreversibilmente con quell’atto costituzionale. Da allora sono comparse inaccettabili diseguaglianze regionali; l’equità nell’accesso all’assistenza sanitaria pubblica è ora un obiettivo irraggiungibile, ed è fonte di sofferenza per operatori e utenti. Oggi si comprende che, quando la Sanità pubblica era una competenza esclusiva dello Stato, esisteva un unico Sistema Sanitario Nazionale. In quel Sistema “unico” avevamo la garanzia di un unico gestore e di un unico Fondo per un unico Sistema Sanitario Nazionale, così come lo aveva ideato Tina Anselmi. Allo stato attuale le tre leggi di riforma degli anni novanta e le modifica del Titolo V della Costituzione hanno creato una vasta struttura sanitaria molto complessa e ormai i 21 Sistemi sanitari regionali sono entità definitive.
Dopo le riforme lo stesso assessorato regionale sardo è stato modificato: prima delle riforme era una struttura che gestiva direttamente il Sistema sanitario regionale. Dopo le riforme, a partire dal primo gennaio 2017, gli venne affiancata una nuova struttura chiamata ATS (Agenzia Tutela Salute) a cui vennero delegate molte storiche funzioni assessoriali. ATS era una espansione amministrativa della Regione concepita come una super ASL, posta a capo di tutte le ASL provinciali, con la funzione di ottimizzare i processi complessi come: gestione dell’erogazione di prestazioni sanitarie, pianificazione dei programmi di prevenzione, promozione della salute nel territorio, vigilanza sulla sicurezza alimentare, salute degli ambienti di lavoro, controllo delle strutture sanitarie, monitoraggio della spesa sanitaria, eccetera. Dopo tre anni il Governo regionale sardo ritenne più conveniente restituire alle ASL molte funzioni date ad ATS e, al suo posto, istituì ARES (acronimo di Azienda Regionale della Salute). Venne deliberata nel settembre 2020 allo scopo di gestire funzioni di supporto tecnico amministrativo per le ASL come: acquisti, personale, sanità digitale e formazione. Il suo obiettivo, che una volta era dell’assessorato, è quello di coordinare e rendere più efficienti i servizi sanitari e socio-sanitari in modo omogeneo su tutto il territorio regionale.

ARES è una struttura molto complessa che occupa, solo nel ruolo amministrativo, 415 dipendenti e svolge una funzione di intermediazione tra l’assessorato della Sanità e le ASL di tutta la Sardegna. Il complessivo apparato burocratico sanitario, che va dall’assessorato ad ARES e alle ASL, ideato per gestire la Sanità regionale è oramai definitivo, irrinunciabile e fondamentale per il funzionamento della Sanità pubblica sarda.

Nonostante questi grandi sforzi e la complessità strutturale raggiunta dal Sistema sanitario, le cose non sono migliorate. Davanti al quadro deprimente dello stato della sanità pubblica sarda, alla carenza di medici, infermieri e posti letto, alla difficoltà di essere inseriti in liste per interventi chirurgici, o per radioterapia, o per diagnostica endoscopica complessa, o per banalità come ricevere un consulto, non si può che valutare grave la crisi del sistema sanitario nostrano. Dopo tanti sforzi per escogitare nuove leggi l’assistenza sanitaria è peggiorata di anno in anno. E’ avvenuto il contrario di ciò che si voleva. L’espressione “eterogenesi dei fini” dei filosofi è un concetto che si attaglia bene al nostro caso: significa che eventi e progressi storici spesso non derivano dall’intenzione iniziale ma dall’azione complessa di diversi fattori e, spesso, gli esiti sono inaspettati e opposti a quelli voluti. Pensare, oggi, di poter risolvere il tutto con nuove riforme o nuove spese o nuova burocrazia, è probabilmente anch’esso un tentativo inane.
Partendo da queste considerazioni, probabilmente, si può tentare di intervenire su ciò che già abbiamo a disposizione, senza procedere a nuove, radicali ma inutili riforme.

Mario Marroccu 

Il più antico criterio su cui fondare la “Sanità” lo idearono, 1.000 anni avanti Cristo, i sacerdoti di Apollo in Grecia. Per essi la Sanità doveva avere una natura“magico-misterica” perché era basata sul favore degli dei. Da lì venne la Sanità dei “guaritori”. Nel V secolo avanti Cristo Ippocrate mise le basi della Sanità moderna inventando la “clinica”; deriva dal termine greco “klinos” che significa letto. Il medico doveva osservare a lungo il malato nel suo letto rilevando i segni e i sintomi al fine di identificare il quadro “clinico”, classificarlo e ritagliare su di esso la terapia. Era la Sanità laica da cui in seguito originerà la sanità moderna. Poi vennero i dettami della Sanità del primo secolo basata sul “soccorso caritatevole” descritto dalla parabola del “Buon Samaritano”. In quella parabola vennero poste la basi della complessa struttura sanitaria, che ancora oggi esiste, formata da tre elementi:

1 – il cittadino malato (l’uomo che scendeva da Gerusalemme a Gerico);

2 – la struttura dove avviene il ricovero dotata di personale che esegue le cure in cambio di una remunerazione (l’albergo e l’oste che prese in cura l’uomo aggredito);

3 – i cittadini che pagano le spese per le cure per la Sanità pubblica (il Buon Samaritano). Il criterio a cui si ispirava la parabola era il “soccorso solidale” per chiunque, ricco o povero, umile o potente, che in quel momento fosse in disgrazia. Nel IV secolo d.C. San Basilio di Cappadocia edificò la prima struttura ospedaliera della Storia: la Basiliade. Era una cittadella della carità con locande, ospizi e lebbrosario, dove i monaci raccoglievano tutti i poveri e malcapitati trovati nelle strade del paese, e qui li nutrivano, alloggiavano e curavano. Il criterio con cui venne strutturata questa Sanità era la “carità per i poveri”. Nel V-VI secolo in Italia, con Benedetto da Norcia, emerse una simile Sanità organizzata col criterio di “soccorrere i bisognosi di assistenza” identificati come “poveri cristi”. Gli “Hospitalia” benedettini erano finanziati dalle classi sociali ricche che offrivano denaro in cambio di uno sconto sui loro peccati nel momento del giudizio finale. Da allora i cosiddetti “ospedali” vennero gestiti da associazioni laiche e religiose con donazioni, oppure finanziati dalle Signorie. Nel XV secolo il cardinale Enrico Rampini trovò riprovevole la gestione falsamente disinteressata dei 16 ospedaletti, gestiti dal volontariato laico, che esistevano dentro le mura della città governata dai Visconti e dagli Sforza, e li fece chiudere tutti. Fu una bonifica radicale della millenaria “sanità laico-religiosa” finanziata dal volontariato. Al loro posto edificò il primo vero grande ospedale nato in Europa: l’“Ospedale Maggiore” di Milano. Quest’uomo mise le basi degli ospedali moderni. Per la prima volta negli ospedali di nuovo tipo entrarono a lavorarci anche i medici e le ostetriche. Cessò il tempo delle cure erogate da persone caritatevoli ed entrarono nella scena gli infermieri e i contabili stipendiati. L’Ospedale Maggiore divenne ospedale per “acuti”, cioè per quei ricoverati che nell’arco di pochi giorni guariscono o muoiono. I malati cronici, cioè quelli che non guariscono ma che vivono a lungo, vennero sistemati in un ospedale per “cronici” situato all’esterno delle mura della città. Le RSA del tempo. Da quanto premesso si può affermare che i vari sistemi sanitari, che si sono succeduti nella Storia, avevano caratteristiche fra loro molto diverse. La loro organizzazione e finalità era conseguente al periodo storico che viveva un proprio peculiare problema capace di influenzare il tipo di sanità più adatta: poteva prevalere il problema economico (carestie), oppure quello politico (guerre, dominazioni), oppure quello religioso (assistenza in base al credo), o quello sanitario (epidemie ricorrenti). Quando prevalevano le malattie epidemiche mortifere come la peste o il colera, gli ospedali erano organizzati per isolare, assistere, o per smaltire i cadaveri. Quando prevalevano le malattie croniche come la lebbra o la tubercolosi si sviluppavano i lebbrosari o i tubercolosari. Dal 1800, con la comparsa delle miniere e delle industrie metalmeccaniche ed energivore sono comparse la malattie da lavoro industriale (silicosi, e i traumi per incidenti sul lavoro). Oggi abbiamo malattie in rapporto all’inquinamento, all’alimentazione, allo stile di vita, all’età. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale vi erano tre problemi sanitari da contenere: le epidemie (tbc, colera, tifo, epatite, influenza, poliomielite, malattie esantematiche), i deperimenti organici da povertà, il contrasto alla elevata mortalità infantile. Allora gli ospedali si specializzarono nella cura delle malattie internistiche, impararono ad utilizzare i neo-arrivati antibiotici e a sviluppare la pediatria. Gli ospedali, in tutte le province, erano dotati di reparti di Ostetricia con sale parto e personale dedicato. Invece fino agli anni ‘50 del ‘900 si nasceva, drammaticamente, in casa. Dopo la Costituzione italiana del 1948 si iniziò a interpretare e ad applicare l’articolo 32. Quell’articolo fu una rivoluzione storica perché per la prima volta si riconosceva in Costituzione il diritto di tutti ad essere curati a spese dello Stato. Nacque quindi una nuova voce di spesa pubblica: quella per il finanziamento della Sanità pubblica. La spesa pubblica italiana crebbe repentinamente per garantire la Sanità per tutti “dalla culla alla tomba”. Su questo principio si fondò la legge di Riforma Sanitaria del 1978 del ministro Tina Anselmi. Essa aveva fondato il primo Sistema Sanitario Nazionale (SSN). I criteri base per costruire il SSN furono gli stessi della parabola del Buon Samaritano. Con una differenza: rispetto alla parabola, in cui il Buon samaritano per propria iniziativa cedeva gratuitamente i suoi danari per curare il ferito, nella legge costituzionale il cittadino era tenuto a pagare le tasse allo Stato per finanziare la spesa sanitaria pubblica. Tale differenza comporta che mentre la Sanità caritativa viene somministrata volontariamente in cambio di un premio nell’altra vita, il cittadino della Costituzione deve pagare doverosamente le tasse altrimenti subirà una sanzione. Il finanziamento pubblico della Sanità è un atto politico-amministrativo. La legge di Tina Anselmi fu un passo storico millenario: aveva creato il criterio della solidarietà obbligatoria a beneficio di tutti. Fu un successo: era nata la Sanità Pubblica italiana. Poi venne il criterio dell’equa distribuzione dei poteri di comando e di doveri di controllo di tutti gli attori del sistema. La gestione della Sanità pubblica provinciale venne affidata ai Sindaci dei territori che eleggevano al loro interno il Presidente della USL (Unità Sanitaria Locale). L’erogazione del servizio era affidata ai medici. L’amministrazione tecnico-finanziaria era competenza del Direttore Amministrativo. Al di sopra di essi era posto l’assessore regionale della Sanità. Al di sopra dell’assessore regionale era posto il ministro della Sanità. Al di sopra di quest’ultimo era il ministro alle Finanze-Tesoro, che controllava la spesa e riscuoteva le tasse dai cittadini. Il controllo nelle regioni spettava agli assessori. Il controllo della spesa e del funzionamento del sistema sanitario spettava ai Sindaci. Il controllo sui Sindaci spettava ai cittadini nel momento del voto. Questa catena di controllo era logica ed efficiente. Ne risultò la migliore Sanità dal 1948 al 2025. Nell’anno 1992 esplose lo scandalo politico-amministrativo più grave della Storia dal dopoguerra ad oggi: i conti pubblici erano fuori controllo in tutti in servizi dello Stato. Le indagini giudiziarie portarono alla conclusione che l’anomalia fosse conseguenza di manovre politiche pilotate dalla corruzione. Per evitare il fallimento dello Stato cadde il governo; in sua vece nacque il governo Amato destinato a riequilibrare le finanze e aggiustare la morale della politica. Il precedente apparato dei partiti politici venne smantellato assieme alle loro opere. Nell’ipotesi che tutto fosse guasto si demolirono anche strutture buone ed efficienti come il Sistema Sanitario Nazionale. Ai Sindaci venne tolto il potere di gestire la Sanità ospedaliera e territoriale. Al loro posto vennero nominati i “Manager” che ebbero il mandato di gestire le ASL (Aziende Sanitarie Locali) come se fossero aziende private. Essi lo fecero applicando i criteri di gestione e programmazione tipici delle aziende commerciali nate a fini di lucro. Al posto del criterio della sanità per tutti ad ogni costo divenne predominante un nuovo criterio: «Il risparmio sulla spesa sanitaria al fine di riequilibrare il bilancio dello Stato». La “riduzione delle spesa” fu il nuovo metodo di gestione. Tutte le leggi varate dai nuovi ministri della Sanità, da Francesco Di Lorenzo nel 1992 a Maria Pia Garavaglia, e a Rosy Bindi nel 1999 esclusero i Sindaci dalla gestione dalla Sanità pubblica. Le leggi di risparmio si indurirono durante l’ultimo governo Berlusconi che era finito nella gravissima crisi del 2008. L’Italia era sull’orlo del fallimento in seguito alla grande recessione mondiale del 2006, estesa fino al 2013. Fallimento precipitato da una crisi della Borsa americana con la debacle delle banche Goldman Sachs, Lehman Brothers, Merryl Linch, eccetera. Il criterio del risparmio sulla gestione della cosa pubblica si irrigidì ulteriormente con i Governi Monti del 2011 e di Letta nel 2013 e vi furono conseguenze a danno della Sanità. Ne conseguirono:

– la riduzione dei posti letto negli ospedali,

– accorpamento di reparti ospedalieri,

– accorpamento di ospedali,

– chiusura di reparti specialistici e di interi ospedali,

– mancata sostituzione del personale andato in pensione,

– blocco di nuove assunzioni.

Tali atti vennero affidati ai nuovi Direttori Generali delle ASL (Aziende Sanitarie Locali) che, resi autonomi dai sindaci, al fine di risparmiare portarono alla demolizione sistematica di quella Sanità ospedaliera e territoriale costruita dalla legge 833/78 di Tina Anselmi. Questa ricostruzione storica, per sommi capi, della Sanità negli ultimi 3000 anni serve a dimostrare che non esiste una sola forma di sanità che rimane uguale a se stessa per sempre. Si dimostra invece che esistono tante forme di Sanità e ognuna viene concepita secondo criteri di adeguatezza al bisogno del tempo in cui si vive. Oggi è necessario individuare, e concordare, quali siano i nuovi bisogni sociali che saranno alla base dei nuovi criteri intorno a cui si dovrà costruire la nuova Sanità che ci serve. In mancanza di questa analisi propedeutica non si può procedere a progettare la nuova Sanità. Finora le dispute quotidiane che si leggono nei giornali ci forniscono ottimi articoli, molto autorevoli, concentrati sulle critiche al presente ma privi di soluzioni concrete per il futuro. Adesso per trovare concretezza tutti sono chiamati a «mettersi gli scarponi e scendere nel terreno» secondo il linguaggio militare. Oggi il mondo è radicalmente cambiato. I criteri per produrre e distribuire Sanità non sono più “misterici” o “ caritativi” o puramente “costituzionali”. Oggi, dando uno sguardo, anche superficiale, nel mondo occidentale, si scopre che c’è bisogno di una Sanità pubblica basata su un nuovo criterio: il criterio demografico. Lo attestano sia l’aspetto che ha la nuova popolazione e le esplicite richieste che emergono dai convegni in cui si chiedono garanzie per una “longevità serena”, e un “nuovo patto generazionale” che liberi i pochi giovani dal peso di dover garantire le cure a un numero crescente di vecchi.

Mario Marroccu

Recentemente, in una cittadina del Sulcis, le campane hanno suonato “a morto” per la Sanità. In realtà la Sanità non è morta. E’ stata trasformata e il suo funzionamento suscita perplessità.
Nella nostra ASL 7 il percorso in discesa iniziò alla fine degli anni ‘90. Un esperto economista, di formazione bocconiana, parlando al popolo riunito dei dipendenti della ASL 7, nell’aula “Velio Spano” di Carbonia, spiegò che gli ospedali, nati per produrre “sanità”, avrebbero iniziato ad essere gestiti esattamente come si gestiscono le fabbriche che producono “bulloni”. Secondo le direttive, che stavano arrivando dagli esperti del Governo, i nuovi direttori delle ASL avrebbero dovuto ottenere risultati di “efficienza ed efficacia” attraverso metodi di tipo manageriale. Con questo significava che si doveva ottenere gli stessi risultati già ottenuti spendendo di meno e risparmiando sul numero dei dipendenti (medici, infermieri, amministrativi, tecnici) e sui posti letto. L’altra parola chiave per capire il nuovo metodo di gestione fu “accentramento”: i servizi distribuiti nei territori dovevano venire accentrati e unificati in un’unica sede. Ciò venne fatto e la Sanità “concreta” che avevamo fino ad allora conosciuto, fatta di malati, medici e infermieri, ridotti di numero col blocco delle assunzioni, cominciò a sciogliersi.
La Sanità ospedaliera di Carbonia ed Iglesias venne sminuita progressivamente e avvenne un fenomeno simile a quello che avviene ad un blocco di ghiaccio che si scioglie: divenne sfuggente come un “liquido” che sfugge tra le dita delle mani.
Il metodo di “liquefazione” dei servizi e della stessa struttura sociale non si limitò al campo sanitario. Stava avvenendo uno scambio di valori in molti settori del vivere comunitario. I nuovi economisti avevano invertito la scala di precedenza dei due scopi del lavoro umano: la soddisfazione dei bisogni dell’uomo e l’arricchimento. Il primo posto venne dato all’arricchimento, il secondo venne dato alla soddisfazione dei bisogni umani. L’inversione modificò radicalmente lo scopo per cui esistevano gli Ospedali. Non più la soddisfazione del bisogno dei singoli richiedenti assistenza ma il risparmio e l’incasso. I medici vennero obbligati a fare corsi per imparare a incassare di più con i DRG (metodi di pagamento delle prestazioni). Si iniziò a spendere di meno per il Welfare-state e si ridussero le risorse ad esso necessarie. Il metodo ignorava il fatto che, comunque, i bisogni dell’uomo sono insopprimibili e che, prima o poi, ottengono soddisfazione, ma a costi maggiorati. Il professor Zygmunt Bauman, sociologo, filosofo e professore all’Università di Leeds nello Yorkshire, venne incuriosito da questo nuovo metro dato ai valori umani e definì la nuova società che si stava formando “società liquida”.
Così definiva la precarietà delle istituzioni in continuo mutamento, e le relazioni umane divenute assolutamente instabili. Secondo Zygmunt Bauman l’instabilità del contesto sociale, in cui la solidarietà perde peso, consente lo sviluppo dell’individualismo dilagante. In tale contesto la perdita di fiducia nelle relazioni viene peggiorata dalle nuove tecnologie che alimentano una paradossale forma di isolamento digitale. Gli effetti della “modernità liquida”, come descritti da Zygmunt Bauman, si manifestano diffusamente nei rapporti con il lavoro, con la politica e i servizi sociali, e perfino nei rapporti all’interno dalla stessa famiglia e della coppia (la “coppia liquida”). Ne è conseguita anche la crisi progressiva dei partiti politici e dei sindacati, anch’essi progressivamente “liquefatti” e sfuggenti. I rapporti sociali finiscono per sfuggire al controllo dei cittadini, sia come singoli che come comunità all’interno delle grandi strutture sociali, come la sanità pubblica, e diviene molto difficile sovvenire sia ai propri bisogni che a quelli degli altri.

Fenomeni sociali come questo hanno bisogno di molti anni per maturare. Nel sistema sanitario-ospedaliero del Sulcis Iglesiente i passi della disgregazione liquefazione) del sistema sanitario sono avvenuti con una successione storica che è utile ricordare nel caso si volesse porvi riparo. L’ospedale Sirai, insieme all’intera città neocostruita di Carbonia, fino al 1946 era proprietà aziendale della ACAI e della Società Carbonifera Sarda. Quando la città divenne un Comune, l’ospedale passò sotto il suo controllo. Divenne Ente Ospedale Comunale, presieduto dal Sindaco, fino alla Grande Riforma di Tina Anselmi del 1978. Similmente avvenne con gli ospedali di Iglesias. Nacquero così la USL 7 (Carbonia) e la USL 16 (Iglesias). Gli Ospedali che erano allora proprietà dei Comuni divennero proprietà dello Stato ma vennero affidati alla amministrazione dei Comitati di Gestione, espressione di tutti i Comuni del Sulcis e dell’Iglesiente.
A dicembre 1992 il Governo legiferò producendo una nuova riforma sanitaria: la 502/1992 di Francesco de Lorenzo. Questa abolì i Comitati di Gestione eletti dai Comuni territoriali; trasformò le USL in “Aziende” e pose a dirigerle un “manager”. Figura monocratica nominata dalla giunta regionale. Le modifiche apportate da questa Riforma ebbero l’effetto di sottrarre del tutto, sia gli ospedali che la rete sanitaria territoriale, dal controllo dei Comuni. Fu il primo atto di dissociazione (liquefazione) del Sistema sanitario ospedaliero del Sulcis Iglesiente dal suo territorio. Nel 1999 la ministra Rosy Bindi, con la sua riforma n. 229/1999 confermò e rafforzò l’evoluzione in senso aziendale autonomo delle ASL. Per effetto di quella legge aumentava ulteriormente l’indipendenza aziendale e, contemporaneamente, i rappresentanti politici del territorio venivano radicalmente esclusi dal controllo della gestione sanitaria. Lo scopo virtuoso, dichiarato dal legislatore, era il mantenimento dell’equilibrio di bilancio. Gli effetti avversi collaterali che invece si produssero furono esattamente quelli previsti da Zygmunt Bauman: il controllo della Sanità sfuggiva dalle mani dei cittadini e dei loro rappresentanti politici. Oggi sia i sindaci che i cittadini non hanno più strumenti concreti per interferire a proprio vantaggio nella gestione della ASL. Il Sistema oggi è sotto il controllo totale di altri enti regionali (Assessorato e ARES) che hanno accentrato tutte le funzioni amministrative di programmazione, spesa e controllo.
Ai tempi degli Ospedali controllati dalle Amministrazioni Comunali locali, tra Carbonia e Iglesias esisteva una dotazione di 750 posti letto. Il Sirai di Carbonia ne aveva 384. La Chirurgia Generale del Sirai era dotata di 86 posti letto. La Medicina (I e II) ne aveva 130. Gli altri posti letto erano distribuiti tra Maternità, Pediatria, Ortopedia, Psichiatria, etc. Con le riforme che seguirono i posti letto ospedalieri vennero ridotti progressivamente a 24 in Chirurgia e a 30 circa in Medicina. La riduzione di posti letto (per acuti) ha comportato una minore necessità di Personale sanitario specializzato nei nostri ospedali. Il Personale ritenuto eccedente, una volta eliminato, non è stato più ripristinato; ciò rende impossibile riattivare i letti precedenti. Oggi i posti letto totali sono un centinaio a Carbonia e altrettanti ad Iglesias. Dai 750 posti letto dell’inizio di queste operazioni di “razionalizzazione” oggi ne mancano 550 circa. I pazienti non acuti finiscono nelle RSA o in altri ospedali, sia privati che pubblici di Cagliari e del Continente. Oltre alla diminuzione di posti letto è stata eseguita la soppressione funzionale di altri reparti come Pediatria, Ostetricia, Urologia, Traumatologia, Neurologia. Per alcuni di questi servizi specialistici è stato applicato il principio dello “accentramento” dei posti letto ad Iglesias. Ciò comporta certamente un risparmio economico nell’immediato. In futuro questo supposto risparmio si ritorcerà contro il bilancio della nostra ASL 7 perché quei pazienti che non hanno trovato posto si sono ricoverati presso altre strutture che dovranno essere ripagate. Alla fine dei conti, questa operazione avrà un costo molto alto. Abbiamo solo spostato il luogo dove si spendono i soldi: a Cagliari. I disagi conseguenti sono enormi.
Quelle leggi (Francesco De Lorenzo e Rosy Bindy) hanno avuto lo scopo di controllare la spesa sanitaria, in realtà hanno prodotto incertezza del servizio sanitario, delocalizzazione dei servizi, e mancate assunzioni (fenomeno dannoso quanto lo sono i licenziamenti).
Oggi ci troviamo con poco personale in pianta stabile e con molte convenzioni libero-professionali sia con medici dei Pronto Soccorso sia con agenzie interinali che ci prestano il loro personale per servizi come il CUP, le manutenzioni e altre attività essenziali.
Le cucine e la lavanderia vennero soppresse in passato e i loro servizi vennero dati in appalto a società esterne.
Tutto questo avrà pure degli ipotetici vantaggi ma sicuramente ha lo svantaggio di aver destrutturato un organismo complesso come quello dei nostri ospedali che erano completi e capaci di vita autonoma. Se i servizi esterni dovessero chiudere all’improvviso, per i motivi più disparati (immaginiamo uno stop ai servizi di cucina o di lavanderia) dovremmo chiudere gli ospedali. La precarietà strutturale in cui si trovano i nostri ospedali è stata ideata per un fine utile, necessario e aderente alla nuova modernità: tutto vero. Purtroppo, è anche vero che la struttura ideale di ospedale come unica entità autosufficiente, come fu in passato, e come dovrebbe essere in caso di grandi calamità o guerre, non esiste più. Oggi è una struttura che si trova in costante precarietà e instabilità, e suscita una motivata preoccupazione.
Se si ammette la fondatezza di queste osservazioni si deve concludere che il problema fondamentale del Sistema sanitario non sta nella mancanza di finanziamenti, o di medici e infermieri, ma sta soprattutto nell’instabilità strutturale, “liquida”, dell’intera organizzazione sanitaria.
Probabilmente abbiamo necessità di restituire agli Ospedali la loro struttura integrale nella dotazione di personale e servizi, caratterizzata da autonomia e autosufficienza.
Si potrebbe iniziare coll’assumere in pianta stabile tutto il personale precario, ma necessario. Si potrebbe continuare col ridare una funzione di controllo ai Sindaci all’interno della ASL. Così pure sarebbe auspicabile restituire ai primari la loro posizione gerarchica all’interno dell’apparato gestionale con funzioni di consulenti costanti della Direzione sanitaria, di quella Amministrativa e del Consiglio provinciale dei sindaci. Queste poche cose inizierebbero a restituire “concretezza” all’apparato sanitario ospedaliero pubblico.
Per quanto riguarda la Medicina di base esistono soluzioni già sperimentate.

Mario Marroccu

Secondo i vari periodi storici, qui nelle coste del Sulcis, si succedettero varie etnie: i Nuragici, i Fenici, i Cartaginesi, i Romani. Questo luogo venne densamente abitato da Romani e Bizantini fino al 711 d.C. Poi si spopolò e, infine, si ripopolò parzialmente con il Giudicato di Arborea e poi ancora con la dominazione spagnola.

Il ripopolamento del Sulcis riprese vigore dalla metà del 1700 ad opera dei Savoia e di Lorenzo Bogino. Migliorò moltissimo nel 1936 col richiamo di nuovi abitanti per la coltivazione delle miniere di carbone. Nel 1938, duecento anni dopo l’inizio del ripopolamento sistematico del Sulcis, venne inaugurata Carbonia, la città di fondazione nata per contrastare le “inique sanzioni” imposte all’Italia per aver occupato l’Etiopia. Le sanzioni bloccavano sopratutto l’approvvigionamento energetico della Nazione. Carbonia divenne la centrale energetica dell’Italia attraverso l’estrazione del carbone Sulcis. Qui vennero attratte tutte le forze lavorative giovani d’Italia per farne eserciti di operai da calare in miniera inseguendo le vene del carbone. Per essi venne costruita la città e il suo ospedale. Il territorio del Sulcis fino ad allora aveva vissuto di economia agricola e di pesca, e non aveva ospedali. Nell’ospedale Sirai gli operai venivano curati per i frequenti traumi cranici, toracici, ossei e degli organi interni, dovuti a crolli di massi ed esplosioni in galleria. Successivamente venne aperto un servizio di ostetricia per farvi nascere i figli delle mogli degli operai. Fu allora che le donne, incoraggiate dalla sicurezza nell’assistenza sanitaria e dalla costruzione di asili infantili, produssero più figli. Presto si raggiunse il numero di 2.000 nascite l’anno. Alle mogli dei minatori si erano aggiunte le mogli di tutti gli altri abitanti della zona. Molte erano operaie cernitrici.

I chirurghi, spesso provenienti da esperienze di guerra, erano particolarmente competenti nell’operare cranii e toraci sfondati, ferite addominali e fratture multiple. Il Sirai fu subito una fabbrica di Sanità avanzata.
Nell’immediato dopoguerra l’ammiraglio della Sesta Flotta americana, che rimase a lungo alla fonda nel Golfo di Palmas, dopo aver conosciuto l’ospedale e i suoi chirurghi fece smontare la sala operatoria di una corazzata e la fece rimontare al Sirai. Ritenne che i ferri chirurgici e i lettini operatori fossero molto più utili al Sirai che nella nave da guerra.

A Carbonia e nel suo ospedale sono spesso approdati gli italiani emigrati in America che desideravano morire in terra italiana. Persone che, non sapendo dove andare per aver perso ogni rapporto e conoscenze familiari, sapevano che qui c’era la città nuova, aperta a chiunque volesse viverci e anche morirci. Vi sono stati molti italiani emigrati all’estero, e figli di emigrati, che identificavano Carbonia con l’Italia a cui tornare. Gli esempi sono tanti. Nel 1984 si presentò all’ospedale Sirai un signore, italiano, molto elegante, che veniva da Los Angeles. Erano i giorni delle Olimpiadi che lì si svolgevano. Nel centro di quella città egli era proprietario di un negozio di articoli sportivi. Proprio nei giorni delle Olimpiadi urinò sangue. Si convinse d’avere contratto un cancro alla vescica e che stesse per morire. Immediatamente vendette il negozio, fece i biglietti d’aereo e partì per Carbonia. Non conosceva la città ma sapeva della sua esistenza, della sua anima cosmopolita, e decise che questo era il luogo d’Italia in cui morire.

L’ospedale Sirai conobbe anche ex fuoriusciti politici che si erano schierati con la Repubblica di Salò, che erano scappati in Spagna e che erano poi tornati in territorio italiano, nel tardissimo dopoguerra, a Carbonia. Un personaggio interessante fu un famoso ballerino di tango, che era stato “sparring-partner” di Rodolfo Valentino. Costui, gran fumatore, e arteriosclerotico, invecchiando ebbe una gangrena agli arti inferiori. In America gli avevano proposto l’amputazione di ambedue le gambe. Rifiutò. Fatte le valigie venne in Italia, a Carbonia, all’ospedale Sirai dove morì continuando felicemente a fumare.

Nel 1936 le miniere di carbone avevano provocato nel Sulcis uno schok demografico unico nel suo genere: la nuova popolazione era costituita tutta da giovani sani e forti, abili al lavoro e prolifici. Mancavano i vecchi e i bambini. In breve, con le nascite e i nuovi arrivi, Carbonia superò i 60.000 abitanti, tutti giovani.

La fine del lungo periodo del dopo-Guerra Mondiale e l’arrivo di nuove fonti energetiche più convenienti condusse alla chiusura progressiva delle miniere. Fu la causa di un primo crollo della popolazione. Ne nacque un altro genere di schock demografico: la riduzione della popolazione a danno della componente giovane. Negli anni ‘70 iniziò il crollo progressivo delle industrie di trasformazione di Portovesme. Al crollo industriale si associò un’altra emigrazione in massa dei giovani e il calo marcato della natalità coinvolse sia Carbonia che tutto il Sulcis. La popolazione totale di Carbonia diminuì passando dai 60.000 dei primi anni cinquanta a meno di 30.000 negli anni ‘80. Mentre la popolazione giovane diminuiva, la popolazione anziana aumentava inducendo una inversione demografica. I primi due decenni del 2000 hanno visto l’ulteriore decrescita dei giovani e la crescita del 33% degli anziani. Oggi ogni coppia mette al mondo meno di un bambino (0,80 per coppia). Dati simili, così gravi, nel mondo sono equiparabili solo a quelli del Giappone; si è passati dalla iper-natalità degli anni ‘40-’50 alla denatalità estrema di oggi. La struttura sociale si è invertita in pochi decenni. L’ampiezza media delle famiglie formate da padre, madre e figlio si è assottigliata e oggi tendono a prevalere le famiglie “single”. Col nuovo paradigma delle famiglie mono-componenti sono necessariamente cambiati gli obiettivi della città. Gli obiettivi di oggi sono tesi a soddisfare i bisogni della nuova società risultante dalla inversione percentuale tra fasce d’età. Da qui è derivata la necessità della creazione di spazi urbani più attenti ai bisogni della fascia d’età anziana prevalente mentre la fascia giovane e fertile, tende a scomparire. Dentro questa nuova città si stanno creando sopratutto strutture specializzate nella assistenza e nella facilitazione della vita quotidiana agli abitanti, differenziandole secondo le capacità di autonomia. Questo è solo l’inizio di un futuro modello di rigenerazione urbana finalizzato a un diverso equilibrio sociale.
Il servizio fondamentale della città, ridisegnato intorno alla nuova società, è il Servizio sanitario. Qui entra in gioco l’ospedale Sirai. Esso venne concepito per un genere di società, oggi estinta, che era formata da persone in età fertile e lavorativa, che generava grandi famiglie prolifiche. Oggi il forte aumento degli anziani inattivi e i nuovi bisogni di assistenza sanitaria hanno fatto emergere il problema dell’invecchiamento della popolazione. Un diverso problema, certamente più serio, è il crollo della natalità derivato dalla percezione che i figli possano ostacolare l’ affermazione professionale ed economica delle giovani mamme. Per non avere ostacoli le giovani donne sono costrette a procrastinare l’inizio di una gravidanza. Ne consegue che il numero di anni di fertilità ancora disponibili viene ridotto considerevolmente. A ciò si aggiunge il crollo della popolazione femminile nella fascia d’età fra i 14 anni e i 49 anni, indicata dall’OMS come la parte più pregiata della popolazione, perché è quella che genera i figli. Oggi la curva demografica nel Sulcis ha due seri problemi accertati: l’eccesso di anziani e la scarsità di nuovi nati.

Il Sirai, l’unico ospedale del Sulcis, contiene nella sua storia le soluzioni per affrontare l’aspetto sanitario dei due problemi. Una prima risposta allo schock demografico dato dall’aumento percentuale degli anziani con scarsa autosufficienza, la trovò il dr Enrico Pasqui negli anni ‘70. Fu allora che iniziò ad essere evidente il problema sul come assistere i pazienti anziani che, dimessi dal reparto di Medicina, non potevano rientrare in famiglia per vari motivi. Il dottor Enrico Pasqui ideò la istituzione di un nuovo reparto: la Medicina Seconda. Si trattava di un padiglione esistente a lato del corpo maggiore del Sirai, dotato di 45 posti letto. Formò un’équipe costituita da un medico per turno e infermieri che riabilitavano questi pazienti non-dimessi. Il reparto era autonomo e autosufficiente. Esso godeva dei servizi della cucina ospedaliera, della Farmacia, del laboratorio e di quello religioso. Il dr Pasqui aveva inventato una RSA ante-literam. Le spese erano a carico del fondo Sanitario Pubblico. Si capiva già allora che la nuova società sulcitana si stava avviando verso una trasformazione demografica irreversibile. Fu allora che l’Ospedale intero iniziò a modificare la sua “mission” sanitaria per cui era stato costruito nel periodo minerario. Tutti i reparti specialistici furono ri-orientati verso la ultra-specializzazione in medicina e chirurgia geriatrica. La Medicina sviluppò un’area per la diagnosi e il trattamento dei tumori, delle leucemie, dell’immunologia, della Neurologia e della Cardiologia. Si iniziarono a impiantare i pace-maker e a curare gli infartuati con tecniche endovascolari invasive. Similmente avvenne in Neurologia, in Anestesia-Rianimazione e in Chirurgia. Qui si sviluppò la laparoscopia , tutta la branca di diagnostica endoscopica dello apparato digerente e iniziò quella per l’apparato respiratorio. Le fratture del femore , del bacino e della colonna vertebrale venivano assistite immediatamente con grande competenza nel reparto Traumatologia. Crebbero contemporaneamente la Nefrologia e l’Urologia. In questo reparto si eseguiva chirurgia microvascolare per gli accessi all’emodialisi e si eseguiva un numero di interventi endoscopici e a “cielo aperto” di prostata, vescica, ureteri e reni  con un volume di attività che pareggiò e superò altri importanti centri isolani. La Ginecologia-Ostetricia giunse a livelli assistenziali eccelsi nell’interesse del mondo femminile. Ad essa era affiancata un’ottima Pediatria. Fino a metà del secondo decennio degli anni 2000 l’ospedale Sirai era pronto e adeguato a gestire il futuro sanitario incombente. Poi la crisi sanitaria nazionale e sarda hanno provocato l’arresto dello sviluppo ospedaliero e il regresso.

Il secondo problema, quello dell’assottigliamento della componente femminile delle età comprese fra i 14 e 49 anni è enormemente più grave. Qui non basterebbe il genio di un dottor Enrico Pasqui. Ormai i demografi di tutte le Nazioni più evolute sono concordi che esista la forte necessità di una presa di coscienza della popolazione, e la preparazione seria della classe politica, per riuscire ad acquisire con decisione l’idea che la parte più pregiata della società è quella femminile nelle età fertili, soprattutto, fra i 20 e 40 anni, e che questa va protetta e supportata con nuovi programmi economici e sociali mai visti. Qui non basta costruire una” Medicina Seconda “ o fare “variazioni urbanistiche”. E’ urgente concentrare tutta l’attenzione della politica sul sostegno economico, lavorativo, universitario, etc. alla donne in età fertile assicurando loro il totale sostegno nella formazione al lavoro professionale, all’ottenimento e alla conservazione del posto di lavoro e sopratutto alla sorveglianza e accudimento alle necessità dei figli. Soltanto attraverso una assicurazione sulla certezza del loro futuro rivedremo ricrescere la natalità. Qui entrerebbe in gioco la collaborazione fattiva della terza età. Essa dovrebbe espandere il proprio impegno educativo ed economico nel sostenere e sostituire le mamme nell’educare, sorvegliare e assistere i nuovi nati. Se questi propositi venissero non solo garantiti ma anche imposti da una nuova organizzazione sociale e del diritto ad hoc, si chiuderebbe un cerchio fatto di impegni ma anche di ritorni vantaggiosi. L’aumento dei figli è l’unica garanzia per assicurarsi la futura crescita di nuovi produttori di reddito e di nuovi versamenti contributivi necessari per finanziare i fondi per le pensioni e per il wellfare.
Il futuro della città e del suo sistema sanitario sono legati, soprattutto, alla maturazione di una severa politica sociale che sia “generativa” di provvedimenti tesi, soprattutto, al miglioramento della condizione femminile e, di conseguenza, del progresso demografico.

Mario Marroccu

Alcuni giorni fa è stato ricordato l’anniversario di uno degli eventi più incisivi della Storia: la presa della Bastiglia del 14 luglio 1789, simbolo dell’inizio della Rivoluzione Francese. Un mese prima si era riunita l’Assemblea Nazionale Francese per discutere sul come si sarebbe dovuto votare sugli argomenti in discussione: per “Stato” o per “Testa?”. Bisogna sapere che l’Assemblea Nazionale era formata da 1.100 “teste”, o elettori, divisi in tre “stati”: il “Primo Stato” era il Clero, il “Secondo Stato” era la Nobiltà, il “Terzo Stato” era la Borghesia. Fino ad allora avevano votato “per Stato”, pertanto, il Clero e la Nobiltà alleati vincevano sempre sul “Terzo Stato”. Quell’usanza acquisita fin dal 1600 aveva comportato un inevitabile vantaggio per il “primo” e il “Secondo Stato”. Quel giorno, però, i rappresentanti del “Terzo Stato” pretesero che si votasse per “Testa”. La proposta non venne accettata e il “Terzo Stato” fece esplodere la Rivoluzione; il sangue corse fino al 1794. Furono tante le teste di conservatori da tagliare che si dovette inventare una macchina adatta: la ghigliottina.
Da allora si usano i termini di “Destra” e “Sinistra” per indicare la parte politica “conservatrice” e la parte “riformista”. Quei termini si riferivano proprio alla rappresentazione spaziale dei due schieramenti di maggioranza e opposizione nell’Assemblea Nazionale pre-rivoluzionaria. A destra, nel salone dell’emiciclo sedevano il Clero e i Nobili, a sinistra sedevano i Borghesi. Dato che il voto “per stato” faceva vincere sempre la coalizione di clero e nobili, questi avevano acquisito enormi privilegi come l’esenzione assoluta dal pagare le tasse al Re di Francia. Ciò aveva consentito loro di detenere enormi proprietà territoriali e immobiliari. Tutte le spese di Stato, come i vitalizi alla corona e alla nobiltà, gli stipendi ai militari, le guerre, la spesa pubblica per il decoro urbano e la manutenzione di tutte le proprietà statali, erano a carico del “Terzo Stato”.
Da allora il termine “destra” indica la parte politica che vuole conservare i privilegi acquisiti (da cui “conservazione”), evitando riforme che avrebbero potuto modificare l’ordine sociale esistente. Invece, il termine “sinistra” indica la parte politica che vuole una riforma dell’organizzazione sociale che garantisca l’“uguaglianza” di tutti i cittadini davanti allo Stato, l’abolizione dei privilegi e dei doveri che erano opposti e distinti nella società dei tre stati. Successivamente, in questi due secoli e mezzo di distanza dalla Rivoluzione Francese, gli scopi di “destra” e “sinistra” sono cambiati: è avvenuto che obiettivi di sinistra siano diventati di destra, e alcuni di destra siano diventati di sinistra. Per esempio, l’obiettivo di ottenere il “libero mercato” apparteneva alla sinistra rivoluzionaria e oggi è appannaggio della destra. La sinistra borghese di allora fu la genitrice di quel “capitalismo” che oggi è invece diventato un principio economico della destra.
Nei tempi moderni i criteri che differenziavano nettamente destra e sinistra sono diventati più sfumati e talvolta si sono sovrapposti tra le due parti. Al tempo della Rivoluzione la Sinistra rappresentava solo la Borghesia e nessuno aveva mai pensato di dare una rappresentanza ai contadini e agli operai.
Successivamente, per rappresentare questi ultimi che costituivano la maggioranza dei francesi, si formò il ”Quarto Stato”. Con quel completamento della rappresentanza popolare venne realizzata perfettamente la “democrazia”, ovverossia il “governo del popolo” (da “Demos” = popolo; e “Kratos” = potere). Il concetto di “governo del popolo” o “potere al popolo” iniziò a prendere piede negli anni successivi al 1789 anche nella politica degli altri stati del mondo occidentale.
La “democrazia” emerse francamente in Italia con le elezioni del 18 aprile 1948. In quella data, finita la Monarchia, iniziò la Repubblica. Tutti gli italiani, senza distinzione, vennero chiamati a votare per eleggere i membri della Camera dei deputati e del Senato. Questo atto segnò il momento storico di inizio della “democrazia rappresentativa”. Votarono il 92% degli italiani. Fu quello il momento di reale conferimento al popolo del “potere” di governare e “controllare i politici eletti” attraverso elezioni periodiche. I partiti più votati furono la Democrazia cristiana, il partito Comunista italiano, il partito Socialista italiano. Grosso modo corrispondevano agli stessi partiti popolari e borghesi che nell’Assembla Nazionale e nell’Assemblea Costituente della Rivoluzione francese erano i rappresentati dal terzo e quarto stato. Nei decenni successivi al 1948 le differenze ideologiche fra quei partiti si attenuarono moltissimo fino, talvolta, a sovrapporsi.
La massima espressione democratica in Italia si concretizzò con la Riforma sanitaria di Tina Anselmi nel 1978 (due secoli dopo la Rivoluzione Francese) e nacquero le USL (Unità Sanitarie Locali). Tutte le Regioni e Province, vennero suddivise in USL. Ciò venne fatto ad imitazione della grande riforma sanitaria nazionale organizzata dal governo rivoluzionario francese. Una delle menti illuminate rivoluzionarie che avevano attuato la riforma sanitaria francese fu Jean-Paul Marat, triumviro con Georges Jacques Danton e Maximilien Robespierre. Costui era figlio di un sardo cagliaritano, di cognome “Marras”, che pronunciato in francese diventa “Marà”. Successivamente con l’aggiunta di una “t” divenne “Marat”.
Per seguire il piano di Riforma preparato da Marat e soci, tutto il territorio francese venne suddiviso in distretti sanitari e ad ogni distretto furono attribuiti ospedali e medici territoriali. Il numero dei medici era in rapporto alla popolazione (da 7 a 12 ogni 10.000 abitanti). Gli ospedali all’inizio vennero progettati per avere 1.200 posti letto, poi si pensò che fosse meglio decentrare i grandi ospedali, suddividendoli in tanti piccoli ospedali di 150-200 posti letto. Quegli ospedali furono i primi, nella storia della medicina, a far collaborare i medici internisti con i chirurghi, cosicché iniziarono a esistere reparti di medicina e di chirurgia affiancati che collaboravano. Fino ad allora, in nessuna parte del mondo occidentale, fra di essi era mai esistita alcuna affinità. Fu l’evento che fece evolvere la medicina ospedaliera, e che venne copiato poi da tutta Europa. I padri di quella riforma furono grandi personaggi della medicina e chirurgia, come Cabanìs, Desault, Guillotin, Corvisart, Chaussier, Fourcroy e Deschamps. Tutti medici rivoluzionari.
La grande novità rivoluzionaria che essi introdussero fu l’assistenza sanitaria di Stato gratuita per tutti, “dalla culla alla tomba”. Dietro quelle innovazioni c’erano i valori maturati nel “secolo dei Lumi” francese con Voltaire, Rousseau e Montesquieu. Senza il “Contratto Sociale” di Jean-Jacques Rousseau nessuno al mondo avrebbe mai capito perché solo in regime di Democrazia viene riconosciuta la sovranità popolare, il decentramento del governo, la suddivisione dei poteri e la partecipazione diretta dei cittadini al governo della Sanità pubblica.
Lo slogan dei medici illuministi  “la sanità per tutti dalla culla alla tomba” fu anche lo slogan che risuonò in tutti gli anni 1980 in Italia quando si parlò della Sanità italiana come della Sanità più bella del mondo. Nel 1978, su quella basi storiche, il ministro Tina Anselmi introdusse la sua Riforma sanitaria.
Tutto questo vien raccontato per rimarcare la leggerezza con cui, l’enorme valore storico e morale contenuto nella Riforma sanitaria del 1978, venne soppresso dalla modestissima Riforma sanitaria di Francesco di Lorenzo. Riforma nata nel 1992, sulle ceneri della disfatta morale dell’Italia di quell’anno.
La gestione politica delle USL nate dalla Riforma Anselmi del 1978 venne consegnata nelle mani dei rappresentanti popolari del territorio di appartenenza (“democrazia diretta” alla Rousseau); mentre la sola la gestione amministrativa venne affidata ai tecnici amministrativi. Ciò non si ripetè con Francesco Di Lorenzo.
Il nostro territorio del Sulcis Iglesiente, dal 1980 al 1992, con questa perfetta collaborazione tra politici eletti e corpo amministrativo, venne distinto nelle due USL: USL 16 (Iglesias) e USL 17 (Carbonia).
A capo della USL 17 venne posto un cittadino di Carbonia: Antonio Zidda. Suo vice fu un cittadino di Sant’Antioco: Andrea Siddi. Il consiglio d’Amministrazione era costituito da rappresentanti di tutti i Comuni del Sulcis. Sotto tutte le amministrazioni che seguirono gli ospedali Sirai, CTO e Santa Barbara crebbero in dotazione di personale e tecnologia. Non esisteva il problema delle liste d’attesa e dei posti letto. Chi ricorda il Sirai ricorderà anche che il dottor Enrico Pasqui, Direttore sanitario, aveva creato con propria iniziativa un reparto di 40 posti letto chiamato “Medicina seconda”, situato in un padiglione separato dal corpo centrale. In esso trovavano ricovero i pazienti che, dimessi ma ancora da riabilitare, non potevano tornare in famiglia. Il dottor Enrico Pasqui aveva inventato una “RSA” anzitempo. Essa aveva il vantaggio di essere circondata da tutti i servizi: il personale sanitario, la mensa, la farmacia, il laboratorio analisi e gli specialisti medici. Le famiglie in difficoltà ebbero così un grande aiuto senza oneri aggiuntivi. Furono gli anni migliori della Sanità pubblica del Sulcis Iglesiente. Poi arrivò l’anno della svolta: il 1992.
Fu l’anno di “ Tangentopoli”. Gli inquirenti avevano scoperto a Milano un giro d’affari illegale che coinvolgeva anche uomini politici. Si trattava di figure di secondo piano di diversi partiti della maggioranza di Governo. Lo scandalo si estese a tutta l’Italia e provocò la fine di un’epoca iniziata con la fine della Seconda Guerra Mondiale e l’inizio della Repubblica. In quello stesso anno iniziò la reazione contro i partiti e, ovunque fossero presenti amministratori eletti dalla politica, si supponeva l’esistenza di malaffare. In breve tempo i politici vennero allontanati da tutte le amministrazioni dello Stato, fra cui le USL. Alla fine del 1992 il ministro Francesco Di Lorenzo abolì la riforma sanitaria di Tina Anselmi e ideò una sua riforma tesa a ottenere un unico fine: eliminare i politici dalle amministrazioni delle USL. Per questo trasformò le USL in ASL (Aziende Sanitarie Locali) in cui la struttura burocratica dell’amministrazione, privata della presenza dei politici, assunse tutti i poteri. I sindaci vennero di fatto espulsi dal controllo della Sanità. Il comando dell’Azienda assunse una struttura verticistica e venne consegnato nelle mani dei “Manager”: figure apicali, con pieni poteri, create allo scopo di mantenere l’equilibrio di bilancio e fare profitto aziendale. Dopo il ministro Di Lorenzo divennero ministri alla Sanità Maria Pia Garavaglia e poi Rosy Bindi. Costei con la legge 229/99 potenziò ulteriormente la “mission” privatistica delle ASL attraverso l’articolo 3 che recita: «Le Unità Sanitarie Locali si costituiscono in azienda con personalità giuridica pubblica e autonomia imprenditoriale; sono disciplinate con Atto aziendale di diritto privato». A dirigere le Aziende Sanitarie Pubbliche vennero incaricati i “manager”. Con questo atto i sindaci vennero definitivamente esclusi dal controllo della Sanità dei loro territori. Era avvenuto un fatto anti-storico: i politici di Sinistra avevano posto ai vertici della Sanità Pubblica una struttura amministrativa “non” elettiva. Così era avvenuto che ministri di partiti di centrosinistra avevano adottato una legge che, ai tempi dell’Assemblea Nazionale del 1789, sarebbe stata considerata di destra, cioè partorita dal “Primo” e “Secondo Stato”. Jean-Jacques Rousseau avrebbe condannato questa legge come lesiva del “diritto naturale” dei popoli alla “democrazia diretta” e avrebbe condannato l’accentramento dei poteri in poche mani “non elettive”, non controllabili dai cittadini.
Nella stessa legge 229/99 comparvero provvedimenti che consentirono, all’interno della Sanità pubblica, la coesistenza della “sanità a pagamento “ contro il principio rivoluzionario della sanità gratuita per tutti “dalla culla alla tomba”. Rosy Bindi aveva introdotto i ticket sui farmaci e le visite. La Sanità a pagamento si aggravò nel decennio successivo quando i Governi, di tutte le parti politiche, allo scopo di risparmiare, ridussero il personale e i posti letto negli ospedali pubblici. Le carenze assistenziali prodotte da questo provvedimento indussero forzosamente la popolazione a cercare le cure presso strutture sanitarie private. Era avvenuto un ribaltamento dei principi di solidarietà ispiratori della Sanità pubblica.
Con l’accettazione, da parte della Sinistra, di metodi di gestione economico-sociale di Destra, stava avvenendo uno scambio di ruoli tipici delle destra storica con quelli tipici della sinistra storica. Ancora oggi i manager continuano a mantenere chiusi ospedali e reparti specialistici. Del resto, i manager hanno un mandato con un obiettivo che prevale su tutti: quello di proteggere il bilancio aziendale, riducendo la spesa e creando profitto. La funzione di ascoltare l’opinione dei cittadini e curarne gli interessi appartiene alla politica, ma la politica territoriale è stata disarmata dai tempi di Francesco Di Lorenzo ad oggi. Solo qualche raro sindaco agguerrito riesce a proteggere un po’ l’ospedale della propria città. Questa inversione-scambio dei valori storici e del concetto di “democrazia” era iniziato nel 1992 col governo Amato. In sostanza, costui che in altri tempi, per suo orientamento politico, sarebbe stato un rappresentante del Terzo e del Quarto Stato (operai, contadini, borghesia), introdusse tecniche di accentramento di potere e di eliminazione di “democrazia diretta”, esattamente come avrebbero fatto il “Primo” e il “Secondo Stato” pre-rivoluzionario francese. Tale comportamento antistorico è continuato con tutti i Governi che si sono succeduti. Tutti hanno escluso il principio di Jean-Jacques Rousseau della “democrazia diretta” nell’amministrazione della Sanità pubblica. La soppressione della rappresentanza democratica territoriale per il controllo delle ASL è persistente e oggi è evidente che quel metodo ha fallito.

Mario Marroccu

Nella Storia, chi fosse l’autorità competente a gestire il “fine vita”, non venne mai messa in discussione: era per tutti un’esclusiva del “destino”. Per questo i medici, dall’antichità fino al 1800-1900 ritennero d’avere solo il compito di alleviare le sofferenze del malato e non si illusero mai d’avere il potere di contrastare la morte. Agli inizi del 1800, Edward Jenner diffuse la vaccinazione antivaiolosa e avvenne per la prima volta il crollo della la mortalità ritenuta obbligata. Città come Londra o Napoli, che avevano 40.000 morti l’anno per vaiolo, videro crollare il numero dei morti a poche centinaia l’anno. Fu un successo entusiasmante e la medicina ufficiale cominciò a pensare che fossero maturi i tempi per attenuare l’ineluttabilità della morte e si iniziò ad alimentare l’illusione di poterla domare prevenendola, o ritardandola, o impedendola, o, perlomeno, programmandola. Coi successi della medicina del ventesimo secolo si passò dalla illusione alla certezza che con la “morte” si possa aprire una trattativa. I medici cominciarono ad opporle tecniche di “rianimazione” sempre più avanzate, terapie efficaci contro le infezioni batteriche: gli antibiotici. Sempre nel 1900, si scoprirono i gruppi sanguigni e il metodo di rendere il sangue incoagulabile: ne conseguì il sereno uso delle emotrasfusioni. Poi, più recentemente, comparvero le tecnologie per il sostegno automatizzato alle funzioni vitali del cuore, polmoni e reni; infine, giunsero i trapianti d’organo e lo sviluppo di una nuova scienza: l’Immunologia.
I veri successi erano iniziati con la fine della Seconda Guerra Mondiale: la grande macelleria conclusasi con la strage delle bombe nucleari di Hiroshima e Nagasaki.
– Nell’anno 1948 il nuovo Governo Italiano, approvò la Costituzione della Repubblica. Essa, negli articoli 2 e 32 dichiarava il diritto fondamenta le di ogni individuo alla vita e alla salute.
– Nello stesso anno 1948 iniziò la diffusione in Italia dell’antibiotico “penicillina” scoperto da Fleming.
Con gli antibiotici, e le nuove tecnologie di rianimazione, la sopravvivenza dei malati alle malattie mortifere aumentò sempre più; anche quelli ritenuti gravissimi iniziarono a sopravvivere per molti mesi, seppur condannati da mali incurabili. Allora cominciò a circolare una nuova espressione: “accanimento terapeutico”. Con questa espressione si intendeva indicare l’impiego illimitato di terapie, che pur efficaci e costose, non modificavano il triste destino finale del paziente.
– Nel 1957 il papa Pio XII fece uno storico discorso agli anestesisti. In esso, pur incoraggiandoli ad applicare tutti i loro sforzi rianimatori, sostenne che la Chiesa riteneva illecito l’impiego di pratiche inutili assimilabili ad un “accanimento terapeutico”. Sostenne invece la liceità della “sedazione profonda” nei pazienti con dolore intollerabile, per malattie incurabili, e destinati ad un fine vita sotto atroci sofferenze.
– Negli stessi anni, dal 1950 in poi, prese piede l’impiego esteso delle “cure palliative” per pazienti incurabili. Il termine “palliativo” viene dal latino “pallium” che tradotto è il “mantello”. Come un mantello che serve ad attenuare il freddo quelle cure non mirano alla guarigione ma alla gestione del dolore e delle altre sofferenze per portare un po’ di benessere al paziente e alla famiglia. Le cure palliative servono a migliorare la qualità della vita finale.
– Dal 1990 circa si diffusero le RSA (Residenze Sanitarie Assistite) e contemporaneamente iniziò la riduzione dei posti letto negli ospedali pubblici. I malati incurabili finirono i loro giorni nella casa di famiglia oppure come ospiti delle RSA.
Il “diritto” alla salute e alla vita dichiarati nella Costituzione sono un nobile intento, tuttavia la concreta realizzazione di quel principio inviolabile ha ancora un percorso lungo e difficile da fare. Il conflitto tra ciò che si desidera e ciò che è realmente possibile, sta facendo emergere altre esigenze che prima erano impensabili e che oggi i Governi devono affrontare.
– Il successo tecnologico della medicina, mirato all’allungamento della possibilità di sopravvivenza, sta facendo entrare in gioco l’articolo 13 della Costituzione. Esso tutela l’”autodeterminazione” del cittadino, cioè il diritto alle “libertà personali”. Tale libertà si esplica anche nella libera scelta sull’accettazione o meno dei trattamenti sanitari. La stessa “carta dei diritti fondamentali” della Comunità Europea, oltre a stabilire il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione, stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne casi particolari previsti dalla legge.
– La legge n. 219 del 2017 confermò l’importanza del “consenso informato” ai trattamenti sanitari e il diritto del paziente di imporre le proprie “Disposizioni Anticipate di Trattamento” (DAT).

In sostanza: dal 1948 ad oggi, sia le autorità morali religiose che quelle laiche hanno dichiarato che nessuno dovrebbe subire trattamenti sanitari contro la propria volontà. Ognuno è libero di decidere se sottoporsi o meno alle cure, dopo essere stato adeguatamente informato sui rischi e benefici e implicazioni sulla qualità della vita futura.
Le DAT sono le dichiarazioni del paziente che, in previsione di una futura ipotetica malattia invalidante che comporti l’incapacità di autodeterminarsi, servono ad orientare i curanti sulla loro azione terapeutica senza andare contro la volontà del paziente.
Questa legge è stata utilizzata da pazienti che non intendevano curarsi, ma preferivano accelerare i tempi del decesso tramite l’assunzione di farmaci in dosi letali. In questo nuovo scenario sono entrate nuove figure: i sanitari che hanno somministrato i farmaci letali. Quando questo è avvenuto vi è stata anche l’autodenuncia pubblica degli autori della somministrazione. Al chè l’autorità giudiziaria non ha potuto esimersi dall’intervenire contestando il reato ipotizzato dall’articolo 580 del Codice Penale; “istigazione al suicidio”.
Il processo si concluse a favore dei medici somministratori dei farmaci in dose letale.
– Nel 2019 la Corte Costituzionale, con sentenza n. 242, dichiarò l’incostituzionalità del suddetto articolo 580 del C.P. con questa motivazione: «… non è punibile chi agevola una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che essa reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli di porre fine alla propria vita, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una STRUTTURA PUBBLICA DEL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE previo parere del COMITATO ETICO territorialmente competente» (sentenza sul caso Cappato).
Oggi, dalle varie parti politiche in Parlamento, viene avanzata la richiesta di regolamentare con legge il “fine vita” e recentemente è stato pubblicato il testo proposto dal Governo.
Sintesi della legge sul “fine vita” da discutere in Parlamento:
– Articolo 1: sostiene che la Repubblica assicura la tutela della vita di ognuno senza distinzione.
– Articolo 2: “non è punibile chi agevola una persona, nel proposito di morire, qualora sia maggiorenne, capace di intendere e volere, sotto cure palliative, tenuta in vita da trattamenti sostitutivi delle funzioni vitali, e che sia affetta da patologie irreversibili, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche intollerabili, le cui condizioni siano state accertate dal Comitato Nazionale di valutazione (legge 833/78).
– Articoli 3 e 4: indicano l’iter burocratico per accedere al Comitato di Valutazione che dichiari la validità della richiesta di autorizzazione. Inoltre, indica in AGENAS il compito di fungere da osservatorio sulle Regioni che devono approntare un piano per le cure palliative domiciliari che possa raggiungere almeno il 90 per cento dei cittadini.
– Articolo 4: alla fine di questo articolo è stata inserita una postilla che così dice: «Il Personale del Servizio Sanitario Nazionale, gli strumenti e i farmaci dello stesso NON POSSONO essere impiegati al fine della agevolazione del proposito di fine vita considerato dalla sentenza della Corte Costituzionale del 22 Novembre 2019, n. 242».
In sostanza, si sostiene che le procedure di “ fine vita” programmate non possono essere offerte dal Servizio Sanitario Nazionale. Ne consegue che il paziente che ha ottenuto l’autorizzazione dal Comitato di Valutazione deve accedere al “fine vita” attraverso canali privati. La procedura sarà, dunque, da eseguirsi in luoghi privati, con medici e infermieri privati, con strumenti e farmaci a spese del richiedente.
Da quanto elencato, si evince che questo iter è complesso e costoso. Così pure è complessa e costosa la proposta del piano di allestire un servizio per le cure palliative domiciliari. Sembrerebbe molto difficile sia per la carenza specifica di specialisti, sia per la coesistenza degli enormi problemi organizzativi ed economici in cui si dibatte il Servizio Sanitario Nazionale. Si può supporre che le difficoltà saranno esaltate sia dall’intervento sul tema delle diverse sensibilità morali, religiose e laiche, sia per l’impegno burocratico che renderà necessaria una complessa struttura “ad hoc” di nuova organizzazione.
Le “cure palliative” oggi sono prevalentemente in mano alle famiglie che, in solitudine devono sostenere spese importanti sia per i professionisti sanitari da compensare, sia per il consumo di presidi, sia per l’adattamento degli ambienti casalinghi.
Nel caso della “sedazione profonda” il tutto si complica. Essa consiste nella induzione di una sorta di “coma farmacologico” nel paziente che lo ha richiesto. Questa tecnica si avvale di farmaci ipnotici rapidi, di oppiacei analgesici e di sedativi, allo scopo di ridurre l’ansia, il dolore, e anche la memoria.

L’associazione dei tre farmaci elimina lo stato di coscienza con perdita totale del controllo del cervello.
Ciò è necessario per rimuovere la percezione del dolore, l’angoscia, e la memorizzazione della sofferenza. Lo scopo che si deve porre colui che esegue la procedura è quello di rendere incosciente il cervello, ma stando attento a non far danni al centro nervoso del respiro che sta nel cervello. Ciò rende necessario l’avere a disposizione tre strumenti:
1 – farmaci dosati accuratamente;
2 – apparecchi respiratori di soccorso in caso di apnea;
3 – personale addestrato.
In sostanza, si deve creare un ambiente simile ad una piccola “Rianimazione” ospedaliera.
Si può fare la procedura a domicilio del paziente come si fa con le cure palliative? Sì, ma sarebbe molto costoso. Gli ambienti adatti sono gli ospedali e gli hospice. In questi luoghi si porrà il problema del personale e dei posti letto. Ieri, 6 luglio 2025, l’Unione Sarda dedica le pagine 1, 2 e 3 allo enorme problema della carenza di personale e dei posti letto negli ospedali pubblici sardi. Questo è quanto si prospetta per pazienti comuni di routine.
Il problema che emergerà con i pazienti moribondi che vogliono accedere al “fine vita” è molto più grande. Vi sarà il problema della formazione e funzionamento delle Commissioni Valutative che dovranno programmare la dinamica conclusiva. Non vanno trascurati i problemi etici e psicologici che interesseranno gli operatori e i familiari. E’ bene specificare che, nonostante la terminologia contenuta nell’espressione “suicidio assistito”, questi poveri pazienti non vanno assimilati al comune suicida per motivi esistenziali, che soffre per il motivo stesso di esistere e “non vogliono” vivere. Nel nostro caso si tratta di pazienti morenti per un male incurabile, che “vogliono” vivere ma senza soffrire. La sofferenza e l’angoscia della morte, comunque imminente, fanno optare per l’assunzione di farmaci che fanno perdere la coscienza e, con essa, le attività vitali del sistema respiratorio e cardiocircolatorio.
Esiste un altro problema etico procedurale: al fine di estraniare il più possibile gli operatori dalla dinamica che indurrà il “fine vita”, una parte del mondo politico vuole che sia il paziente stesso ad auto-somministrarsi la miscela di farmaci letali. Si può immaginare che vi sarà opposizione sia su questo punto sia sulla indisponibilità del Sistema Sanitario Nazionale a queste funzioni.
Sarà una discussione incredibile che rimetterà tutto in gioco: l’accanimento terapeutico, la sedazione profonda, il Sistema Sanitario Nazionale, la morale.

Mario Marroccu

Abbiamo vissuto il tempo della sanità gratuita per tutti “dalla culla alla tomba”. Poi è venuto il tempo della Sanità a ranghi ridotti per risparmiare, e abbiamo cominciato a pagare esami e visite specialistiche. Adesso inizia il terzo tempo della “curva discendente” della Sanità pubblica: quello della nostra salute affidata alle assicurazioni. Ne esistono già i segni premonitori. Il giorno 24 giugno, la più nota emittente radiofonica italiana dedicata ai fatti economici, ha pubblicizzato la LTC (Long Term Care). Si tratta di un’assicurazione sanitaria per ottenere cure a lungo termine. Protegge dal rischio della perdita di autosufficienza in caso di malattie croniche inabilitanti. L’obiettivo della LTC è fornire un sostegno economico per coprire le spese sanitarie sia domiciliari sia in strutture specialistiche.

Durante la trasmissione ha chiamato un ascoltatore per dire quanto segue: «…io sono un lavoratore autonomo che sta andando in quiescenza con una pensione di 1.600 euro al mese. Supponiamo che riesca a destinare 100 euro mensili per l’acquisto della polizza LTC, quanto varranno quei 100 euro fra 10 anni?. Varranno tanto da pagarmi le spese di riabilitazione o di stipendiare una badante?»

I giornalisti hanno risposto: «E’ chiaro che non basteranno; infatti la polizza prevede che lei versi all’assicurazione anche tutto il suo TFR, cioè la liquidazione che riceverà andando in pensione». Si tratta di quella liquidazione che ogni pensionando attende per ripianare tanti debiti, per pagare le rate dell’auto, del mutuo della casa, dei lavori di manutenzione, eccetera. E’ evidente che il lavoratore e il pensionato medio non potranno rinunciare alla liquidazione. Potranno sottoscrivere quella polizza solo i titolari di redditi e pensioni corpose, cioè coloro che, comunque, potrebbero permettersi di pagare una badante, o il fisioterapista o la dialisi privata.

Il punto è questo: i super-pensionandi agiati non sono una preoccupazione. Sono una preoccupazione i titolari di piccoli e medi redditi e pensioni, cioè la maggioranza. Morale: l’assicurazione “long term care” non mette al sicuro la quasi totalità degli italiani con finanze appena autosufficienti. Soltanto lo Stato ha ancora il potere di proteggerli dalle difficoltà che dovrà affrontare la Sanità pubblica. E’ noto che i problemi internazionali, i dazi, le guerre, il riarmo, impegnano le risorse dello Stato in altre emergenze. Ci resta allora la possibilità di chiedere un maggiore sforzo in assistenza sanitaria alle Regioni. Esse negli ultimi decenni si sono impegnate a produrre leggi sanitarie regionali dedicate alla creazione di nuove “strutture organizzative” dotate di organigrammi amministrativi complessi. Si tratta di leggi ostiche, formulate con linguaggio burocratico poco comprensibile. Nonostante nella premessa di quelle leggi venga proclamato lo scopo di dare migliori servizi sanitari alla popolazione poi, negli articoli che seguono, il “malato” non viene neppure citato. Vengono invece elencati gli incarichi da dare alle gerarchie degli organi direttivi di nuove strutture più o meno utili.

Pertanto, anche l’interlocutore “Regione” non è facile da interpellare. Ci rimangono i sindaci: gli unici, concreti, presenti e avvicinabili rappresentanti delle popolazioni territoriali.

Visto che non si possono affidare le cure dei malati cronici, soprattutto degli anziani, ad aziende private, è necessario che i sindaci prendano l’iniziativa di proteggere i cittadini dalle prospettive illustrate dalle assicurazioni. Esse, infatti, sostengono che le polizze per le “ Cure a lungo termine” non vengono proposte al malato cronico in sé, ma ai suoi conviventi e segnatamente ai figli. La motivazione è la seguente: « … nel caso in cui un parente convivente, padre o madre, avrà bisogno delle cure che lo Stato non potrà più dare, i costi dovranno essere sostenuti dai familiari che hanno un reddito: in genere i figli. Pertanto, se i figli non vogliono finire nel baratro delle spese per l’anziano genitore o dell’inabile a carico, è meglio che si convincano che devono essi stessi acquistare la polizza assicurativa LTC». Ecco: il cerchio è chiuso. Purtroppo, ciò sta avvenendo in tempi in cui la tecnologia digitale sta riducendo progressivamente i posti di lavoro dipendente nelle banche, nei supermercati, nelle attività amministrative, nelle università, nelle fabbriche, nei servizi pubblici, eccetera. La circolazione del danaro dedicato agli stipendi si sta limitando e si sta spostando in un altro circuito più ristretto; ciò avviene a causa della sostituzione digitale di molte funzioni burocratiche. Così i soldi si fermano in mano ai gestori delle grandi reti digitali. E’ previsto che tale fenomeno aumenterà con l’arrivo della Intelligenza Artificiale (A.I.) nel mondo del lavoro. In un mondo così preso nell’ingranaggio digitale, come lo stanno ipotizzando gli economisti e i sociologi, chi potrà pagarsi una badante per assistere il parente non autosufficiente?

Inoltre, considerato che i vecchi non autosufficienti aumenteranno, mentre i giovani diminuiranno, chi riuscirà a pagare l’assistenza sociale e sanitaria per tutti i richiedenti  Si prospetta un incubo. Tutti insieme potremmo contrastare i danni. «Tutti insieme», come? Attraverso il senso di appartenenza ad una comunità solidale. Tale appartenenza non può frammentarsi in divisioni correntizie. Sarebbe ideale avere una rappresentanza locale, unificante e governante, espressa dalla fiducia di tutti. Ci serve l’abolizione dalla “fede cieca” nei potentati e l’applicazione di un metodo scientifico nel momento in cui votando sceglieremo il candidato a governarci. Come diceva Galileo «credi in quello che vedi, che tocchi, che sperimenti personalmente, che critichi, che puoi rifare e migliorare». Cioè credere che la verità sia solo quella empirica (basata sull’esperienza vissuta e personale), che si presti alla revisione, al controllo e alla correzione. Bene fanno gli americani che dopo due anni dall’elezione del Presidente rinnovano il rito del voto ai parlamentari. Si chiamano “elezioni di medio termine”. I parlamentari eletti, che dopo due anni non abbiano attuato le promesse dei programmi amministrativi, vengono rimandati a casa. Fra un anno e mezzo, in America, verrà rieletto il Parlamento. Se Trump non avrà soddisfatto il contratto elettorale, i suoi elettori si libereranno dei suoi parlamentari inadempienti e li rimanderanno a casa; lui andrà in minoranza e verrà messo sotto stretto controllo da un’opposizione più vasta. Questo è il vero segreto dell’efficienza della democrazia in America: il popolo può liberasi del parlamentare inadempiente. In quel caso il potere dato ai politici governanti è controbilanciato dal potere dato al popolo di rimandare a casa dopo due anni coloro che non hanno rispettato gli impegni presi. Stessa cosa si fa con gli alti dirigenti delle agenzie di stato con lo “Spoil system”. Nessun potente è al sicuro per sempre.

In Italia invece non esiste l’istituto delle “elezioni di medio termine”. Il popolo italiano non ha i poteri per controbilanciare il potere perenne del governante eletto. Ne consegue che i parlamentari eletti possono eludere le promesse elettorali senza correre il rischio di perdere il posto, l’autorità e lo stipendio, per 5 anni.

Questa mancanza di potere impedisce ai cittadini di far sentire la forza del loro controllo sulla Sanità. Fino al 1992, le USL (Unità Sanitarie Locali) erano gestite e controllate dai Sindaci tramite il Presidente. Di fatto l’incarico al Presidente di gestire la USL, avveniva per elezione popolare indiretta e il programma amministrativo era un vero “contratto”. Se il sindaco non rispettava il contratto veniva rimandato a casa con le elezioni comunali successive. Fu il periodo migliore della sanità pubblica. Poi, dopo il 1992, con Francesco de Lorenzo, Maria Pia Garavaglia e Rosy Bindi vennero prodotte leggi di riforma sanitaria che abolirono la presenza democratica di rappresentanti politici eletti dalle amministrazioni sanitarie territoriali. Lo fecero con un semplice marchingegno: abolirono le USL e le trasformarono in ASL (Aziende Sanitarie Locali). In tal modo poterono creare i “Manager”, figure non elette, messe a capo delle Sanità territoriali, e le svincolarono dal controllo della politica locale. Cioè le svincolarono dai sindaci. Questo fu l’inizio della fine. Dal 2000 i governi successivi produssero leggi ancora più rigide. Per il controllo della spesa pubblica si procedette alla riduzione del personale sanitario, dei servizi ospedalieri e iniziò il tempo degli accorpamenti di ASL e ospedali. Si raggiunse l’acme del rigore dopo la crisi di Goldman-Sachs nel 2008, la crisi economica internazionale che ne conseguì e l’aumento vertiginoso dello spread in Italia. I governi caddero e si dovette affidare l’Italia al rigorosissimo governo Monti, il quale avviò ulteriori restrizioni sanitarie. La sanità pubblica divenne un’esclusiva organizzazione burocratica, e i sindaci e le gerarchie sanitarie ospedaliere vennero estraniate definitivamente dalla gestione della Sanità. I “Manager” non stabilirono canali di comunicazione con le popolazioni e iniziarono a prendere direttive soltanto dalla burocrazia regionale. Tali strutture avevano un chiara “mission”: spendere il meno possibile.

Il nuovo modo di gestire la Sanità pubblica portò alla riduzione progressiva di Unità Operative Specialistiche ospedaliere, e alla scomparsa di molte migliaia di posti letto. Fino a quel periodo, tra i 1992 e 2000, all’ospedale Sirai di Carbonia avevamo 384 posti letto. Oggi, per effetto di quei fatti storici, i posti letto sono ridotti a un centinaio.

Il “Consiglio dei sanitari” che supportava il presidente della USL, fino a tutto il 1992, era formato da tutti i primari, da un rappresentante degli Aiuti medici e da uno dei tecnici. Esso era un istituto fondamentale per dare al Presidente della USL tutte le informazioni corrette sullo stato della Sanità pubblica, reparto per reparto. Dopo la eliminazione di quel Consiglio, il controllo di tutto il sistema dei reparti ospedalieri passò nelle mani della sola burocrazia Regionale che sapeva tutto sulla contabilità ma nulla sui malati. Era avvenuto un cambiamento importante: il “contratto” fra i cittadini e i politici eletti al governo della Regione finì: si passò dal “contratto” di atti concreti, richiesti dalla base elettorale, a semplici “promesse elettorali”. Le “promesse” sono generiche dichiarazioni sull’intenzione di fare “il bene di tutti” senza la garanzia di un sistema di controllo. Il potere di controbilanciamento al potere dei politici eletti, come nel caso dell’elettorato americano, in Italia non esiste. Così i politici, dissociatisi dal controllo dei cittadini elettori, passarono ad un rapporto diretto con i soli apparati amministrativi.

Per capire il cambiamento di mentalità avvenuto, basta leggere i testi delle leggi sanitarie varate da allora in poi: sono in linguaggio molto tecnico, riservato agli addetti, fatto di richiami ad altre leggi: sostanzialmente incomprensibili. Tanto incomprensibili che probabilmente quei testi non vennero totalmente capiti neppure dagli stessi consiglieri che poi li avrebbero votati.

Oggi, con l’incubo del futuro che arriva, è facile immaginare il fallimento sanitario che porterà povertà alle famiglie. Povertà dovuta alle spese che ogni cittadino dovrà sobbarcarsi per assistere i familiari non autosufficienti. Lo hanno capito con grande anticipo le assicurazioni private che stanno propagandando le polizze LTC (“cure a lungo termine”).

Che fare? Da queste premesse sembrerebbe necessario:

– Nominare, come Presidente della ASL, un sindaco con funzioni di controllo e verifica sulla gestione.

– Pretendere un “contratto elettorale”, per i candidati al Consiglio regionale, che contenga delle penalità, e decadenza, per chi non lo rispetta;

– Restituire autonomia gestionale al Consiglio dei sanitari.

– Associare il “Consiglio dei sanitari” alla “Commissione sanitaria provinciale” formata dai sindaci del territorio, con funzioni di controllo, verifica e proposta.

L’alternativa è: rassegnarsi e cedere alle assicurazioni private il controllo della Sanità.

Mario Marroccu

Le assicurazioni americane stanno piazzando nel mercato un nuovo prodotto di successo: una copertura assicurativa per proteggersi dal “rischio di vivere a lungo” Non si era mai sentita nella Storia una frase del genere: è un’“americanata”? Purtroppo, no. In realtà i promotori di quella iniziativa mettono in guardia gli anziani che stanno troppo bene, e che hanno prospettiva di raggiungere età più avanzate, sul pericolo che la somma accantonata per la loro assicurazione sanitaria sia appena sufficiente per coprirli fini all’età di 75-80 anni. Se dovessero vivere più a lungo non ci saranno più i fondi per essere assicurati in caso di malattia o l’invalidità. L’attuale ministro delle Finanze ne ha appena accennato ma mi pare che non sia stato ben compreso. Gli Americani invece hanno preso molto sul serio la proposta di acquisto di quel pacchetto assicurativo. Quelli che possono pagarlo lo stanno comprando. è molto inquietante ma, intendiamoci, tra Italia e America il Sistema Sanitario e sociale (Welfare) è diversissimo. Noi abbiamo la garanzia che lo Stato ci salverà e ci assisterà fino all’ultimo giorno di vita. Questa sicurezza sociale fu una conquista della legge 833/78 di Tina Anselmi. Purtroppo, oggi la sicurezza che avremo l’assistenza socio-sanitaria per tutti e per sempre è meno “granitica”; si può sgretolare da un momento all’altro.

Molto dipende dalla rivoluzione che si è abbattuta sul libero interscambio del mercato internazionale a causa dei dazi, delle guerre, delle sanzioni e della necessità di spostare al “riarmo” i fondi destinati al Wellfare. Tutto questo è aggravato da un altro evento storico che accade per la prima volta : l’andamento della “curva” demografica è cambiata a causa del forte aumento degli anziani e della forte diminuzione delle nascite. In cosa consiste? È molto semplice. la “curva” statistica della popolazione era fatta come un grande “triangolo”: il lato largo in basso del triangolo rappresentava il numero di giovani (da “zero” a “18 anni”); il vertice stretto del triangolo rappresentava il numero degli anziani non più attivi (dai 60 agli 80 anni circa). La parte del triangolo compresa tra la “base” e il “vertice “rappresentava il numero delle persone di età adulta ancora in età lavorativa tra i 18 e i 60 anni. Questa parte intermedia del triangolo era la più importante fonte di finanziamento delle spese dello Stato: si tratta, infatti, della parte della popolazione che lavora e produce reddito, cioè ricchezza e tasse da versare alle casse gestite dal Ministro delle Finanze. I fondi raccolti con le tasse servono allo Stato per mandare a scuola, assistere e curare i giovani dai “zero anni” ai “18”. Servono poi a dare l’assistenza sanitaria a “tutti” e per dare la pensione, sanità ed assistenza sociale agli anziani usciti dalla catena del lavoro produttivo. In America il sistema di finanziamento della assistenza sanitaria per le classi più agiate è rappresentato da un’assicurazione “personale”. Quell’assicurazione ha il difetto che quando i soldi versati sono stati esauriti cessa l’assistenza. I poveri hanno “Medicaid”, che è un’assistenza statale piuttosto modesta. In Italia il sistema di assistenza sanitaria invece è “solidale” ed è totale: i soldi raccolti con le tasse di chi produce reddito vanno a formare un’unica cassa che finanzia la Sanità Universale. Pertanto, è fondamentale che esista un alto numero di soggetti produttori di reddito e di tasse. Questi produttori di ricchezza e di tasse sono compresi fra i 18 e i 60 anni. Nel caso in cui gli appartenenti a queste classi di età diminuissero il Fondo Sanitario diminuirebbe. In tal caso, dato il forte numero di anziani usciti dal mondo del lavoro, e che necessitano di cure, i soldi non sarebbero più sufficienti per curarli. Potrebbe accadere che perdano il diritto ad essere curati come è avvenuto fino ad oggi.

Il ministro alle Finanze pochi giorni fa ci ha comunicato che che la “curva demografica” italiana è cambiata: adesso la base del “triangolo” demografico si è molto ristretta. Ciò significa che abbiamo meno giovani da avviare al mondo del lavoro e quindi avremo meno redditi da tassare. Per di più ci si è accorti che la parte intermedia della curva demografica (gli adulti) si è ristretta perché è fortemente diminuito il numero di coloro che lavorano producendo reddito. Oggi l’apporto di danaro verso il Ministero delle Finanze è diminuito e lo Stato comincia ad arrancare per garantire tutti i servizi sociali: dalla scuola alla giustizia, alla Sanità.

Il Sistema Pensionistico italiano si basa sul principio del sistema pensionistico “a ripartizione”. Si tratta di un modello in cui le pensioni vengono pagate a pensionati con i contributi versati all’INPS dai lavoratori attivi, creando un legame diretto tra le generazioni. Pertanto, le generazioni più giovani sostengono le generazioni più anziane sia per pagare le pensioni che vengono erogate ogni mese, sia per le spese sanitarie e assistenziali. Intendiamoci: l’anziano ha già pagato versando tasse e contributi tutto il suo periodo lavorativo; in cambio ha avuto la promessa che tutto il versato gli verrà restituito quando sarà in pensione, pertanto non è in debito con nessuno. Questo sistema “a ripartizione” è geniale ed è stato inventato quando esisteva un equilibrio numerico costante nella composizione tra le generazioni. Esiste un compenso tra i pensionati dato dal fatto che un certo numero di pensionati muoiono anticipatamente senza avere la fortuna di invecchiare. In tal caso i fondi versati e non goduti vanno a coloro che vivono più a lungo. Qui sta il punto dove il meccanismo si inceppa: mentre prima l’aspettativa di vita si fermava tra i 65 e 75 anni, oggi l’aspettativa di vita va dagli 83 agli 85 anni. Ne consegue che si sta vivendo in media 12 anni in più dei nostri predecessori vissuti nella prima metà del 1900. Pertanto, ne consegue che è possibile che coloro che oggi vivono molto più a lungo consumino precocemente i fondi lasciati a disposizione da chi ha versato tutto ma è deceduto in anticipo.

A questo si aggiungono 4 aggravanti.

Prima: è calcolato che l’85% dei fondi che ognuno di noi ha versato in tutta la sua vita lavorativa vengano consumati per spese di assistenza sanitaria nell’ultimo anno di vita.

Seconda: il numero di italiani in età lavorativa, che versano parte del loro reddito al Ministero delle Finanze, sta diminuendo velocemente.

Terza: dei 16 milioni di italiani che percepiscono la pensione, 8 milioni hanno versato in tasse una parte del loro reddito. Gli altri 8 milioni no (vedove, inabili al lavoro, redditi troppo bassi a livello di povertà).

Quarta: oggi in Italia stanno nascendo pochissimi bambini. Ne consegue che fra 18 anni ci saranno pochissimi cittadini in età di lavoro capaci di produrre reddito e tasse. In sostanza fra 18 anni non ci saranno i fondi per sostenere il pagamento delle pensioni e la spesa sanitaria e sociale.

Gli americani statunitensi, che hanno un pessimo sistema sanitario pubblico, sono già arrivati al problema della mancanza di fondi per garantire una serena vecchiaia agli anziani. La soluzione adottata per ora è l’invito ad acquistare un pacchetto assicurativo sanitario che protegga dal rischio di vivere troppo a lungo (“long life risk”). è evidente che tale soluzione vale solo per chi ha una forte disponibilità di danaro.

Anche da noi in Italia fioriranno proposte assicurative per «chi rischia di vivere troppo a lungo». Basare la nostra serenità sanitaria sulle Compagnie assicurative private non può essere considerata alla stregua di una soluzione sociale.

Guardando al dato demografico italiano emerge una conclusione inevitabile: bisogna agire subito per salvare questa e la prossima generazione dal fallimento del Sistema Sanitario e del Welfare. Il dato più vistoso fornito recentemente dall’INPS riguarda il capovolgimento del rapporto numerico fra giovani e anziani. In esso è evidente il crollo del numero di italiani in età lavorativa che producono reddito e gettito fiscale. Gettito che serve ai pensionati.

Orbene, il numero di italiani in età di lavoro redditizio, oggi è diminuito ma ancora sopportabile; purtroppo però è destinato a diminuire ulteriormente perché nascono sempre meno bambini, che sono i futuri lavoratori e contribuenti.

Il dato che illumina sul cosa fare sta nello studio analitico della demografia femminile. La componente femminile in età feconda si rivela in assoluto la componente più preziosa di una Società che vuole continuare ad esistere.

Nota bene: la popolazione femminile deve essere valutata con parametri assolutamente diversi da quelli usati per i maschi. I demografi ne classificano le coorti su un dato: la fecondità. Vengono considerate feconde le femmine tra i 15 e 49 anni. Sono considerate “non feconde” quelle in età precedenti i 15 anni e le età successive ai 49 anni. Questa classe della fecondità viene, a sua volta, distinta in una classe di “fecondità crescente” dai 15 ai 32 anni, e in una classe di “fecondità decrescente” dai 32 ai 49 anni.

– Secondo l’ISTAT le donne feconde in Italia 25 anni fa erano 13 milioni e 700.

– Invece le donne in età feconda dal 2024 (dati ISTAT) sono 11 milioni. Significa che in 25 anni abbiamo perduto in Italia ben “2 milioni e 700mila” donne feconde, cioè circa un quinto. Fra altri 25 anni (nel 2050) il numero delle donne feconde calerà di molti milioni ancora e sarà talmente basso da non garantire più la sopravvivenza della nazione italiana.

Il calo della natalità è dovuto a due fattori:

– la diminuzione dei nati per donna fertile;

– la diminuzione crescente del numero assoluto di donne fertili.

Questi due fenomeni vanno arrestati. Solo lo Stato può farlo. Il crollo progressivo della natalità per carenza di donne feconde iniziò nel 1992. Da allora il peggioramento non si è più arrestato. Dai nuovi nati di questi anni proverrà un numero ancora inferiore di femmine feconde e un ulteriore crollo della natalità. Ciò invertirà ulteriormente il rapporto fra giovani coorti attive nel lavoro e anziani non più produttivi.

I demografi sostengono che la natalità può essere considerata in buon equilibrio quando il rapporto di nuovi nati per donna (o coppia) fertile è pari a 2,1 per donna feconda. Questo felice rapporto numerico è stato mantenuto solo dai Paesi più evoluti del Nord-Europa e la Francia. Essi hanno attuato politiche di protezione della componente femminile feconda, sia assegnando adeguati sussidi di maternità, si garantendo asili nido e soprattutto la possibilità di continuare gli studi a spese dello Stato ed ottenere i diplomi e i lavori desiderati. Tutto ciò senza gravare sulle finanze familiari. Purtroppo, a causa del crollo della coorte di donne feconde oggi, in Italia, abbiamo una natalità di 1,2 bambini nati per donna. Questo valore dice che la popolazione Italiana sta viaggiando verso la sua estinzione.

In Sardegna, e in particolare nel Sulcis Iglesiente, il rapporto è crollato da 2,1 bambini per donna a 0,8 bambini per donna fertile. Significa che stiamo scomparendo, ma soprattutto significa che siamo già in una situazione di criticità di bilancio pensionistico a causa dell’assenza di una prossima generazione di giovani che dovranno sostituire coloro che oggi sono al lavoro. Mancheranno nuovi soggetti capaci di produrre un reddito per se stessi e per il finanziamento dello Stato sociale (pensioni e Sanità). A questo punto è chiaro il perché i cittadini americani stiano stipulando le convenzioni di assicurazione per il rischio che corrono i pensionati d’essere abbandonati a se stessi nel caso vivano più a lungo.

 

Questo è il dato concreto di cui non abbiamo mai parlato finché non lo ha pubblicamente dichiarato il Governo Italiano attraverso il Ministro delle Finanze.

A questo punto, il problema delle donne feconde che non danno alla luce nuovi bambini italiani è molto più grave persino delle guerre nel mondo. Abbiamo necessità di governanti che si mettano a studiare per trovare il modo corretto di restituire, alla parte femminile della società, la tranquillità e la sicurezza sociale per poter mettere al mondo i figli. C’è poco da fare: le assicurazioni non ci salveranno; ci salveranno le donne che sono in assoluto la parte più pregiata della società.

Mario Marroccu