20 December, 2025
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I pareri sulla Sanità che vengono quotidianamente diffusi agli italiani sono come i racconti di Storia: dipendono da chi li racconta. Da oltre 30 anni i pareri provengono dai burocrati e dai politici. Essi si limitano a fornire la descrizione dei guasti alla sanità pubblica e non forniscono mai progetti per risanarla. All’inizio non fu così: la Sanità pubblica fu un progetto esclusivo concepito da tre medici, deputati dell’Assemblea Costituente, che stavano preparando la nascita della nuova Repubblica.
Il 1° gennaio 1948 per la prima volta nella storia si parlò di Sanità pubblica a carico dello Stato. Nell’ articolo 32 della Costituzione sta scritto: «La Repubblica tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo…». L’articolo venne concepito e scritto da quei tre Medici che gli avevano dedicato l’intero anno 1947 con studi e discussioni. Essi erano  il dottor Giuseppe Caronia, clinico pediatra a Roma, democristiano; il dottor Mario Merighi, primario di medicina a Mirandola, socialista; il dottor Alberto Cavallotti, primario di un nosocomio milanese, comunista. Essi spiegarono che la qualifica di “diritto fondamentale” dato alla salute era giustificata dal fatto che qualunque essere umano si trovi in stato di malattia è equiparabile ad un essere in stato di schiavitù o di dipendenza da altri, correndo il rischio di perdere la dignità e di non poter esercitare i propri diritti. Da questa considerazione i Costituenti hanno derivato il principio che la Sanità Pubblica deve essere basata sulla “solidarietà” e nessuno deve vivere l’esperienza d’essere trascurato e offeso dall’abbandono sociale nel momento della sofferenza. Tina Anselmi, che fu ministro della Sanità nel biennio 1978/1979 costruì la sua legge 833/78 ispirandosi ai documenti lasciati ai posteri da quei tre medici nell’anno 1947. Nel ventennio tra il 1992 e il 2009 quel principio venne modificato a fondo. L’ultimo colpo gli venne dato dal tracollo economico internazionale iniziato con la crisi dei “subprime”, e il fallimento di Lehman Brothers negli Stati Uniti, che coinvolse anche l’Europa; l’Italia finì sull’orlo del fallimento. In quel ventennio i principi solidaristici dei tre medici costituenti italiani vennero radicalmente modificati. Si passò da una gestione della sanità basata sui valori umani della Costituzione ad una gestione basata sul diritto aziendale . Si passò dal principio della solidarietà al principio del bilancio fondato sull’interesse economico. Il cittadino passò dallo stato di titolare di un “diritto fondamentale “ allo stato di “cliente” di un’azienda (ASL).
In questa storia di sanità pubblica, iniziata dai tre medici Costituenti, le figure dei medici pubblici in qualità di programmatori vennero fatte drasticamente scomparire e in quella funzione vennero sostituiti da esperti burocrati. Perciò da circa 30 anni la Sanità è in mano ai “manager”. Essi sono liberi professionisti, abilitati a gestire aziende, incaricati dal potere politico regionale, e non sono tenuti a rendere conto del loro operato alle amministrazioni comunali e provinciali.
Dopo 33 anni di tale gestione, e dopo i risultati fallimentari conseguiti, dati i giganteschi problemi demografici ed economici che si prospettano, è lecito pensare di tornare ai valori dei tre medici costituenti.
Ciò implica il dover cambiare la visione attuale sulla Sanità pubblica e riprogrammarla secondo principi diversi da quelli adatti a gestire una impresa economica.

Ipotesi di proposta.

Il problema strutturale globale riguarda l’intero apparato sanitario “su campo”. Esso è costituito da:
– Gli ospedali per acuti,
– Gli ospedali per cronici,
– L’organico dei medici,
– L’organico degli infermieri e dei tecnici,
– La medicina di base,
– Le case della salute,
– Gli ospedali di comunità.

E’ necessario ridefinire la natura di ognuna di queste entità ridefinendo anche i rapporti fra di esse. Il nuovo contesto globale deve favorire la comunicazione fra: ospedali, apparato tecnico amministrativo, i professionisti, le loro gerarchie e la sanità territoriale.

Gli ospedali.

Le leggi emanate dal Governo Amato I e II , e la riforma del titolo V, parte II della Costituzione hanno avuto l’effetto di:
a – depotenziare e chiudere gli ospedali provinciali di I livello.
b – Accentrare le funzioni diagnostiche e terapeutiche negli ospedali regionali di II livello.
Il depotenziamento della sanità provinciale ha provocato l’iper-affluenza dei pazienti dalle province agli ospedali regionali.
Gli ospedali regionali di II livello (come Brotzu e Santissima Annunziata) furono concepiti per le ultraspecializzazioni mediche ma, a causa della riduzione del sistema sanitario nelle province, essi sono stati costretti ad assumersi anche le funzioni degli ospedali provinciali. La nota crisi che ne è nata, e che ha visto pochi mesi fa anche la necessità di chiudere temporaneamente il Brotzu, per sovraccarico, impone di restituire, gli ospedali regionali di II livello, alle funzioni ultraspecialistiche per cui erano nati.
Di conseguenza si devono restituire gli ospedali provinciali di I livello (come Carbonia e Iglesias) alle funzioni che avevano in passato a servizio dei malati del territorio.
Gli ospedali provinciali di I livello devono tornare ad occuparsi pienamente di tutte le patologie chirurgiche e internistiche, riservando a quelli di II livello (di Cagliari e Sassari) la cardiochirurgia, la
neurochirurgia, e i trapianti d’organo.
Negli ospedali di I livello provinciali vanno riattivate tutte le chirurgie di base e i Servizi di Anatomia Patologica, Radiologia, Endoscopia digestiva e respiratoria, Radioterapia, Chemioterapia. Se questa riattivazione degli ospedali avverrà contestualmente a una riorganizzazione della medicina di base, ne conseguirà il crollo immediato delle liste d’attesa per i ricoveri e gli interventi. Dato il quadro demografico attuale ne beneficerà l’utenza costituita da ultra-cinquantenni e, sopratutto, da anziani non autosufficienti. Per essi è urgente la rapida riattivazione dei centri ospedalieri vicini al fine di contrastare il fenomeno di rinuncia alle cure derivato dalla difficoltà e onerosità del trasporto dei malati.
Un beneficio collaterale certo sarà la ricostituzione di una efficiente rete di medici di base del territorio, ben supportata dalla disponibilità degli ospedali provinciali restituiti alla loro operatività.
Gli attuali ospedali provinciali, nati nel dopoguerra, destinano oggi i pochi posti letto rimasti (20-25 per U.O.) per i pazienti acuti.
Bisogna sapere che gli stessi ospedali vennero progettati per almeno il triplo dei posti letto. Questo fatto è purtroppo sconosciuto sia ai cittadini che ai politici.
Gli ospedali di Carbonia e Iglesias, ai quali il piano ospedaliero destina 250 posti letto, fino a 30 anni fa avevano 750 posti letto (500 in più).
Considerata la maggiore capienza potenziale, sarebbe possibile l’apertura di nuove Unità Operative per pazienti cronici (geriatrici), a fianco alle Unità Operative per acuti. Tale riutilizzo avrebbe importanti effetti sulle liste d’attesa e sulla famiglie.

Per avviare il progetto di nuova responsabilizzazione della politica locale territoriale all’interno della ASL e, contemporaneamente, valorizzare il personale si deve convenire su un punto fermo: la struttura sanitaria e la struttura amministrativa necessitano di due gerarchie fra loro indipendenti.

I medici.

I medici rappresentano la componente professionale essenziale per l’assistenza ospedaliera e territoriale. Sono irrinunciabili per il riavvio del Sistema sanitario. L’organico dei medici di ogni Unità Operativa ospedaliera deve avere una struttura gerarchica ben definita. La gerarchia è la catena di comando che muove simultaneamente tutti i pezzi del motore della Sanità.
Fino alla riforma di Francesco Di Lorenzo del 1992 gli organici dei medici ospedalieri erano formati da:

– un orimario: con funzioni di capo della scala gerarchica.
– due aiuti: medici esperti idonei ad assumere funzioni primariali, soggetti alla autorità del primario.
– setto-otto assistenti (medici soggetti all’autorità degli aiuti e del primario).
Il DPR 229/1992 di Francesco Di Lorenzo abolì la figura gerarchica del primario della Divisione ospedaliera e quella degli Aiuti. Scomparvero così la scala delle responsabilità e anche quella del merito. Prima d’allora il funzionamento della gerarchia dei medici era regolata dalla legge 128/69. Essa legge, all’articolo 7, definiva il ruolo del primario. Egli, oltre al compito di direttore della Divisione, aveva la funzione di legale responsabile della compilazione e della sorveglianza delle cartelle cliniche; aveva, inoltre, il compito di “vigilare” sul personale medico e infermieristico; era il responsabile del benessere e della cura dei malati. Per “compito di vigilanza” si intendeva l’obbligo di di fare verifiche sulla qualità dell’attività professionale dei medici e di sorvegliarne la disciplina. Curava con rigore la disciplina degli infermieri, dei tecnici, e del personale ausiliario. Egli era tenuto a prendersi cura della formazione continua e dell’addestramento dei medici. Essendo il responsabile della accuratezza delle cure ai malati, doveva sempre verificare:
1. L’esattezza delle diagnosi e approvarle;
2. L’appropriatezza delle cure e approvarle;
3. La conformità morale e professionale nei rapporti fra il personale e i malati.
Di fatto svolgeva la funzione di “Maestro” addestratore alla professione sanitaria.
La divisione ospedaliera (attuale Unità operativa) aveva funzioni di cure , e di scuola di formazione post-universitaria per i giovani medici.
Non esisteva il problema che oggi lamentano i medici ospedalieri : cioè l’assenza di prospettive di carriera. Era possibile avanzare di grado diventando prima aiuto e poi primario, acquisendo titoli professionali e idoneità nazionali ministeriali.
Gli ospedali che avevano in organico i primari migliori formavano i medici migliori. Essi erano la sede in cui nascevano e crescevano quei chirurghi e quegli internisti che nel tempo sarebbero subentrati ai medici anziani nelle funzioni di primari e vice-primari. All’uscita di scena di un primario non si creava mai il vuoto gerarchico. Il primario usciva di scena quando era pronto il suo sostituto, che era sempre un aiuto già formato per fare il primario. In Germania tutt’oggi il primario che si prepara alla pensione indica il successore due anni prima della sua uscita di scena, e per due anni concentra su di lui tutti gli sforzi per trasferirgli le sue competenze.
L’ospedale italiano fino al 1992 era, globalmente, una scuola di formazione continua. I medici che entravano in quella scuola ne ereditavano cultura, esperienza, professionalità, e avevano la possibilità di carriera primariale. Gli stipendi fra questi tre gradi (assistente, aiuto, primario) erano differenziati in progressione. Il miglioramento del trattamento economico era sincrono col miglioramento delle capacità professionali e dei titoli acquisiti con concorsi nazionali, fino alla posizione apicale.
Tutti i Primari erano componenti del Consiglio dei sanitari; fra di essi veniva eletto il Direttore sanitario.
Era un meccanismo di valorizzazione che consentiva ai medici di produrre le scelte programmatiche da affidare poi alla parte amministrativa perché potessero essere realizzate.
Attualmente non è così: oggi il Direttore sanitario viene scelto dal Direttore generale della ASL. Questa soggezione di nomina genera scarsa autonomia di giudizio; inoltre il parere espresso sia dal Direttore sanitario che dal Consiglio dei Sanitari non ha peso o non viene neppure richiesto. Questo meccanismo demotiva i medici che, sviliti ed estraniati dalle scelte, sono impediti dal partecipare attivamente alla programmazione.
Oggi il Direttore generale della ASL viene designato da organismi politici regionali lontani dai territori provinciali, mentre in passato veniva nominato, con incarico di presidente, dai Consigli comunali del territorio. Tale differenza comporta che le decisioni prese allora col sistema precedente corrispondevano alle istanze dei cittadini del territorio; oggi no.
Questa “estraneità” al territorio, dell’attuale Direttore generale rispetto ai precedenti presidenti di USL, è una delle cause del distacco fra cittadini e sanità pubblica, e anche fra medici dell’ospedale e medici del territorio. Dapprima i medici dell’ospedale e quelli del territorio erano in rapporto diretto fra di loro perché avevano al di sopra un’unica autorità territoriale locale unificante. Ne conseguiva che il medico di base che curava un paziente, di fatto, continuava a seguirlo attraverso i medici dei reparti che erano la proiezione ospedaliera della medicina di base. Questo “continuum” tra medici di base e ospedalieri era una garanzia di sinergia delle cure e di sostegno interno fra i due sistemi.
La legge di Francesco Di Lorenzo comportò tre trasformazioni:

1 – Tutti i medici vennero classificati allo stesso livello gerarchico; ne conseguì la scomparsa dello “avanzamento” nella carriera direttiva e da allora si ignorarono le diverse competenze professionali e il merito.
2 – La scomparsa degli aiuti comportò la scomparsa delle figure professionalmente autorevoli che potevano sostituire il primario in sua assenza.
3 – Colla scomparsa del primario (quello della legge 128/69) scomparve il capo-scuola ospedaliero, e cessò l’esistenza di chi doveva, per legge, formare i medici destinati a divenire i futuri primari.
L’esperienza che stanno vivendo oggi gli ospedali dimostra che l’uscita di scena del primario comporta la fine dell’Unità 0perativa. I medici più giovani che intendono continuare a lavorare ad un alto livello
professionale, una volta privati del primario, sono costretti a trasferirsi in altri ospedali ancora dotati di primari.
Da questa esposizione emerge l’evidenza che l’organico dei medici è vario ed è composto da diverse figure a diversi livelli di formazione. Esistono i medici appena laureati dalle Università, ed esistono i medici con un grado di formazione professionale più avanzato. Dal momento dell’uscita dall’Università i medici vanno considerati “medici in formazione per sempre”.
La formazione avviene per gradi solo all’interno degli ospedali. Qui essi vengono culturalmente costruiti attraverso l’esperienza nell’applicazione delle regole riconosciute dalle Società scientifiche. La loro esperienza avviene attraverso l’imitazione dei medici più anziani.
I medici vengono formati da altri medici e, una volta lasciata l’Università per l’ospedale, il nuovo campo di studio è costituito dal malato e dall’apparato che lo cura. L’apparato di cura ospedaliero è formato
dalla équipe di specialisti, dai servizi di laboratorio, Radiologia, Anatomia patologica, dal personale Infermieristico, dal Pronto soccorso, e dagli altri reparti ospedalieri. Ogni giorno di lavoro in ospedale è una giornata di studio e formazione. All’apice della piramide docente è il primario. Egli è il riferimento concreto per l’applicazione della scienza, per la formulazione della diagnosi definitiva e per la programmazione terapeutica.
Ne consegue che l’Amministrazione che programma l’assunzione di nuovi medici per le Unità operative non può esimersi dall’arruolare per primi i medici formatori di altri medici: i primari.

Infermieri.
Vengono distinti, in base alla formazione, in:
– Infermieri laureati,
– Infermieri diplomati,
– Capo sala.
L’infermiere Capo sala di un reparto di degenza è il capo di tutti gli infermieri della stessa Unità operativa. Deve avere competenza organizzativa e autorità professionale e disciplinare su tutto il personale infermieristico. La sua autorità gli deriva direttamente dal primario.
Agli infermieri vengono affiancati gli OSS.
Oggi si lamenta la scarsità di personale infermieristico. In realtà l’ospedale può risolvere il problema della carenza di personale assumendo le funzioni di scuola infermieristica e generare infermieri diplomati e anche OSS.
Gli infermieri che vogliono acquisire la laurea devono rivolgersi alle scuole di formazione in Scienze Infermieristiche dell’Università.
Quanto detto per i “medici in formazione per sempre” vale anche per gli infermieri. I nuovi infermieri diplomati e laureati, acquisiscono le capacità della professione pratica imitando gli infermieri professionalmente più anziani posti ad uno scalino gerarchico più elevato.
E’ necessario che anche tra di essi esista una rigorosa gerarchia in cui il capo è tenuto alla verifica costante della qualità delle prestazioni assistenziali e abbia autorità disciplinare e premiante.
Un capitale umano d’alto livello infermieristico diventa un capitale sociale che estenderà il beneficio professionale maturato anche ai malati del territorio extraospedaliero.

Conclusione.

E’ illogico che gli ospedali siano in mano a esperti di amministrazione che conoscono bene i conti ma non conoscono cosa sia la Sanità. Il pubblico che si lamenta coi suoi politici della Sanità di oggi non può perdere tempo nel piagnisteo quotidiano sui giornali ma deve fornire argomenti concreti che dimostrino lo stato di abbandono politico amministrativo persistente. Dalla nostra provincia devono nascere richieste concrete come il raddoppio dei posti letto nei nostri ospedali. Oggi gli ospedali hanno posti letto solo per “acuti”, come infartuati, emorragici o incidenti della strada. Per questo hanno pochissimi posti letto. In realtà è necessario che possano accogliere, in posti dedicati, anche i pazienti sub-acuti, per esempio: anemici, portatori di dolore cronico, sofferenti di deperimento per tumori avanzati. Pazienti, questi, che sono abbandonati alle famiglie. I casi di pazienti cronici non autosufficienti verranno seguiti dalle RSA. Abbiamo bisogno di primari da assumere, medici da mettere sotto la guida di Primari, personale medico e infermieristico sotto una chiara gerarchia. Ci servono soldi per aumentare le entrate del personale che si dedichi, senza lungaggini temporali, a diagnostica strumentale impegnativa come: le procedure radio ed ecoguidate, le colonscopie, le gastroscopie, le broncoscopie e le cistoscopie, e a far funzionare le sale operatorie, le radiologie, e tutti servizi tecnologici. Ci serve aggiornamento tecnologico come risonanza magnetica avanzata, anatomia patologica, virologia, PET e chirurgia robotica.
Vogliamo scommettere che ridurremo le fatiche compensatorie delle case di cura private e che i giovani medici faranno a gara per venire nei nostri ospedali a lavorare e imparare?

Mario Marroccu

Farsi male con le proprie mani è una cosa molto complicata. Si cerca di ottenere il massimo bene possibile per poi scoprire, dopo molti anni, che il risultato ottenuto è stato il peggioramento di ciò che si aveva. I filosofi lo chiamano “eterogenesi dei fini”. Pare che questo sia capitato alla Sanità pubblica italiana.
Sappiamo che per raggiungere il fine del benessere sanitario, dal 1948 ad oggi, sono stati fatti grandi sforzi per dare efficienza alla Sanità pubblica secondo l’articolo 32 della Costituzione e sono state varate leggi per migliorare la sua gestione che, tuttavia, una volta applicate, hanno portato ad una Sanità in cui la salute è realmente garantita solo ad una minoranza di cittadini dotati di risorse economiche proprie. I più devono iscriversi alle “liste d’attesa”.
Approvato l’articolo 32 della Costituzione per la Sanità, si dovette attendere il 1978 per avere la legge di istituzione del Servizio Sanitario Nazionale n. 833/78. Il SSN nacque per superare il precedente sistema della Casse mutue che garantiva cure solo a specifiche categorie di lavoratori e cittadini lasciando ampie disuguaglianze nell’accesso alle cure.
L’obiettivo politico del dopoguerra era teso a realizzare un sistema universalistico basato su tre principi cardine:
1 – L’Universalità: assistenza per tutti,
2 – L’Uguaglianza parità di accesso alle cure,
3 – la Globalità: non solo cure ma anche prevenzione e riabilitazione.

Nacque così la Sanità di Stato per la tutela della salute di tutti nell’interesse della collettività. Il compito venne affidato alle USL (Unità Sanitarie Locali). Esse erano strutture organizzative sub-provinciali affidate alla gestione dei politici locali (sindaci). Il programmatore e finanziatore era lo Stato.
Dopo 14 anni quella Sanità finì perché troppo costosa. Venne ritenuta responsabile dello indebitamento dello Stato a causa della spesa sanitaria lasciata in mano ai politici territoriali. Di conseguenza, appena se ne presentò l’occasione, come fu nel 1992, si fecero leggi per estrometterli.
Tale operazione di estromissione degli amministratori locali dalle USL venne adottata per fermare le ingenti spese “a piè di lista” che a fine anno obbligavano lo Stato a ripianare i debiti contratti.
Si ritenne che le spese fossero frutto di sprechi provocati dalla lottizzazione del potere locale. La crisi del 1992 fu l’occasione per giustificare la trasformazione delle USL in ASL (Aziende Sanitarie Locali).
Le nuove istituzioni sanitarie erano aziende dotate di personalità giuridica pubblica ma di autonomia imprenditoriale, gestionale e patrimoniale tipiche delle aziende private. Eliminati i politici locali si provvide a nominare, a capo delle ASL, i “Manager”, ideali esecutori delle direttive che imponevano alle ASL l’obbligo del “pareggio di bilancio“. Essi vennero dotati di strumenti di contabilità per monitorare costi ed efficacia come fanno i privati. L’obbligo del pareggio di bilancio occupò il primo posto nella lista dei compiti di mandato del Manager.
La crisi istituzionale e politica del 1992, iniziata con “Tangentopoli, e la fine della “Prima Repubblica”, aveva creato un vuoto di potere e una forte spinta al cambiamento. Lo spirito della riforma Sanitaria di Tina Anselmi, basato su Universalità, Equità e Globalità crollò davanti alla necessità di stringere i cordoni della borsa per ottenere il pareggio di bilancio. Lo Stato si liberò del problema della gestione della Sanità e lo trasferì alle Regioni presentandolo come un atto di distribuzione democratica di prerogative statali alle amministrazioni regionali. Ne conseguì che da un’unica Sanità di Stato nacquero 21 Sanità regionali. La redistribuzione della competenza in sanità dallo Stato alle regioni, e la trasformazione gestionale da pubblica a privatistico-contabile, avvenne in un decennio circa e con plurime riforme: il DPR 502/1992 di Francesco di Lorenzo, il DPR 517 /1993 di Maria Pia Garavaglia, il DPR 229/1999 di Rosy Bindi.
Queste riforme ottennero l’equilibrio di bilancio nelle ASL ma i legislatori non previdero quali sarebbero state le loro conseguenze sul funzionamento del Sistema Sanitario futuro.
Nonostante le buone intenzioni delle riforme, da allora, l’universalità, l’equità e globalità delle cure sono andate decadendo fino allo stato attuale. Ad aggravare questa carenza si è aggiunta l’assenza di una programmazione sanitaria pubblica che tenesse conto delle modifiche nella composizione demografica della cittadinanza. Oggi, infatti, da quello che chiamiamo “inverno demografico”, stanno nascendo nuove e crescenti necessità di assistenza sanitaria.

L’evoluzione della curva demografica fa ritenere che fra 15-20 anni la metà della popolazione italiana sarà formata da pensionati. Dati i pochi bambini di oggi si può prevedere che fra 20 anni avremo pochi lavoratori attivi, capaci di produrre reddito e di conferire tributi alle casse dello Stato. Ne consegue che mancheranno i soldi sia per le pensioni sia per la Sanità pubblica. Già oggi gli ultra-sessantacinquenni sono, in Italia, il 25% della popolazione; in Sardegna sono di più. I nuovi nati sono 1,2 per coppia in Italia; in Sardegna sono 0,8 per coppia. Nel Sulcis Iglesiente la percentuale di bambini è ancora più bassa. Siamo nella via dello spopolamento. Lo spopolamento nel nostro territorio è vieppiù aggravato dall’emigrazione dei nostri giovani verso le città per lavoro. Pertanto, oltre allo spopolamento, stiamo registrando l’invecchiamento relativo degli abitanti della nostra Provincia. Il dato demografico che pesa sulle province è tale da suggerire ai governanti sardi l’immediata riattivazione di tutti gli ospedali provinciali, pena la rinuncia alle cure per molti. I tanti vecchi sempre più soli, che domani saranno più numerosi, avranno bisogno di essere assistiti in ospedali vicini.
Il fenomeno demografico è stato ignorato a favore degli indirizzi programmatici finalizzati alla riduzione della spesa pubblica. Ne è derivato il disimpegno progressivo dello Stato dalla Sanità. Il primo atto del disimpegno avvenne con le tre leggi di riforma sanitaria degli anni novanta: quelli che estromisero i politici dalla gestione della Sanità pubblica. Tuttavia la norma più radicale escludente le Province e i Comuni dalla Sanità avvenne con una modifica della Costituzione. Si tratta della variazione del Titolo V, parte seconda. Per dare l’avvio a questa nuova Sanità di oggi vennero modificati soprattutto gli articoli 114 e 117. La modifica passò con la legge del 3 ottobre 2001, dopo referendum popolare.
Con quella modifica la Sanità divenne competenza delle regioni (legislazione concorrente). Allo Stato restò solo il compito di enumerare i principi generali dell’assistenza: i LEA (Livelli Essenziali di Assistenza). Nonostante l’intento democratico di coinvolgere pienamente le Regioni nella Sanità, si ebbe un effetto secondario non ricercato: la disgregazione della Sanità di Stato distribuita a 21 Regioni che dettero luogo a 21 diversi Sistemi sanitari regionali. Accadde che, nel rispetto dell’obiettivo dell’equilibrio di bilancio, le regioni ricche fecero bilanci ricchi mentre le regioni povere poterono fare bilanci modesti erogando un’assistenza sempre più inefficiente. L’aver ignorato questo aspetto condusse la Sanità nazionale in un percorso di divaricazione, tra nord e sud, della possibilità di tutti di poter accedere all’assistenza sanitaria e sociale con uguali diritti, e rese impossibile rispettare i parametri di Eguaglianza richiesti dalla Costituzione. L’opera formidabile attuata da Tina Anselmi (Equità, Universalità, Uguaglianza) venne demolita irreversibilmente con quell’atto costituzionale. Da allora sono comparse inaccettabili diseguaglianze regionali; l’equità nell’accesso all’assistenza sanitaria pubblica è ora un obiettivo irraggiungibile, ed è fonte di sofferenza per operatori e utenti. Oggi si comprende che, quando la Sanità pubblica era una competenza esclusiva dello Stato, esisteva un unico Sistema Sanitario Nazionale. In quel Sistema “unico” avevamo la garanzia di un unico gestore e di un unico Fondo per un unico Sistema Sanitario Nazionale, così come lo aveva ideato Tina Anselmi. Allo stato attuale le tre leggi di riforma degli anni novanta e le modifica del Titolo V della Costituzione hanno creato una vasta struttura sanitaria molto complessa e ormai i 21 Sistemi sanitari regionali sono entità definitive.
Dopo le riforme lo stesso assessorato regionale sardo è stato modificato: prima delle riforme era una struttura che gestiva direttamente il Sistema sanitario regionale. Dopo le riforme, a partire dal primo gennaio 2017, gli venne affiancata una nuova struttura chiamata ATS (Agenzia Tutela Salute) a cui vennero delegate molte storiche funzioni assessoriali. ATS era una espansione amministrativa della Regione concepita come una super ASL, posta a capo di tutte le ASL provinciali, con la funzione di ottimizzare i processi complessi come: gestione dell’erogazione di prestazioni sanitarie, pianificazione dei programmi di prevenzione, promozione della salute nel territorio, vigilanza sulla sicurezza alimentare, salute degli ambienti di lavoro, controllo delle strutture sanitarie, monitoraggio della spesa sanitaria, eccetera. Dopo tre anni il Governo regionale sardo ritenne più conveniente restituire alle ASL molte funzioni date ad ATS e, al suo posto, istituì ARES (acronimo di Azienda Regionale della Salute). Venne deliberata nel settembre 2020 allo scopo di gestire funzioni di supporto tecnico amministrativo per le ASL come: acquisti, personale, sanità digitale e formazione. Il suo obiettivo, che una volta era dell’assessorato, è quello di coordinare e rendere più efficienti i servizi sanitari e socio-sanitari in modo omogeneo su tutto il territorio regionale.

ARES è una struttura molto complessa che occupa, solo nel ruolo amministrativo, 415 dipendenti e svolge una funzione di intermediazione tra l’assessorato della Sanità e le ASL di tutta la Sardegna. Il complessivo apparato burocratico sanitario, che va dall’assessorato ad ARES e alle ASL, ideato per gestire la Sanità regionale è oramai definitivo, irrinunciabile e fondamentale per il funzionamento della Sanità pubblica sarda.

Nonostante questi grandi sforzi e la complessità strutturale raggiunta dal Sistema sanitario, le cose non sono migliorate. Davanti al quadro deprimente dello stato della sanità pubblica sarda, alla carenza di medici, infermieri e posti letto, alla difficoltà di essere inseriti in liste per interventi chirurgici, o per radioterapia, o per diagnostica endoscopica complessa, o per banalità come ricevere un consulto, non si può che valutare grave la crisi del sistema sanitario nostrano. Dopo tanti sforzi per escogitare nuove leggi l’assistenza sanitaria è peggiorata di anno in anno. E’ avvenuto il contrario di ciò che si voleva. L’espressione “eterogenesi dei fini” dei filosofi è un concetto che si attaglia bene al nostro caso: significa che eventi e progressi storici spesso non derivano dall’intenzione iniziale ma dall’azione complessa di diversi fattori e, spesso, gli esiti sono inaspettati e opposti a quelli voluti. Pensare, oggi, di poter risolvere il tutto con nuove riforme o nuove spese o nuova burocrazia, è probabilmente anch’esso un tentativo inane.
Partendo da queste considerazioni, probabilmente, si può tentare di intervenire su ciò che già abbiamo a disposizione, senza procedere a nuove, radicali ma inutili riforme.

Mario Marroccu 

Il più antico criterio su cui fondare la “Sanità” lo idearono, 1.000 anni avanti Cristo, i sacerdoti di Apollo in Grecia. Per essi la Sanità doveva avere una natura“magico-misterica” perché era basata sul favore degli dei. Da lì venne la Sanità dei “guaritori”. Nel V secolo avanti Cristo Ippocrate mise le basi della Sanità moderna inventando la “clinica”; deriva dal termine greco “klinos” che significa letto. Il medico doveva osservare a lungo il malato nel suo letto rilevando i segni e i sintomi al fine di identificare il quadro “clinico”, classificarlo e ritagliare su di esso la terapia. Era la Sanità laica da cui in seguito originerà la sanità moderna. Poi vennero i dettami della Sanità del primo secolo basata sul “soccorso caritatevole” descritto dalla parabola del “Buon Samaritano”. In quella parabola vennero poste la basi della complessa struttura sanitaria, che ancora oggi esiste, formata da tre elementi:

1 – il cittadino malato (l’uomo che scendeva da Gerusalemme a Gerico);

2 – la struttura dove avviene il ricovero dotata di personale che esegue le cure in cambio di una remunerazione (l’albergo e l’oste che prese in cura l’uomo aggredito);

3 – i cittadini che pagano le spese per le cure per la Sanità pubblica (il Buon Samaritano). Il criterio a cui si ispirava la parabola era il “soccorso solidale” per chiunque, ricco o povero, umile o potente, che in quel momento fosse in disgrazia. Nel IV secolo d.C. San Basilio di Cappadocia edificò la prima struttura ospedaliera della Storia: la Basiliade. Era una cittadella della carità con locande, ospizi e lebbrosario, dove i monaci raccoglievano tutti i poveri e malcapitati trovati nelle strade del paese, e qui li nutrivano, alloggiavano e curavano. Il criterio con cui venne strutturata questa Sanità era la “carità per i poveri”. Nel V-VI secolo in Italia, con Benedetto da Norcia, emerse una simile Sanità organizzata col criterio di “soccorrere i bisognosi di assistenza” identificati come “poveri cristi”. Gli “Hospitalia” benedettini erano finanziati dalle classi sociali ricche che offrivano denaro in cambio di uno sconto sui loro peccati nel momento del giudizio finale. Da allora i cosiddetti “ospedali” vennero gestiti da associazioni laiche e religiose con donazioni, oppure finanziati dalle Signorie. Nel XV secolo il cardinale Enrico Rampini trovò riprovevole la gestione falsamente disinteressata dei 16 ospedaletti, gestiti dal volontariato laico, che esistevano dentro le mura della città governata dai Visconti e dagli Sforza, e li fece chiudere tutti. Fu una bonifica radicale della millenaria “sanità laico-religiosa” finanziata dal volontariato. Al loro posto edificò il primo vero grande ospedale nato in Europa: l’“Ospedale Maggiore” di Milano. Quest’uomo mise le basi degli ospedali moderni. Per la prima volta negli ospedali di nuovo tipo entrarono a lavorarci anche i medici e le ostetriche. Cessò il tempo delle cure erogate da persone caritatevoli ed entrarono nella scena gli infermieri e i contabili stipendiati. L’Ospedale Maggiore divenne ospedale per “acuti”, cioè per quei ricoverati che nell’arco di pochi giorni guariscono o muoiono. I malati cronici, cioè quelli che non guariscono ma che vivono a lungo, vennero sistemati in un ospedale per “cronici” situato all’esterno delle mura della città. Le RSA del tempo. Da quanto premesso si può affermare che i vari sistemi sanitari, che si sono succeduti nella Storia, avevano caratteristiche fra loro molto diverse. La loro organizzazione e finalità era conseguente al periodo storico che viveva un proprio peculiare problema capace di influenzare il tipo di sanità più adatta: poteva prevalere il problema economico (carestie), oppure quello politico (guerre, dominazioni), oppure quello religioso (assistenza in base al credo), o quello sanitario (epidemie ricorrenti). Quando prevalevano le malattie epidemiche mortifere come la peste o il colera, gli ospedali erano organizzati per isolare, assistere, o per smaltire i cadaveri. Quando prevalevano le malattie croniche come la lebbra o la tubercolosi si sviluppavano i lebbrosari o i tubercolosari. Dal 1800, con la comparsa delle miniere e delle industrie metalmeccaniche ed energivore sono comparse la malattie da lavoro industriale (silicosi, e i traumi per incidenti sul lavoro). Oggi abbiamo malattie in rapporto all’inquinamento, all’alimentazione, allo stile di vita, all’età. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale vi erano tre problemi sanitari da contenere: le epidemie (tbc, colera, tifo, epatite, influenza, poliomielite, malattie esantematiche), i deperimenti organici da povertà, il contrasto alla elevata mortalità infantile. Allora gli ospedali si specializzarono nella cura delle malattie internistiche, impararono ad utilizzare i neo-arrivati antibiotici e a sviluppare la pediatria. Gli ospedali, in tutte le province, erano dotati di reparti di Ostetricia con sale parto e personale dedicato. Invece fino agli anni ‘50 del ‘900 si nasceva, drammaticamente, in casa. Dopo la Costituzione italiana del 1948 si iniziò a interpretare e ad applicare l’articolo 32. Quell’articolo fu una rivoluzione storica perché per la prima volta si riconosceva in Costituzione il diritto di tutti ad essere curati a spese dello Stato. Nacque quindi una nuova voce di spesa pubblica: quella per il finanziamento della Sanità pubblica. La spesa pubblica italiana crebbe repentinamente per garantire la Sanità per tutti “dalla culla alla tomba”. Su questo principio si fondò la legge di Riforma Sanitaria del 1978 del ministro Tina Anselmi. Essa aveva fondato il primo Sistema Sanitario Nazionale (SSN). I criteri base per costruire il SSN furono gli stessi della parabola del Buon Samaritano. Con una differenza: rispetto alla parabola, in cui il Buon samaritano per propria iniziativa cedeva gratuitamente i suoi danari per curare il ferito, nella legge costituzionale il cittadino era tenuto a pagare le tasse allo Stato per finanziare la spesa sanitaria pubblica. Tale differenza comporta che mentre la Sanità caritativa viene somministrata volontariamente in cambio di un premio nell’altra vita, il cittadino della Costituzione deve pagare doverosamente le tasse altrimenti subirà una sanzione. Il finanziamento pubblico della Sanità è un atto politico-amministrativo. La legge di Tina Anselmi fu un passo storico millenario: aveva creato il criterio della solidarietà obbligatoria a beneficio di tutti. Fu un successo: era nata la Sanità Pubblica italiana. Poi venne il criterio dell’equa distribuzione dei poteri di comando e di doveri di controllo di tutti gli attori del sistema. La gestione della Sanità pubblica provinciale venne affidata ai Sindaci dei territori che eleggevano al loro interno il Presidente della USL (Unità Sanitaria Locale). L’erogazione del servizio era affidata ai medici. L’amministrazione tecnico-finanziaria era competenza del Direttore Amministrativo. Al di sopra di essi era posto l’assessore regionale della Sanità. Al di sopra dell’assessore regionale era posto il ministro della Sanità. Al di sopra di quest’ultimo era il ministro alle Finanze-Tesoro, che controllava la spesa e riscuoteva le tasse dai cittadini. Il controllo nelle regioni spettava agli assessori. Il controllo della spesa e del funzionamento del sistema sanitario spettava ai Sindaci. Il controllo sui Sindaci spettava ai cittadini nel momento del voto. Questa catena di controllo era logica ed efficiente. Ne risultò la migliore Sanità dal 1948 al 2025. Nell’anno 1992 esplose lo scandalo politico-amministrativo più grave della Storia dal dopoguerra ad oggi: i conti pubblici erano fuori controllo in tutti in servizi dello Stato. Le indagini giudiziarie portarono alla conclusione che l’anomalia fosse conseguenza di manovre politiche pilotate dalla corruzione. Per evitare il fallimento dello Stato cadde il governo; in sua vece nacque il governo Amato destinato a riequilibrare le finanze e aggiustare la morale della politica. Il precedente apparato dei partiti politici venne smantellato assieme alle loro opere. Nell’ipotesi che tutto fosse guasto si demolirono anche strutture buone ed efficienti come il Sistema Sanitario Nazionale. Ai Sindaci venne tolto il potere di gestire la Sanità ospedaliera e territoriale. Al loro posto vennero nominati i “Manager” che ebbero il mandato di gestire le ASL (Aziende Sanitarie Locali) come se fossero aziende private. Essi lo fecero applicando i criteri di gestione e programmazione tipici delle aziende commerciali nate a fini di lucro. Al posto del criterio della sanità per tutti ad ogni costo divenne predominante un nuovo criterio: «Il risparmio sulla spesa sanitaria al fine di riequilibrare il bilancio dello Stato». La “riduzione delle spesa” fu il nuovo metodo di gestione. Tutte le leggi varate dai nuovi ministri della Sanità, da Francesco Di Lorenzo nel 1992 a Maria Pia Garavaglia, e a Rosy Bindi nel 1999 esclusero i Sindaci dalla gestione dalla Sanità pubblica. Le leggi di risparmio si indurirono durante l’ultimo governo Berlusconi che era finito nella gravissima crisi del 2008. L’Italia era sull’orlo del fallimento in seguito alla grande recessione mondiale del 2006, estesa fino al 2013. Fallimento precipitato da una crisi della Borsa americana con la debacle delle banche Goldman Sachs, Lehman Brothers, Merryl Linch, eccetera. Il criterio del risparmio sulla gestione della cosa pubblica si irrigidì ulteriormente con i Governi Monti del 2011 e di Letta nel 2013 e vi furono conseguenze a danno della Sanità. Ne conseguirono:

– la riduzione dei posti letto negli ospedali,

– accorpamento di reparti ospedalieri,

– accorpamento di ospedali,

– chiusura di reparti specialistici e di interi ospedali,

– mancata sostituzione del personale andato in pensione,

– blocco di nuove assunzioni.

Tali atti vennero affidati ai nuovi Direttori Generali delle ASL (Aziende Sanitarie Locali) che, resi autonomi dai sindaci, al fine di risparmiare portarono alla demolizione sistematica di quella Sanità ospedaliera e territoriale costruita dalla legge 833/78 di Tina Anselmi. Questa ricostruzione storica, per sommi capi, della Sanità negli ultimi 3000 anni serve a dimostrare che non esiste una sola forma di sanità che rimane uguale a se stessa per sempre. Si dimostra invece che esistono tante forme di Sanità e ognuna viene concepita secondo criteri di adeguatezza al bisogno del tempo in cui si vive. Oggi è necessario individuare, e concordare, quali siano i nuovi bisogni sociali che saranno alla base dei nuovi criteri intorno a cui si dovrà costruire la nuova Sanità che ci serve. In mancanza di questa analisi propedeutica non si può procedere a progettare la nuova Sanità. Finora le dispute quotidiane che si leggono nei giornali ci forniscono ottimi articoli, molto autorevoli, concentrati sulle critiche al presente ma privi di soluzioni concrete per il futuro. Adesso per trovare concretezza tutti sono chiamati a «mettersi gli scarponi e scendere nel terreno» secondo il linguaggio militare. Oggi il mondo è radicalmente cambiato. I criteri per produrre e distribuire Sanità non sono più “misterici” o “ caritativi” o puramente “costituzionali”. Oggi, dando uno sguardo, anche superficiale, nel mondo occidentale, si scopre che c’è bisogno di una Sanità pubblica basata su un nuovo criterio: il criterio demografico. Lo attestano sia l’aspetto che ha la nuova popolazione e le esplicite richieste che emergono dai convegni in cui si chiedono garanzie per una “longevità serena”, e un “nuovo patto generazionale” che liberi i pochi giovani dal peso di dover garantire le cure a un numero crescente di vecchi.

Mario Marroccu

Alcuni giorni fa è stato ricordato l’anniversario di uno degli eventi più incisivi della Storia: la presa della Bastiglia del 14 luglio 1789, simbolo dell’inizio della Rivoluzione Francese. Un mese prima si era riunita l’Assemblea Nazionale Francese per discutere sul come si sarebbe dovuto votare sugli argomenti in discussione: per “Stato” o per “Testa?”. Bisogna sapere che l’Assemblea Nazionale era formata da 1.100 “teste”, o elettori, divisi in tre “stati”: il “Primo Stato” era il Clero, il “Secondo Stato” era la Nobiltà, il “Terzo Stato” era la Borghesia. Fino ad allora avevano votato “per Stato”, pertanto, il Clero e la Nobiltà alleati vincevano sempre sul “Terzo Stato”. Quell’usanza acquisita fin dal 1600 aveva comportato un inevitabile vantaggio per il “primo” e il “Secondo Stato”. Quel giorno, però, i rappresentanti del “Terzo Stato” pretesero che si votasse per “Testa”. La proposta non venne accettata e il “Terzo Stato” fece esplodere la Rivoluzione; il sangue corse fino al 1794. Furono tante le teste di conservatori da tagliare che si dovette inventare una macchina adatta: la ghigliottina.
Da allora si usano i termini di “Destra” e “Sinistra” per indicare la parte politica “conservatrice” e la parte “riformista”. Quei termini si riferivano proprio alla rappresentazione spaziale dei due schieramenti di maggioranza e opposizione nell’Assemblea Nazionale pre-rivoluzionaria. A destra, nel salone dell’emiciclo sedevano il Clero e i Nobili, a sinistra sedevano i Borghesi. Dato che il voto “per stato” faceva vincere sempre la coalizione di clero e nobili, questi avevano acquisito enormi privilegi come l’esenzione assoluta dal pagare le tasse al Re di Francia. Ciò aveva consentito loro di detenere enormi proprietà territoriali e immobiliari. Tutte le spese di Stato, come i vitalizi alla corona e alla nobiltà, gli stipendi ai militari, le guerre, la spesa pubblica per il decoro urbano e la manutenzione di tutte le proprietà statali, erano a carico del “Terzo Stato”.
Da allora il termine “destra” indica la parte politica che vuole conservare i privilegi acquisiti (da cui “conservazione”), evitando riforme che avrebbero potuto modificare l’ordine sociale esistente. Invece, il termine “sinistra” indica la parte politica che vuole una riforma dell’organizzazione sociale che garantisca l’“uguaglianza” di tutti i cittadini davanti allo Stato, l’abolizione dei privilegi e dei doveri che erano opposti e distinti nella società dei tre stati. Successivamente, in questi due secoli e mezzo di distanza dalla Rivoluzione Francese, gli scopi di “destra” e “sinistra” sono cambiati: è avvenuto che obiettivi di sinistra siano diventati di destra, e alcuni di destra siano diventati di sinistra. Per esempio, l’obiettivo di ottenere il “libero mercato” apparteneva alla sinistra rivoluzionaria e oggi è appannaggio della destra. La sinistra borghese di allora fu la genitrice di quel “capitalismo” che oggi è invece diventato un principio economico della destra.
Nei tempi moderni i criteri che differenziavano nettamente destra e sinistra sono diventati più sfumati e talvolta si sono sovrapposti tra le due parti. Al tempo della Rivoluzione la Sinistra rappresentava solo la Borghesia e nessuno aveva mai pensato di dare una rappresentanza ai contadini e agli operai.
Successivamente, per rappresentare questi ultimi che costituivano la maggioranza dei francesi, si formò il ”Quarto Stato”. Con quel completamento della rappresentanza popolare venne realizzata perfettamente la “democrazia”, ovverossia il “governo del popolo” (da “Demos” = popolo; e “Kratos” = potere). Il concetto di “governo del popolo” o “potere al popolo” iniziò a prendere piede negli anni successivi al 1789 anche nella politica degli altri stati del mondo occidentale.
La “democrazia” emerse francamente in Italia con le elezioni del 18 aprile 1948. In quella data, finita la Monarchia, iniziò la Repubblica. Tutti gli italiani, senza distinzione, vennero chiamati a votare per eleggere i membri della Camera dei deputati e del Senato. Questo atto segnò il momento storico di inizio della “democrazia rappresentativa”. Votarono il 92% degli italiani. Fu quello il momento di reale conferimento al popolo del “potere” di governare e “controllare i politici eletti” attraverso elezioni periodiche. I partiti più votati furono la Democrazia cristiana, il partito Comunista italiano, il partito Socialista italiano. Grosso modo corrispondevano agli stessi partiti popolari e borghesi che nell’Assembla Nazionale e nell’Assemblea Costituente della Rivoluzione francese erano i rappresentati dal terzo e quarto stato. Nei decenni successivi al 1948 le differenze ideologiche fra quei partiti si attenuarono moltissimo fino, talvolta, a sovrapporsi.
La massima espressione democratica in Italia si concretizzò con la Riforma sanitaria di Tina Anselmi nel 1978 (due secoli dopo la Rivoluzione Francese) e nacquero le USL (Unità Sanitarie Locali). Tutte le Regioni e Province, vennero suddivise in USL. Ciò venne fatto ad imitazione della grande riforma sanitaria nazionale organizzata dal governo rivoluzionario francese. Una delle menti illuminate rivoluzionarie che avevano attuato la riforma sanitaria francese fu Jean-Paul Marat, triumviro con Georges Jacques Danton e Maximilien Robespierre. Costui era figlio di un sardo cagliaritano, di cognome “Marras”, che pronunciato in francese diventa “Marà”. Successivamente con l’aggiunta di una “t” divenne “Marat”.
Per seguire il piano di Riforma preparato da Marat e soci, tutto il territorio francese venne suddiviso in distretti sanitari e ad ogni distretto furono attribuiti ospedali e medici territoriali. Il numero dei medici era in rapporto alla popolazione (da 7 a 12 ogni 10.000 abitanti). Gli ospedali all’inizio vennero progettati per avere 1.200 posti letto, poi si pensò che fosse meglio decentrare i grandi ospedali, suddividendoli in tanti piccoli ospedali di 150-200 posti letto. Quegli ospedali furono i primi, nella storia della medicina, a far collaborare i medici internisti con i chirurghi, cosicché iniziarono a esistere reparti di medicina e di chirurgia affiancati che collaboravano. Fino ad allora, in nessuna parte del mondo occidentale, fra di essi era mai esistita alcuna affinità. Fu l’evento che fece evolvere la medicina ospedaliera, e che venne copiato poi da tutta Europa. I padri di quella riforma furono grandi personaggi della medicina e chirurgia, come Cabanìs, Desault, Guillotin, Corvisart, Chaussier, Fourcroy e Deschamps. Tutti medici rivoluzionari.
La grande novità rivoluzionaria che essi introdussero fu l’assistenza sanitaria di Stato gratuita per tutti, “dalla culla alla tomba”. Dietro quelle innovazioni c’erano i valori maturati nel “secolo dei Lumi” francese con Voltaire, Rousseau e Montesquieu. Senza il “Contratto Sociale” di Jean-Jacques Rousseau nessuno al mondo avrebbe mai capito perché solo in regime di Democrazia viene riconosciuta la sovranità popolare, il decentramento del governo, la suddivisione dei poteri e la partecipazione diretta dei cittadini al governo della Sanità pubblica.
Lo slogan dei medici illuministi  “la sanità per tutti dalla culla alla tomba” fu anche lo slogan che risuonò in tutti gli anni 1980 in Italia quando si parlò della Sanità italiana come della Sanità più bella del mondo. Nel 1978, su quella basi storiche, il ministro Tina Anselmi introdusse la sua Riforma sanitaria.
Tutto questo vien raccontato per rimarcare la leggerezza con cui, l’enorme valore storico e morale contenuto nella Riforma sanitaria del 1978, venne soppresso dalla modestissima Riforma sanitaria di Francesco di Lorenzo. Riforma nata nel 1992, sulle ceneri della disfatta morale dell’Italia di quell’anno.
La gestione politica delle USL nate dalla Riforma Anselmi del 1978 venne consegnata nelle mani dei rappresentanti popolari del territorio di appartenenza (“democrazia diretta” alla Rousseau); mentre la sola la gestione amministrativa venne affidata ai tecnici amministrativi. Ciò non si ripetè con Francesco Di Lorenzo.
Il nostro territorio del Sulcis Iglesiente, dal 1980 al 1992, con questa perfetta collaborazione tra politici eletti e corpo amministrativo, venne distinto nelle due USL: USL 16 (Iglesias) e USL 17 (Carbonia).
A capo della USL 17 venne posto un cittadino di Carbonia: Antonio Zidda. Suo vice fu un cittadino di Sant’Antioco: Andrea Siddi. Il consiglio d’Amministrazione era costituito da rappresentanti di tutti i Comuni del Sulcis. Sotto tutte le amministrazioni che seguirono gli ospedali Sirai, CTO e Santa Barbara crebbero in dotazione di personale e tecnologia. Non esisteva il problema delle liste d’attesa e dei posti letto. Chi ricorda il Sirai ricorderà anche che il dottor Enrico Pasqui, Direttore sanitario, aveva creato con propria iniziativa un reparto di 40 posti letto chiamato “Medicina seconda”, situato in un padiglione separato dal corpo centrale. In esso trovavano ricovero i pazienti che, dimessi ma ancora da riabilitare, non potevano tornare in famiglia. Il dottor Enrico Pasqui aveva inventato una “RSA” anzitempo. Essa aveva il vantaggio di essere circondata da tutti i servizi: il personale sanitario, la mensa, la farmacia, il laboratorio analisi e gli specialisti medici. Le famiglie in difficoltà ebbero così un grande aiuto senza oneri aggiuntivi. Furono gli anni migliori della Sanità pubblica del Sulcis Iglesiente. Poi arrivò l’anno della svolta: il 1992.
Fu l’anno di “ Tangentopoli”. Gli inquirenti avevano scoperto a Milano un giro d’affari illegale che coinvolgeva anche uomini politici. Si trattava di figure di secondo piano di diversi partiti della maggioranza di Governo. Lo scandalo si estese a tutta l’Italia e provocò la fine di un’epoca iniziata con la fine della Seconda Guerra Mondiale e l’inizio della Repubblica. In quello stesso anno iniziò la reazione contro i partiti e, ovunque fossero presenti amministratori eletti dalla politica, si supponeva l’esistenza di malaffare. In breve tempo i politici vennero allontanati da tutte le amministrazioni dello Stato, fra cui le USL. Alla fine del 1992 il ministro Francesco Di Lorenzo abolì la riforma sanitaria di Tina Anselmi e ideò una sua riforma tesa a ottenere un unico fine: eliminare i politici dalle amministrazioni delle USL. Per questo trasformò le USL in ASL (Aziende Sanitarie Locali) in cui la struttura burocratica dell’amministrazione, privata della presenza dei politici, assunse tutti i poteri. I sindaci vennero di fatto espulsi dal controllo della Sanità. Il comando dell’Azienda assunse una struttura verticistica e venne consegnato nelle mani dei “Manager”: figure apicali, con pieni poteri, create allo scopo di mantenere l’equilibrio di bilancio e fare profitto aziendale. Dopo il ministro Di Lorenzo divennero ministri alla Sanità Maria Pia Garavaglia e poi Rosy Bindi. Costei con la legge 229/99 potenziò ulteriormente la “mission” privatistica delle ASL attraverso l’articolo 3 che recita: «Le Unità Sanitarie Locali si costituiscono in azienda con personalità giuridica pubblica e autonomia imprenditoriale; sono disciplinate con Atto aziendale di diritto privato». A dirigere le Aziende Sanitarie Pubbliche vennero incaricati i “manager”. Con questo atto i sindaci vennero definitivamente esclusi dal controllo della Sanità dei loro territori. Era avvenuto un fatto anti-storico: i politici di Sinistra avevano posto ai vertici della Sanità Pubblica una struttura amministrativa “non” elettiva. Così era avvenuto che ministri di partiti di centrosinistra avevano adottato una legge che, ai tempi dell’Assemblea Nazionale del 1789, sarebbe stata considerata di destra, cioè partorita dal “Primo” e “Secondo Stato”. Jean-Jacques Rousseau avrebbe condannato questa legge come lesiva del “diritto naturale” dei popoli alla “democrazia diretta” e avrebbe condannato l’accentramento dei poteri in poche mani “non elettive”, non controllabili dai cittadini.
Nella stessa legge 229/99 comparvero provvedimenti che consentirono, all’interno della Sanità pubblica, la coesistenza della “sanità a pagamento “ contro il principio rivoluzionario della sanità gratuita per tutti “dalla culla alla tomba”. Rosy Bindi aveva introdotto i ticket sui farmaci e le visite. La Sanità a pagamento si aggravò nel decennio successivo quando i Governi, di tutte le parti politiche, allo scopo di risparmiare, ridussero il personale e i posti letto negli ospedali pubblici. Le carenze assistenziali prodotte da questo provvedimento indussero forzosamente la popolazione a cercare le cure presso strutture sanitarie private. Era avvenuto un ribaltamento dei principi di solidarietà ispiratori della Sanità pubblica.
Con l’accettazione, da parte della Sinistra, di metodi di gestione economico-sociale di Destra, stava avvenendo uno scambio di ruoli tipici delle destra storica con quelli tipici della sinistra storica. Ancora oggi i manager continuano a mantenere chiusi ospedali e reparti specialistici. Del resto, i manager hanno un mandato con un obiettivo che prevale su tutti: quello di proteggere il bilancio aziendale, riducendo la spesa e creando profitto. La funzione di ascoltare l’opinione dei cittadini e curarne gli interessi appartiene alla politica, ma la politica territoriale è stata disarmata dai tempi di Francesco Di Lorenzo ad oggi. Solo qualche raro sindaco agguerrito riesce a proteggere un po’ l’ospedale della propria città. Questa inversione-scambio dei valori storici e del concetto di “democrazia” era iniziato nel 1992 col governo Amato. In sostanza, costui che in altri tempi, per suo orientamento politico, sarebbe stato un rappresentante del Terzo e del Quarto Stato (operai, contadini, borghesia), introdusse tecniche di accentramento di potere e di eliminazione di “democrazia diretta”, esattamente come avrebbero fatto il “Primo” e il “Secondo Stato” pre-rivoluzionario francese. Tale comportamento antistorico è continuato con tutti i Governi che si sono succeduti. Tutti hanno escluso il principio di Jean-Jacques Rousseau della “democrazia diretta” nell’amministrazione della Sanità pubblica. La soppressione della rappresentanza democratica territoriale per il controllo delle ASL è persistente e oggi è evidente che quel metodo ha fallito.

Mario Marroccu

Le assicurazioni americane stanno piazzando nel mercato un nuovo prodotto di successo: una copertura assicurativa per proteggersi dal “rischio di vivere a lungo” Non si era mai sentita nella Storia una frase del genere: è un’“americanata”? Purtroppo, no. In realtà i promotori di quella iniziativa mettono in guardia gli anziani che stanno troppo bene, e che hanno prospettiva di raggiungere età più avanzate, sul pericolo che la somma accantonata per la loro assicurazione sanitaria sia appena sufficiente per coprirli fini all’età di 75-80 anni. Se dovessero vivere più a lungo non ci saranno più i fondi per essere assicurati in caso di malattia o l’invalidità. L’attuale ministro delle Finanze ne ha appena accennato ma mi pare che non sia stato ben compreso. Gli Americani invece hanno preso molto sul serio la proposta di acquisto di quel pacchetto assicurativo. Quelli che possono pagarlo lo stanno comprando. è molto inquietante ma, intendiamoci, tra Italia e America il Sistema Sanitario e sociale (Welfare) è diversissimo. Noi abbiamo la garanzia che lo Stato ci salverà e ci assisterà fino all’ultimo giorno di vita. Questa sicurezza sociale fu una conquista della legge 833/78 di Tina Anselmi. Purtroppo, oggi la sicurezza che avremo l’assistenza socio-sanitaria per tutti e per sempre è meno “granitica”; si può sgretolare da un momento all’altro.

Molto dipende dalla rivoluzione che si è abbattuta sul libero interscambio del mercato internazionale a causa dei dazi, delle guerre, delle sanzioni e della necessità di spostare al “riarmo” i fondi destinati al Wellfare. Tutto questo è aggravato da un altro evento storico che accade per la prima volta : l’andamento della “curva” demografica è cambiata a causa del forte aumento degli anziani e della forte diminuzione delle nascite. In cosa consiste? È molto semplice. la “curva” statistica della popolazione era fatta come un grande “triangolo”: il lato largo in basso del triangolo rappresentava il numero di giovani (da “zero” a “18 anni”); il vertice stretto del triangolo rappresentava il numero degli anziani non più attivi (dai 60 agli 80 anni circa). La parte del triangolo compresa tra la “base” e il “vertice “rappresentava il numero delle persone di età adulta ancora in età lavorativa tra i 18 e i 60 anni. Questa parte intermedia del triangolo era la più importante fonte di finanziamento delle spese dello Stato: si tratta, infatti, della parte della popolazione che lavora e produce reddito, cioè ricchezza e tasse da versare alle casse gestite dal Ministro delle Finanze. I fondi raccolti con le tasse servono allo Stato per mandare a scuola, assistere e curare i giovani dai “zero anni” ai “18”. Servono poi a dare l’assistenza sanitaria a “tutti” e per dare la pensione, sanità ed assistenza sociale agli anziani usciti dalla catena del lavoro produttivo. In America il sistema di finanziamento della assistenza sanitaria per le classi più agiate è rappresentato da un’assicurazione “personale”. Quell’assicurazione ha il difetto che quando i soldi versati sono stati esauriti cessa l’assistenza. I poveri hanno “Medicaid”, che è un’assistenza statale piuttosto modesta. In Italia il sistema di assistenza sanitaria invece è “solidale” ed è totale: i soldi raccolti con le tasse di chi produce reddito vanno a formare un’unica cassa che finanzia la Sanità Universale. Pertanto, è fondamentale che esista un alto numero di soggetti produttori di reddito e di tasse. Questi produttori di ricchezza e di tasse sono compresi fra i 18 e i 60 anni. Nel caso in cui gli appartenenti a queste classi di età diminuissero il Fondo Sanitario diminuirebbe. In tal caso, dato il forte numero di anziani usciti dal mondo del lavoro, e che necessitano di cure, i soldi non sarebbero più sufficienti per curarli. Potrebbe accadere che perdano il diritto ad essere curati come è avvenuto fino ad oggi.

Il ministro alle Finanze pochi giorni fa ci ha comunicato che che la “curva demografica” italiana è cambiata: adesso la base del “triangolo” demografico si è molto ristretta. Ciò significa che abbiamo meno giovani da avviare al mondo del lavoro e quindi avremo meno redditi da tassare. Per di più ci si è accorti che la parte intermedia della curva demografica (gli adulti) si è ristretta perché è fortemente diminuito il numero di coloro che lavorano producendo reddito. Oggi l’apporto di danaro verso il Ministero delle Finanze è diminuito e lo Stato comincia ad arrancare per garantire tutti i servizi sociali: dalla scuola alla giustizia, alla Sanità.

Il Sistema Pensionistico italiano si basa sul principio del sistema pensionistico “a ripartizione”. Si tratta di un modello in cui le pensioni vengono pagate a pensionati con i contributi versati all’INPS dai lavoratori attivi, creando un legame diretto tra le generazioni. Pertanto, le generazioni più giovani sostengono le generazioni più anziane sia per pagare le pensioni che vengono erogate ogni mese, sia per le spese sanitarie e assistenziali. Intendiamoci: l’anziano ha già pagato versando tasse e contributi tutto il suo periodo lavorativo; in cambio ha avuto la promessa che tutto il versato gli verrà restituito quando sarà in pensione, pertanto non è in debito con nessuno. Questo sistema “a ripartizione” è geniale ed è stato inventato quando esisteva un equilibrio numerico costante nella composizione tra le generazioni. Esiste un compenso tra i pensionati dato dal fatto che un certo numero di pensionati muoiono anticipatamente senza avere la fortuna di invecchiare. In tal caso i fondi versati e non goduti vanno a coloro che vivono più a lungo. Qui sta il punto dove il meccanismo si inceppa: mentre prima l’aspettativa di vita si fermava tra i 65 e 75 anni, oggi l’aspettativa di vita va dagli 83 agli 85 anni. Ne consegue che si sta vivendo in media 12 anni in più dei nostri predecessori vissuti nella prima metà del 1900. Pertanto, ne consegue che è possibile che coloro che oggi vivono molto più a lungo consumino precocemente i fondi lasciati a disposizione da chi ha versato tutto ma è deceduto in anticipo.

A questo si aggiungono 4 aggravanti.

Prima: è calcolato che l’85% dei fondi che ognuno di noi ha versato in tutta la sua vita lavorativa vengano consumati per spese di assistenza sanitaria nell’ultimo anno di vita.

Seconda: il numero di italiani in età lavorativa, che versano parte del loro reddito al Ministero delle Finanze, sta diminuendo velocemente.

Terza: dei 16 milioni di italiani che percepiscono la pensione, 8 milioni hanno versato in tasse una parte del loro reddito. Gli altri 8 milioni no (vedove, inabili al lavoro, redditi troppo bassi a livello di povertà).

Quarta: oggi in Italia stanno nascendo pochissimi bambini. Ne consegue che fra 18 anni ci saranno pochissimi cittadini in età di lavoro capaci di produrre reddito e tasse. In sostanza fra 18 anni non ci saranno i fondi per sostenere il pagamento delle pensioni e la spesa sanitaria e sociale.

Gli americani statunitensi, che hanno un pessimo sistema sanitario pubblico, sono già arrivati al problema della mancanza di fondi per garantire una serena vecchiaia agli anziani. La soluzione adottata per ora è l’invito ad acquistare un pacchetto assicurativo sanitario che protegga dal rischio di vivere troppo a lungo (“long life risk”). è evidente che tale soluzione vale solo per chi ha una forte disponibilità di danaro.

Anche da noi in Italia fioriranno proposte assicurative per «chi rischia di vivere troppo a lungo». Basare la nostra serenità sanitaria sulle Compagnie assicurative private non può essere considerata alla stregua di una soluzione sociale.

Guardando al dato demografico italiano emerge una conclusione inevitabile: bisogna agire subito per salvare questa e la prossima generazione dal fallimento del Sistema Sanitario e del Welfare. Il dato più vistoso fornito recentemente dall’INPS riguarda il capovolgimento del rapporto numerico fra giovani e anziani. In esso è evidente il crollo del numero di italiani in età lavorativa che producono reddito e gettito fiscale. Gettito che serve ai pensionati.

Orbene, il numero di italiani in età di lavoro redditizio, oggi è diminuito ma ancora sopportabile; purtroppo però è destinato a diminuire ulteriormente perché nascono sempre meno bambini, che sono i futuri lavoratori e contribuenti.

Il dato che illumina sul cosa fare sta nello studio analitico della demografia femminile. La componente femminile in età feconda si rivela in assoluto la componente più preziosa di una Società che vuole continuare ad esistere.

Nota bene: la popolazione femminile deve essere valutata con parametri assolutamente diversi da quelli usati per i maschi. I demografi ne classificano le coorti su un dato: la fecondità. Vengono considerate feconde le femmine tra i 15 e 49 anni. Sono considerate “non feconde” quelle in età precedenti i 15 anni e le età successive ai 49 anni. Questa classe della fecondità viene, a sua volta, distinta in una classe di “fecondità crescente” dai 15 ai 32 anni, e in una classe di “fecondità decrescente” dai 32 ai 49 anni.

– Secondo l’ISTAT le donne feconde in Italia 25 anni fa erano 13 milioni e 700.

– Invece le donne in età feconda dal 2024 (dati ISTAT) sono 11 milioni. Significa che in 25 anni abbiamo perduto in Italia ben “2 milioni e 700mila” donne feconde, cioè circa un quinto. Fra altri 25 anni (nel 2050) il numero delle donne feconde calerà di molti milioni ancora e sarà talmente basso da non garantire più la sopravvivenza della nazione italiana.

Il calo della natalità è dovuto a due fattori:

– la diminuzione dei nati per donna fertile;

– la diminuzione crescente del numero assoluto di donne fertili.

Questi due fenomeni vanno arrestati. Solo lo Stato può farlo. Il crollo progressivo della natalità per carenza di donne feconde iniziò nel 1992. Da allora il peggioramento non si è più arrestato. Dai nuovi nati di questi anni proverrà un numero ancora inferiore di femmine feconde e un ulteriore crollo della natalità. Ciò invertirà ulteriormente il rapporto fra giovani coorti attive nel lavoro e anziani non più produttivi.

I demografi sostengono che la natalità può essere considerata in buon equilibrio quando il rapporto di nuovi nati per donna (o coppia) fertile è pari a 2,1 per donna feconda. Questo felice rapporto numerico è stato mantenuto solo dai Paesi più evoluti del Nord-Europa e la Francia. Essi hanno attuato politiche di protezione della componente femminile feconda, sia assegnando adeguati sussidi di maternità, si garantendo asili nido e soprattutto la possibilità di continuare gli studi a spese dello Stato ed ottenere i diplomi e i lavori desiderati. Tutto ciò senza gravare sulle finanze familiari. Purtroppo, a causa del crollo della coorte di donne feconde oggi, in Italia, abbiamo una natalità di 1,2 bambini nati per donna. Questo valore dice che la popolazione Italiana sta viaggiando verso la sua estinzione.

In Sardegna, e in particolare nel Sulcis Iglesiente, il rapporto è crollato da 2,1 bambini per donna a 0,8 bambini per donna fertile. Significa che stiamo scomparendo, ma soprattutto significa che siamo già in una situazione di criticità di bilancio pensionistico a causa dell’assenza di una prossima generazione di giovani che dovranno sostituire coloro che oggi sono al lavoro. Mancheranno nuovi soggetti capaci di produrre un reddito per se stessi e per il finanziamento dello Stato sociale (pensioni e Sanità). A questo punto è chiaro il perché i cittadini americani stiano stipulando le convenzioni di assicurazione per il rischio che corrono i pensionati d’essere abbandonati a se stessi nel caso vivano più a lungo.

 

Questo è il dato concreto di cui non abbiamo mai parlato finché non lo ha pubblicamente dichiarato il Governo Italiano attraverso il Ministro delle Finanze.

A questo punto, il problema delle donne feconde che non danno alla luce nuovi bambini italiani è molto più grave persino delle guerre nel mondo. Abbiamo necessità di governanti che si mettano a studiare per trovare il modo corretto di restituire, alla parte femminile della società, la tranquillità e la sicurezza sociale per poter mettere al mondo i figli. C’è poco da fare: le assicurazioni non ci salveranno; ci salveranno le donne che sono in assoluto la parte più pregiata della società.

Mario Marroccu

La costruzione della “ Torre di Babele” venne fatta fallire con un metodo semplice: la confusione dalle lingue. Nessuno capiva più l’altro e, mancando la “comunicazione” tra i costruttori, l’edificazione fallì. Lo stesso metodo confusionario venne applicato contro la legge 833/78, confondendo le idee degli italiani tramite una comunicazione in cui vennero adottate terminologie ingannevoli che gettarono il marasma nella mischia del politica del tempo. La storia sanitaria che ne seguì andò avanti a colpi di sorprese, e non si capì mai chi ne fosse l’autore.
All’inizio (1978) il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) era costituito dalle USL (Unità Sanitarie Locali); nel 1992 vennero trasformate in ASL (Aziende Sanitarie Locali). Sembrava solo un cambio di nome, da “Unità” ad “Azienda”, invece stava crollando il mondo. In Sardegna, nel 2017 le ASL vennero unificate in un’altra sigla ancora: ASUR (Azienda Sanitaria Unica Regionale). Con questo atto vennero fatte sparire le ASL che conoscevamo, e comparve una nuova sigla: ASSL (Aree Socio Sanitarie Locali); queste nuove strutture organizzative non erano più “aziende”: di fatto, con la perdita di connotazione di “azienda” le ASL persero la loro autonomia programmatoria e gestionale. L’autonomia nella gestione degli acquisti e delle assunzioni finì nelle mani di una nuova unica entità: ASUR (Azienda Sanitaria Unica Regionale). ASUR , a sua volta, istituì un’altra azienda autonoma chiamata ARES (Azienda Regionale Sanità). In questo modo la parte politica regionale, delegando i suoi poteri ad una nuova struttura di tipo privatistico, ma di natura giuridica pubblica, rinunciò a gestire direttamente la Sanità Regionale. Ecco perché, da allora, i concorsi e le assunzioni furono “regionali”, con un contratto di dipendenza da ARES, e i neo-assunti potevano scegliersi la sede ospedaliera che preferivano, cioè quella più prestigiosa. Ne conseguì che il nuovo personale sanitario specialistico si accentrò negli ospedali di Cagliari e Sassari, mentre si impoverivano gli ospedali delle Province. Quanti si resero conto di cosa stesse succedendo in quel periodo? Quasi nessuno. Una cosa è certa: la distruzione della catena di comando della Sanità Ospedaliera delle USL precedenti ebbe la conseguenza di distruggere anche del capitale medico specialistico provinciale. Da allora non si capisce bene dove sia la testa e il corpo degli ospedali. Sono come navi alla deriva a cui manca sia il personale per governare i motori sia il Comandante e gli Ufficiali. Chi si fiderebbe a salirci?
Questa decapitazione della “catena di comando” delle strutture sanitarie delle province iniziò con l’opera di moralizzazione avviata nel 1992, l’anno dello scandalo della corruzione politica. Il 30 dicembre di quell’anno il ministro alla Sanità Francesco di Lorenzo eliminò la figura del “Presidente” delle USL e, con lui, il suo Consiglio di Amministrazione per il semplice fatto che allora i “Presidenti” USL erano Sindaci o Consiglieri comunali. In quel momento storico, i politici avevano lo stigma della corruzione e della condanna dell’opinione pubblica. Con lo stesso metodo vennero distrutte le “Partecipazioni statali”, considerate corrotte, e la conseguenza fu che ancora oggi, come si vede nei tristissimi fatti del polo industriale di Portovesme, stiamo pagando quella politica autolesionistica. In quell’opera moralizzatrice si dettarono le regole sul controllo delle spese dei candidati in campagna elettorale, con strascichi fino ad oggi. Per paura dei Sindaci, che erano di estrazione politica-partitica, e quindi potenzialmente corrotti, ma che in realtà nella gestione della Sanità erano stati eccellenti, essi vennero estromessi dal Sistema sanitario nazionale e al loro posto, e dei loro consiglieri, venne creata la figura del “Manager” derivandolo dalle aziende private. Si pensava che il “privato” fosse eticamente più sano del pubblico e per questo le USL (Unità Sanitarie Locali) divennero “Aziende Sanitarie Locali” (ASL).

Il Manager privato ha, per definizione, ampie libertà di “scelta” nella gestione dell’azienda; il suo potere nelle scelte decisionali è assoluto, ed agisce nell’interesse economico dell’azienda (lucro). I Manager vennero presentati ai cittadini come garanzia dell’indipendenza dalla politica. Questo fu l’unico motivo che ne giustificò l’esistenza. Dopo 32 anni di gestione manageriale e, dopo averne verificato il fallimento, è più che accertato che i Manager, inventati in un momento di grande confusione, in realtà non sono per nulla indipendenti dalla politica. Sono sempre legati al carro di un potente politico o di un partito. Allora, quale differenza c’è tra i Presidenti delle USL che governarono la Sanità tra il 1982 e il 1992, dai Manager che la governano dal 1992 ai giorni nostri? La differenza sta nel fatto che i Presidenti erano Sindaci del territorio o loro delegati e i cittadini avevano il vantaggio che essi erano in contatto continuo con i Consigli dei vari Comuni attraverso una cinghia di trasmissione rappresentata dal Consiglio di Amministrazione della ASL, che era formato da vari consiglieri comunali della zona; invece i Manager, scelti rigorosamente da un “elenco di idonei”, di fatto sono sempre provenienti da nomine politiche, ma non dipendono dalla politica degli enti locali. Costoro, al contrario dei Sindaci, sono figure estranee ai Comuni e, pertanto, inavvicinabili, impermeabili alle loro istanze e  come Achille, invulnerabili alle minacce di non essere votati alle future elezioni. Con questo metodo i cittadini, sottoposti alla gestione del Manager, non vincitore di tornate elettorali, non possono né controllare, né aggiustare, e neppure influire sulle scelte della politica sanitaria.
Oggi il problema immediato è: come fare a ricostituire le “catene di comando” degli apparati sanitari ridando il potere di scelta ai cittadini a nominare i propri rappresentanti deputati al controllo del funzionamento dei servizi pubblici? Tale potere-diritto dei cittadini venne sancito dallo articolo 114 della Costituzione. In quell’articolo gli enti territoriali autonomi sono collocati a fianco dello Stato come elementi costitutivi della Repubblica, secondo il principio democratico della sovranità popolare (la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato).
Quando Tina Anselmi presentò la sua bozza della legge di Riforma Sanitaria si premurò di rispettare quell’articolo e dichiarò che le USL (Unità sanitarie Locali) erano “…articolazioni dello Stato…” esattamente come lo sono i Comuni, le Province e le Regioni. Per questo motivo mise le USL sotto il diretto controllo politico dei Comuni. Quando il 30 dicembre 1992 venne fatta la riforma sanitaria n. 502/92 di Di Lorenzo, che aboliva la precedente riforma 833/78, le USL vennero degradate dal ruolo di “articolazioni dello Stato” a quello di “Aziende”. Sembrava un semplice cambiamento della terminologia, invece con quel nuovo termine si toglieva la Sanità dal controllo popolare per metterla sotto il controllo dei Manager. Quella dei Manager fu da subito una gestione fallimentare a causa della contraddizione tra la “mission” dell’azienda, che deve produrre “lucro”, e la “mission” di un servizio pubblico che invece deve produrre “profitto sociale solidale”, così come avviene per l’Istruzione e la Difesa; per tale motivo, non deve produrre “incasso” ma solo spese a carico della comunità solidale.
Questa contraddizione nacque dall’utopia del 1992 che predicava la moralizzazione dello Stato attraverso l’introduzione de principi aziendalistici (simili a quelli del privato) nel servizio pubblico. Oggi questa contraddizione sta continuando a vivere dentro le “Aree Socio Sanitarie Locali” (ASSL) , ex Aziende Sanitarie Locali (ASL), ex Unità Sanitarie Locali (USL), facendo molti danni.
La storia ci racconta che le USL avevano una Dirigenza strutturata come i Comuni. Come i Comuni avevano un Sindaco (Presidente) e un Consiglio politico di gestione (Comitato di Gestione); avevano inoltre un direttore generale per il funzionamento dell’apparato amministrativo. Tale composizione conferiva alle USL una notevole efficienza. E’ ragionevole credere che il ritorno ad una struttura amministrativa dotata di autonomia e una “catena di comandor” simile a quella delle USL e dei Comuni restituirebbe alle “Aziende socio sanitarie locali” l’efficienza che vorremmo.
Rimane da affrontare il problema della organizzazione da dare a tutta la rete sanitaria regionale attuale.
Se si desse ascolto a tutti i pareri e ai suggerimenti che provengono quotidianamente dai giornali e dai convegni sulla crisi sanitaria, anche i più esperti entrerebbero in confusione. E’ una Babele. La “confusione delle lingue” dei mille pareri continua a gettare disordine e immobilismo. Il 99% degli interventi riguarda la descrizione di varie sofferenze patite dai malati; 1% (l’un per cento) riguarda l’esame delle cause.
Nelle pagine dei giornali di questi giorni risalta la dichiarazione di un chirurgo del Brotzu il quale, con la concretezza e la concisione che solo un chirurgo possiede, in sostanza dice «… la causa del disagio dell’ospedale Brotzu sta nella destrutturazione degli ospedali delle Province…». A causa di ciò è conseguita l’alluvione continua di pazienti dal Campidano e dal Sulcis verso Cagliari. Fra tutte le cose dette, questa ha lo stesso valore di un “filo d’Arianna” utile a districarsi nella Babele; ad esso converrebbe aggrapparsi per trovare una via d’uscita.

Come porre riparo alla destrutturazione della rete ospedaliera provinciale? La risposta esiste già nelle leggi nazionali e nelle delibere regionali. E’ già tutto scritto. Non c’è bisogno di inventare nulla. Le leggi nazionali sono: la Costituzione, il DM 70/2015, il DM 77 / aggiornato al 2023, la legge sulla “rete ospedaliera sarda” del 2017.
La legge DM 70/2015 stabilisce:
a) come devono essere strutturati gli ospedali,
b) definisce gli ospedali sede di DEA di I e di II livello. Intendendo con DEA i Dipartimenti di Urgenza e Accettazione. La legge identifica con esattezza gli ospedali che sono destinati alle urgenze. Questi sono il centro motore della Sanità. Se noi oggi andassimo a visitare gli ospedali, scopriremmo che soltanto davanti agli ospedali pubblici (e mai davanti a quelli privati) esistono le lunghe file d’attesa di pazienti che aspettano d’essere visitati, e le file di ambulanze in attesa del ricovero dei loro trasportati.
Davanti alla visione delle file di pazienti che si presentano per patologie urgenti risulta chiaro come sia assurdo pensare di negare a tali richiedenti l’assistenza sanitaria gratuita universalistica.

Il problema grave a cui stiamo assistendo sta negli ospedali d’urgenza DEA e nel fatto che i DEA di I livello delle Province sono stati immiseriti in personale e deprivati di attrezzature.
Se la legge DM70/2015 fosse stata rispettata ciò non sarebbe successo.
La legge DM 77 / aggiornata al 2023:
Questa legge riporta tutte le indicazioni del Decreto Draghi sul PNRR nel capitolo della Mission 6.
Essa riguarda :
– Case della salute
– Case della Comunità
– Medici di base
-Personale
– Attrezzature
– Finanziamenti.
Il rispetto di questa legge avrebbe evitato il blocco della sanità territoriale e la crisi degli ospedali.
La legge regionale sarda sulla “rete ospedaliera” del 2017 indica la distribuzione degli ospedali nel territorio sardo e chiarisce con esattezza quali sono gli ospedali DEA di I livello e i DEA di II livello.
Va precisato che in Sardegna sono attivi 29 ospedali. Due (2) di essi sono sede di DEA di II livello (Brotzu e Santissima Annunziata di Sassari).
8 (otto) sono ospedali DEA di I livello, e sono distribuiti uno per provincia. Essi sono:
1 – Sassari (Santissima Annunziata)
2 – Olbia (San Giovanni Paolo II)
3 – Nuoro (San Francesco)
4 – Lanusei (Ogliastra)
5 – Oristano (San Martino)
6 – San Gavino Monreale (Medio Campidano)
7 – Carbonia (Sirai)
8 – Cagliari (Santissima Trinità – Is Mirrionis).
La differenza tra DEA di I e di II livello sta nel fatto che i DEA di II livello trattano le patologie più rare e impegnative come: Neurochirurgia; Cardiochirurgia; Radioterapia; Chirurgia toracica; Trapianti d’organo. Le altre patologie devono essere curate a dagli Ospedali DEA di I livello, alla pari con quelli di II livello.
I 19 ospedali restanti possono essere inquadrati come ospedali zonali di base oppure come ospedali di Comunità per cronici.
La riattivazione immediata degli 8 ospedali di I livello salverebbe l’intera sanità regionale.
Inoltre, è necessaria l’eliminazione dell’Azienda Unica Regionale e la ricostituzione delle Aziende Sanitarie Locali. Queste dovrebbero essere dirette da un Direttore Generale per la parte amministrativa e presiedute da un Presidente, per la parte politica. Il Presidente della ASL sarebbe coadiuvato dal Consiglio dei sanitari (Medici, Infermieri e Tecnici) e dalla Commissione Sanitaria provinciale (formata dai Sindaci della Provincia).

Mario Marroccu

La società civile e quella politica italiana sul tema della Sanità si stanno dividendo in due come in America. Anche qui da noi probabilmente in futuro i tanti partiti confluiranno in due fronti. Ci sarà un fronte di conservatori e uno di progressisti, e ognuno avrà un diverso parere sul come risolvere i problemi.
La differenza di opinioni a cui stiamo assistendo in campo sanitario oppone quelli che propendono per una Sanità pubblica, integrata da una sanità privata e concentrata in pochi centri di riferimento, a quelli che propendono per una sanità prevalentemente pubblica e omogeneamente distribuita nel territorio.
Un manifestazione chiara di questa tendenza si è vista nella proposta di “Autonomia Differenziata” in cui le regioni del Nord vorrebbero una propria Sanità finanziata da fondi ricchissimi e una Sanità del Sud finanziata da un modesto Fondo Sanitario Nazionale.
Ciò porta alla situazione di stallo decisionale attuale in cui i politici, che hanno in mano una Sanità fallita, dovranno infine decidersi: o Sanità pubblica o Sanità privatizzata.
Onestamente non è chiaro quale via vogliano prendere, né se abbiano previsto quali conseguenze contrapposte ne deriveranno.
Non dobbiamo condannarli: la decisione , in realtà, è estremamente difficile. La storia, la Grande Storia sanitaria, ha da sempre due facce: una pubblica e una privata, ed è così da secoli e millenni.
Anticamente la Sanità, già da prima di Ippocrate, era sostanzialmente privata. Poi venne quel “tale” che raccontò la parabola del “Buon Samaritano”, e lì iniziarono i problemi di coscienza per l’umanità. La “coscienza” ribollì fino al quarto secolo dopo Cristo quando Benedetto da Norcia in Italia, e Basilio in Cappadocia idearono la “sanità ospitaliera” gratuita per tutti. Per aver preso quella decisione vennero fatti Santi. Quella sanità, totalmente caritativa, generò poi nella chiesa cattolica e in quella ortodossa il fulcro della loro missione assistenziale. Le città medioevali si riempirono di tanti ospedali caritativi retti da fratres” e “sorores” che erano finanziati da benefattori. Nell’anno 1456, un certo cardinal Rampini, a Milano, decise di chiudere i 16 ospedali caritativi della città e di costruirne solo uno, grandissimo, dotato di letti con comodini e bagni che scaricavano nei “Navigli”, con criteri di igiene e di amministrazione modernissimi. Venne chiamato “Ospedale Maggiore”. Era destinato agli acuti, cioè a quei pazienti che entrano febbricitanti o traumatizzati e ne escono, dopo poco tempo, vivi e sani, o morti. Poi costruì un ospedale fuori Milano, destinato ai “cronici”. Qui coloro che vi entravano, fossero essi storpi, lebbrosi, tubercolotici, folli, idioti, o semplicemente vecchi e poveri, vi restavano per sempre. Come si vede nella Storia, con l’invenzione degli ospedali civili e delle Rsa, noi del terzo millennio siamo arrivati secondi.
Quella di Rampini fu la rivoluzione che suggerì a tutta l’Europa come costruire gli ospedali moderni. Era il quindicesimo secolo e, se ci si pensa, oggi siamo ancora fermi lì a quella riforma ospedaliera. Invece, la medicina territoriale rimase in mano agli specialisti nei loro ambulatori privati finché, nel corso della Rivoluzione francese del diciottesimo secolo, si decise un piano anche per essa: tutto il territorio nazionale della nuova Repubblica venne suddiviso in “distretti sanitari” dotati di ospedali e di ambulatori pubblici, finanziati dallo Stato (esattamente come la ASL attuali). A quel piano, dette il suo apporto un tal “Marat”, socio di Danton e Robespierre. “Marat” è la pronuncia francese di “Marras”, un cagliaritano. A Cagliari, nella seconda metà del diciannovesimo secolo venne fondato l’ospedale “San Giovanni di Dio” finanziato da donazioni di cittadini facoltosi. Gli stessi benefattori pagavano la retta giornaliera dei ricoverati. Ogni cittadino era libero di salvaguardarsi come poteva, ma, come si sa nessuno era in condizione di farlo. Tanto meno si salvaguardavano le donne che non avevano alcuna autonomia finanziaria. Per capire quanto estrema fosse la miseria sociale ricordiamo che in quei tempi, in Italia, vi erano 286 nati morti ogni mille parti. Allora lo Stato riteneva che non fosse opportuno entrare nelle cose private di sanità. Qualche cambiamento comparve con le leggi Crispine del 1887 quando, dopo un gravissima epidemia di colera, per la prima volta il Governo dichiarò che l’igiene pubblica deve essere gestita e tutelata dallo Stato. Così nacque il primo embrione di Sanità pubblica e furono regolamentate le Opere pie. A fine 1800 vennero poste le radici delle Casse mutue. Esse erano Enti assicurativi nati nelle società operaie quando i lavoratori salariati iniziarono ad associarsi e mettere in comune proprie risorse per assicurarsi il rischio di vita. Le casse Mutue iniziarono a strutturasi meglio alla fine della Prima Guerra Mondiale e negli ultimi anni del Fascismo. In quel tempo le Casse mutue garantivano la salute solo ai lavoratori dipendenti dallo Stato e ai lavoratori di Aziende che lavoravano per lo Stato. La protezione tuttavia non era totale: se un minatore restava schiacciato sotto una frana poteva contare su cure gratuite limitate a 6 mesi in un anno mentre la famiglia poteva essere curata per soli 30 giorni in un anno.
L’assistenza per i mutuati, fuori dagli ospedali, era limitata soltanto alla visita del medico generico. Il mutuato doveva pagarsi i farmaci e gli Specialisti. I lavoratori privati invece non avevano nessuna assistenza. Quando un componente della famiglia di questi si ammalava tutta la famiglia correva il serio rischio di finire in povertà per pagare le spese di cura. Chi aveva case, terreni, bestiame li vendeva per pagare i ricoveri, i farmaci e gli specialisti. Per i lavoratori dipendenti tra il 1927 e il 1943 nacquero l’INAIL e l’INAM, finanziate obbligatoriamente con parte del salario, ma avevano molti limiti. Per altre categorie di lavoratori nacquero molte piccole mutue private che davano prestazioni modeste. Tutte le Mutue si differenziavano fra di loro in base all’entità della contribuzione dell’associato. Solo i poveri erano curati con fondi comunali. La carità era la forma di assistenza più diffusa.
La medicina caritativa sopravvisse in Italia fino al ventesimo secolo quando venne supportata anche dallo Stato che costruì i tubercolosari e i centri ospedalieri di assistenza ai lavoratori delle miniere e delle industrie pesanti (vedi CTO e Sirai), destinati sia agli operai vittime di incidente sul lavoro, sia alle loro famiglie (ostetricie e pediatrie).
La modestissima Sanità pubblica veniva controllata dal ministro dell’Interno, o da quello del Lavoro.
Fino al 1956 nessuna parte politica volle mai istituire il ministero della Sanità per evitare l’onere delle spese. Spese che sarebbero state intollerabili per lo Stato a causa della forte incidenza e mortalità da TBC, malaria e tifo. Negli anni ‘50 del 1900 vennero portate in Italia la Penicillina, la Streptomicina e il DDT, acquistati con fondi del Piano Marshall e della Fondazione Rockfeller; questo ridusse moltissimo l’incidenza di malattie da infezione.
Allora facevano paura allo Stato le spese per le malattie da microbi così come oggi fanno paura le spese per malattie da invecchiamento. Si sta ponendo oggi un dilemma di spesa simile.
In America nel 1945, quando ancora in Italia si vivevano gli strascichi delle lotte partigiane, divenne presidente Harry Truman. Fu un presidente determinato in ogni azione politica: decise la fine dello isolazionismo americano, occupò Berlino per non lasciarla ai russi e stabilì un ponte aereo per nutrirla, iniziò la guerra in Corea e finanziò il “Piano Marshall” che salvò l’Italia dallo sprofondare nella fame del dopoguerra, fermò definitivamente la Seconda Guerra Mondiale con le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki e, per quanto riguarda la politica interna americana, propose una modernissima “Riforma sanitaria”, nel contesto del “fair deal” (l’affare giusto per i diritti civili). Quella sua proposta di riforma influenzò la storia sanitaria italiana. La proposta iniziava con questa dichiarazione: «La Nazione ha bisogno che siano rimosse le barriere economiche per ottenere l’assistenza sanitaria. La salute di tutti i cittadini merita l’aiuto di tutta la Nazione». Egli propugnava l’assistenza sanitaria gratuita per tutti. Tuttavia, la proposta di riforma venne bocciata a causa della forte opposizione del partito Repubblicano.
Ai repubblicani si era associato, nel voto contrario, anche un gruppo di senatori democratici. La lobby delle assicurazioni private aveva vinto.
La riforma non si fece e ne conseguì la persistenza di un sistema sanitario nazionale basato sulle assicurazioni private, in cui i facoltosi si potevano curare in modo accettabile. I poveri e i vecchi potevano contare sul sistema assistenziale pubblico di “Medicaid” e “Medicare”. Circa il 60% della popolazione, se voleva assistenza, doveva stipulare una assicurazione privata. L’occasione perduta della proposta Truman fu parzialmente recuperata sessantasette anni dopo con Barak Obama. La riforma nota col nome di “Obamacare” venne approvata nel 2008 e con essa l’assistenza gratuita si estese ad altri 32 milioni di americani. Questa riforma contiene anche due novità: il divieto alle assicurazioni private di rescindere il contratto nel caso in cui il cliente contraesse il diabete o un tumore, e il divieto alle assicurazioni di mettere un tetto ai risarcimenti. Questo salvò gli assicurati dal calvario del dover ricorrere in giudizio, contro le assicurazioni, per ottenere l’intera somma spesa anticipatamente per le cure.
In America il presidente Harry Truman fallì ma ebbe successo in Italia. In una intervista il ministro della Sanità Tina Anselmi raccontò che già in Italia si discuteva sulla proposta di Truman nei primi anni ‘50. I princìpi in essa contenuti vennero da lei utilizzati per produrre la più grande legge del ventesimo secolo: laì Riforma sanitaria 833/78. Con essa si realizzò concretamente l’articolo 32 della Costituzione garantendo a tutti gli italiani l’assistenza sanitaria gratuita “dalla culla alla tomba”. La Riforma venne poi applicata successivamente dal ministro Aldo Aniasi nel 1980; venne poi applicata in Sardegna nel 1982. Da noi vi fu un immediato miglioramento della sanità pubblica. Gli anni dal 1982 al 1992 furono di grande creatività assistenziale sia negli ospedali che nei territori. Nel 1992 il mondo cambiò. Avvenne la più grave crisi politica ed economica del Dopoguerra. Con gli scandali della corruzione (“Mani pulite”) e col crollo delle “Partecipazioni statali” l’Italia stava andando in fallimento. Fu necessaria una cura da cavallo: bisognava risparmiare  e la sanità pubblica venne duramente colpita. Le Usl (Unità sanitarie locali), con gestione esclusivamente pubblica e territoriale, vennero trasformate in ASL, cioè in
“Aziende” a gestione di tipo privatistico con l’esclusione dei Sindaci dal controllo della gestione.
Vennero approvate leggi di riforma con lo scopo di ridurre ulteriormente la componente pubblica contenuta nella legge 833/78. Furono la legge 502/1992 e la legge 229/1999.
Così nacquero le “Aziende” gestite da manager. Con l’ingresso dei manager prese piede lo slogan “gestire con efficienza e efficacia” che banalmente vuol dire “spendere meno e ottenere lo stesso di prima”. In quegli anni si facevano corsi di “management” che insegnavano come farlo. Fu allora che si iniziò a “spendere meno” riducendo il personale ospedaliero e gli acquisti, gli emolumenti e le manutenzioni. I Sindaci, che prima erano i controllori, non potevano farci più niente. Nel 2011 il sistema di controllo sulla gestione economica delle ASL si fece più severo e vennero prodotte leggi che inducevano a chiudere intere Unità operative specialistiche e interi ospedali. Da allora l’efficienza degli ospedali ha preso la china fino alla condizione attuale. Oggi tutti, facoltosi e meno facoltosi, affollano i Pronto soccorso degli ospedali disponendosi in lunghe file d’attesa per farsi trattare una frattura, una febbre, una colica, o una crisi cardiaca o neurologica. Alcuni finiscono per prendere l’aereo verso regioni del Nord per ottenere cure.
Ecco, questo è il contesto in cui si trovano quei politici che devono prendere una decisione veramente difficile. Il dilemma, come si è voluto dimostrare, è storico ed essi legislatori non sono i primi che si apprestano ad affrontarlo. In passato si arrivò a non volere istituire il ministero della Salute per non aggravare il Bilancio dello Stato. Il dilemma è sempre lo stesso: diminuire le spese per la Sanità pubblica, limitandola a pochi centri, per salvare il Bilancio dello Stato? Oppure: salvare la Sanità pubblica, su tutto il territorio, mettendo a dura prova il Bilancio dello Stato?
Ci vogliono doti di saggezza, mediazione e determinazione veramente notevoli.

Mario Marroccu

I Classici Greci avevano introdotto la figura di un terribile mostro mitologico che chiamarono “Chimera”. Aveva testa di capra, corpo di leone e, per schiena e coda, un serpente velenoso. Fu uccisa da Bellerofonte e dal suo cavallo alato Pegaso; quest’ultimo era nato dal collo decapitato della mostruosa “Medusa”. Il mito starebbe a significare che il “Bene” può rigenerarsi dopo la distruzione di una mostruosa catena di errori.
Le modifiche apportate alla legge sanitaria di Tina Anselmi (833/78) furono una catena di errori che generò l’attuale “chimera sanitaria”, formata dall’assemblaggio di parti di corpi diversi costituiti da interessi, fini e progetti fra loro incompatibili.
Le prime pagine dei giornali sono quotidianamente dedicate agli effetti della cattiva gestione del Sistema sanitario pubblico in Italia.
Le proteste sono numerosissime ma, in fondo, tutte uguali: la sanità non funziona e chi ne ha bisogno deve pagare.
Davanti agli innumerevoli articoli contenenti, con diversi argomenti, quest’unica matrice, esistono solo due proposte sul metodo da adottare per uscire dal problema.
La prima proposta suggerisce la costituzione di un Sanità pubblica, ridotta, che lavori in tandem con una Sanità privata basata sulle assicurazioni.
La seconda proposta indirizza verso la ricostituzione di una Sanità pubblica che rispecchi per filo e per segno l’articolo 32 della Costituzione: «La Repubblica tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti».
La politica deve affrontare il dilemma dei costi necessari per dare l’assistenza sanitaria a tutti. Il recente tragico fatto avvenuto a New York una decina di giorni fa, in cui il 26enne Luigi Nicholas Mangione, del Maryland, ha assassinato Brian Thompson, Ceo della società di assicurazione privata United Healthcare, ci consente di riflettere sul futuro che potrebbe attenderci. Per svolgere il ragionamento bisogna sfocare la scena particolare del crimine, e osservare il contesto circostante in cui è successo. L’elemento di fondo che emerge nel Sistema sanitario americano, e che dovrebbe lasciare di stucco noi italiani, è questo: mentre la Costituzione italiana è incentrata sulla protezione dei diritti sanitari del cittadino, la Costituzione americana è incentrata sulla protezione del libero mercato. Mentre il “mercato” è al centro della costituzione americana, il “cittadino” è al centro della costituzione italiana. Pertanto, mentre nella nostra costituzione la salute è un “diritto fondamentale” del cittadino, nella costituzione americana la salute è una “responsabilità individuale” del cittadino. Il ché significa che se uno può si cura, se non può, sono affari suoi. Per la verità negli Stati Uniti esiste “Medicaid”, che è un sistema sanitario pubblico per i poveri. Medicaid deriva da una legge del 1965, destinata ai poveri, voluta da Lyndon Johnson. Ottiene tale assicurazione sanitaria gratuita il 23% della popolazione degli Stati Uniti.
Nonostante i miglioramenti (Obamacare) quel sistema sanitario per i poveri non è neppure lontanamente paragonabile al Sistema sanitario italiano per qualità ed efficienza.
Il presidente Lyndon Johnson, nominato subito dopo l’uccisione di John Kennedy, nello stesso anno varò anche “Medicare” che assiste gratuitamente i cittadini dai 65 anni in più. Il primo a beneficiarne fu l’ex presidente Harry Truman. Questa seconda assicurazione pubblica dà assistenza al 17% della popolazione. Pertanto, in tutto, ottiene l’assistenza pubblica gratuita soltanto il 40% della popolazione.
Il restante 60% non ha assicurazione sanitaria. La deve comprare dalle esosissime assicurazioni sanitarie private, come quella del povero Brian Thompson, oppure deve pagare le cure di persona, volta per volta.
I costi sono altissimi. Ad esempio la sedazione per fare una colonscopia costa 1.200 dollari e il costo del medico che pratica la vaccinazione antimorbillosa al bambino può costare 1.500-2.000 dollari. Si può immaginare quanto possa costare un parto naturale o il cesareo, o la cura per una frattura di femore, o un’operazione chirurgica per un cancro. Ciò aiuta a capire per quale motivo nel 1982, quando venne applicata la legge sanitaria 833/78 di Tina Anselmi, molti americani chiesero e ottennero la cittadinanza italiana per poter venire in Italia per le cure del cancro, in quanto in America era impossibile affrontarne le spese.
Ma non basta, c’è dell’altro su cui riflettere: le assicurazioni private americane non hanno la stessa “mission solidaristica” del Sistema Sanitario pubblico italiano, che riflette l’articolo 32 della nostra Costituzione. La loro mission è il “profitto”. Per questo le Assicurazioni americane hanno trovato logico affidare alla Intelligenza Artificiale (I.A.) il compito di selezionare i richiedenti un contratto di assicurazione sanitaria. La I.A. utilizza un algoritmo per esaminare il candidato ad essere assicurato e può accadere che lo rifiuti. Nell’algoritmo sono inseriti vari fattori di valutazione tra cui l’età, il sesso, malattie pregresse, malattie croniche (come artrosi, ipertensione, obesità, cardiopatie, neuropatie, problemi psicologici, assetto familiare, professione, reddito, livello culturale e intellettuale, etc.), per non parlare della familiarità per tumori o Alzheimer e insufficienza renale. I soggetti perfetti, giovani e ricchi, sono ideali e vengono accettati. Tutti gli altri possono essere rifiutati, oppure possono vedersi presentare un contratto talmente costoso da doverci rinunciare.
Coloro che accettano di sottoscrivere quei contratti, abnormemente lunghi e particolareggiati, possono accedere alle cure. In tal caso, una volta curati e dopo aver pagato, presentano la fattura agli uffici dell’assicurazione per ottenere il risarcimento integrale delle spese. A questo punto il documento viene esaminato dalla I.A. e da operatori esperti e, qualora vi sia la minima difformità col contratto firmato, la compagnia di assicurazione rifiuta di pagare il conto. Questo fatto spiacevolissimo è frequente. Il povero paziente, che in genere appartiene alla classe media americana, in un colpo si trova indebitato con le banche e precipita in povertà, correndo i rischio di perdere anche la casa, e di finire nella categoria dei nullatenenti.
L’influenza delle assicurazioni sanitarie private sulla vita degli americani non si limita a questo. Vi sono molte varianti. Una riguarda il numero di figli della coppia. Qualora la coppia abbia intenzione di mettere al mondo un secondo figlio ne deve discutere con l’assicurazione sanitaria privata. A questo punto il prezzo da pagare per l’assicurazione della famiglia esplode. Ciò condiziona la decisione di aumentare la famiglia. Ne consegue che gli effetti di questa forma di assistenza possono interferire sulla demografia nazionale. Se ciò avvenisse in Italia il fatto sarebbe talmente grave da interessare immediatamente gli organi politici. Questo fenomeno, che è da attendersi in una società la cui mission è il profitto, non avviene in una società dove la mission è la solidarietà fra individui.
Oggi in Italia siamo davanti ad una svolta che potrebbe avere conseguenze sociali simili a quelle già ben delineate in America, dove, come si sa, le cose avvengono anni prima che da noi.
Le proposte che vengono oggi avanzate in casa nostra per ricostituire la futura Sanità pubblica sono due.
Prima proposta: – visto che l’invecchiamento della popolazione provocherà un forte aumento della spesa sanitaria, converrebbe concentrare lo sforzo economico nel finanziamento di pochi centri ospedalieri iper-attrezzati e super-dotati di personale sanitario specializzato, da collocarsi a Cagliari e Sassari -. Ne consegue che i piccoli centri ospedalieri delle province dovranno essere chiusi o limitati ad una elementare assistenza di base come quella delle RSA e degli ospedali di comunità a bassissima specializzazione.
Ciò avrà la conseguenza di provocare l’ iper-afflusso di pazienti ai DEA di II livello di Cagliari e Sassari. Dato che i DEA di II livello non possono soddisfare la richiesta di salute di tutti i richiedenti, si creeranno immense liste d’attesa. A causa dei lunghi tempi d’attesa sarà necessario ricorrere ai privati.
Chi potrà permetterselo, dovrà pagare, con propri fondi, le cure e le visite specialistiche finché potrà. Chi non potrà permetterselo aspetterà fino alla naturale fine della propria storia patologica. Questo fatto (dell’esistenza di cittadini che non possono accedere alle cure), seppure non dichiarato ufficialmente, sta già avvenendo e sta colpendo anche le classi medie più agiate. A mò d’esempio, e per capire quanto già sia esteso il fenomeno, è interessante leggere una lettera al direttore del Corriere della Sera del 12 dicembre 2024. Un professore di chirurgia dell’Università la Sapienza di Roma si è ammalato di cancro alla prostata, con metastasi. E’ stato operato, irradiato e sottoposto a chemioterapia ma inutilmente. Ha scoperto che esiste in Europa una nuova terapia con radioisotopi, già approvata dagli organismi scientifici internazionali. Il radiofarmaco si chiama “Lutetio-177 PSMA” e si somministra due volte la settimana per tre settimane. La guarigione dalle metastasi è certa. C’è un problema: il costo per il trattamento è di 130.000 euro per 6 sedute, in Svizzera, e la somma deve essere interamente anticipata dal paziente. Gli amici e i colleghi hanno aperto un “crowfunding” per coprire le spese. Questo paziente, nell’Italia dell’articolo 32 della Costituzione, è stato costretto a chiedere aiuto.
Ora, se tanto succede ad un medico, professore universitario di chirurgia a Roma, cosa potrebbe succedere a uno sconosciuto abitante del Sulcis Iglesiente? L’America di Brian Thompson e Luigi Nicholas Mangione è pericolosamente vicina.

Esiste il dilemma dei costi per la Sanità. Ed esistono molte analisi sul perché siano aumentati. Quotidianamente esperti commentatori suggeriscono, nelle pagine dei giornali, di ridurre le prestazioni sanitarie per le quali il paziente è esentato dalle spese, e di accentrare la Sanità in pochi centri.
In Sardegna, una proposta di soluzione avanzata da fonti autorevoli, è rappresentata dallo accentramento delle strutture ospedaliere a Cagliari e a Sassari. Ciò comporta la scomparsa degli ospedali delle province.
La scomparsa della sanità ospedaliera dai territori provinciali apre la strada ad una conseguenza: – la necessità di rivolgersi alle Mutue private per acquistare le assicurazioni sanitarie -. I costi delle mutue private saranno proporzionali al livello di assistenza sanitaria scelto. A questo punto saremo completamente in mano alla logica del profitto. Seppure si garantisse la sanità gratuita agli indigenti e ai vecchi, avremmo sempre almeno il 60% – 70% della popolazione privato della sanità come oggi la intendiamo.
E’ facile immaginare le conseguenze sulla stessa struttura sociale.
Seconda proposta: – restituire alla popolazione il reintegro in attività degli 8 Ospedali DEA di I livello esistenti nelle 8 province sarde. Sarebbe il modo più concreto di re-instaurare un rapporto col mondo della società reale rispettando il desiderio di sanità così come esisteva, da 70 anni, nel costume di vita delle popolazioni. Questo aspetto non andrebbe trascurato -.
Questa scelta comporta la necessità e l’urgenza di fermare il tentativo di accentramento globale della sanità ospedaliera a Cagliari e Sassari e imporre, agli ospedali sede di DEA di II livello, l’esclusiva competenza per funzioni altamente specialistiche e poco frequenti (come appunto sono la neurochirurgia, la cardiochirurgia, i trapianti d’organo e chirurgie vascolari, polmonari, pancreatiche, grandi ustionati e Rianimazione). Tutte le altre patologie (traumatologiche, mediche internistiche, psichiatriche, nefrologiche, epatologiche, neurologiche, geriatriche, infettivologiche, pediatriche, geriatriche, dermatologiche, di chirurgia elettiva e d’urgenza addominale, urologica, ginecologia e anche vascolare, otorino-laringoiatrica, etc.) andrebbero lasciate all’esclusiva competenza degli 8 ospedali DEA di I livello delle province. Attorno agli ospedali DEA I livello, ridiventati centri di cura e di formazione, si organizzerà, in una stretta osmosi funzionale e professionale, la rete della medicina di base.
Ferma restando l’attuale organizzazione gerarchica nella dirigenza amministrativa delle ASL, si ridaranno le funzioni di controllo ai Sindaci del territorio. I Comuni, rappresentati dai Sindaci, in quanto titolari delle funzioni amministrative dello Stato (art. 118 della Costituzione) sono i naturali e sovrani controllori della corretta realizzazione del diritto alle cure previsto dalla Costituzione.
L’attuale “Chimera sanitaria”, fabbricata dai numerosi emendamenti che hanno mostruosamente modificato la legge 833/78, necessita di una figura meno mitologica ma con uguale decisione che corregga la caduta rovinosa della sanità.

Mario Marroccu

Per il prossimo Natale, vedremo un fenomeno a cui siamo abituati da anni e che può essere utile per spiegare cosa sta succedendo. In questi giorni può capitare, al momento di pagare, che alla cassa ci propongano di acquistare dei gadgets, o di fare un’offerta, a favore di un ricco ospedale, che diventerà un beneficio per i malati.
Premettiamo che un’offerta per la Sanità è un gesto altamente meritorio a cui tutti dovremmo partecipare. Questo meccanismo di raccolta fondi è anche utile per capire un fenomeno più generale diffuso in tutta Italia, soprattutto al Nord. Ci si chieda: chi ha pensato di raccogliere fondi per i malati? Forse i medici e gli infermieri? E’ poco probabile. E’ molto più probabile che l’idea provenga da un ufficio di contabilità ospedaliera. A cosa servono quei soldi? Servono senza dubbio a creare un “fondo integrativo “ per migliorare le cure del malato.
Bisogna tener presente che l’ospedale è già finanziato dal Fondo sanitario pubblico, ma il finanziamento pubblico non gli basta e raccoglie, privatamente, altri fondi. Secondo le norme i “fondi pubblici” dovrebbero essere “equamente” spartiti fra le Regioni, e assicurare “uguaglianza“ di trattamento a tutti gli italiani. La Costituzione, infatti, dispone l’“universalità“ delle cure. Ciò premesso, come vanno inquadrate quelle offerte natalizie? Si tratta di fondi extra che “integrano” il fondo pubblico, e che vengo definiti, per legge, “fondi integrativi”. Quei fondi verranno utilizzati dall’ospedale beneficiario in modo autonomo e indipendente dal controllo dello Stato, perché sono suoi, e lo Stato non interferisce nella libertà del loro utilizzo. Chi raccoglie fondi più ricchi conquista grande autonomia e grande potere di controllo sulla qualità e sulla scelta delle cure che erogherà. La differente entità di fondi integrativi esistente fra ospedale e ospedale, e fra Regione e Regione, può essere enorme; questo determinerà la differenza nella qualità di vita delle distinte popolazioni. Ciò avrà influenza sul criterio costituzionale di “uguaglianza”.
La rivoluzione dei principi di “equità”, di “uguaglianza” e di “universalità” introdotta da Tina Anselmi nella Costituzione, e da lei stessa concretizzata nella Legge 833/78, fu un’idea geniale ma venne depotenziata dal ministro Francesco De Lorenzo nel 1992 e poi dal ministro Rosy Bindi con la legge 299/1999; in quest’ultima vennero definitivamente riconosciuti i ”fondi integrativi” per finanziare gli ospedali.
Nel 2001 l’esistenza dei “fondi integrativi” ebbe un ulteriore supporto dalle modifiche portate al Titolo V della Costituzione. Gli emendamenti alla Costituzione hanno avuto conseguenze evidenti la Sanità nelle regioni ricche del Nord è una grande sanità. La Sanità nelle regioni povere è una povera Sanità. Non ci volle molto a capire che l’effetto dei fondi integrativi avrebbe differenziato gli italiani e da questa lezione prese piede l’idea nel ministro Roberto Calderoli di estendere quel metodo a tutti i servizi pubblici, e cioè, oltre alla Sanità, all’Istruzione, ai Trasporti, e a tutti i Servizi pubblici attinenti alla qualità della vita nazionale. Si tratta quei Servizi che tengono coeso un popolo. Il rischio, con la legge integrale di Roberto Calderoli, è quello di intaccare i quattro principi fondamentali della Costituzione: la Solidarietà, l’Uguaglianza, la Sovranità Popolare, i Diritti Inviolabili (articoli 1, 2, 3, 32, etc.).
Il difetto di Solidarietà e Uguaglianza si sta già vedendo nel sistema sanitario Sardo. E’ noto a tutti che, data la crisi profonda dell’assistenza sanitaria in Sardegna, molti sardi affetti da tumori, per curarsi, migrano verso le regioni più ricche del Nord Italia. Chi ha questa esperienza scopre che, secondo la Regione in cui vai, ogni malattia ha un costo diverso. Il prezzo da pagare è il DRG (Diagnosis Related Group) che permette di classificare tutti i malati dimessi da un ospedale in gruppi omogenei in base alle risorse. Ora, prendiamo il caso di una ipotetica paziente con cancro alla mammella che viene operata in un ospedale sardo. Il DRG per cancro di mammella operato in Sardegna viene pagato all’ospedale 4.500 euro circa. Se la stessa paziente venisse operata in un ospedale del Nord, il DRG per lo stesso intervento varrebbe circa 7.000 euro. Quindi l’ospedale guadagna di più e può offrire cure migliori. Chi paga l’aumento del costo, in questo caso, se il malato è sardo? Paga la Regione Sardegna. La differenza del costo dell’intervento per i malati di quella regione del Nord, viene pagato dai “fondi integrativi” della stessa regione. Tali fondi sono stati formati con un metodo paragonabile alle donazioni che facciamo nel corso degli acquisti di Natale. Si tratta cioè di fondi extra, indipendenti dal Fondo Sanitario Nazionale, che possono essere accumulati massimamente nelle regioni più ricche, sia attraverso donazioni sia attraverso una raccolta fiscale supplementare attuata dalla stessa regione.

I “fondi integrativi” di dette regioni possono essere scaricati dal conto che le stesse regioni devono allo Stato per finanziare la Solidarietà nazionale. Di fatto, quindi, tali regioni possono contribuire di meno alla formazione del Fondo sanitario Nazionale. Ne consegue che le regioni più povere possono attingere in misura minore e possono erogare una sanità di livello inferiore.
Questo meccanismo, secondo la legge sull’“autonomia differenziata” di Roberto Calderoli, dovrebbe essere esteso a tutti i Servizi pubblici, dalla Sanità ai Trasporti, dall’Istruzione e Università alla Viabilità e all’edilizia pubblica, etc.. Se passasse integralmente quella legge creerebbe una distanza incolmabile sulla qualità di vita tra i cittadini delle regioni del Nord e quelli del Sud. Lo stesso Sergio Mattarella ha messo in guardia sul pericolo che si corre nell’intaccare i diritti inviolabili della Costituzione; fatto che ci esporrebbe alla disgregazione nazionale. Verrebbero intaccati non solo i LEA (livelli essenziali di assistenza), ma anche i LEP (livelli essenziali di prestazioni); in sostanza ne soffrirebbero tutti i servizi pubblici.
Oggi la Consulta ha dato il suo parere sulla legge e sostiene che essa è costituzionale (art. 116) ma illegittima in alcune parti decisive. I Giudici, infatti, richiamano al rispetto della Costituzione e sottolineano che la forma dello Stato, insieme al ruolo fondamentale delle Regioni, riconosce i principi della Unità della Repubblica, della Solidarietà tra le Regioni, dell’Eguaglianza, della garanzie dei Diritti dei Cittadini e dell’equilibrio di bilancio. Testualmente sentenzia: «La distribuzione della funzione legislativa e amministrativa tra i diversi livelli territoriali di governo (Comuni, Province, Regioni) non deve corrispondere all’esigenza di un riparto di potere tra i diversi segmenti del sistema politico, ma deve avvenire in funzione del bene comune della società e di tutela dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione. A tal fine, è il principio costituzionale di sussidiarietà che regola la distribuzione delle funzioni fra Stato e Regioni. In questo quadro l’Autonomia differenziata deve essere funzionale a migliorare l’efficienza degli apparati pubblici e ad assicurare maggior responsabilità politica, rispondendo meglio alle attese e ai bisogni dei cittadini».
La sentenza richiama al rispetto dell’articolo 116 della Costituzione e all’osservanza dei principi fondamentali della Costituzione tutta. Principi che il proponente ignorava.
Le quattro regioni che hanno ricorso, per adesso, ci hanno salvati da un disastro.

Mario Marroccu

Tutti hanno memoria di una qualche “Tzia Maria” e della sua bottega vicino a casa. Aveva due caratteristiche:
1 – Tutti potevano acquistarvi , subito e a poco prezzo, pane, pasta, conserve, Olà, DDT e saponi.
2 – Con i soldi guadagnati, “Tzia Maria” vestiva in figli, li faceva studiare, curava il marito, pagava il macellaio, il muratore, il falegname, il sarto, comprava miscela per la motocarrozzella e  se ne restavano, li metteva nel libretto postale.
Erano soldi benedetti che, in un circuito virtuoso, alimentavano l’economia locale facendo lavorare anche altri artigiani. Era una “Catena di Sant’Antonio” che nutriva le città di un’economia circolare auto-prodotta.
Oggi quel tipo di economia auto-prodotta è superata. Compriamo tutto ai Super-Store: dal pane alla frutta, dalle scarpe ai vestiti, dagli infissi già pronti alle auto, etc… e i soldi finiscono immediatamente in conti correnti del Continente o all’Estero. La virtuosa economia circolare è stata sostituita da un’idrovora quotidiana che prosciuga dal danaro liquido le città. Al contrario dell’economia di “tzia Maria”, la redistribuzione del danaro è stata sostituita da un fiume in fuoriuscita unidirezionale, senza ritorno. Le conseguenze sono desolanti. Il nuovo quadro economico è ben rappresentato dal tipico aspetto assunto dai centri-città: negozi chiusi, palazzi disabitati, un corteo di cartelli “vendesi” affisso alla porta di ex locali commerciali e abitazioni. Tutti segni di impoverimento economico e di spopolamento.

Una delle cause è attribuibile all’accentramento delle attività economiche nei Super-Store: strutture nate per vendere ma che difficilmente reinvestono il ricavato nel luogo che le ospita.
Un fenomeno esattamente identico è avvenuto alla rete sanitaria locale che una volta ci forniva tutta l’assistenza sanitaria che abbisognava. Le nostre Province, con i loro ospedali e le loro reti territoriali sanitarie erano totalmente autonome nell’auto-prodursi il Servizio sanitario in medici, personale, strumenti e edifici proprii. Ricordiamo che le Università istruiscono i Medici ma non li formano professionalmente. La loro formazione professionale è avvenuta sempre negli Ospedali, ad opera dei primari e dei medici anziani. Una legge dello Stato, la 128/69, all’articolo 7, imponeva l’obbligo ai primari di formare culturalmente e professionalmente i nuovi medici. Così i nostri ospedali auto-producevano le nuove generazioni di medici bene addestrati. Qui si curavano le malattie internistiche dei bambini e degli adulti, si facevano gastroscopie, colonscopie, TAC ed esami di laboratorio, si operavano tutte le patologie addominali, toraciche, ortopediche, urologiche, ginecologiche, traumatologiche, e qui si nasceva in sicurezza. Tutti erano nelle condizioni di apprendere l’arte medica, a fare gli elettrocardiogrammi, le colonscopie e ad operare. Nonostante in quei tempi i medici fossero numericamente in numero inferiore rispetto ad oggi, non esisteva il problema della carenza di medici e le liste d’attesa si esaurivano in giornata o in una settimana. Il mondo poi è cambiato.
Fino al 1978 gli ospedali provinciali erano finanziati dai proventi provenienti dalle Casse mutue private e dai privati cittadini. In quell’anno Tina Anselmi abolì le Casse mutue e creò il Fondo sanitario Nazionale. Da quell’anno la Sanità fu veramente e totalmente pubblica. Lo Stato, su proposta di Tina Anselmi, istituì il Servizio sanitario nazionale (L. 833/78), diede in gestione le USL territoriali ai sindaci e ai Consigli comunali. Furono applicate esattamente le norme costituzionali che suddividono gli Enti gestori dei servizi pubblici in: Comuni, Province, Regioni.
Era chiaro che, in democrazia, la gestione pubblica spettasse al popolo tramite i suoi rappresentanti. Tina Anselmi era un personaggio complesso: proveniva da una famiglia socialista; da universitaria nel 1944 vide impiccare dai nazisti i 31 martiri di Bassano del Grappa e aderì immediatamente alle brigate partigiane combattenti in montagna. Lì, nei bivacchi, si discuteva sul come costruire la Costituzione del nuovo Stato che avrebbero creato. Fu attiva nella CGIL e poi aderì ad uno dei tre partiti che scrissero la Costituzione entrata in vigore il 1° gennaio 1948. Per effetto dell’articolo 3 della Costituzione, che conferiva pari diritti a maschi e femmine, poté essere candidata; nel 1956 divenne deputato della Repubblica e scrisse il testo della legge sulla “pari opportunità” Uomo-Donna. Fu il primo ministro donna nella storia italiana. Nel 1976 venne nominata ministro della Sanità e scrisse il rivoluzionario testo di Riforma sanitaria: la legge 833/78. In quasi tutte le Regioni la nuova legge di riforma venne compiutamente applicata nel 1982. Fu un’esplosione di democrazia. Durò fino al 1992 e fu il decennio d’oro della Sanità italiana. Gli ospedali crebbero di numero e in qualità. Gli amministratori locali misero in competizione le USL fra di esse. In quella gara ognuno si assicurava i migliori professionisti per dirigere i reparti e iniziò la produzione, in ciascuna provincia, di una Sanità autoctona, auto-prodotta, adeguata alle esigenze di ciascun territorio nel rispetto delle norme nazionali.
La Sanità divenne un motore economico che, attirando pazienti e finanziamenti, produsse profitto per la comunità, così come oggi lo producono il Turismo, la Cultura, e l’Archeologia. Poi venne l’anno 1992 ed entrammo in un trentennio molto controverso.
Oggi sappiamo che in quell’anno avvenne la fine dell’entusiasmo creativo dei partiti politici e della partecipazione popolare. Fu l’anno di Mario Chiesa, di “tangentopoli” e dello sconquasso dei partiti dei Padri costituenti. In quell’anno, alle dimissioni di Francesco Cossiga da Presidente della Repubblica, venne proposta la candidatura di Tina Anselmi. Se fosse stata nominata lei come Presidente, avrebbe sicuramente protetto la sua legge di Riforma sanitaria. Viceversa, venne eletto Oscar Luigi Scalfaro, il quale nominò ministro della Sanità il rappresentante del Partito liberale, on. Francesco De Lorenzo. La storia della Sanità pubblica cambiò.

Francesco De Lorenzo proveniva da una parte politica che non aveva partecipato alla scrittura della Costituzione. Conformemente alle sue idee economiche, agli antipodi di quelle di Tina Anselmi, egli produsse una sua “Riforma sanitaria”, la L. 502/92, in cui applicò il concetto di “impresa” alla Sanità pubblica. Rimosse i sindaci e i Comitati di gestione. Le Unità Sanitarie Locali (USL) presero il nome di “Aziende Sanitarie Locali” e per dirigerle egli inventò la figura del “Manager”. E’ una figura tipica delle imprese economiche basate sulle regole del mercato privato. Il centro dell’attenzione, che prima era il “cittadino malato”, divenne “l’Ufficio del bilancio”. Alla direzione “democratica” si sostituì la direzione “centralizzata”. Da allora il metodo più semplice di ridurre la spesa sanitaria consiste nello spendere il meno possibile e nel “centralizzare”, quindi: meno personale, meno strumenti, meno accessibilità alle cure. Ai politici di allora sfuggì che esiste uno stretto connubio tra la democrazia, il benessere dei cittadini e la loro percezione di sicurezza. E’ per questo che i cittadini amano le libere elezioni: perché incentivano i Governi a tutelare il benessere. A queste disattenzioni consegue in genere la caduta del consenso popolare. A quel primo atto di centralizzazione del potere in un’unica Persona-Manager sono poi seguite altre “centralizzazioni”. I politici locali allora perdettero il potere di controllo sulla Sanità pubblica. Oggi lo stanno perdendo i politici regionali: la centralizzazione del controllo della Sanità regionale è stata acquisita da un’altra struttura gestionale, al di fuori dell’assessorato della Sanità, a cui è stato conferito grande potere ed autonomia. Tale nuova struttura, l’ARES, seguendo una logica amministrativamente ineccepibile e in linea col processo di aziendalizzazione dell’intera struttura sanitaria sarda, ha proceduto alla “delocalizzazione” di fatto dell’assistenza sanitaria, trasferendola dalle Province al centro della Regione. Il cambiamento è enorme.
L’impoverimento dell’apparato ospedaliero provinciale oggi impone che i nostri “corpi malati” vengano forzatamente trasferiti negli ospedali DEA di II livello di Cagliari e negli ospedali universitari per qualunque malattia, sia grande sia piccola. Tale centralizzazione sta comportando la scomparsa degli ospedali DEA di I livello, che sono gli 8 ospedali provinciali delle 8 province sarde. La conseguenza è tutti i giorni nelle prime pagine dei quotidiani. Gli ospedali cagliaritani, sommersi da un eccesso di richieste di cure provenienti da tutta la Regione, sono finiti in scompenso funzionale. In certi momenti si è rischiata la chiusura per impossibilità di accettare altri pazienti.
Certamente la soluzione non consiste nel tornare ai tempi di “tzia Maria”. Si potrebbe però applicare correttamente la legge sulla “Rete Ospedaliera Regionale” del 2017, rimasta nel cassetto.
Si potrebbe anche riportare al controllo delle ASL i sindaci del territorio, che potrebbero affiancare con funzione di proposta e controllo, i Manager.
Potremmo avere la gradita sorpresa di restituire la certezza delle cure alle Province e, forse, di innescare anche un sano circuito di ritorno economico.

Mario Marroccu