14 December, 2025
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Nella Storia, chi fosse l’autorità competente a gestire il “fine vita”, non venne mai messa in discussione: era per tutti un’esclusiva del “destino”. Per questo i medici, dall’antichità fino al 1800-1900 ritennero d’avere solo il compito di alleviare le sofferenze del malato e non si illusero mai d’avere il potere di contrastare la morte. Agli inizi del 1800, Edward Jenner diffuse la vaccinazione antivaiolosa e avvenne per la prima volta il crollo della la mortalità ritenuta obbligata. Città come Londra o Napoli, che avevano 40.000 morti l’anno per vaiolo, videro crollare il numero dei morti a poche centinaia l’anno. Fu un successo entusiasmante e la medicina ufficiale cominciò a pensare che fossero maturi i tempi per attenuare l’ineluttabilità della morte e si iniziò ad alimentare l’illusione di poterla domare prevenendola, o ritardandola, o impedendola, o, perlomeno, programmandola. Coi successi della medicina del ventesimo secolo si passò dalla illusione alla certezza che con la “morte” si possa aprire una trattativa. I medici cominciarono ad opporle tecniche di “rianimazione” sempre più avanzate, terapie efficaci contro le infezioni batteriche: gli antibiotici. Sempre nel 1900, si scoprirono i gruppi sanguigni e il metodo di rendere il sangue incoagulabile: ne conseguì il sereno uso delle emotrasfusioni. Poi, più recentemente, comparvero le tecnologie per il sostegno automatizzato alle funzioni vitali del cuore, polmoni e reni; infine, giunsero i trapianti d’organo e lo sviluppo di una nuova scienza: l’Immunologia.
I veri successi erano iniziati con la fine della Seconda Guerra Mondiale: la grande macelleria conclusasi con la strage delle bombe nucleari di Hiroshima e Nagasaki.
– Nell’anno 1948 il nuovo Governo Italiano, approvò la Costituzione della Repubblica. Essa, negli articoli 2 e 32 dichiarava il diritto fondamenta le di ogni individuo alla vita e alla salute.
– Nello stesso anno 1948 iniziò la diffusione in Italia dell’antibiotico “penicillina” scoperto da Fleming.
Con gli antibiotici, e le nuove tecnologie di rianimazione, la sopravvivenza dei malati alle malattie mortifere aumentò sempre più; anche quelli ritenuti gravissimi iniziarono a sopravvivere per molti mesi, seppur condannati da mali incurabili. Allora cominciò a circolare una nuova espressione: “accanimento terapeutico”. Con questa espressione si intendeva indicare l’impiego illimitato di terapie, che pur efficaci e costose, non modificavano il triste destino finale del paziente.
– Nel 1957 il papa Pio XII fece uno storico discorso agli anestesisti. In esso, pur incoraggiandoli ad applicare tutti i loro sforzi rianimatori, sostenne che la Chiesa riteneva illecito l’impiego di pratiche inutili assimilabili ad un “accanimento terapeutico”. Sostenne invece la liceità della “sedazione profonda” nei pazienti con dolore intollerabile, per malattie incurabili, e destinati ad un fine vita sotto atroci sofferenze.
– Negli stessi anni, dal 1950 in poi, prese piede l’impiego esteso delle “cure palliative” per pazienti incurabili. Il termine “palliativo” viene dal latino “pallium” che tradotto è il “mantello”. Come un mantello che serve ad attenuare il freddo quelle cure non mirano alla guarigione ma alla gestione del dolore e delle altre sofferenze per portare un po’ di benessere al paziente e alla famiglia. Le cure palliative servono a migliorare la qualità della vita finale.
– Dal 1990 circa si diffusero le RSA (Residenze Sanitarie Assistite) e contemporaneamente iniziò la riduzione dei posti letto negli ospedali pubblici. I malati incurabili finirono i loro giorni nella casa di famiglia oppure come ospiti delle RSA.
Il “diritto” alla salute e alla vita dichiarati nella Costituzione sono un nobile intento, tuttavia la concreta realizzazione di quel principio inviolabile ha ancora un percorso lungo e difficile da fare. Il conflitto tra ciò che si desidera e ciò che è realmente possibile, sta facendo emergere altre esigenze che prima erano impensabili e che oggi i Governi devono affrontare.
– Il successo tecnologico della medicina, mirato all’allungamento della possibilità di sopravvivenza, sta facendo entrare in gioco l’articolo 13 della Costituzione. Esso tutela l’”autodeterminazione” del cittadino, cioè il diritto alle “libertà personali”. Tale libertà si esplica anche nella libera scelta sull’accettazione o meno dei trattamenti sanitari. La stessa “carta dei diritti fondamentali” della Comunità Europea, oltre a stabilire il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione, stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne casi particolari previsti dalla legge.
– La legge n. 219 del 2017 confermò l’importanza del “consenso informato” ai trattamenti sanitari e il diritto del paziente di imporre le proprie “Disposizioni Anticipate di Trattamento” (DAT).

In sostanza: dal 1948 ad oggi, sia le autorità morali religiose che quelle laiche hanno dichiarato che nessuno dovrebbe subire trattamenti sanitari contro la propria volontà. Ognuno è libero di decidere se sottoporsi o meno alle cure, dopo essere stato adeguatamente informato sui rischi e benefici e implicazioni sulla qualità della vita futura.
Le DAT sono le dichiarazioni del paziente che, in previsione di una futura ipotetica malattia invalidante che comporti l’incapacità di autodeterminarsi, servono ad orientare i curanti sulla loro azione terapeutica senza andare contro la volontà del paziente.
Questa legge è stata utilizzata da pazienti che non intendevano curarsi, ma preferivano accelerare i tempi del decesso tramite l’assunzione di farmaci in dosi letali. In questo nuovo scenario sono entrate nuove figure: i sanitari che hanno somministrato i farmaci letali. Quando questo è avvenuto vi è stata anche l’autodenuncia pubblica degli autori della somministrazione. Al chè l’autorità giudiziaria non ha potuto esimersi dall’intervenire contestando il reato ipotizzato dall’articolo 580 del Codice Penale; “istigazione al suicidio”.
Il processo si concluse a favore dei medici somministratori dei farmaci in dose letale.
– Nel 2019 la Corte Costituzionale, con sentenza n. 242, dichiarò l’incostituzionalità del suddetto articolo 580 del C.P. con questa motivazione: «… non è punibile chi agevola una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che essa reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli di porre fine alla propria vita, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una STRUTTURA PUBBLICA DEL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE previo parere del COMITATO ETICO territorialmente competente» (sentenza sul caso Cappato).
Oggi, dalle varie parti politiche in Parlamento, viene avanzata la richiesta di regolamentare con legge il “fine vita” e recentemente è stato pubblicato il testo proposto dal Governo.
Sintesi della legge sul “fine vita” da discutere in Parlamento:
– Articolo 1: sostiene che la Repubblica assicura la tutela della vita di ognuno senza distinzione.
– Articolo 2: “non è punibile chi agevola una persona, nel proposito di morire, qualora sia maggiorenne, capace di intendere e volere, sotto cure palliative, tenuta in vita da trattamenti sostitutivi delle funzioni vitali, e che sia affetta da patologie irreversibili, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche intollerabili, le cui condizioni siano state accertate dal Comitato Nazionale di valutazione (legge 833/78).
– Articoli 3 e 4: indicano l’iter burocratico per accedere al Comitato di Valutazione che dichiari la validità della richiesta di autorizzazione. Inoltre, indica in AGENAS il compito di fungere da osservatorio sulle Regioni che devono approntare un piano per le cure palliative domiciliari che possa raggiungere almeno il 90 per cento dei cittadini.
– Articolo 4: alla fine di questo articolo è stata inserita una postilla che così dice: «Il Personale del Servizio Sanitario Nazionale, gli strumenti e i farmaci dello stesso NON POSSONO essere impiegati al fine della agevolazione del proposito di fine vita considerato dalla sentenza della Corte Costituzionale del 22 Novembre 2019, n. 242».
In sostanza, si sostiene che le procedure di “ fine vita” programmate non possono essere offerte dal Servizio Sanitario Nazionale. Ne consegue che il paziente che ha ottenuto l’autorizzazione dal Comitato di Valutazione deve accedere al “fine vita” attraverso canali privati. La procedura sarà, dunque, da eseguirsi in luoghi privati, con medici e infermieri privati, con strumenti e farmaci a spese del richiedente.
Da quanto elencato, si evince che questo iter è complesso e costoso. Così pure è complessa e costosa la proposta del piano di allestire un servizio per le cure palliative domiciliari. Sembrerebbe molto difficile sia per la carenza specifica di specialisti, sia per la coesistenza degli enormi problemi organizzativi ed economici in cui si dibatte il Servizio Sanitario Nazionale. Si può supporre che le difficoltà saranno esaltate sia dall’intervento sul tema delle diverse sensibilità morali, religiose e laiche, sia per l’impegno burocratico che renderà necessaria una complessa struttura “ad hoc” di nuova organizzazione.
Le “cure palliative” oggi sono prevalentemente in mano alle famiglie che, in solitudine devono sostenere spese importanti sia per i professionisti sanitari da compensare, sia per il consumo di presidi, sia per l’adattamento degli ambienti casalinghi.
Nel caso della “sedazione profonda” il tutto si complica. Essa consiste nella induzione di una sorta di “coma farmacologico” nel paziente che lo ha richiesto. Questa tecnica si avvale di farmaci ipnotici rapidi, di oppiacei analgesici e di sedativi, allo scopo di ridurre l’ansia, il dolore, e anche la memoria.

L’associazione dei tre farmaci elimina lo stato di coscienza con perdita totale del controllo del cervello.
Ciò è necessario per rimuovere la percezione del dolore, l’angoscia, e la memorizzazione della sofferenza. Lo scopo che si deve porre colui che esegue la procedura è quello di rendere incosciente il cervello, ma stando attento a non far danni al centro nervoso del respiro che sta nel cervello. Ciò rende necessario l’avere a disposizione tre strumenti:
1 – farmaci dosati accuratamente;
2 – apparecchi respiratori di soccorso in caso di apnea;
3 – personale addestrato.
In sostanza, si deve creare un ambiente simile ad una piccola “Rianimazione” ospedaliera.
Si può fare la procedura a domicilio del paziente come si fa con le cure palliative? Sì, ma sarebbe molto costoso. Gli ambienti adatti sono gli ospedali e gli hospice. In questi luoghi si porrà il problema del personale e dei posti letto. Ieri, 6 luglio 2025, l’Unione Sarda dedica le pagine 1, 2 e 3 allo enorme problema della carenza di personale e dei posti letto negli ospedali pubblici sardi. Questo è quanto si prospetta per pazienti comuni di routine.
Il problema che emergerà con i pazienti moribondi che vogliono accedere al “fine vita” è molto più grande. Vi sarà il problema della formazione e funzionamento delle Commissioni Valutative che dovranno programmare la dinamica conclusiva. Non vanno trascurati i problemi etici e psicologici che interesseranno gli operatori e i familiari. E’ bene specificare che, nonostante la terminologia contenuta nell’espressione “suicidio assistito”, questi poveri pazienti non vanno assimilati al comune suicida per motivi esistenziali, che soffre per il motivo stesso di esistere e “non vogliono” vivere. Nel nostro caso si tratta di pazienti morenti per un male incurabile, che “vogliono” vivere ma senza soffrire. La sofferenza e l’angoscia della morte, comunque imminente, fanno optare per l’assunzione di farmaci che fanno perdere la coscienza e, con essa, le attività vitali del sistema respiratorio e cardiocircolatorio.
Esiste un altro problema etico procedurale: al fine di estraniare il più possibile gli operatori dalla dinamica che indurrà il “fine vita”, una parte del mondo politico vuole che sia il paziente stesso ad auto-somministrarsi la miscela di farmaci letali. Si può immaginare che vi sarà opposizione sia su questo punto sia sulla indisponibilità del Sistema Sanitario Nazionale a queste funzioni.
Sarà una discussione incredibile che rimetterà tutto in gioco: l’accanimento terapeutico, la sedazione profonda, il Sistema Sanitario Nazionale, la morale.

Mario Marroccu

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La prima ad offrirsi come “cavia” per testare il vaccino anti-virus “Sars-2-CCov19” è stata Elisa Granato. Giovedì 23 aprile si è fatta inoculare un vaccino sperimentale presso l’Istituto Jenner di Oxford.

Sappiamo che ha 32 anni ed è nata in Germania da genitori italiani; la sua lingua madre è il tedesco; parla fluentemente l’inglese in quanto studia come Biologa presso l’Università di Oxford; capisce l’italiano. Lei ed un altro giovane sono stati scelti fra 500 volontari sani. Adesso è in osservazione. Mattina e sera viene redatto un diario clinico sul suo stato di salute. Oggi, 27 aprile, sta bene. Tutto il mondo è in gara per la formulazione del vaccino più efficace e più tollerato. Al momento sono pronti, per essere testati, 115 vaccini. Tutti hanno superato la Fase I: è il test sugli animali di laboratorio. La Fase II comporta il test sull’Uomo ed è finalizzata a capire se possono comparire danni imprevisti, di vario grado, alla salute, dal lieve malessere al decesso.

Se la Fase II verrà superata si passerà alla Fase III, con l’inoculazione ad alcune migliaia di esseri umani. Se anche la Fase III sarà superata, e si sarà ottenuta una produzione di anticorpi efficace, si procederà alla produzione industriale del vaccino.

Quindi si passerà alla distribuzione ed alla vaccinazione di 7 miliardi e mezzo di esseri umani. I tempi saranno lunghi.

Stiamo ripercorrendo i passi storici descritti nei testi di “Storia della Medicina”, da Edward Jenner (1700), Robert Koch e Luigi Pasteur (1800).

Esiste una difficoltà nel preparare questo vaccino: il virus è poco immunogeno, cioè fa produrre anticorpi poco efficaci e poco duraturi. A questo punto è entrata in gioco la “genialità italiana”. Si è vista nella scelta fatta in un laboratorio di Biologia Molecolare di Pomezia. Il Coronavirus assomiglia un po’ allo HIV che muta troppo rapidamente e riesce ad ingannare il sistema immunitario.

Le scienziate e gli scienziati di Pomezia hanno astutamente fabbricato un “Cavallo di Troia” virale. Hanno utilizzato un “adenovirus” del raffreddore della scimmia e gli hanno messo “in pancia” un frammento di proteina di Coronavirus. In tal modo il  sistema immunitario è indotto a produrre anticorpi sia contro il virus della scimmia sia contro la proteina della capsula proteica del Coronavirus, uccidendoli entrambi. Si cerca di sapere se il trucco funziona.

Ce lo svelerà Elisa Granato.

La cittadina di Pomezia è grande come Carbonia e Iglesias messe insieme: 62.000 abitanti. Vi ha sede l’Istituto di ricerca “Advent IRBM Science Park”.

L’Istituto è fondato sui programmi di 4 società:

  • IRBM: studia nuovi agenti farmaceutici chimici o biologici;
  • Advent: sviluppa vaccini adenovirali per uso clinico;
  • Promidis è un consorzio pubblico-privato formato da CNR (Centro Nazionale Ricerche), ISS (Istituto Superiore di Sanità);

L’IRBM nacque nel 1990 dalla casa Fermaceutica Angeletti SPA,  dalla Americana Merk-Sharp e dall’italiana Sigma Tau.

Nel 2009 l’Azienda si fuse con l’Americana Schering-Plough, la quale decise subito dopo di dismettere quel ramo d’azienda con cui si era appena fusa. Da allora l’Azienda è totalmente italiana e di proprietà di Piero Di Lorenzo.

Oggi la collaborazione tra l’“Institute” della Oxford University e la Advent IRBM di Pomezia ha messo a punto il vaccino ed è iniziata la sperimentazione di Fase II su volontari.

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Un’altra donna, legata alla storia delle epidemie  e dei vaccini, è Lady Wortley Montague. Nacque nel diciassettesimo secolo, fu moglie di Edward Wortley Montague, ambasciatore inglese presso l’Impero Ottomano. Questa donna viene ricordata nei testi di storia della Medicina perché, durante la permanenza a Costantinopoli apprese la tecnica della “vaiolizzazione”.

In quei tempi a Londra il vaiolo era endemico ed esplodevano epidemie mortifere ogni 5 anni. Veniva colpito il 60 per cento della popolazione e il 20 per cento moriva. Morivano soprattutto bambini. Anche il virus vaioloso, come il Coronavirus, viene contagiato per via aerea attraverso l’aerosol prodotto dal fiato espirato dal portatore. Lady Wortley aveva notato che nel mondo islamico non si registravano epidemie così virulente di vaiolo. Lei attribuì il fenomeno all’abitudine dei musulmani di scarificare la cute dei bambini con pus estratto da pustole di malati in fase di guarigione. I bambini contraevano il vaiolo in forma leggera, poi diventavano immuni per sempre. Lady Wortley fece “vaiolizzare” i figli. Al rientro in Europa, essendo già nota tra gli intellettuali Illuministi per aver pubblicato opere letterarie, diede il via ad una campagna di informazione sulla “vaiolizzazione”. In questo fu sostenuta in Francia da Voltaire, e in Inghilterra dalla stessa famiglia reale. Tuttavia, il metodo non si diffuse sia perché alcuni soggetti “vaiolizzati” morivano, sia perché il metodo proveniva da un paese islamico.

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Nel 1798 il medico Edward Jenner pubblicò le sue annotazioni sulla tecnica da lui messa a punto: la “vaccinazione”. Egli da bambino era stato vaiolizzato col metodo islamico.

Aveva notato che le donne mungitrici si ammalavano del “vaiolo delle vacche”. Era una forma leggera di vaiolo che si limitava alla comparsa di pustole sulla cute delle mani. Egli notò anche che queste donne, durante le epidemie di vaiolo, non si ammalavano.

Forte della esperienza trasmessa da Lady Wortley, e avendo immaginato che il “vaiolo delle vacche” fosse un “cugino benigno” di quello dell’uomo, avviò una sperimentazione. Prelevò pus dalle pustole delle mani delle mungitrici e lo scarificò sulla cute di un bambino il cui nome  passò alla storia: James Phipps. Dopo un paio di mesi espose il bambino al contagio tra malati gravi di vaiolo e questi rimase indenne.

Dopo questo primo approccio, scarificò anche la cute di suo figlio di 8 anni. Il risultato fu identico. Ripetè ancora l’esperimento su altri soggetti e dimostrò definitivamente che l’inoculazione di agenti del vaiolo delle vacche protegge contro il temibile vaiolo umano.

Il termine “vaccinazione” sostituì presto la dizione di “ inoculazione da vaiolo delle vacche” e fu usato per la prima volta da un amico di Jenner in un opuscolo che dette alle stampe nel 1800. Successivamente, Pasteur propose di utilizzare, in onore di Jenner, il termine di “vaccinazione”per le nuove e future tecniche similari.

Il primo ad attuare  la vaccinazione di massa antivaiolosa sulle sue truppe fu Napoleone Bonaparte dopo la triste conclusione della Campagna d’Egitto. La Guerra d’Egitto, iniziata da Napoleone nel 1798, era stata gravata da una epidemia di “peste bubbonica” e questa fu una delle cause del suo fallimento. Successivamente Napoleone fallì anche la Campagna di Russia più per una grave epidemia di “tifo esantematico”, che decimò e indebolì le sue truppe, che per l’inverno russo. La malattia veniva trasmessa dai pidocchi.

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Nonostante gli evidenti effetti protettivi del “Vaccino”, il metodo  incontrò gravi difficoltà ad essere accettato dalla cultura del tempo. Si formò una forte corrente di opinione pubblica avversa alimentata anche da medici e uomini di chiesa. Questi erano gli antesignani degli “antivaccinatori odierni”. Essi sostenevano che la “vaccinazione” fosse opera di un complotto internazionale contro il popolo, allo scopo di “minotaurizzarlo” e renderlo succube a poteri occulti. La dietrologia antivaccinatoria ha radici lontane.

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Una donna eccezionale che ha fatto la Storia della assistenza infermieristica ospedaliera in corso di epidemie fu Florence Nightigale. Era anche lei di nobile famiglia inglese con radicate convinzioni religiose. Il padre fu uno dei fondatori della “Epidemiologia”. Essa stessa era particolarmente versata nelle Scienze matematiche e nello studio della “Statistica”. Classificava la “prevalenza” delle malattie e la loro “incidenza”; la “mortalità” e la “ letalità”, con un “istogramma” di sua invenzione: “L’istogramma circolare“. Lei rappresentava le percentuali statistiche, in modo figurato, con una “torta tagliata a spicchi”, dove ogni spicchio corrisponde alla percentuale; l’intero cerchio corrisponde al 100 per cento.

Florence apprese le nozioni di Medicina frequentando un ospedale di diaconesse luterane in Prussia. Era l’ospedale per soldati più avanzato al mondo. Le donne avevano capito che i soldati non morivano a causa delle ferite ma, nella maggior parte dei casi, per malattie contratte negli ospedali da campo. Ne derivò la messa a punto di tecniche di Igiene ospedaliera.

Nell’anno 1854 era in corso la “Guerra di Crimea”  tra l’alleanza formata da Inglesi, francesi ed ottomani, contro i Russi. Partecipò tra le potenze europee anche il piccolo Regno di Sardegna inviando 17.000 soldati sardi. In Crimea era scoppiata una epidemia di colera e tifo esantematico, e faceva molte vittime. I malati venivano trasferiti per nave, attraverso il Mar Nero, a Scutari, un sobborgo di Costantinopoli.

Florence Nightingale, con un gruppo di infermiere addestrate da lei, si fece portare a Scutari da una nave da guerra inglese. Trovò che la mortalità tra i soldati ricoverati in quell’ospedale da campo era altissima. Sappiamo che in quell’occasione morirono 3.000 soldati sardi, quasi tutti per l’epidemia. Florence studiò il campo-ospedale; rilevò la percentuale di feriti e di contagiati; studiò i focolai di contagio e trasformò le informazioni in numeri e grafici statistici. Risultò che la “mappa” della maggiore “incidenza” indicava come responsabile un luogo dove non c’era un drenaggio fognario per le acque sporche. Inviò la relazione al vice-Primo ministro in patria e ottenne finanziamenti, mezzi ed ingegneri per costruire un corretto impianto fognario e di depurazione delle acque. In breve al mortalità calò del 50 per cento.

Rientrata in patria pubblicò i suoi studi di statistica sanitaria e divenne famosa nel mondo. Venne invitata a corte dalla regina Vittoria ma vi si recò solo dopo aver osservato un periodo di “quarantena” nel proprio domicilio, dove non permetteva neppure alle sorelle a alla madre di avvicinarsi. Tale era la consapevolezza dell’importanza dell’autoisolamento per chi proviene da una zona “rossa” epidemica.

Successivamente gli Americani, impegnati nella sanguinosa “Guerra di secessione”, la convocarono e le affidarono il compito di addestrare un esercito di infermiere da far scendere in campo. Fondò l’Ordine delle infermiere americane.

Non si sposò mai. Seguì la sua “mission” sino alla fine.

Era nata a Firenze il 12 maggio 1820. Morì a Londra nel 1910 e fu decisa la sua tumulazione nella Cattedrale di Westminster ma, per suo volere, la famiglia la fece seppellire nel cimitero di “Margareth of Antioch”.

Quest’anno è il bicentenario della sua nascita. Gli Ordini professionali del personale infermieristico di tutto il mondo l’hanno dedicato a lei.

A maggio cade l’anniversario di Florence Nightingale e nello stesso mese passeremo dalla Fase 1 alla Fase 2 dell’epidemia di Coronavirus. Oggi la sua capacità statistica nel classificare il fenomeno epidemico ed il suo rigore nelle scelte di “Igiene ospedaliera” sono  di grande aiuto.

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Da febbraio 2020 ad oggi abbiamo visto molte donne-scienziato scendere in campo contro il virus. Abbiamo visto come i laboratori di ricerca dove si allevano virus e microbi siano gestiti quasi esclusivamente da donne. Secondo i giornali, sembra che il virologo più apprezzato sia la professoressa Ilaria Capua, che dirige un Istituto di Virologia a Miami.

Numerosissime sono le dottoresse rianimatrici ed infermiere impegnate in un corpo a corpo contro il virus.

Fuori dagli ospedali vediamo le donne sostenere le famiglie, i bambini, i nonni, ma anche alleviare ai giovani e agli adulti la prova dell’isolamento e della sospensione forzata dal lavoro.

Qui nel Sulcis, nei momenti più critici per la mancanza di “presidi” come le mascherine, vi è stato un movimento spontaneo di donne che hanno preso l’iniziativa di cucire le mascherine chirurgiche in quantità tale da soddisfare l’esigenza di Ospedali e delle famiglie.

Adesso inizia la fase più dura: si passa dalla fase di “fuga” alla fase di “attacco” al virus. L’ha iniziata, ad Oxford, un’altra donna: Elisa Granato.

Mario Marroccu