5 December, 2025
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Recentemente, in una cittadina del Sulcis, le campane hanno suonato “a morto” per la Sanità. In realtà la Sanità non è morta. E’ stata trasformata e il suo funzionamento suscita perplessità.
Nella nostra ASL 7 il percorso in discesa iniziò alla fine degli anni ‘90. Un esperto economista, di formazione bocconiana, parlando al popolo riunito dei dipendenti della ASL 7, nell’aula “Velio Spano” di Carbonia, spiegò che gli ospedali, nati per produrre “sanità”, avrebbero iniziato ad essere gestiti esattamente come si gestiscono le fabbriche che producono “bulloni”. Secondo le direttive, che stavano arrivando dagli esperti del Governo, i nuovi direttori delle ASL avrebbero dovuto ottenere risultati di “efficienza ed efficacia” attraverso metodi di tipo manageriale. Con questo significava che si doveva ottenere gli stessi risultati già ottenuti spendendo di meno e risparmiando sul numero dei dipendenti (medici, infermieri, amministrativi, tecnici) e sui posti letto. L’altra parola chiave per capire il nuovo metodo di gestione fu “accentramento”: i servizi distribuiti nei territori dovevano venire accentrati e unificati in un’unica sede. Ciò venne fatto e la Sanità “concreta” che avevamo fino ad allora conosciuto, fatta di malati, medici e infermieri, ridotti di numero col blocco delle assunzioni, cominciò a sciogliersi.
La Sanità ospedaliera di Carbonia ed Iglesias venne sminuita progressivamente e avvenne un fenomeno simile a quello che avviene ad un blocco di ghiaccio che si scioglie: divenne sfuggente come un “liquido” che sfugge tra le dita delle mani.
Il metodo di “liquefazione” dei servizi e della stessa struttura sociale non si limitò al campo sanitario. Stava avvenendo uno scambio di valori in molti settori del vivere comunitario. I nuovi economisti avevano invertito la scala di precedenza dei due scopi del lavoro umano: la soddisfazione dei bisogni dell’uomo e l’arricchimento. Il primo posto venne dato all’arricchimento, il secondo venne dato alla soddisfazione dei bisogni umani. L’inversione modificò radicalmente lo scopo per cui esistevano gli Ospedali. Non più la soddisfazione del bisogno dei singoli richiedenti assistenza ma il risparmio e l’incasso. I medici vennero obbligati a fare corsi per imparare a incassare di più con i DRG (metodi di pagamento delle prestazioni). Si iniziò a spendere di meno per il Welfare-state e si ridussero le risorse ad esso necessarie. Il metodo ignorava il fatto che, comunque, i bisogni dell’uomo sono insopprimibili e che, prima o poi, ottengono soddisfazione, ma a costi maggiorati. Il professor Zygmunt Bauman, sociologo, filosofo e professore all’Università di Leeds nello Yorkshire, venne incuriosito da questo nuovo metro dato ai valori umani e definì la nuova società che si stava formando “società liquida”.
Così definiva la precarietà delle istituzioni in continuo mutamento, e le relazioni umane divenute assolutamente instabili. Secondo Zygmunt Bauman l’instabilità del contesto sociale, in cui la solidarietà perde peso, consente lo sviluppo dell’individualismo dilagante. In tale contesto la perdita di fiducia nelle relazioni viene peggiorata dalle nuove tecnologie che alimentano una paradossale forma di isolamento digitale. Gli effetti della “modernità liquida”, come descritti da Zygmunt Bauman, si manifestano diffusamente nei rapporti con il lavoro, con la politica e i servizi sociali, e perfino nei rapporti all’interno dalla stessa famiglia e della coppia (la “coppia liquida”). Ne è conseguita anche la crisi progressiva dei partiti politici e dei sindacati, anch’essi progressivamente “liquefatti” e sfuggenti. I rapporti sociali finiscono per sfuggire al controllo dei cittadini, sia come singoli che come comunità all’interno delle grandi strutture sociali, come la sanità pubblica, e diviene molto difficile sovvenire sia ai propri bisogni che a quelli degli altri.

Fenomeni sociali come questo hanno bisogno di molti anni per maturare. Nel sistema sanitario-ospedaliero del Sulcis Iglesiente i passi della disgregazione liquefazione) del sistema sanitario sono avvenuti con una successione storica che è utile ricordare nel caso si volesse porvi riparo. L’ospedale Sirai, insieme all’intera città neocostruita di Carbonia, fino al 1946 era proprietà aziendale della ACAI e della Società Carbonifera Sarda. Quando la città divenne un Comune, l’ospedale passò sotto il suo controllo. Divenne Ente Ospedale Comunale, presieduto dal Sindaco, fino alla Grande Riforma di Tina Anselmi del 1978. Similmente avvenne con gli ospedali di Iglesias. Nacquero così la USL 7 (Carbonia) e la USL 16 (Iglesias). Gli Ospedali che erano allora proprietà dei Comuni divennero proprietà dello Stato ma vennero affidati alla amministrazione dei Comitati di Gestione, espressione di tutti i Comuni del Sulcis e dell’Iglesiente.
A dicembre 1992 il Governo legiferò producendo una nuova riforma sanitaria: la 502/1992 di Francesco de Lorenzo. Questa abolì i Comitati di Gestione eletti dai Comuni territoriali; trasformò le USL in “Aziende” e pose a dirigerle un “manager”. Figura monocratica nominata dalla giunta regionale. Le modifiche apportate da questa Riforma ebbero l’effetto di sottrarre del tutto, sia gli ospedali che la rete sanitaria territoriale, dal controllo dei Comuni. Fu il primo atto di dissociazione (liquefazione) del Sistema sanitario ospedaliero del Sulcis Iglesiente dal suo territorio. Nel 1999 la ministra Rosy Bindi, con la sua riforma n. 229/1999 confermò e rafforzò l’evoluzione in senso aziendale autonomo delle ASL. Per effetto di quella legge aumentava ulteriormente l’indipendenza aziendale e, contemporaneamente, i rappresentanti politici del territorio venivano radicalmente esclusi dal controllo della gestione sanitaria. Lo scopo virtuoso, dichiarato dal legislatore, era il mantenimento dell’equilibrio di bilancio. Gli effetti avversi collaterali che invece si produssero furono esattamente quelli previsti da Zygmunt Bauman: il controllo della Sanità sfuggiva dalle mani dei cittadini e dei loro rappresentanti politici. Oggi sia i sindaci che i cittadini non hanno più strumenti concreti per interferire a proprio vantaggio nella gestione della ASL. Il Sistema oggi è sotto il controllo totale di altri enti regionali (Assessorato e ARES) che hanno accentrato tutte le funzioni amministrative di programmazione, spesa e controllo.
Ai tempi degli Ospedali controllati dalle Amministrazioni Comunali locali, tra Carbonia e Iglesias esisteva una dotazione di 750 posti letto. Il Sirai di Carbonia ne aveva 384. La Chirurgia Generale del Sirai era dotata di 86 posti letto. La Medicina (I e II) ne aveva 130. Gli altri posti letto erano distribuiti tra Maternità, Pediatria, Ortopedia, Psichiatria, etc. Con le riforme che seguirono i posti letto ospedalieri vennero ridotti progressivamente a 24 in Chirurgia e a 30 circa in Medicina. La riduzione di posti letto (per acuti) ha comportato una minore necessità di Personale sanitario specializzato nei nostri ospedali. Il Personale ritenuto eccedente, una volta eliminato, non è stato più ripristinato; ciò rende impossibile riattivare i letti precedenti. Oggi i posti letto totali sono un centinaio a Carbonia e altrettanti ad Iglesias. Dai 750 posti letto dell’inizio di queste operazioni di “razionalizzazione” oggi ne mancano 550 circa. I pazienti non acuti finiscono nelle RSA o in altri ospedali, sia privati che pubblici di Cagliari e del Continente. Oltre alla diminuzione di posti letto è stata eseguita la soppressione funzionale di altri reparti come Pediatria, Ostetricia, Urologia, Traumatologia, Neurologia. Per alcuni di questi servizi specialistici è stato applicato il principio dello “accentramento” dei posti letto ad Iglesias. Ciò comporta certamente un risparmio economico nell’immediato. In futuro questo supposto risparmio si ritorcerà contro il bilancio della nostra ASL 7 perché quei pazienti che non hanno trovato posto si sono ricoverati presso altre strutture che dovranno essere ripagate. Alla fine dei conti, questa operazione avrà un costo molto alto. Abbiamo solo spostato il luogo dove si spendono i soldi: a Cagliari. I disagi conseguenti sono enormi.
Quelle leggi (Francesco De Lorenzo e Rosy Bindy) hanno avuto lo scopo di controllare la spesa sanitaria, in realtà hanno prodotto incertezza del servizio sanitario, delocalizzazione dei servizi, e mancate assunzioni (fenomeno dannoso quanto lo sono i licenziamenti).
Oggi ci troviamo con poco personale in pianta stabile e con molte convenzioni libero-professionali sia con medici dei Pronto Soccorso sia con agenzie interinali che ci prestano il loro personale per servizi come il CUP, le manutenzioni e altre attività essenziali.
Le cucine e la lavanderia vennero soppresse in passato e i loro servizi vennero dati in appalto a società esterne.
Tutto questo avrà pure degli ipotetici vantaggi ma sicuramente ha lo svantaggio di aver destrutturato un organismo complesso come quello dei nostri ospedali che erano completi e capaci di vita autonoma. Se i servizi esterni dovessero chiudere all’improvviso, per i motivi più disparati (immaginiamo uno stop ai servizi di cucina o di lavanderia) dovremmo chiudere gli ospedali. La precarietà strutturale in cui si trovano i nostri ospedali è stata ideata per un fine utile, necessario e aderente alla nuova modernità: tutto vero. Purtroppo, è anche vero che la struttura ideale di ospedale come unica entità autosufficiente, come fu in passato, e come dovrebbe essere in caso di grandi calamità o guerre, non esiste più. Oggi è una struttura che si trova in costante precarietà e instabilità, e suscita una motivata preoccupazione.
Se si ammette la fondatezza di queste osservazioni si deve concludere che il problema fondamentale del Sistema sanitario non sta nella mancanza di finanziamenti, o di medici e infermieri, ma sta soprattutto nell’instabilità strutturale, “liquida”, dell’intera organizzazione sanitaria.
Probabilmente abbiamo necessità di restituire agli Ospedali la loro struttura integrale nella dotazione di personale e servizi, caratterizzata da autonomia e autosufficienza.
Si potrebbe iniziare coll’assumere in pianta stabile tutto il personale precario, ma necessario. Si potrebbe continuare col ridare una funzione di controllo ai Sindaci all’interno della ASL. Così pure sarebbe auspicabile restituire ai primari la loro posizione gerarchica all’interno dell’apparato gestionale con funzioni di consulenti costanti della Direzione sanitaria, di quella Amministrativa e del Consiglio provinciale dei sindaci. Queste poche cose inizierebbero a restituire “concretezza” all’apparato sanitario ospedaliero pubblico.
Per quanto riguarda la Medicina di base esistono soluzioni già sperimentate.

Mario Marroccu

Abbiamo vissuto il tempo della sanità gratuita per tutti “dalla culla alla tomba”. Poi è venuto il tempo della Sanità a ranghi ridotti per risparmiare, e abbiamo cominciato a pagare esami e visite specialistiche. Adesso inizia il terzo tempo della “curva discendente” della Sanità pubblica: quello della nostra salute affidata alle assicurazioni. Ne esistono già i segni premonitori. Il giorno 24 giugno, la più nota emittente radiofonica italiana dedicata ai fatti economici, ha pubblicizzato la LTC (Long Term Care). Si tratta di un’assicurazione sanitaria per ottenere cure a lungo termine. Protegge dal rischio della perdita di autosufficienza in caso di malattie croniche inabilitanti. L’obiettivo della LTC è fornire un sostegno economico per coprire le spese sanitarie sia domiciliari sia in strutture specialistiche.

Durante la trasmissione ha chiamato un ascoltatore per dire quanto segue: «…io sono un lavoratore autonomo che sta andando in quiescenza con una pensione di 1.600 euro al mese. Supponiamo che riesca a destinare 100 euro mensili per l’acquisto della polizza LTC, quanto varranno quei 100 euro fra 10 anni?. Varranno tanto da pagarmi le spese di riabilitazione o di stipendiare una badante?»

I giornalisti hanno risposto: «E’ chiaro che non basteranno; infatti la polizza prevede che lei versi all’assicurazione anche tutto il suo TFR, cioè la liquidazione che riceverà andando in pensione». Si tratta di quella liquidazione che ogni pensionando attende per ripianare tanti debiti, per pagare le rate dell’auto, del mutuo della casa, dei lavori di manutenzione, eccetera. E’ evidente che il lavoratore e il pensionato medio non potranno rinunciare alla liquidazione. Potranno sottoscrivere quella polizza solo i titolari di redditi e pensioni corpose, cioè coloro che, comunque, potrebbero permettersi di pagare una badante, o il fisioterapista o la dialisi privata.

Il punto è questo: i super-pensionandi agiati non sono una preoccupazione. Sono una preoccupazione i titolari di piccoli e medi redditi e pensioni, cioè la maggioranza. Morale: l’assicurazione “long term care” non mette al sicuro la quasi totalità degli italiani con finanze appena autosufficienti. Soltanto lo Stato ha ancora il potere di proteggerli dalle difficoltà che dovrà affrontare la Sanità pubblica. E’ noto che i problemi internazionali, i dazi, le guerre, il riarmo, impegnano le risorse dello Stato in altre emergenze. Ci resta allora la possibilità di chiedere un maggiore sforzo in assistenza sanitaria alle Regioni. Esse negli ultimi decenni si sono impegnate a produrre leggi sanitarie regionali dedicate alla creazione di nuove “strutture organizzative” dotate di organigrammi amministrativi complessi. Si tratta di leggi ostiche, formulate con linguaggio burocratico poco comprensibile. Nonostante nella premessa di quelle leggi venga proclamato lo scopo di dare migliori servizi sanitari alla popolazione poi, negli articoli che seguono, il “malato” non viene neppure citato. Vengono invece elencati gli incarichi da dare alle gerarchie degli organi direttivi di nuove strutture più o meno utili.

Pertanto, anche l’interlocutore “Regione” non è facile da interpellare. Ci rimangono i sindaci: gli unici, concreti, presenti e avvicinabili rappresentanti delle popolazioni territoriali.

Visto che non si possono affidare le cure dei malati cronici, soprattutto degli anziani, ad aziende private, è necessario che i sindaci prendano l’iniziativa di proteggere i cittadini dalle prospettive illustrate dalle assicurazioni. Esse, infatti, sostengono che le polizze per le “ Cure a lungo termine” non vengono proposte al malato cronico in sé, ma ai suoi conviventi e segnatamente ai figli. La motivazione è la seguente: « … nel caso in cui un parente convivente, padre o madre, avrà bisogno delle cure che lo Stato non potrà più dare, i costi dovranno essere sostenuti dai familiari che hanno un reddito: in genere i figli. Pertanto, se i figli non vogliono finire nel baratro delle spese per l’anziano genitore o dell’inabile a carico, è meglio che si convincano che devono essi stessi acquistare la polizza assicurativa LTC». Ecco: il cerchio è chiuso. Purtroppo, ciò sta avvenendo in tempi in cui la tecnologia digitale sta riducendo progressivamente i posti di lavoro dipendente nelle banche, nei supermercati, nelle attività amministrative, nelle università, nelle fabbriche, nei servizi pubblici, eccetera. La circolazione del danaro dedicato agli stipendi si sta limitando e si sta spostando in un altro circuito più ristretto; ciò avviene a causa della sostituzione digitale di molte funzioni burocratiche. Così i soldi si fermano in mano ai gestori delle grandi reti digitali. E’ previsto che tale fenomeno aumenterà con l’arrivo della Intelligenza Artificiale (A.I.) nel mondo del lavoro. In un mondo così preso nell’ingranaggio digitale, come lo stanno ipotizzando gli economisti e i sociologi, chi potrà pagarsi una badante per assistere il parente non autosufficiente?

Inoltre, considerato che i vecchi non autosufficienti aumenteranno, mentre i giovani diminuiranno, chi riuscirà a pagare l’assistenza sociale e sanitaria per tutti i richiedenti  Si prospetta un incubo. Tutti insieme potremmo contrastare i danni. «Tutti insieme», come? Attraverso il senso di appartenenza ad una comunità solidale. Tale appartenenza non può frammentarsi in divisioni correntizie. Sarebbe ideale avere una rappresentanza locale, unificante e governante, espressa dalla fiducia di tutti. Ci serve l’abolizione dalla “fede cieca” nei potentati e l’applicazione di un metodo scientifico nel momento in cui votando sceglieremo il candidato a governarci. Come diceva Galileo «credi in quello che vedi, che tocchi, che sperimenti personalmente, che critichi, che puoi rifare e migliorare». Cioè credere che la verità sia solo quella empirica (basata sull’esperienza vissuta e personale), che si presti alla revisione, al controllo e alla correzione. Bene fanno gli americani che dopo due anni dall’elezione del Presidente rinnovano il rito del voto ai parlamentari. Si chiamano “elezioni di medio termine”. I parlamentari eletti, che dopo due anni non abbiano attuato le promesse dei programmi amministrativi, vengono rimandati a casa. Fra un anno e mezzo, in America, verrà rieletto il Parlamento. Se Trump non avrà soddisfatto il contratto elettorale, i suoi elettori si libereranno dei suoi parlamentari inadempienti e li rimanderanno a casa; lui andrà in minoranza e verrà messo sotto stretto controllo da un’opposizione più vasta. Questo è il vero segreto dell’efficienza della democrazia in America: il popolo può liberasi del parlamentare inadempiente. In quel caso il potere dato ai politici governanti è controbilanciato dal potere dato al popolo di rimandare a casa dopo due anni coloro che non hanno rispettato gli impegni presi. Stessa cosa si fa con gli alti dirigenti delle agenzie di stato con lo “Spoil system”. Nessun potente è al sicuro per sempre.

In Italia invece non esiste l’istituto delle “elezioni di medio termine”. Il popolo italiano non ha i poteri per controbilanciare il potere perenne del governante eletto. Ne consegue che i parlamentari eletti possono eludere le promesse elettorali senza correre il rischio di perdere il posto, l’autorità e lo stipendio, per 5 anni.

Questa mancanza di potere impedisce ai cittadini di far sentire la forza del loro controllo sulla Sanità. Fino al 1992, le USL (Unità Sanitarie Locali) erano gestite e controllate dai Sindaci tramite il Presidente. Di fatto l’incarico al Presidente di gestire la USL, avveniva per elezione popolare indiretta e il programma amministrativo era un vero “contratto”. Se il sindaco non rispettava il contratto veniva rimandato a casa con le elezioni comunali successive. Fu il periodo migliore della sanità pubblica. Poi, dopo il 1992, con Francesco de Lorenzo, Maria Pia Garavaglia e Rosy Bindi vennero prodotte leggi di riforma sanitaria che abolirono la presenza democratica di rappresentanti politici eletti dalle amministrazioni sanitarie territoriali. Lo fecero con un semplice marchingegno: abolirono le USL e le trasformarono in ASL (Aziende Sanitarie Locali). In tal modo poterono creare i “Manager”, figure non elette, messe a capo delle Sanità territoriali, e le svincolarono dal controllo della politica locale. Cioè le svincolarono dai sindaci. Questo fu l’inizio della fine. Dal 2000 i governi successivi produssero leggi ancora più rigide. Per il controllo della spesa pubblica si procedette alla riduzione del personale sanitario, dei servizi ospedalieri e iniziò il tempo degli accorpamenti di ASL e ospedali. Si raggiunse l’acme del rigore dopo la crisi di Goldman-Sachs nel 2008, la crisi economica internazionale che ne conseguì e l’aumento vertiginoso dello spread in Italia. I governi caddero e si dovette affidare l’Italia al rigorosissimo governo Monti, il quale avviò ulteriori restrizioni sanitarie. La sanità pubblica divenne un’esclusiva organizzazione burocratica, e i sindaci e le gerarchie sanitarie ospedaliere vennero estraniate definitivamente dalla gestione della Sanità. I “Manager” non stabilirono canali di comunicazione con le popolazioni e iniziarono a prendere direttive soltanto dalla burocrazia regionale. Tali strutture avevano un chiara “mission”: spendere il meno possibile.

Il nuovo modo di gestire la Sanità pubblica portò alla riduzione progressiva di Unità Operative Specialistiche ospedaliere, e alla scomparsa di molte migliaia di posti letto. Fino a quel periodo, tra i 1992 e 2000, all’ospedale Sirai di Carbonia avevamo 384 posti letto. Oggi, per effetto di quei fatti storici, i posti letto sono ridotti a un centinaio.

Il “Consiglio dei sanitari” che supportava il presidente della USL, fino a tutto il 1992, era formato da tutti i primari, da un rappresentante degli Aiuti medici e da uno dei tecnici. Esso era un istituto fondamentale per dare al Presidente della USL tutte le informazioni corrette sullo stato della Sanità pubblica, reparto per reparto. Dopo la eliminazione di quel Consiglio, il controllo di tutto il sistema dei reparti ospedalieri passò nelle mani della sola burocrazia Regionale che sapeva tutto sulla contabilità ma nulla sui malati. Era avvenuto un cambiamento importante: il “contratto” fra i cittadini e i politici eletti al governo della Regione finì: si passò dal “contratto” di atti concreti, richiesti dalla base elettorale, a semplici “promesse elettorali”. Le “promesse” sono generiche dichiarazioni sull’intenzione di fare “il bene di tutti” senza la garanzia di un sistema di controllo. Il potere di controbilanciamento al potere dei politici eletti, come nel caso dell’elettorato americano, in Italia non esiste. Così i politici, dissociatisi dal controllo dei cittadini elettori, passarono ad un rapporto diretto con i soli apparati amministrativi.

Per capire il cambiamento di mentalità avvenuto, basta leggere i testi delle leggi sanitarie varate da allora in poi: sono in linguaggio molto tecnico, riservato agli addetti, fatto di richiami ad altre leggi: sostanzialmente incomprensibili. Tanto incomprensibili che probabilmente quei testi non vennero totalmente capiti neppure dagli stessi consiglieri che poi li avrebbero votati.

Oggi, con l’incubo del futuro che arriva, è facile immaginare il fallimento sanitario che porterà povertà alle famiglie. Povertà dovuta alle spese che ogni cittadino dovrà sobbarcarsi per assistere i familiari non autosufficienti. Lo hanno capito con grande anticipo le assicurazioni private che stanno propagandando le polizze LTC (“cure a lungo termine”).

Che fare? Da queste premesse sembrerebbe necessario:

– Nominare, come Presidente della ASL, un sindaco con funzioni di controllo e verifica sulla gestione.

– Pretendere un “contratto elettorale”, per i candidati al Consiglio regionale, che contenga delle penalità, e decadenza, per chi non lo rispetta;

– Restituire autonomia gestionale al Consiglio dei sanitari.

– Associare il “Consiglio dei sanitari” alla “Commissione sanitaria provinciale” formata dai sindaci del territorio, con funzioni di controllo, verifica e proposta.

L’alternativa è: rassegnarsi e cedere alle assicurazioni private il controllo della Sanità.

Mario Marroccu

Per il prossimo Natale, vedremo un fenomeno a cui siamo abituati da anni e che può essere utile per spiegare cosa sta succedendo. In questi giorni può capitare, al momento di pagare, che alla cassa ci propongano di acquistare dei gadgets, o di fare un’offerta, a favore di un ricco ospedale, che diventerà un beneficio per i malati.
Premettiamo che un’offerta per la Sanità è un gesto altamente meritorio a cui tutti dovremmo partecipare. Questo meccanismo di raccolta fondi è anche utile per capire un fenomeno più generale diffuso in tutta Italia, soprattutto al Nord. Ci si chieda: chi ha pensato di raccogliere fondi per i malati? Forse i medici e gli infermieri? E’ poco probabile. E’ molto più probabile che l’idea provenga da un ufficio di contabilità ospedaliera. A cosa servono quei soldi? Servono senza dubbio a creare un “fondo integrativo “ per migliorare le cure del malato.
Bisogna tener presente che l’ospedale è già finanziato dal Fondo sanitario pubblico, ma il finanziamento pubblico non gli basta e raccoglie, privatamente, altri fondi. Secondo le norme i “fondi pubblici” dovrebbero essere “equamente” spartiti fra le Regioni, e assicurare “uguaglianza“ di trattamento a tutti gli italiani. La Costituzione, infatti, dispone l’“universalità“ delle cure. Ciò premesso, come vanno inquadrate quelle offerte natalizie? Si tratta di fondi extra che “integrano” il fondo pubblico, e che vengo definiti, per legge, “fondi integrativi”. Quei fondi verranno utilizzati dall’ospedale beneficiario in modo autonomo e indipendente dal controllo dello Stato, perché sono suoi, e lo Stato non interferisce nella libertà del loro utilizzo. Chi raccoglie fondi più ricchi conquista grande autonomia e grande potere di controllo sulla qualità e sulla scelta delle cure che erogherà. La differente entità di fondi integrativi esistente fra ospedale e ospedale, e fra Regione e Regione, può essere enorme; questo determinerà la differenza nella qualità di vita delle distinte popolazioni. Ciò avrà influenza sul criterio costituzionale di “uguaglianza”.
La rivoluzione dei principi di “equità”, di “uguaglianza” e di “universalità” introdotta da Tina Anselmi nella Costituzione, e da lei stessa concretizzata nella Legge 833/78, fu un’idea geniale ma venne depotenziata dal ministro Francesco De Lorenzo nel 1992 e poi dal ministro Rosy Bindi con la legge 299/1999; in quest’ultima vennero definitivamente riconosciuti i ”fondi integrativi” per finanziare gli ospedali.
Nel 2001 l’esistenza dei “fondi integrativi” ebbe un ulteriore supporto dalle modifiche portate al Titolo V della Costituzione. Gli emendamenti alla Costituzione hanno avuto conseguenze evidenti la Sanità nelle regioni ricche del Nord è una grande sanità. La Sanità nelle regioni povere è una povera Sanità. Non ci volle molto a capire che l’effetto dei fondi integrativi avrebbe differenziato gli italiani e da questa lezione prese piede l’idea nel ministro Roberto Calderoli di estendere quel metodo a tutti i servizi pubblici, e cioè, oltre alla Sanità, all’Istruzione, ai Trasporti, e a tutti i Servizi pubblici attinenti alla qualità della vita nazionale. Si tratta quei Servizi che tengono coeso un popolo. Il rischio, con la legge integrale di Roberto Calderoli, è quello di intaccare i quattro principi fondamentali della Costituzione: la Solidarietà, l’Uguaglianza, la Sovranità Popolare, i Diritti Inviolabili (articoli 1, 2, 3, 32, etc.).
Il difetto di Solidarietà e Uguaglianza si sta già vedendo nel sistema sanitario Sardo. E’ noto a tutti che, data la crisi profonda dell’assistenza sanitaria in Sardegna, molti sardi affetti da tumori, per curarsi, migrano verso le regioni più ricche del Nord Italia. Chi ha questa esperienza scopre che, secondo la Regione in cui vai, ogni malattia ha un costo diverso. Il prezzo da pagare è il DRG (Diagnosis Related Group) che permette di classificare tutti i malati dimessi da un ospedale in gruppi omogenei in base alle risorse. Ora, prendiamo il caso di una ipotetica paziente con cancro alla mammella che viene operata in un ospedale sardo. Il DRG per cancro di mammella operato in Sardegna viene pagato all’ospedale 4.500 euro circa. Se la stessa paziente venisse operata in un ospedale del Nord, il DRG per lo stesso intervento varrebbe circa 7.000 euro. Quindi l’ospedale guadagna di più e può offrire cure migliori. Chi paga l’aumento del costo, in questo caso, se il malato è sardo? Paga la Regione Sardegna. La differenza del costo dell’intervento per i malati di quella regione del Nord, viene pagato dai “fondi integrativi” della stessa regione. Tali fondi sono stati formati con un metodo paragonabile alle donazioni che facciamo nel corso degli acquisti di Natale. Si tratta cioè di fondi extra, indipendenti dal Fondo Sanitario Nazionale, che possono essere accumulati massimamente nelle regioni più ricche, sia attraverso donazioni sia attraverso una raccolta fiscale supplementare attuata dalla stessa regione.

I “fondi integrativi” di dette regioni possono essere scaricati dal conto che le stesse regioni devono allo Stato per finanziare la Solidarietà nazionale. Di fatto, quindi, tali regioni possono contribuire di meno alla formazione del Fondo sanitario Nazionale. Ne consegue che le regioni più povere possono attingere in misura minore e possono erogare una sanità di livello inferiore.
Questo meccanismo, secondo la legge sull’“autonomia differenziata” di Roberto Calderoli, dovrebbe essere esteso a tutti i Servizi pubblici, dalla Sanità ai Trasporti, dall’Istruzione e Università alla Viabilità e all’edilizia pubblica, etc.. Se passasse integralmente quella legge creerebbe una distanza incolmabile sulla qualità di vita tra i cittadini delle regioni del Nord e quelli del Sud. Lo stesso Sergio Mattarella ha messo in guardia sul pericolo che si corre nell’intaccare i diritti inviolabili della Costituzione; fatto che ci esporrebbe alla disgregazione nazionale. Verrebbero intaccati non solo i LEA (livelli essenziali di assistenza), ma anche i LEP (livelli essenziali di prestazioni); in sostanza ne soffrirebbero tutti i servizi pubblici.
Oggi la Consulta ha dato il suo parere sulla legge e sostiene che essa è costituzionale (art. 116) ma illegittima in alcune parti decisive. I Giudici, infatti, richiamano al rispetto della Costituzione e sottolineano che la forma dello Stato, insieme al ruolo fondamentale delle Regioni, riconosce i principi della Unità della Repubblica, della Solidarietà tra le Regioni, dell’Eguaglianza, della garanzie dei Diritti dei Cittadini e dell’equilibrio di bilancio. Testualmente sentenzia: «La distribuzione della funzione legislativa e amministrativa tra i diversi livelli territoriali di governo (Comuni, Province, Regioni) non deve corrispondere all’esigenza di un riparto di potere tra i diversi segmenti del sistema politico, ma deve avvenire in funzione del bene comune della società e di tutela dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione. A tal fine, è il principio costituzionale di sussidiarietà che regola la distribuzione delle funzioni fra Stato e Regioni. In questo quadro l’Autonomia differenziata deve essere funzionale a migliorare l’efficienza degli apparati pubblici e ad assicurare maggior responsabilità politica, rispondendo meglio alle attese e ai bisogni dei cittadini».
La sentenza richiama al rispetto dell’articolo 116 della Costituzione e all’osservanza dei principi fondamentali della Costituzione tutta. Principi che il proponente ignorava.
Le quattro regioni che hanno ricorso, per adesso, ci hanno salvati da un disastro.

Mario Marroccu

Tutti hanno memoria di una qualche “Tzia Maria” e della sua bottega vicino a casa. Aveva due caratteristiche:
1 – Tutti potevano acquistarvi , subito e a poco prezzo, pane, pasta, conserve, Olà, DDT e saponi.
2 – Con i soldi guadagnati, “Tzia Maria” vestiva in figli, li faceva studiare, curava il marito, pagava il macellaio, il muratore, il falegname, il sarto, comprava miscela per la motocarrozzella e  se ne restavano, li metteva nel libretto postale.
Erano soldi benedetti che, in un circuito virtuoso, alimentavano l’economia locale facendo lavorare anche altri artigiani. Era una “Catena di Sant’Antonio” che nutriva le città di un’economia circolare auto-prodotta.
Oggi quel tipo di economia auto-prodotta è superata. Compriamo tutto ai Super-Store: dal pane alla frutta, dalle scarpe ai vestiti, dagli infissi già pronti alle auto, etc… e i soldi finiscono immediatamente in conti correnti del Continente o all’Estero. La virtuosa economia circolare è stata sostituita da un’idrovora quotidiana che prosciuga dal danaro liquido le città. Al contrario dell’economia di “tzia Maria”, la redistribuzione del danaro è stata sostituita da un fiume in fuoriuscita unidirezionale, senza ritorno. Le conseguenze sono desolanti. Il nuovo quadro economico è ben rappresentato dal tipico aspetto assunto dai centri-città: negozi chiusi, palazzi disabitati, un corteo di cartelli “vendesi” affisso alla porta di ex locali commerciali e abitazioni. Tutti segni di impoverimento economico e di spopolamento.

Una delle cause è attribuibile all’accentramento delle attività economiche nei Super-Store: strutture nate per vendere ma che difficilmente reinvestono il ricavato nel luogo che le ospita.
Un fenomeno esattamente identico è avvenuto alla rete sanitaria locale che una volta ci forniva tutta l’assistenza sanitaria che abbisognava. Le nostre Province, con i loro ospedali e le loro reti territoriali sanitarie erano totalmente autonome nell’auto-prodursi il Servizio sanitario in medici, personale, strumenti e edifici proprii. Ricordiamo che le Università istruiscono i Medici ma non li formano professionalmente. La loro formazione professionale è avvenuta sempre negli Ospedali, ad opera dei primari e dei medici anziani. Una legge dello Stato, la 128/69, all’articolo 7, imponeva l’obbligo ai primari di formare culturalmente e professionalmente i nuovi medici. Così i nostri ospedali auto-producevano le nuove generazioni di medici bene addestrati. Qui si curavano le malattie internistiche dei bambini e degli adulti, si facevano gastroscopie, colonscopie, TAC ed esami di laboratorio, si operavano tutte le patologie addominali, toraciche, ortopediche, urologiche, ginecologiche, traumatologiche, e qui si nasceva in sicurezza. Tutti erano nelle condizioni di apprendere l’arte medica, a fare gli elettrocardiogrammi, le colonscopie e ad operare. Nonostante in quei tempi i medici fossero numericamente in numero inferiore rispetto ad oggi, non esisteva il problema della carenza di medici e le liste d’attesa si esaurivano in giornata o in una settimana. Il mondo poi è cambiato.
Fino al 1978 gli ospedali provinciali erano finanziati dai proventi provenienti dalle Casse mutue private e dai privati cittadini. In quell’anno Tina Anselmi abolì le Casse mutue e creò il Fondo sanitario Nazionale. Da quell’anno la Sanità fu veramente e totalmente pubblica. Lo Stato, su proposta di Tina Anselmi, istituì il Servizio sanitario nazionale (L. 833/78), diede in gestione le USL territoriali ai sindaci e ai Consigli comunali. Furono applicate esattamente le norme costituzionali che suddividono gli Enti gestori dei servizi pubblici in: Comuni, Province, Regioni.
Era chiaro che, in democrazia, la gestione pubblica spettasse al popolo tramite i suoi rappresentanti. Tina Anselmi era un personaggio complesso: proveniva da una famiglia socialista; da universitaria nel 1944 vide impiccare dai nazisti i 31 martiri di Bassano del Grappa e aderì immediatamente alle brigate partigiane combattenti in montagna. Lì, nei bivacchi, si discuteva sul come costruire la Costituzione del nuovo Stato che avrebbero creato. Fu attiva nella CGIL e poi aderì ad uno dei tre partiti che scrissero la Costituzione entrata in vigore il 1° gennaio 1948. Per effetto dell’articolo 3 della Costituzione, che conferiva pari diritti a maschi e femmine, poté essere candidata; nel 1956 divenne deputato della Repubblica e scrisse il testo della legge sulla “pari opportunità” Uomo-Donna. Fu il primo ministro donna nella storia italiana. Nel 1976 venne nominata ministro della Sanità e scrisse il rivoluzionario testo di Riforma sanitaria: la legge 833/78. In quasi tutte le Regioni la nuova legge di riforma venne compiutamente applicata nel 1982. Fu un’esplosione di democrazia. Durò fino al 1992 e fu il decennio d’oro della Sanità italiana. Gli ospedali crebbero di numero e in qualità. Gli amministratori locali misero in competizione le USL fra di esse. In quella gara ognuno si assicurava i migliori professionisti per dirigere i reparti e iniziò la produzione, in ciascuna provincia, di una Sanità autoctona, auto-prodotta, adeguata alle esigenze di ciascun territorio nel rispetto delle norme nazionali.
La Sanità divenne un motore economico che, attirando pazienti e finanziamenti, produsse profitto per la comunità, così come oggi lo producono il Turismo, la Cultura, e l’Archeologia. Poi venne l’anno 1992 ed entrammo in un trentennio molto controverso.
Oggi sappiamo che in quell’anno avvenne la fine dell’entusiasmo creativo dei partiti politici e della partecipazione popolare. Fu l’anno di Mario Chiesa, di “tangentopoli” e dello sconquasso dei partiti dei Padri costituenti. In quell’anno, alle dimissioni di Francesco Cossiga da Presidente della Repubblica, venne proposta la candidatura di Tina Anselmi. Se fosse stata nominata lei come Presidente, avrebbe sicuramente protetto la sua legge di Riforma sanitaria. Viceversa, venne eletto Oscar Luigi Scalfaro, il quale nominò ministro della Sanità il rappresentante del Partito liberale, on. Francesco De Lorenzo. La storia della Sanità pubblica cambiò.

Francesco De Lorenzo proveniva da una parte politica che non aveva partecipato alla scrittura della Costituzione. Conformemente alle sue idee economiche, agli antipodi di quelle di Tina Anselmi, egli produsse una sua “Riforma sanitaria”, la L. 502/92, in cui applicò il concetto di “impresa” alla Sanità pubblica. Rimosse i sindaci e i Comitati di gestione. Le Unità Sanitarie Locali (USL) presero il nome di “Aziende Sanitarie Locali” e per dirigerle egli inventò la figura del “Manager”. E’ una figura tipica delle imprese economiche basate sulle regole del mercato privato. Il centro dell’attenzione, che prima era il “cittadino malato”, divenne “l’Ufficio del bilancio”. Alla direzione “democratica” si sostituì la direzione “centralizzata”. Da allora il metodo più semplice di ridurre la spesa sanitaria consiste nello spendere il meno possibile e nel “centralizzare”, quindi: meno personale, meno strumenti, meno accessibilità alle cure. Ai politici di allora sfuggì che esiste uno stretto connubio tra la democrazia, il benessere dei cittadini e la loro percezione di sicurezza. E’ per questo che i cittadini amano le libere elezioni: perché incentivano i Governi a tutelare il benessere. A queste disattenzioni consegue in genere la caduta del consenso popolare. A quel primo atto di centralizzazione del potere in un’unica Persona-Manager sono poi seguite altre “centralizzazioni”. I politici locali allora perdettero il potere di controllo sulla Sanità pubblica. Oggi lo stanno perdendo i politici regionali: la centralizzazione del controllo della Sanità regionale è stata acquisita da un’altra struttura gestionale, al di fuori dell’assessorato della Sanità, a cui è stato conferito grande potere ed autonomia. Tale nuova struttura, l’ARES, seguendo una logica amministrativamente ineccepibile e in linea col processo di aziendalizzazione dell’intera struttura sanitaria sarda, ha proceduto alla “delocalizzazione” di fatto dell’assistenza sanitaria, trasferendola dalle Province al centro della Regione. Il cambiamento è enorme.
L’impoverimento dell’apparato ospedaliero provinciale oggi impone che i nostri “corpi malati” vengano forzatamente trasferiti negli ospedali DEA di II livello di Cagliari e negli ospedali universitari per qualunque malattia, sia grande sia piccola. Tale centralizzazione sta comportando la scomparsa degli ospedali DEA di I livello, che sono gli 8 ospedali provinciali delle 8 province sarde. La conseguenza è tutti i giorni nelle prime pagine dei quotidiani. Gli ospedali cagliaritani, sommersi da un eccesso di richieste di cure provenienti da tutta la Regione, sono finiti in scompenso funzionale. In certi momenti si è rischiata la chiusura per impossibilità di accettare altri pazienti.
Certamente la soluzione non consiste nel tornare ai tempi di “tzia Maria”. Si potrebbe però applicare correttamente la legge sulla “Rete Ospedaliera Regionale” del 2017, rimasta nel cassetto.
Si potrebbe anche riportare al controllo delle ASL i sindaci del territorio, che potrebbero affiancare con funzione di proposta e controllo, i Manager.
Potremmo avere la gradita sorpresa di restituire la certezza delle cure alle Province e, forse, di innescare anche un sano circuito di ritorno economico.

Mario Marroccu

Piove dentro casa e mettiamo secchi e pentole per terra prima che l’acqua bagni i tappeti. Stiamo facendo la stessa cosa nella Sanità Pubblica dal 1992.
Quando Oscar Luigi Scalfaro si accorse che l’Italia correva il rischio del dèfault economico dette l’incarico di Governo a Giuliano Amato che ci salvò. Egli prese provvedimenti d’emergenza che erano giustificati ma che adesso, da almeno 25 anni, non lo sono più. Per risparmiare sulla spesa sanitaria egli dette l’incarico di ministro della Sanità a Francesco De Lorenzo che, da buon liberale, approntò una legge neo-liberista: la 502 del 30 dicembre 1999. Quella legge abolì il principio cardine della più grande legge italiana dopo la Costituzione: la legge sanitaria 833 di Tina Anselmi. Ne smontò il principio di uguaglianza, equità, universalità e gratuità della Sanità pubblica per tutti nella Nazione. Abolì gli organi democratici di governo delle Unità Sanitarie Locali e le trasformò in “Aziende” di tipo privatistico, con un “Manager”.
Fin qui si può capire e anche approvare quel metodo, data la confusione politica di quegli anni  Non si è mai capito, però, per quale motivo quella linea liberista, in campo pubblico, sia stata mantenuta e aggravata da ministri della stessa area politica riformista a cui apparteneva Tina Anselmi.
L’aziendalizzazione di tipo privatistico applicata alla Sanità pubblica peggiorò nel 2001 con la modifica del Titolo V della Costituzione, poi col Governo Berlusconi del 2003, col Governo Monti del 2010 (che fece leggi che indussero la riduzione di reparti ospedalieri e la chiusura di ospedali) e col governo Renzi che emanò norme ancora più restrittive per gli ospedali pubblici (DM 70/ 2015).
Tina Anselmi nel 1978 aveva abolito le Casse Mutue e l’ampio uso dell’ospedalità privata e caritativa, concentrando tutta la sanità negli ospedali pubblici ed aveva ottenuto grande soddisfazione nella popolazione. I Governi dal 1992 in poi fecero il contrario: tolsero all’ospedalità pubblica la centralità sanitaria e la suddivisero con gli ospedali privati (case di cura). Così la parola “Servizio” scomparve dall’acronimo SSN (Servizio Sanitario Nazionale) e venne sostituita dalla parola “Sistema” (Sistema Sanitario Nazionale – SSN). Allora non ci accorgemmo di quel cambiamento apparentemente insignificante, invece esso conteneva la sostanza di un cambiamento enorme: da allora la Sanità privata cominciò a lavorare facendo “Sistema“ con la Sanità pubblica. La riforma di Tina Anselmi era finita.
Fino ad allora il “Fondo Sanitario Nazionale” era stato riservato alla sola Sanità pubblica. Da allora il “Fondo sanitario” venne suddiviso fra Sanità pubblica e Sanità privata. Per pagare la sanità privata si attinse dallo stesso unico fondo a cui attingeva la Sanità pubblica.
La Sanità privata fu sempre efficiente. Si è vista, per esempio, la sua efficienza durante l’epidemia di Covid. Nel tempo, man mano che aumentava la percentuale di Fondo sanitario destinato a pagare la sanità privata, inevitabilmente, diminuì la quota rimasta per quella pubblica. Si capisce che con l’aumento della spesa per la Sanità privata, la Sanità pubblica è destinata ad essere progressivamente sottopagata. Alla fine la pubblica va in crisi per deficienza di fondi.
In Sardegna, in particolare, a questo meccanismo di morte lenta per deficit di finanziamento degli ospedali, si è aggiunto un altro meccanismo anche peggiore: la “Centralizzazione “ della Sanità ospedaliera nelle due città di Cagliari e Sassari e il depotenziamento dei 6 ospedali delle altre Province. In particolare, l’accentramento sanitario regionale è stato concentrato nell’ARNAS Brotzu di Cagliari.
La spiegazione per cui venne avviato questo progetto accentratore era semplice: «Visto che l’evoluzione della tecnologia sanitaria è costosissima, per contenere i costi ci conviene centralizzare la spesa in uno o due ospedali regionali». Questa teoria fu micidiale per gli altri 6 ospedali provinciali. Ne conseguì che i direttori generali delle altre ASL sarde ebbero il mandato di «ridurre le spese». Chi più riduceva, più veniva premiato e i direttori generali potevano, in base all’entità del risparmio, ottenere un premio economico. Ne conseguì che ci fu una gara al risparmio proprio negli ospedali provinciali e i fondi regionali si concentrarono, soprattutto, sulle due città universitarie di Cagliari e Sassari. Intanto, a causa della defunzionalizzazione progressiva dei nostri ospedali di provincia, i malati sardi cominciarono a riversarsi su Cagliari. Tuttavia l’ospedalità cagliaritana, e il Brotzu in particolare, non avevano una capacità di posti letto e personale adeguati all’aumentata richiesta. Così il Brotzu, nella notte fra il 13 e 14 luglio 2024 andò in crisi gravissima, con file di barelle alle sue porte, e vi fu una protesta pubblica di tutti i Capi dipartimento medici che si scoprirono inadeguati e impotenti davanti al fenomeno.
Per di più negli ospedali provinciali, come una valanga che si forma lentamente, i medici hanno cominciato ad andarsene. Il danno è grave perché non abbiamo medici giovani, formati ed esperti, pronti alla loro sostituzione.
Contemporaneamente, i medici di base dei territori, privati dei loro ospedali di riferimento provinciali, hanno cominciato a disdire i loro contratti con lo Stato, andando in quiescenza.
Oggi gli ospedali privati del Cagliaritano, presi d’assedio da una gran massa di pazienti rifiutati dagli ospedali pubblici, hanno liste d’attesa di molti mesi, e non riescono a compensare la carenza pubblica.
La scontentezza aumenta e a pagarne il conto sono i Pronto Soccorso. Lì, non essendo possibile assistere tutti contemporaneamente, si creano file di pazienti in attesa per ore. Alla fine, arriva la contestazione proprio contro chi non ha responsabilità.
Questa sintetica ricostruzione storica dell’origine del malcontento sanitario, dimostra che Tina Anselmi aveva ragione a puntare tutto sulla Sanità pubblica così come l’aveva formulata lei.
Aveva ragione anche Francesco De Lorenzo nel momento di quell’emergenza, così come hanno ragione coloro che mettono secchi e pentole per terra per raccogliere l’acqua piovana quando il tetto si rompe.
Nel primo momento è giusto così; tuttavia, per affrontare le piogge successive, è più corretto riparare, cioè “ri-formare” il tetto rotto. Non si può continuare a mettere secchi.
Pochi giorni fa, il governo regionale ha deliberato la spesa di 7 milioni di euro a favore degli ospedali per ridurre le “liste d’attesa”; ha anche deliberato lo stanziamento di 5 milioni di euro per le case di cura private per lo stesso motivo.
Tutto questo, in emergenza, è necessario. Finita l’emergenza si fa programmazione.
Per il futuro bisognerebbe mettersi nelle condizioni di non dover disporre secchi e pentole sotto il tetto rotto per contenere l’acqua piovana. Sarebbe auspicabile riparare il tetto e approntare una Riforma sanitaria regionale che consideri l’immediata:
– attivazione dei 6 ospedali provinciali;
– l’integrazione ospedali provinciali/territorio attraverso le strutture intermedie (case della salute).
– il decentramento sanitario e il coinvolgimento dei territori.

Mario Marroccu

E’ sotto gli occhi di tutti l’esistenza di lunghe file di pazienti che si formano davanti ai laboratori diagnostici nella prima metà di ogni mese prima che si esaurisca il magro bubget e la nostra impotenza davanti alle prenotazioni di visite tanto lontane nel tempo da dover ricorrere a specialisti privati a pagamento.
La colpa è nostra. A causa della nostra disattenzione abbiamo lasciato crescere il disservizio sanitario senza prendere provvedimenti.
Quando ci lamentiamo contro le liste d’attesa per ottenere i ricoveri, le visite specialistiche, gli esami diagnostici, ci stiamo lamentando per la nostra incapacità ad esigere i LEA ì. I LEA sono i Livelli Essenziali di Assistenza che la legge garantisce a tutti gli italiani. Si tratta del minimo assistenziale per le nostre necessità di cura. I LEA sono le prestazioni sanitarie finanziate dallo Stato e descritte in un lunghissimo elenco: dall’estrazione dei denti cariati al trapianto cardiaco; dalla pastiglia della pressione alla protesi d’anca; dagli antibiotici ai vaccini, eccetera. Inoltre vi sono descritte tutte le visite specialistiche erogabili da Medici Specialisti dello Stato, i ricoveri, gli interventi chirurgici, eccetera. I LEA erano nati nella pancia di un “cavallo di Troia” (la legge 502/1992) che era stato fabbricato dal ministro Francesco De Lorenzo per far cadere la Grande Riforma Sanitaria 833/78, rinunziando alla assistenza sanitaria gratuita per tutti.
A quella ingenua rinunzia seguì la privatizzazione progressiva delle USL (Unità Sanitarie Locali) che forse ci porterà alla sanità a pagamento all’americana. Lo strumento legale che venne approvato per trasformare le USL in Aziende Sanitarie Locali (ASL) di diritto privato fu l’esclusione degli Enti locali (Comuni) dal controllo delle USL. I Sindaci non poterono più nominare il presidente della USL e i poteri vennero assunti dallo assessore della Sanità della Giunta regionale. Questi piazzò al vertice della ASL un uomo di sua scelta: il Direttore generale. Il Direttore generale a sua volta ebbe il potere insindacabile di nominare un Direttore sanitario e un Direttore amministrativo legati a lui da un contratto privato. Così un Ente di diritto pubblico venne amministrato da una triade di diritto privato del tutto svincolata dalle amministrazioni comunali.
Le cose cambiarono ancora dopo la modifica del Titolo V della Costituzione del 2001 quando lo Stato rinunciò alla esclusiva del potere legislativo in Sanità e lo cedette alla Regioni ordinarie.
Le Regioni acquisirono la capacità di produrre leggi in materia sanitaria e procedettero a riorganizzare le ASL. Quella riorganizzazione amministrativa basata sulla “efficienza ed efficacia”, cioè il massimo risultato con la minima spesa, mandò le ASL in coma profondo. Era successo che per pagare l’aumento di spesa imprevisto essi dovettero compensare le spese con la chiusura di reparti, di interi ospedali e il blocco delle assunzioni dei medici e Infermieri. Ne derivò la “mobilità passiva” e l’ulteriore indebitamento. A questo punto da poveri corpi comatosi delle ASL si procedette al prelievo di tutti gli organi amministrativi vitali per trasferirli in un nuovo mega-corpo amministrativo centralizzato nel capoluogo chiamato dapprima ATS e oggi ARES (Agenzia Regionale Sanità). Si tratta di un ente di diritto privato che ha assorbito le funzioni delle ASL territoriali ed ha assunto l’esclusiva sugli acquisti, le assunzioni del Personale e gli appalti per tutta per tutta la rete sanitaria della Regione. Le ASL, nonostante nominalmente esistano ancora, di fatto oggi lo sono solo virtualmente perché sono state svuotate del potere di iniziativa amministrativa.
La ARES ha acquisito tutti i fondi regionali destinati alla Sanità e da allora li utilizza a sua discrezione senza vincoli di destinazione.
Da allora la storia dei LEA è peggiorata perché i LEA costano e senza soldi non si può distribuire assistenza in proporzione alle richieste dei cittadini. Di conseguenza sono stati inventati i “budget” mensili che per motivi di risparmio sono poveri, sono aumentate le liste d’attesa per le visite specialistiche, sono diminuiti i ricoveri e gli interventi. Chi arriva ai laboratori d’analisi quando il budget è finito deve pagarsi l’esame. Si pagano gli esami di laboratorio, le ecografie, i colordoppler, le TAC, le Risonanze magnetiche e, a causa della carenza di specialisti dello Stato, si pagano le visite specialistiche.
A questo punto si può concludere che l’istituto dei LEA è fallito perché non è sufficientemente finanziato dallo Stato. E’ tutta una questione di soldi. Si tratta esattamente di quei soldi che arrivano alle Regioni dai cosiddetti fondi di perequazione. In base alla legge 42/2009 quei soldi dovrebbero essere distribuiti fra i territori al fine di pareggiare le differenze di assistenza tra territori ricchi e territori poveri. Mancando quei soldi chi vuole curarsi deve pagare. E’ l’esplosione della privatizzazione forzata della sanità pubblica. Questo è il percorso che porta obbligatoriamente alle assicurazioni sanitarie per coprire le deficienze dello Stato erodendo ulteriormente il potere d’acquisto delle pensioni e stipendi e impoverendo le famiglie.
Siamo stati tutti distratti. Non ci siamo accorti di cosa stesse succedendo. Oggi la nostra impotenza è dovuta ai seguenti motivi:
– Non abbiamo rappresentanti politici delle nostra comunità all’interno della ARES e delle ASL per poter esprimere le nostre istanze.
– Non abbiamo canali per comunicare con la ARES perché la ARES è volutamente strutturata come una fortezza impenetrabile a chiunque, tranne che al presidente della Giunta regionale che ne nomina il Direttore generale;
– Possiamo comunicare con la Giunta regionale solo attraverso la “ Conferenza territoriale sanitaria e sociosanitaria” formata dai Sindaci quando, una volta l’anno, esprimono un giudizio sul Direttore della ASL valutandone l’efficienza nella realizzazione del piano sanitario annuale. E’ l’unico momento in cui i Sindaci sono ascoltati (articolo 11, comma 9 e 10 della legge regionale n. 24 del 2020; legge di istituzione della ARES).
– Il personale sanitario non ha canali per comunicare se non attraverso il “Consiglio dei sanitari”, che peraltro non ha alcun potere e forse neppure esiste se non formalmente.
A questo punto, visto che l’enorme deficit di assistenza è direttamente proporzionale alla povertà economica della ASL, è necessario sapere se siamo in condizioni di negoziare con ARES i fondi per l’assistenza sanitaria che ci necessitano.
Per farlo dobbiamo sapere quali siano i nostri diritti e quali strumenti abbiamo per esigerli.
Gli strumenti disponibili sono quelli deliberati dalla Giunta Regionale e dal PNRR. Essi sono:
1 – Il piano ospedaliero regionale del 2017;
2 – la legge 24/2020 che ha istituito la ARES e le ASL;
3 – il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza);
4 – l’atto aziendale.
Utilizzando questi strumenti prodotti con valore di Legge è possibile esigere i fondi per finanziare i LEA.
Per quanto riguarda il territorio del Sulcis-Iglesiente si pongono alcune questioni:
Prima questione: l’Ospedale Unico.
Se al Giunta Regionale decide di realizzarlo deve fare tutti i passaggi necessari conseguenti all’articolo 42 della legge regionale 24/2020, cioè deve:
– deliberare la costruzione l’ospedale Unico,
– ordinarne il progetto,
– finanziarne la costruzione,
– arredarlo e dotarlo degli strumenti necessari ai servizi,
– assumere il personale.
– E’ una questione di finanziamento. Senza soldi si tratta solo di chiacchiere.
Per ora la ARES ha escluso il presidio ospedaliero unico e prevede per la ASL 7 tre strutture ospedaliere.
Il primo ospedale è il CTO di Iglesias, dotato di 127 posti letto e destinato alle patologie d’elezione. L’ARES e l’atto aziendale non hanno ancora preso in considerazione l’obbligo di deliberare l’organico del personale per il CTO, il finanziamento in spesa corrente per gli stipendi e le assunzioni. Inoltre, non è stata ancora considerata la specifica destinazione del personale medico e sanitario al CTO.
Il secondo ospedale è il Sirai di Carbonia, dotato di probabili 187 posti letto e deliberato come DEA di I livello per l’Urgenza e Emergenza. La ARES dovrebbe deliberare tutte le Unità Operative presenti nell’atto aziendale e dotarle di pianta organica. Non esiste la delibera sulle piante organiche e il relativo finanziamento nella spesa corrente. Senza una pianta organica adeguata alle funzioni di DEA (Dipartimento di Emergenza e Accettazione) dotata di un adeguato finanziamento l’ospedale non può esistere. Per ora è soltanto una intenzione scritta nell’atto aziendale.
Il terzo ospedale è la “Grande Casa della Salute” del Santa Barbara di Iglesias. E’ stata dichiarata nell’atto aziendale la destinazione del Santa Barbara a contenere la Casa della salute , l’ospedale di comunità, l’Hospice, il Centro Diabetologico e la Endocrinologia, la Neuropsichiatria infantile, il Centro di salute Mentale, la Nefrologia, la Psicologia, la medicina dello Sport, tutti i servizi Distrettuali; la riabilitazione (codici 56-60) la riabilitazione post Covid e la terapia intensiva Covid correlata. Tutti questi servizi hanno bisogno di finanziamenti. Alcune strutture sono finanziate attraverso il PNRR.
Molti altri servizi non hanno un esplicito finanziamento. Pertanto, non sono credibili se questo non esiste.
Seconda questione: problemi della medicina del territorio risolvibili con adeguati fondi.
– Carenza di Medici di medicina generale e pediatri.
– Liste d’attesa troppo lunghe.
– Insufficienza del budget per i laboratori analisi e radiologie.
– Fuga dei pazienti verso le ASL vicine più dotate.
-Recupero della autosufficienza specialistica perduta.
Terza questione: il problema demografico, dovuto a.
– forte invecchiamento della popolazione certificato da questi dati
a) numero degli ultrasessantacinquenni in Italia = 21 %
b) “ “ in Sardegna = 24 %
c) “ “ nel Sulcis = 28,5%
Numero assoluto di ultrasessantacinquenni nel Sulcis Iglesiente = 34.000 ( su 119.000 abitanti)
Nota Bene : Con questi dati demografici esiste un diretto rapporto con le malattie cardiovascolari,
tumorali , degenerative, demenze, insufficienze renali, eccetera.
Esiste inoltre una grave denatalità. L’ISTAT certifica che la nostra è la natalità più bassa del mondo
Natalità nell’Africa (Nigeria) = 44 nati per 1.000 abitanti
“ Francia = 12 “ “ “
“ Italia = 8 “ “ “
“ Sulcis = 5,2 “ “ “ La più bassa nel mondo

Questi dati che certificano la forte incidenza di malattie da invecchiamento giustificano la forte necessità di assistenza ospedaliera e la più forte mortalità. Va ricordato che la massima percentuale della spesa sanitaria (tra il 70 e 90%) si concentra nel primo e nell’ultimo anno di vita.
Considerata la più alta percentuale di Baby boomers nel nostro territori ne consegue che questo sarà il territorio più gravato in Italia dalla maggiore necessità di fondi per spesa sanitaria. Si tratta del territorio che ha la maggiore urgenza di risolvere il problema della esigibilità dei LEA con un forte finanziamento sia degli ospedali che della sanità territoriale, pena un intollerabile impoverimento delle famiglie.
Quarta questione: il problema dei posti letto in ospedale.
I posti letto attribuiti al Sulcis Iglesiente sono 313 per acuti e riabilitazione (fortemente sottostimati rispetto ai 3,7/1000 prescritti dalla legge Balduzzi). Dovrebbero essere attivi almeno 357 per acuti e 84 per riabilitazione Totale = 441 posti letto.
Consideriamo questi rapporti di disparità di posti letto:
313 posti letto totali nella ASL 7 di Carbonia Iglesias
5.790 in Sardegna (di cui 1.643 pubblici e 1.147 privati)
2.400 a Cagliari (di cui 1.800 pubblici e 600 privati)
E’ evidente il forte spostamento della bilancia a favore della città metropolitana di Cagliari (430.000 abitanti) rispetto alle limitazioni del Sulcis Iglesiente con i suoi 119.000 abitanti.
Da ciò nasce l’urgenza di esigere un riequilibrio territoriale dei servizi sanitari a protezione del territorio più debole, così come prescritto dalla legge n. 42/2009 che imporrebbe la redistribuzione dei finanziamenti regionali e dei fondi perequativi dello Stato.
Quinta questione: realizzare la mission 6 del PNRR nel territorio. Non è noto se esista un progetto approvato per la realizzazione della struttura di Grande Casa della Salute del Santa Barbara per cui dovrebbero essere spesi 5 milioni di euro entro il mese di giugno del 2026 e se esista un progetto da 260.00 euro per le COT.

Gli strumenti da apprestare con urgenza e utilizzare si trovano nelle leggi.
a) E’ necessario che i 23 Sindaci del territorio creino il canale di comunicazione con la Giunta regionale, per avere risposte dalla ARES, deliberando ed eleggendo la “Conferenza territoriale Sanitaria e Socio-sanitaria” della nostra Provincia, così come è prescritto dalla legge 24/2020.
b) Costituire il “Consiglio dei sanitari” della ASL, come previsto nell’atto aziendale e nella L. 24/2020.
c) La Conferenza provinciale deve esigere la delibera di Giunta regionale che definisca le piante organiche degli ospedali e i relativi finanziamenti. Sulla base di queste si potrà procedere alla soluzione del problema del personale. In assenza di queste delibere l’atto aziendale non ha valore.
d) La Conferenza provinciale deve esigere la progettazione della grande casa della salute del Santa Barbara con tutti i servizi previsti nell’atto aziendale, e peraltro già finanziati dal PNRR. Il ritardo nella procedura può comportare la perdita dei fondi europei.
e) Attuare la creazione del “Comitato locale LEA” per la verifica della corretta applicazione della ripartizione dei fondi e della erogazione delle prestazioni incrementando il budget per i laboratori.
f) Finanziare adeguatamente le convenzioni per la medicina specialistica.
g) Finanziare l’apertura di una Scuola per infermieri professionali.
L’esperienza maturata con i LEA insufficientemente finanziati induce ad un controllo serrato.
Ricordiamo che il ministro Francesco De Lorenzo legiferò nell’anno 1992 per la nascita dei LEA simultaneamente alla rinunzia degli italiani alla Grande Riforma di Tina Anselmi. Il primo elenco dei LEA si vide molto tardivamente e ampiamente incompleto dopo 10 anni, nel 2002. Il completamento dell’elenco si raggiunse nell’anno 2017, cioè dopo altri 15 anni. In tutto ci vollero 25 anni. Nonostante ciò il LEA promessi sono ampiamente falliti per scarsità di fondi.
Oggi si affaccia un‘altra promessa in cambio di un’altra rinunzia. E’ quella contenuta nel disegno di legge sull’Autonomia Differenziata. Stavolta si promettono i LEP (livelli essenziali di prestazioni).
I LEP sono stretti parenti dei LEA. Riguardano oltre il servizio sanitario anche l’istruzione, la assistenza sociale, i trasporti locali. In cambio di quest’altra promessa ci chiedono di rinunziare ai finanziamenti per sanità, istruzione, assistenza sociale e trasporti che oggi ci arrivano attraverso il fondo perequativo della fiscalità generale dello Stato. Stavolta, oltre al servizio sanitario, potremmo perdere l’adeguato finanziamento per la scuola, per l’università, per i trasporti e per l’assistenza sociale. Oltre alla sanità pubblica potremmo veder cadere anche altri servizi essenziali.
Timeo Danaos et dona ferentes.

Sarà che ho appena sentito di un paziente, operato al cervello, che ha perso la PEG (il tubino per nutrirsi) e gli è stato negata l’assistenza immediata in una struttura ospedaliera. Sarà che tutti abbiamo appena sentito che sono stata chiuse le Rianimazioni del Sirai e del CTO. Sarà che con questa storia del disegno di legge sull’“autonomia differenziata” si ha la sensazione che alcune ricche regioni vogliano rompere i ponti di condivisione della Sanità pubblica e dell’Istruzione con le altre regioni meno forti. Saranno solo suggestioni ma la sensazione che intorno ai nostri Ospedali sia stia facendo terra bruciata è forte.
Tutto iniziò nel 1992 quando il ministro Francesco De Lorenzo fece approvare una legge che avrebbe trasformato gli Ospedali da Aziende sanitarie pubbliche in Aziende sanitarie di Diritto privato. Quella legge allontanò i Sindaci dalla gestione diretta della Sanità dei loro territori per darla in gestione ad apparati di tipo privatistico, con tanto di Manager, finalizzati al freddo controllo del bilancio. Non si tenne conto che la sola cura del Bilancio, confliggeva con il fatto che l’oggetto amministrato non era fatto di soli numeri ma, sopratutto, di “valori umani” contenuti dentro esseri umani.
Questa trasformazione in pura macchina burocratica dello stabilimento ospedale si aggravò ulteriormente rispetto al peggioramento che aveva sofferto tra il 1992 ed il 2020, con l’avvento del Covid, e fece definitivamente terra bruciata tra l’utenza umana bisognosa di cure ed il Sistema sanitario.
Abbiamo visto la disumanizzazione rappresentata dalle file di persone respinte fuori dagli ospedali durante la pandemia. Certamente era necessario frapporre distanziamenti tra utenti ed apparato sanitario per motivi di igiene, ma non abbiamo visto l’umanizzazione del rigore, anzi abbiamo visto l’assenza di un reale isolamento dal contagio, di sbarramenti al virus, e la messa in pericolo degli altri malati inermi e del personale d’assistenza. Secondo certi calcoli pare che il numero di morti/anno in più per malattie non-Covid, come tumori ed infarti, sia stato pari alle morti da Covid. Eppure la valutazione contabile del Sistema sanitario, basato su una complessa macchina fatta di leggi, regolamenti, norme, piani nazionali e regionali ed un’immensa, complessa burocrazia amministrativa, ha dimostrato con formule matematiche che i risultati sono stati soddisfacenti. E’ necessario precisare che la soddisfazione si divide in due varianti; esiste la soddisfazione dell’apparato contabile e quella ben diversa dei cittadini. Mentre la prima è basata su “numeri”, la seconda è basata sulla percezione del rispetto di “valori”.
Questa differenza, insistentemente ignorata, è all’origine dei fallimenti delle numerose riforme nazionali e regionali della Sanità. Oggi sta per giungere una nuova riforma: quella della digitalizzazione della Sanità. Va molto bene ma ha un difetto: non è stato previsto, nel PNRR missione 6, un capitolo per l’assunzione di personale Medico, Infermieristico e Tecnico degli ospedali. Cioè sono state previste macchine e strutture ma non è stata prevista la ricostituzione della componente umana della Sanità che deve utilizzare quelle macchine e quelle strutture.
La Sanità è un grande contenitore formato dalla tecnostruttura degli ospedali e dall’apparato burocratico che, sebbene fatto di persone, risponde a rigide esigenze di leggi e strumenti digitali. Tale contenitore, tuttavia, dovrà contenere persone con il loro carico di valori. I valori non sono misurabili né monetizzabili. Sono un’entità prodotta dal cervello umano: si tratta di ragionamenti, sentimenti, istinti, che vengono integrati insieme per produrre “giudizi” e i giudizi regolano la vita dell’Uomo, il quale agisce di conseguenza, allo scopo di raggiungere la “felicità”. Il sistema digitale tecnocratico non può capire il sistema delle astrazioni valoriali umane come: la paura, la fiducia, l’ansia, la solidarietà, la compassione, il desiderio, la giustizia, l’equità, il rispetto, l’uguaglianza e la democrazia; quest’ultima è la somma dei valori e rappresenta il riconoscimento condiviso dei valori che una comunità deve rispettare. In questo momento, non ci sono intermediari fra il “sistema dei valori” e l’apparato tecnoburocratico che governa la Sanità. Ecco perché i sindaci, che sono l’entità da tutti riconosciuta come intermediaria fra noi e la macchina amministrativa dello Stato, sono oggi gli unici referenti delle comunità destinati a mantenere i valori umani indenni da ogni forma di offesa. L’offesa nel nostro caso consiste nel non rispondere con empatia al sofferente che si rivolge con animo empatico alla struttura sanitaria chiedendo d’essere preso in cura. Se ai valori non si risponde con altri valori nascono la frustrazione ed il conflitto.
Dagli anni ‘90, con la fine della legge 833/78, esiste l’errore di considerare l’ospedale come un’officina che ripara malati. Ma c’è differenza. Le macchine guaste possono essere sistemate in attesa nel parcheggio al di fuori dell’officina, in una lista d’attesa senz’anima, ma ciò non vale per l’uomo. Il malato non ha bisogno solo d’essere curato; ha bisogno che altri esseri umani se ne “prendano cura”. La materia di cui è costituito il “prendersi cura dell’altro” è formata dal “tempo di dedizione”, dall’“empatia” e dalla “comunicazione”. Proprio questo è il punto: la macchina amministrativa di diritto privato e la macchina tecnologica supportata dall’intelligenza artificiale, ma con deficit di umanità, obbedisce ad algoritmi regolati dalla matematica e non entra in “comunicazione” con il sistema dei valori umani. Stiamo vedendo come siano ignorati.
L’incontro tra chi “si prende cura” e colui che viene “preso in cura” è un fenomeno estremamente complesso ed ha lo scopo di generare “soddisfazione”. La soddisfazione verrà a sua volta elaborata dai centri cerebrali della “ricompensa”, attraverso molecole chimiche dedicate. Questo sistema complesso della “ricompensa” è stato elaborato in milioni di anni, attraverso mutazioni genetiche molecolari, tutt’oggi in corso, che sono capaci di cambiarci ad ogni secondo che passa.
E’ un argomento estremamente difficile che riguarda il quesito del perché esistiamo e come comunichiamo, e che oggi è oggetto di studio delle Neuroscienze. Un quesito che 2.500 anni fa indusse i primi filosofi ad identificare l’esistenza di tre fattori della natura umana che non possono esistere in nessuna macchina, cioè: il Pathos, il Logos, l’Ethos (il sentimento, la conoscenza, e l’etica). Su questi elementi il primo medico, Ippocrate, formulò il suo giuramento.
Dopo filosofi e medici dei primi secoli intervenne il Cristianesimo, che assimilò i corpi dei malati al corpo martoriato di Cristo e sul concetto di “compassione” dette inizio alla fondazione degli ospedali in tutto il mondo occidentale. Millecinquecento anni dopo, gli scienziati Galileo, Cartesio e Leibniz posero le basi del calcolo matematico infinitesimale e furono i progenitori dell’odierna tecnologia digitale.
Uno di questi, Cartesio, oltre al calcolo matematico condusse studi sul significato ontologico del “prendersi cura di se stessi e dell’altro” sviluppando concetti messi a punto da Sant’Agostino. Nei secoli successivi, fino ad oggi, i filosofi-antropologi hanno elaborato il concetto che l’“essere” ed il “prendersi cura” sono fra loro indissolubili, e l’esistenza dell’“essere” è sintetizzato nella formula: «Io esisto perché mi prendo cura». Questo è l’essenza del significato dell’esistere degli ospedali pubblici e della stessa comunità umana.

E’ stato recentemente pubblicato un libro su questo tema straordinario scritto dalla scienziata antropologa Paola Atzeni. Il problema è talmente complesso che si comprende come non possa essere risolto da banali tecnici dell’ingegneria sociale. Platone, che fu il primo a scriverlo su “La Repubblica”, concluse che il governo delle cose umane dovesse essere affidato ai filosofi (escludendo i burocrati).
Questa digressione serve a dimostrare ciò che stiamo vedendo, e cioè che l’uomo malato non è amministrabile con la sola contabilità burocratica potenziata dall’apporto della migliore tecnologia dell’intelligenza artificiale, necessita dell’intervento della parte umana del sistema politico sanitario, con tutti i suoi valori.
E’ necessario prenderne coscienza e tornare allo spirito della legge di riforma sanitaria 833/78 che conteneva tre principi ampiamente inapplicati: Universalità, Uguaglianza, Equità. Tutti valori umani non trasferibili alla tecnocrazia.
Bisogna farlo prima che si faccia terra bruciata intorno agli ospedali di Carbonia e di Iglesias. Soprattutto, bisogna farlo prima che un’inopportuna legge in gestazione sull’“autonomia differenziata” tagli i ponti fra noi e la Nazione.
Bisogna che la Politica, stimolata dall’opinione pubblica, e tramite i sindaci capaci, riprenda in mano la gestione della Sanità ed impedisca che il mercato della salute senza Stato prenda il sopravvento.

Mario Marroccu

Dai quotidiani sardi ci provengono tre generi di notizie preoccupanti:

  • Gli incendi 
  • Il ritorno in “zona gialla”
  • La carenza  di medici.

Gli incedi sono dovuti alla meteorologia e a calcoli criminali.

La “zona gialla” è una minaccia concreta.

La mancanza di medici è invece un mistero da chiarire, visto l’enorme numero di medici in pensione non utilizzati.

Gli unici che si preoccupano e che si agitano, nella piramide della politica, sono i sindaci. Ovunque, in Sardegna, avvengono manifestazioni spontanee di Sindaci, con tanto di fascia tricolore a tracolla, che sfilano in piazza per protestare, ritenendo che la carenza dei medici di base nei paesi e nei Pronto soccorso degli ospedali sia una forma di abbandono delle autorità sovraordinate. Paradigmatica è stata la dimostrazione di sindaci nella superstrada 131.

Negli ospedali di Iglesias e Carbonia il depauperamento degli organici negli ospedali è serio: i reparti di ricovero e servizi specialistici sono dimezzati, gli altri reparti sono  ridotti ad un quarto del personale medico e tecnico; altri reparti ancora sono costretti ad essere accorpati e ridotti per sopravvivere; altri ancora sono chiusi per consentire le ferie estive che la legge impone al personale. Tutto questo, sta avvenendo nel bel mezzo di una pandemia recrudescente.

In questo periodo vacanziero, da cui proviene il 13 per cento del PIL nazionale, stanno avvenendo manifestazioni contro il green pass; c’è chi ritiene che bastino i vaccini a fermare il virus. Ciò avviene, nonostante i mezzi governativi di informazione stiano ripetendo che c’è una ripresa della mortalità da Covid-19 e che il 14 per cento dei morti è stato vaccinato con due dosi; tale dato certifica che il vaccino non protegge dal virus ma serve ad attenuare la gravità della malattia. Tutti, anche i vaccinati, la possono contrarre, ne è la dimostrazione il caso del signor G.L di Carbonia, anni 74,  regolarmente vaccinato con due dosi, che questi giorni è finito sui giornali perché, avendo manifestato i sintomi ingravescenti di un Covid-19 in forma acuta, è finito all’ospedale Sirai; da qui, imbarcato su un’ambulanza, è stato trasferito all’ospedale Binaghi di Cagliari. Giunto al Binaghi, che funge da centro per pazienti Covid, i medici si sono affrettati a comunicargli che il loro reparto era pieno di malati in terapia intensiva e non potevano accettarlo. Il nostro concittadino è rimasto ricoverato nell’abitacolo dell’ambulanza per 24 ore, in attesa che si liberasse un posto letto nella struttura ospedaliera.

Qui si delinea un mistero della nostra ASSL. Abbiamo dimenticato che un anno fa venne deliberato dalla Giunta regionale l’istituzione di un Covid-hospital al Santa Barbara di Iglesias per accogliere i pazienti del Sulcis Iglesiente. L’omissione è finita nella “cupio dissolvi” della nostra organizzazione sanitaria. Iglesias, tra le nostre città, è la più colpita dall’impoverimento sanitario. In questi giorni, al CTO di Iglesias verrà chiuso il reparto di Chirurgia generale per mancanza di personale medico ed infermieristico, e tutte le urgenze verranno convogliate al Sirai di Carbonia. Anche a Carbonia vi è il problema del personale medico ed infermieristico e, per compensare la carenza d’organico, si sono dovuti accorpare due reparti chirurgici, riducendone le sedute operatorie routinarie ad una per settimana. Tutto ciò, è conseguenza della penuria cronica di personale;  non ci risulta che esista un piano strategico risolutore, e nessuno avanza proposte.

Per la verità, un Piano c’è, ed è molto grosso: si chiama PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza). La parte del Piano che dovrebbe ricostituire la macchina sanitaria si chiama “Missione 6”. L’ha confezionata il governo Draghi ed è stata approvata dalla Commissione europea da Ursula Van der Leyen. Il finanziamento messo a disposizione dall’Europa è enorme. Si tratta di 209 miliardi di euro. Di questi, ben 80 miliardi sono un regalo dell’Europa, mentre 129 miliardi sono puro debito da restituire. Il finanziamento eccezionale va speso entro i prossimi 5 anni. Ben 20 miliardi del Piano sono destinati alla Sanità. Cinque miliardi sono stati già impiegati per altro; ne rimangono 15 da spendere.

Le voci di spesa sono queste:

  • Digitalizzazione del SSN (Sistema Sanitario Nazionale);
  • Medicina di prossimità nel territorio (Case della salute e Ospedali di Comunità); 
  • Strumenti tecnologici (TAC; risonanze magnetiche; ecografi, etc…)
  • Finanziamento Centri di Ricerca;
  • Corsi di aggiornamento per il personale dipendente;
  • Ristrutturazione degli Ospedali fatiscenti.

Gli Ospedali in Italia sono tanti ma soltanto 280 di essi sono veramente importanti. Sono quelli di I e di II livello. In Sardegna ci sono 2 ospedali di II livello (Brotzu e Azienda ospedaliero universitaria di Sassari) e 7 ospedali di I livello. L’ospedale Sirai di Carbonia è uno di questi 7. Questi ospedali verranno dotati di formidabili  apparecchiature tecnologiche e qui scatta un primo mistero: non verranno assunti né medici, né infermieri, né tecnici a tempo indeterminato. Ciò avverrà perché esiste l’ordine della UE di non aumentare la “spesa corrente.  La “spesa corrente” dello Stato è quella che tutti i mesi finanzia gli stipendi dei dipendenti e le pensioni. Ne consegue che è vietato assumere per non generare altra spesa corrente. Sono ammesse solo assunzioni temporanee. La domanda che sorge è questa: «Chi dovrebbe far funzionare le TAC e le Risonanze Magnetiche se non verrà assunto il personale specializzato dedicato? Lo sanno che al Sirai di Carbonia avevamo 9 radiologi e che oggi sono ridotti a 3?». Lo stesso ragionamento si applica per i tecnici specializzati. Conclusione: sugli ospedali e, soprattutto, su quelli del Sulcis Iglesiente, pende la “Spada di Damocle” del fallimento. Da questo si desume che tutti noi siamo candidati al destino del signor G.L. di 74 anni di Carbonia, ad essere rifiutati dal nostro Ospedale, ad essere imbarcati su un’ambulanza che dovrà condurci verso una destinazione senza speranza: gli ospedali respingenti di Cagliari.

Una grossa somma del Piano PNRR di Draghi è destinato alla “medicina di prossimità” nel territorio: si tratta della costruzione delle “ Case della salute” e degli “Ospedali di comunità”. Le prime non sono altro che gli attuali poliambulatori. Anche qui non si prevede l’assunzione di medici specialisti, però si prevede che vadano a lavorarci i medici di base. Per ora, si tratta solo di una ipotesi, perché tutti i sindacati dei medici di base non sono d’accordo e i medici staranno nei loro ambulatori.

Per quanto riguarda gli “Ospedali di Comunità” si progetta di darli in gestione agli Infermieri. E’ evidente che, senza i medici, gli infermieri, che non potranno certificare diagnosi né prescrivere farmaci, si limiteranno alla cura della persona (igiene) e i malati veri verranno inviati in ospedale; qui, per i motivi organizzativi anzidetti, faranno la fine del signor G.L. di Carbonia, ed imbarcati su un’ambulanza con destinazione…il nulla.

Con i fondi del PNRR verrà creata una rete digitale per la comunicazione tra il paziente adagiato a casa e l’ospedale; attraverso essa i nostri anziani avranno una pronta consulenza. E’ evidente che il redattore del Piano non ha esperienza di quanto sia difficile parlare con i pochi medici dei nostri ospedali, oberati da un lavoro che li assorbe totalmente; figuriamoci quanto saranno disponibili a rispondere alle infinite e-mail che riceverebbero dai 128.000 potenziali malati o parenti di malati del nostro territorio.  Non mi sembra tanto realistica neppure l’idea che vengano facilmente prodotti a domicilio tanti esami ECG e tante ecografie da spedire al cardiologo o al radiologo o al chirurgo dell’ospedale, visto la carenza disastrosa di medici di base nel territorio. Si tratta di un piano grandioso di acquisto di attrezzature tecnologiche che finiranno in un sottoscala visto che non è stata prevista l’assunzione del personale medico che dovrebbe utilizzarle.   

Senza il personale non si andrà da nessuna parte. Il PNRR ne vieta l’assunzione a tempo indeterminato e tutto comincia ad avere i connotati di un grande sogno a cui seguirà un brusco risveglio in un mare di debiti da ripianare.

Il caso del signor G.L. di Carbonia è un sintomo certo di una patologia che sta covando e stupisce che nei giornali e nella politica manchi un benché minimo accenno di dibattito su questo tema.

Gli unici che hanno percepito questa anomalia sono i sindaci, scendendo in piazza con striscioni e bloccando il traffico nella Superstrada per Sassari. Sono gli unici che hanno percepito che “non di apparecchiature TAC vive la Sanità” ma di “personale”.

Le radici dei mali del Sistema Sanitario Nazionale si trovano nel passato.

Dopo i tempi meravigliosi sperimentati con la Riforma 833/1978 del SSN, di Tina Anselmi, si iniziò l’arretramento sanitario nel 1992 col ministro liberale Francesco De Lorenzo. Quel ministro decretò il passaggio alla “privatizzazione” della Sanità pubblica. Con tale formula si intendeva risparmiare sulla Sanità attraverso la riduzione della spesa per il personale ed i Servizi.

Nel 1999 il sistema di risparmio venne regolamentato dalla ministra Rosy Bindi.

Poi nell’anno 2004, col Dlgs 311, il Governo Berlusconi pose un tetto alla spesa sanitaria minimizzando la sostituzione del personale andato in quiescenza. Addirittura si decretò che la spesa sanitaria, per ogni anno successivo, diminuisse del 1,4 per cento rispetto alla spesa del 2004.

Nel 2012, ai tempi del Governo Monti, il ministro Balduzzi ridusse drasticamente il numero dei posti letto negli ospedali da 6 posti letto per 1.000 abitanti a 3,7 posti letto per 1.000 abitanti. Proporzionalmente si ridusse il personale dipendente. Erano gli anni in cui in tutti i decreti compariva il proposito di “efficienza ed efficacia”. Con tali termini si intendeva «spendere di meno, con meno personale, ottenendo gli stessi risultati assistenziali».

Nell’anno 2015, col governo di Matteo Renzi, venne varata la legge nota con la sigla DM 70. Questa legge pose altri limiti ai posti letto e al personale.

Gli esecutori regionali sardi, nell’applicare la legge furono “più realisti del re”. Fu un disastro. Non soltanto non vennero rispettati i bassi parametri di posti letto e personale che ci veniva riconosciuto ma, per il Sulcis Iglesiente si procedette alla chiusura definitiva di reparti ospedalieri e dal depauperamento del personale medico e infermieristico ancora superstite.

Dal 1° gennaio 2020 la Sardegna è passata dalla Riforma della ATS alla riforma della ARES. Anche con questa Riforma non è stato preso in considerazione l’aumento dell’organico del personale sanitario.

Ora siamo in attesa di una legge che definisca i nuovi standard sugli organici del personale dei Servizi sanitari della Sardegna. E’ necessario che qualcuno dei nostri segua bene l’iter di questa nuova legge e verifichi che il nostro territorio non venga ulteriormente sacrificato.

Da questa ricostruzione storica si ricava l’informazione che il disastro sanitario in cui ci troviamo ha i nomi e i cognomi degli autori. Hanno partecipato tutte le parti politiche e tutte, alla pari, ne hanno la responsabilità.

Ci rimane una speranza. I sindaci.

Tuttavia i sindaci hanno bisogno d’essere sostenuti dall’opinione pubblica, la quale dovrebbe controllare i controllori che sono stati eletti.

Chi sono i controllori? Sono i rappresentanti dei cittadini inviati alla Regione, alla Provincia, alle Camere e al Governo.

Ma ancora più responsabili sono i controllori dei controllori, cioè Noi stessi.

Onestamente tutto questo disastro l’abbiamo lasciato crescere senza controllo e ne siamo responsabili. Siamo Noi stessi gli  autori della triste esperienza in cui è incappato il concittadino  G.L., di 74 anni, di Carbonia. Siamo in molti: 128.000 abitanti del Sulcis Iglesiente, e abbiamo la colpa di non aver stimolato adeguatamente i nostri rappresentanti. 

Mario Marroccu

Nella foto di copertina i sindaci della provincia di Oristano che hanno manifestato due settimane fa uniti in difesa del sistema sanitario territoriale