5 December, 2025
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Il più antico criterio su cui fondare la “Sanità” lo idearono, 1.000 anni avanti Cristo, i sacerdoti di Apollo in Grecia. Per essi la Sanità doveva avere una natura“magico-misterica” perché era basata sul favore degli dei. Da lì venne la Sanità dei “guaritori”. Nel V secolo avanti Cristo Ippocrate mise le basi della Sanità moderna inventando la “clinica”; deriva dal termine greco “klinos” che significa letto. Il medico doveva osservare a lungo il malato nel suo letto rilevando i segni e i sintomi al fine di identificare il quadro “clinico”, classificarlo e ritagliare su di esso la terapia. Era la Sanità laica da cui in seguito originerà la sanità moderna. Poi vennero i dettami della Sanità del primo secolo basata sul “soccorso caritatevole” descritto dalla parabola del “Buon Samaritano”. In quella parabola vennero poste la basi della complessa struttura sanitaria, che ancora oggi esiste, formata da tre elementi:

1 – il cittadino malato (l’uomo che scendeva da Gerusalemme a Gerico);

2 – la struttura dove avviene il ricovero dotata di personale che esegue le cure in cambio di una remunerazione (l’albergo e l’oste che prese in cura l’uomo aggredito);

3 – i cittadini che pagano le spese per le cure per la Sanità pubblica (il Buon Samaritano). Il criterio a cui si ispirava la parabola era il “soccorso solidale” per chiunque, ricco o povero, umile o potente, che in quel momento fosse in disgrazia. Nel IV secolo d.C. San Basilio di Cappadocia edificò la prima struttura ospedaliera della Storia: la Basiliade. Era una cittadella della carità con locande, ospizi e lebbrosario, dove i monaci raccoglievano tutti i poveri e malcapitati trovati nelle strade del paese, e qui li nutrivano, alloggiavano e curavano. Il criterio con cui venne strutturata questa Sanità era la “carità per i poveri”. Nel V-VI secolo in Italia, con Benedetto da Norcia, emerse una simile Sanità organizzata col criterio di “soccorrere i bisognosi di assistenza” identificati come “poveri cristi”. Gli “Hospitalia” benedettini erano finanziati dalle classi sociali ricche che offrivano denaro in cambio di uno sconto sui loro peccati nel momento del giudizio finale. Da allora i cosiddetti “ospedali” vennero gestiti da associazioni laiche e religiose con donazioni, oppure finanziati dalle Signorie. Nel XV secolo il cardinale Enrico Rampini trovò riprovevole la gestione falsamente disinteressata dei 16 ospedaletti, gestiti dal volontariato laico, che esistevano dentro le mura della città governata dai Visconti e dagli Sforza, e li fece chiudere tutti. Fu una bonifica radicale della millenaria “sanità laico-religiosa” finanziata dal volontariato. Al loro posto edificò il primo vero grande ospedale nato in Europa: l’“Ospedale Maggiore” di Milano. Quest’uomo mise le basi degli ospedali moderni. Per la prima volta negli ospedali di nuovo tipo entrarono a lavorarci anche i medici e le ostetriche. Cessò il tempo delle cure erogate da persone caritatevoli ed entrarono nella scena gli infermieri e i contabili stipendiati. L’Ospedale Maggiore divenne ospedale per “acuti”, cioè per quei ricoverati che nell’arco di pochi giorni guariscono o muoiono. I malati cronici, cioè quelli che non guariscono ma che vivono a lungo, vennero sistemati in un ospedale per “cronici” situato all’esterno delle mura della città. Le RSA del tempo. Da quanto premesso si può affermare che i vari sistemi sanitari, che si sono succeduti nella Storia, avevano caratteristiche fra loro molto diverse. La loro organizzazione e finalità era conseguente al periodo storico che viveva un proprio peculiare problema capace di influenzare il tipo di sanità più adatta: poteva prevalere il problema economico (carestie), oppure quello politico (guerre, dominazioni), oppure quello religioso (assistenza in base al credo), o quello sanitario (epidemie ricorrenti). Quando prevalevano le malattie epidemiche mortifere come la peste o il colera, gli ospedali erano organizzati per isolare, assistere, o per smaltire i cadaveri. Quando prevalevano le malattie croniche come la lebbra o la tubercolosi si sviluppavano i lebbrosari o i tubercolosari. Dal 1800, con la comparsa delle miniere e delle industrie metalmeccaniche ed energivore sono comparse la malattie da lavoro industriale (silicosi, e i traumi per incidenti sul lavoro). Oggi abbiamo malattie in rapporto all’inquinamento, all’alimentazione, allo stile di vita, all’età. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale vi erano tre problemi sanitari da contenere: le epidemie (tbc, colera, tifo, epatite, influenza, poliomielite, malattie esantematiche), i deperimenti organici da povertà, il contrasto alla elevata mortalità infantile. Allora gli ospedali si specializzarono nella cura delle malattie internistiche, impararono ad utilizzare i neo-arrivati antibiotici e a sviluppare la pediatria. Gli ospedali, in tutte le province, erano dotati di reparti di Ostetricia con sale parto e personale dedicato. Invece fino agli anni ‘50 del ‘900 si nasceva, drammaticamente, in casa. Dopo la Costituzione italiana del 1948 si iniziò a interpretare e ad applicare l’articolo 32. Quell’articolo fu una rivoluzione storica perché per la prima volta si riconosceva in Costituzione il diritto di tutti ad essere curati a spese dello Stato. Nacque quindi una nuova voce di spesa pubblica: quella per il finanziamento della Sanità pubblica. La spesa pubblica italiana crebbe repentinamente per garantire la Sanità per tutti “dalla culla alla tomba”. Su questo principio si fondò la legge di Riforma Sanitaria del 1978 del ministro Tina Anselmi. Essa aveva fondato il primo Sistema Sanitario Nazionale (SSN). I criteri base per costruire il SSN furono gli stessi della parabola del Buon Samaritano. Con una differenza: rispetto alla parabola, in cui il Buon samaritano per propria iniziativa cedeva gratuitamente i suoi danari per curare il ferito, nella legge costituzionale il cittadino era tenuto a pagare le tasse allo Stato per finanziare la spesa sanitaria pubblica. Tale differenza comporta che mentre la Sanità caritativa viene somministrata volontariamente in cambio di un premio nell’altra vita, il cittadino della Costituzione deve pagare doverosamente le tasse altrimenti subirà una sanzione. Il finanziamento pubblico della Sanità è un atto politico-amministrativo. La legge di Tina Anselmi fu un passo storico millenario: aveva creato il criterio della solidarietà obbligatoria a beneficio di tutti. Fu un successo: era nata la Sanità Pubblica italiana. Poi venne il criterio dell’equa distribuzione dei poteri di comando e di doveri di controllo di tutti gli attori del sistema. La gestione della Sanità pubblica provinciale venne affidata ai Sindaci dei territori che eleggevano al loro interno il Presidente della USL (Unità Sanitaria Locale). L’erogazione del servizio era affidata ai medici. L’amministrazione tecnico-finanziaria era competenza del Direttore Amministrativo. Al di sopra di essi era posto l’assessore regionale della Sanità. Al di sopra dell’assessore regionale era posto il ministro della Sanità. Al di sopra di quest’ultimo era il ministro alle Finanze-Tesoro, che controllava la spesa e riscuoteva le tasse dai cittadini. Il controllo nelle regioni spettava agli assessori. Il controllo della spesa e del funzionamento del sistema sanitario spettava ai Sindaci. Il controllo sui Sindaci spettava ai cittadini nel momento del voto. Questa catena di controllo era logica ed efficiente. Ne risultò la migliore Sanità dal 1948 al 2025. Nell’anno 1992 esplose lo scandalo politico-amministrativo più grave della Storia dal dopoguerra ad oggi: i conti pubblici erano fuori controllo in tutti in servizi dello Stato. Le indagini giudiziarie portarono alla conclusione che l’anomalia fosse conseguenza di manovre politiche pilotate dalla corruzione. Per evitare il fallimento dello Stato cadde il governo; in sua vece nacque il governo Amato destinato a riequilibrare le finanze e aggiustare la morale della politica. Il precedente apparato dei partiti politici venne smantellato assieme alle loro opere. Nell’ipotesi che tutto fosse guasto si demolirono anche strutture buone ed efficienti come il Sistema Sanitario Nazionale. Ai Sindaci venne tolto il potere di gestire la Sanità ospedaliera e territoriale. Al loro posto vennero nominati i “Manager” che ebbero il mandato di gestire le ASL (Aziende Sanitarie Locali) come se fossero aziende private. Essi lo fecero applicando i criteri di gestione e programmazione tipici delle aziende commerciali nate a fini di lucro. Al posto del criterio della sanità per tutti ad ogni costo divenne predominante un nuovo criterio: «Il risparmio sulla spesa sanitaria al fine di riequilibrare il bilancio dello Stato». La “riduzione delle spesa” fu il nuovo metodo di gestione. Tutte le leggi varate dai nuovi ministri della Sanità, da Francesco Di Lorenzo nel 1992 a Maria Pia Garavaglia, e a Rosy Bindi nel 1999 esclusero i Sindaci dalla gestione dalla Sanità pubblica. Le leggi di risparmio si indurirono durante l’ultimo governo Berlusconi che era finito nella gravissima crisi del 2008. L’Italia era sull’orlo del fallimento in seguito alla grande recessione mondiale del 2006, estesa fino al 2013. Fallimento precipitato da una crisi della Borsa americana con la debacle delle banche Goldman Sachs, Lehman Brothers, Merryl Linch, eccetera. Il criterio del risparmio sulla gestione della cosa pubblica si irrigidì ulteriormente con i Governi Monti del 2011 e di Letta nel 2013 e vi furono conseguenze a danno della Sanità. Ne conseguirono:

– la riduzione dei posti letto negli ospedali,

– accorpamento di reparti ospedalieri,

– accorpamento di ospedali,

– chiusura di reparti specialistici e di interi ospedali,

– mancata sostituzione del personale andato in pensione,

– blocco di nuove assunzioni.

Tali atti vennero affidati ai nuovi Direttori Generali delle ASL (Aziende Sanitarie Locali) che, resi autonomi dai sindaci, al fine di risparmiare portarono alla demolizione sistematica di quella Sanità ospedaliera e territoriale costruita dalla legge 833/78 di Tina Anselmi. Questa ricostruzione storica, per sommi capi, della Sanità negli ultimi 3000 anni serve a dimostrare che non esiste una sola forma di sanità che rimane uguale a se stessa per sempre. Si dimostra invece che esistono tante forme di Sanità e ognuna viene concepita secondo criteri di adeguatezza al bisogno del tempo in cui si vive. Oggi è necessario individuare, e concordare, quali siano i nuovi bisogni sociali che saranno alla base dei nuovi criteri intorno a cui si dovrà costruire la nuova Sanità che ci serve. In mancanza di questa analisi propedeutica non si può procedere a progettare la nuova Sanità. Finora le dispute quotidiane che si leggono nei giornali ci forniscono ottimi articoli, molto autorevoli, concentrati sulle critiche al presente ma privi di soluzioni concrete per il futuro. Adesso per trovare concretezza tutti sono chiamati a «mettersi gli scarponi e scendere nel terreno» secondo il linguaggio militare. Oggi il mondo è radicalmente cambiato. I criteri per produrre e distribuire Sanità non sono più “misterici” o “ caritativi” o puramente “costituzionali”. Oggi, dando uno sguardo, anche superficiale, nel mondo occidentale, si scopre che c’è bisogno di una Sanità pubblica basata su un nuovo criterio: il criterio demografico. Lo attestano sia l’aspetto che ha la nuova popolazione e le esplicite richieste che emergono dai convegni in cui si chiedono garanzie per una “longevità serena”, e un “nuovo patto generazionale” che liberi i pochi giovani dal peso di dover garantire le cure a un numero crescente di vecchi.

Mario Marroccu

Recentemente, in una cittadina del Sulcis, le campane hanno suonato “a morto” per la Sanità. In realtà la Sanità non è morta. E’ stata trasformata e il suo funzionamento suscita perplessità.
Nella nostra ASL 7 il percorso in discesa iniziò alla fine degli anni ‘90. Un esperto economista, di formazione bocconiana, parlando al popolo riunito dei dipendenti della ASL 7, nell’aula “Velio Spano” di Carbonia, spiegò che gli ospedali, nati per produrre “sanità”, avrebbero iniziato ad essere gestiti esattamente come si gestiscono le fabbriche che producono “bulloni”. Secondo le direttive, che stavano arrivando dagli esperti del Governo, i nuovi direttori delle ASL avrebbero dovuto ottenere risultati di “efficienza ed efficacia” attraverso metodi di tipo manageriale. Con questo significava che si doveva ottenere gli stessi risultati già ottenuti spendendo di meno e risparmiando sul numero dei dipendenti (medici, infermieri, amministrativi, tecnici) e sui posti letto. L’altra parola chiave per capire il nuovo metodo di gestione fu “accentramento”: i servizi distribuiti nei territori dovevano venire accentrati e unificati in un’unica sede. Ciò venne fatto e la Sanità “concreta” che avevamo fino ad allora conosciuto, fatta di malati, medici e infermieri, ridotti di numero col blocco delle assunzioni, cominciò a sciogliersi.
La Sanità ospedaliera di Carbonia ed Iglesias venne sminuita progressivamente e avvenne un fenomeno simile a quello che avviene ad un blocco di ghiaccio che si scioglie: divenne sfuggente come un “liquido” che sfugge tra le dita delle mani.
Il metodo di “liquefazione” dei servizi e della stessa struttura sociale non si limitò al campo sanitario. Stava avvenendo uno scambio di valori in molti settori del vivere comunitario. I nuovi economisti avevano invertito la scala di precedenza dei due scopi del lavoro umano: la soddisfazione dei bisogni dell’uomo e l’arricchimento. Il primo posto venne dato all’arricchimento, il secondo venne dato alla soddisfazione dei bisogni umani. L’inversione modificò radicalmente lo scopo per cui esistevano gli Ospedali. Non più la soddisfazione del bisogno dei singoli richiedenti assistenza ma il risparmio e l’incasso. I medici vennero obbligati a fare corsi per imparare a incassare di più con i DRG (metodi di pagamento delle prestazioni). Si iniziò a spendere di meno per il Welfare-state e si ridussero le risorse ad esso necessarie. Il metodo ignorava il fatto che, comunque, i bisogni dell’uomo sono insopprimibili e che, prima o poi, ottengono soddisfazione, ma a costi maggiorati. Il professor Zygmunt Bauman, sociologo, filosofo e professore all’Università di Leeds nello Yorkshire, venne incuriosito da questo nuovo metro dato ai valori umani e definì la nuova società che si stava formando “società liquida”.
Così definiva la precarietà delle istituzioni in continuo mutamento, e le relazioni umane divenute assolutamente instabili. Secondo Zygmunt Bauman l’instabilità del contesto sociale, in cui la solidarietà perde peso, consente lo sviluppo dell’individualismo dilagante. In tale contesto la perdita di fiducia nelle relazioni viene peggiorata dalle nuove tecnologie che alimentano una paradossale forma di isolamento digitale. Gli effetti della “modernità liquida”, come descritti da Zygmunt Bauman, si manifestano diffusamente nei rapporti con il lavoro, con la politica e i servizi sociali, e perfino nei rapporti all’interno dalla stessa famiglia e della coppia (la “coppia liquida”). Ne è conseguita anche la crisi progressiva dei partiti politici e dei sindacati, anch’essi progressivamente “liquefatti” e sfuggenti. I rapporti sociali finiscono per sfuggire al controllo dei cittadini, sia come singoli che come comunità all’interno delle grandi strutture sociali, come la sanità pubblica, e diviene molto difficile sovvenire sia ai propri bisogni che a quelli degli altri.

Fenomeni sociali come questo hanno bisogno di molti anni per maturare. Nel sistema sanitario-ospedaliero del Sulcis Iglesiente i passi della disgregazione liquefazione) del sistema sanitario sono avvenuti con una successione storica che è utile ricordare nel caso si volesse porvi riparo. L’ospedale Sirai, insieme all’intera città neocostruita di Carbonia, fino al 1946 era proprietà aziendale della ACAI e della Società Carbonifera Sarda. Quando la città divenne un Comune, l’ospedale passò sotto il suo controllo. Divenne Ente Ospedale Comunale, presieduto dal Sindaco, fino alla Grande Riforma di Tina Anselmi del 1978. Similmente avvenne con gli ospedali di Iglesias. Nacquero così la USL 7 (Carbonia) e la USL 16 (Iglesias). Gli Ospedali che erano allora proprietà dei Comuni divennero proprietà dello Stato ma vennero affidati alla amministrazione dei Comitati di Gestione, espressione di tutti i Comuni del Sulcis e dell’Iglesiente.
A dicembre 1992 il Governo legiferò producendo una nuova riforma sanitaria: la 502/1992 di Francesco de Lorenzo. Questa abolì i Comitati di Gestione eletti dai Comuni territoriali; trasformò le USL in “Aziende” e pose a dirigerle un “manager”. Figura monocratica nominata dalla giunta regionale. Le modifiche apportate da questa Riforma ebbero l’effetto di sottrarre del tutto, sia gli ospedali che la rete sanitaria territoriale, dal controllo dei Comuni. Fu il primo atto di dissociazione (liquefazione) del Sistema sanitario ospedaliero del Sulcis Iglesiente dal suo territorio. Nel 1999 la ministra Rosy Bindi, con la sua riforma n. 229/1999 confermò e rafforzò l’evoluzione in senso aziendale autonomo delle ASL. Per effetto di quella legge aumentava ulteriormente l’indipendenza aziendale e, contemporaneamente, i rappresentanti politici del territorio venivano radicalmente esclusi dal controllo della gestione sanitaria. Lo scopo virtuoso, dichiarato dal legislatore, era il mantenimento dell’equilibrio di bilancio. Gli effetti avversi collaterali che invece si produssero furono esattamente quelli previsti da Zygmunt Bauman: il controllo della Sanità sfuggiva dalle mani dei cittadini e dei loro rappresentanti politici. Oggi sia i sindaci che i cittadini non hanno più strumenti concreti per interferire a proprio vantaggio nella gestione della ASL. Il Sistema oggi è sotto il controllo totale di altri enti regionali (Assessorato e ARES) che hanno accentrato tutte le funzioni amministrative di programmazione, spesa e controllo.
Ai tempi degli Ospedali controllati dalle Amministrazioni Comunali locali, tra Carbonia e Iglesias esisteva una dotazione di 750 posti letto. Il Sirai di Carbonia ne aveva 384. La Chirurgia Generale del Sirai era dotata di 86 posti letto. La Medicina (I e II) ne aveva 130. Gli altri posti letto erano distribuiti tra Maternità, Pediatria, Ortopedia, Psichiatria, etc. Con le riforme che seguirono i posti letto ospedalieri vennero ridotti progressivamente a 24 in Chirurgia e a 30 circa in Medicina. La riduzione di posti letto (per acuti) ha comportato una minore necessità di Personale sanitario specializzato nei nostri ospedali. Il Personale ritenuto eccedente, una volta eliminato, non è stato più ripristinato; ciò rende impossibile riattivare i letti precedenti. Oggi i posti letto totali sono un centinaio a Carbonia e altrettanti ad Iglesias. Dai 750 posti letto dell’inizio di queste operazioni di “razionalizzazione” oggi ne mancano 550 circa. I pazienti non acuti finiscono nelle RSA o in altri ospedali, sia privati che pubblici di Cagliari e del Continente. Oltre alla diminuzione di posti letto è stata eseguita la soppressione funzionale di altri reparti come Pediatria, Ostetricia, Urologia, Traumatologia, Neurologia. Per alcuni di questi servizi specialistici è stato applicato il principio dello “accentramento” dei posti letto ad Iglesias. Ciò comporta certamente un risparmio economico nell’immediato. In futuro questo supposto risparmio si ritorcerà contro il bilancio della nostra ASL 7 perché quei pazienti che non hanno trovato posto si sono ricoverati presso altre strutture che dovranno essere ripagate. Alla fine dei conti, questa operazione avrà un costo molto alto. Abbiamo solo spostato il luogo dove si spendono i soldi: a Cagliari. I disagi conseguenti sono enormi.
Quelle leggi (Francesco De Lorenzo e Rosy Bindy) hanno avuto lo scopo di controllare la spesa sanitaria, in realtà hanno prodotto incertezza del servizio sanitario, delocalizzazione dei servizi, e mancate assunzioni (fenomeno dannoso quanto lo sono i licenziamenti).
Oggi ci troviamo con poco personale in pianta stabile e con molte convenzioni libero-professionali sia con medici dei Pronto Soccorso sia con agenzie interinali che ci prestano il loro personale per servizi come il CUP, le manutenzioni e altre attività essenziali.
Le cucine e la lavanderia vennero soppresse in passato e i loro servizi vennero dati in appalto a società esterne.
Tutto questo avrà pure degli ipotetici vantaggi ma sicuramente ha lo svantaggio di aver destrutturato un organismo complesso come quello dei nostri ospedali che erano completi e capaci di vita autonoma. Se i servizi esterni dovessero chiudere all’improvviso, per i motivi più disparati (immaginiamo uno stop ai servizi di cucina o di lavanderia) dovremmo chiudere gli ospedali. La precarietà strutturale in cui si trovano i nostri ospedali è stata ideata per un fine utile, necessario e aderente alla nuova modernità: tutto vero. Purtroppo, è anche vero che la struttura ideale di ospedale come unica entità autosufficiente, come fu in passato, e come dovrebbe essere in caso di grandi calamità o guerre, non esiste più. Oggi è una struttura che si trova in costante precarietà e instabilità, e suscita una motivata preoccupazione.
Se si ammette la fondatezza di queste osservazioni si deve concludere che il problema fondamentale del Sistema sanitario non sta nella mancanza di finanziamenti, o di medici e infermieri, ma sta soprattutto nell’instabilità strutturale, “liquida”, dell’intera organizzazione sanitaria.
Probabilmente abbiamo necessità di restituire agli Ospedali la loro struttura integrale nella dotazione di personale e servizi, caratterizzata da autonomia e autosufficienza.
Si potrebbe iniziare coll’assumere in pianta stabile tutto il personale precario, ma necessario. Si potrebbe continuare col ridare una funzione di controllo ai Sindaci all’interno della ASL. Così pure sarebbe auspicabile restituire ai primari la loro posizione gerarchica all’interno dell’apparato gestionale con funzioni di consulenti costanti della Direzione sanitaria, di quella Amministrativa e del Consiglio provinciale dei sindaci. Queste poche cose inizierebbero a restituire “concretezza” all’apparato sanitario ospedaliero pubblico.
Per quanto riguarda la Medicina di base esistono soluzioni già sperimentate.

Mario Marroccu

Alcuni giorni fa è stato ricordato l’anniversario di uno degli eventi più incisivi della Storia: la presa della Bastiglia del 14 luglio 1789, simbolo dell’inizio della Rivoluzione Francese. Un mese prima si era riunita l’Assemblea Nazionale Francese per discutere sul come si sarebbe dovuto votare sugli argomenti in discussione: per “Stato” o per “Testa?”. Bisogna sapere che l’Assemblea Nazionale era formata da 1.100 “teste”, o elettori, divisi in tre “stati”: il “Primo Stato” era il Clero, il “Secondo Stato” era la Nobiltà, il “Terzo Stato” era la Borghesia. Fino ad allora avevano votato “per Stato”, pertanto, il Clero e la Nobiltà alleati vincevano sempre sul “Terzo Stato”. Quell’usanza acquisita fin dal 1600 aveva comportato un inevitabile vantaggio per il “primo” e il “Secondo Stato”. Quel giorno, però, i rappresentanti del “Terzo Stato” pretesero che si votasse per “Testa”. La proposta non venne accettata e il “Terzo Stato” fece esplodere la Rivoluzione; il sangue corse fino al 1794. Furono tante le teste di conservatori da tagliare che si dovette inventare una macchina adatta: la ghigliottina.
Da allora si usano i termini di “Destra” e “Sinistra” per indicare la parte politica “conservatrice” e la parte “riformista”. Quei termini si riferivano proprio alla rappresentazione spaziale dei due schieramenti di maggioranza e opposizione nell’Assemblea Nazionale pre-rivoluzionaria. A destra, nel salone dell’emiciclo sedevano il Clero e i Nobili, a sinistra sedevano i Borghesi. Dato che il voto “per stato” faceva vincere sempre la coalizione di clero e nobili, questi avevano acquisito enormi privilegi come l’esenzione assoluta dal pagare le tasse al Re di Francia. Ciò aveva consentito loro di detenere enormi proprietà territoriali e immobiliari. Tutte le spese di Stato, come i vitalizi alla corona e alla nobiltà, gli stipendi ai militari, le guerre, la spesa pubblica per il decoro urbano e la manutenzione di tutte le proprietà statali, erano a carico del “Terzo Stato”.
Da allora il termine “destra” indica la parte politica che vuole conservare i privilegi acquisiti (da cui “conservazione”), evitando riforme che avrebbero potuto modificare l’ordine sociale esistente. Invece, il termine “sinistra” indica la parte politica che vuole una riforma dell’organizzazione sociale che garantisca l’“uguaglianza” di tutti i cittadini davanti allo Stato, l’abolizione dei privilegi e dei doveri che erano opposti e distinti nella società dei tre stati. Successivamente, in questi due secoli e mezzo di distanza dalla Rivoluzione Francese, gli scopi di “destra” e “sinistra” sono cambiati: è avvenuto che obiettivi di sinistra siano diventati di destra, e alcuni di destra siano diventati di sinistra. Per esempio, l’obiettivo di ottenere il “libero mercato” apparteneva alla sinistra rivoluzionaria e oggi è appannaggio della destra. La sinistra borghese di allora fu la genitrice di quel “capitalismo” che oggi è invece diventato un principio economico della destra.
Nei tempi moderni i criteri che differenziavano nettamente destra e sinistra sono diventati più sfumati e talvolta si sono sovrapposti tra le due parti. Al tempo della Rivoluzione la Sinistra rappresentava solo la Borghesia e nessuno aveva mai pensato di dare una rappresentanza ai contadini e agli operai.
Successivamente, per rappresentare questi ultimi che costituivano la maggioranza dei francesi, si formò il ”Quarto Stato”. Con quel completamento della rappresentanza popolare venne realizzata perfettamente la “democrazia”, ovverossia il “governo del popolo” (da “Demos” = popolo; e “Kratos” = potere). Il concetto di “governo del popolo” o “potere al popolo” iniziò a prendere piede negli anni successivi al 1789 anche nella politica degli altri stati del mondo occidentale.
La “democrazia” emerse francamente in Italia con le elezioni del 18 aprile 1948. In quella data, finita la Monarchia, iniziò la Repubblica. Tutti gli italiani, senza distinzione, vennero chiamati a votare per eleggere i membri della Camera dei deputati e del Senato. Questo atto segnò il momento storico di inizio della “democrazia rappresentativa”. Votarono il 92% degli italiani. Fu quello il momento di reale conferimento al popolo del “potere” di governare e “controllare i politici eletti” attraverso elezioni periodiche. I partiti più votati furono la Democrazia cristiana, il partito Comunista italiano, il partito Socialista italiano. Grosso modo corrispondevano agli stessi partiti popolari e borghesi che nell’Assembla Nazionale e nell’Assemblea Costituente della Rivoluzione francese erano i rappresentati dal terzo e quarto stato. Nei decenni successivi al 1948 le differenze ideologiche fra quei partiti si attenuarono moltissimo fino, talvolta, a sovrapporsi.
La massima espressione democratica in Italia si concretizzò con la Riforma sanitaria di Tina Anselmi nel 1978 (due secoli dopo la Rivoluzione Francese) e nacquero le USL (Unità Sanitarie Locali). Tutte le Regioni e Province, vennero suddivise in USL. Ciò venne fatto ad imitazione della grande riforma sanitaria nazionale organizzata dal governo rivoluzionario francese. Una delle menti illuminate rivoluzionarie che avevano attuato la riforma sanitaria francese fu Jean-Paul Marat, triumviro con Georges Jacques Danton e Maximilien Robespierre. Costui era figlio di un sardo cagliaritano, di cognome “Marras”, che pronunciato in francese diventa “Marà”. Successivamente con l’aggiunta di una “t” divenne “Marat”.
Per seguire il piano di Riforma preparato da Marat e soci, tutto il territorio francese venne suddiviso in distretti sanitari e ad ogni distretto furono attribuiti ospedali e medici territoriali. Il numero dei medici era in rapporto alla popolazione (da 7 a 12 ogni 10.000 abitanti). Gli ospedali all’inizio vennero progettati per avere 1.200 posti letto, poi si pensò che fosse meglio decentrare i grandi ospedali, suddividendoli in tanti piccoli ospedali di 150-200 posti letto. Quegli ospedali furono i primi, nella storia della medicina, a far collaborare i medici internisti con i chirurghi, cosicché iniziarono a esistere reparti di medicina e di chirurgia affiancati che collaboravano. Fino ad allora, in nessuna parte del mondo occidentale, fra di essi era mai esistita alcuna affinità. Fu l’evento che fece evolvere la medicina ospedaliera, e che venne copiato poi da tutta Europa. I padri di quella riforma furono grandi personaggi della medicina e chirurgia, come Cabanìs, Desault, Guillotin, Corvisart, Chaussier, Fourcroy e Deschamps. Tutti medici rivoluzionari.
La grande novità rivoluzionaria che essi introdussero fu l’assistenza sanitaria di Stato gratuita per tutti, “dalla culla alla tomba”. Dietro quelle innovazioni c’erano i valori maturati nel “secolo dei Lumi” francese con Voltaire, Rousseau e Montesquieu. Senza il “Contratto Sociale” di Jean-Jacques Rousseau nessuno al mondo avrebbe mai capito perché solo in regime di Democrazia viene riconosciuta la sovranità popolare, il decentramento del governo, la suddivisione dei poteri e la partecipazione diretta dei cittadini al governo della Sanità pubblica.
Lo slogan dei medici illuministi  “la sanità per tutti dalla culla alla tomba” fu anche lo slogan che risuonò in tutti gli anni 1980 in Italia quando si parlò della Sanità italiana come della Sanità più bella del mondo. Nel 1978, su quella basi storiche, il ministro Tina Anselmi introdusse la sua Riforma sanitaria.
Tutto questo vien raccontato per rimarcare la leggerezza con cui, l’enorme valore storico e morale contenuto nella Riforma sanitaria del 1978, venne soppresso dalla modestissima Riforma sanitaria di Francesco di Lorenzo. Riforma nata nel 1992, sulle ceneri della disfatta morale dell’Italia di quell’anno.
La gestione politica delle USL nate dalla Riforma Anselmi del 1978 venne consegnata nelle mani dei rappresentanti popolari del territorio di appartenenza (“democrazia diretta” alla Rousseau); mentre la sola la gestione amministrativa venne affidata ai tecnici amministrativi. Ciò non si ripetè con Francesco Di Lorenzo.
Il nostro territorio del Sulcis Iglesiente, dal 1980 al 1992, con questa perfetta collaborazione tra politici eletti e corpo amministrativo, venne distinto nelle due USL: USL 16 (Iglesias) e USL 17 (Carbonia).
A capo della USL 17 venne posto un cittadino di Carbonia: Antonio Zidda. Suo vice fu un cittadino di Sant’Antioco: Andrea Siddi. Il consiglio d’Amministrazione era costituito da rappresentanti di tutti i Comuni del Sulcis. Sotto tutte le amministrazioni che seguirono gli ospedali Sirai, CTO e Santa Barbara crebbero in dotazione di personale e tecnologia. Non esisteva il problema delle liste d’attesa e dei posti letto. Chi ricorda il Sirai ricorderà anche che il dottor Enrico Pasqui, Direttore sanitario, aveva creato con propria iniziativa un reparto di 40 posti letto chiamato “Medicina seconda”, situato in un padiglione separato dal corpo centrale. In esso trovavano ricovero i pazienti che, dimessi ma ancora da riabilitare, non potevano tornare in famiglia. Il dottor Enrico Pasqui aveva inventato una “RSA” anzitempo. Essa aveva il vantaggio di essere circondata da tutti i servizi: il personale sanitario, la mensa, la farmacia, il laboratorio analisi e gli specialisti medici. Le famiglie in difficoltà ebbero così un grande aiuto senza oneri aggiuntivi. Furono gli anni migliori della Sanità pubblica del Sulcis Iglesiente. Poi arrivò l’anno della svolta: il 1992.
Fu l’anno di “ Tangentopoli”. Gli inquirenti avevano scoperto a Milano un giro d’affari illegale che coinvolgeva anche uomini politici. Si trattava di figure di secondo piano di diversi partiti della maggioranza di Governo. Lo scandalo si estese a tutta l’Italia e provocò la fine di un’epoca iniziata con la fine della Seconda Guerra Mondiale e l’inizio della Repubblica. In quello stesso anno iniziò la reazione contro i partiti e, ovunque fossero presenti amministratori eletti dalla politica, si supponeva l’esistenza di malaffare. In breve tempo i politici vennero allontanati da tutte le amministrazioni dello Stato, fra cui le USL. Alla fine del 1992 il ministro Francesco Di Lorenzo abolì la riforma sanitaria di Tina Anselmi e ideò una sua riforma tesa a ottenere un unico fine: eliminare i politici dalle amministrazioni delle USL. Per questo trasformò le USL in ASL (Aziende Sanitarie Locali) in cui la struttura burocratica dell’amministrazione, privata della presenza dei politici, assunse tutti i poteri. I sindaci vennero di fatto espulsi dal controllo della Sanità. Il comando dell’Azienda assunse una struttura verticistica e venne consegnato nelle mani dei “Manager”: figure apicali, con pieni poteri, create allo scopo di mantenere l’equilibrio di bilancio e fare profitto aziendale. Dopo il ministro Di Lorenzo divennero ministri alla Sanità Maria Pia Garavaglia e poi Rosy Bindi. Costei con la legge 229/99 potenziò ulteriormente la “mission” privatistica delle ASL attraverso l’articolo 3 che recita: «Le Unità Sanitarie Locali si costituiscono in azienda con personalità giuridica pubblica e autonomia imprenditoriale; sono disciplinate con Atto aziendale di diritto privato». A dirigere le Aziende Sanitarie Pubbliche vennero incaricati i “manager”. Con questo atto i sindaci vennero definitivamente esclusi dal controllo della Sanità dei loro territori. Era avvenuto un fatto anti-storico: i politici di Sinistra avevano posto ai vertici della Sanità Pubblica una struttura amministrativa “non” elettiva. Così era avvenuto che ministri di partiti di centrosinistra avevano adottato una legge che, ai tempi dell’Assemblea Nazionale del 1789, sarebbe stata considerata di destra, cioè partorita dal “Primo” e “Secondo Stato”. Jean-Jacques Rousseau avrebbe condannato questa legge come lesiva del “diritto naturale” dei popoli alla “democrazia diretta” e avrebbe condannato l’accentramento dei poteri in poche mani “non elettive”, non controllabili dai cittadini.
Nella stessa legge 229/99 comparvero provvedimenti che consentirono, all’interno della Sanità pubblica, la coesistenza della “sanità a pagamento “ contro il principio rivoluzionario della sanità gratuita per tutti “dalla culla alla tomba”. Rosy Bindi aveva introdotto i ticket sui farmaci e le visite. La Sanità a pagamento si aggravò nel decennio successivo quando i Governi, di tutte le parti politiche, allo scopo di risparmiare, ridussero il personale e i posti letto negli ospedali pubblici. Le carenze assistenziali prodotte da questo provvedimento indussero forzosamente la popolazione a cercare le cure presso strutture sanitarie private. Era avvenuto un ribaltamento dei principi di solidarietà ispiratori della Sanità pubblica.
Con l’accettazione, da parte della Sinistra, di metodi di gestione economico-sociale di Destra, stava avvenendo uno scambio di ruoli tipici delle destra storica con quelli tipici della sinistra storica. Ancora oggi i manager continuano a mantenere chiusi ospedali e reparti specialistici. Del resto, i manager hanno un mandato con un obiettivo che prevale su tutti: quello di proteggere il bilancio aziendale, riducendo la spesa e creando profitto. La funzione di ascoltare l’opinione dei cittadini e curarne gli interessi appartiene alla politica, ma la politica territoriale è stata disarmata dai tempi di Francesco Di Lorenzo ad oggi. Solo qualche raro sindaco agguerrito riesce a proteggere un po’ l’ospedale della propria città. Questa inversione-scambio dei valori storici e del concetto di “democrazia” era iniziato nel 1992 col governo Amato. In sostanza, costui che in altri tempi, per suo orientamento politico, sarebbe stato un rappresentante del Terzo e del Quarto Stato (operai, contadini, borghesia), introdusse tecniche di accentramento di potere e di eliminazione di “democrazia diretta”, esattamente come avrebbero fatto il “Primo” e il “Secondo Stato” pre-rivoluzionario francese. Tale comportamento antistorico è continuato con tutti i Governi che si sono succeduti. Tutti hanno escluso il principio di Jean-Jacques Rousseau della “democrazia diretta” nell’amministrazione della Sanità pubblica. La soppressione della rappresentanza democratica territoriale per il controllo delle ASL è persistente e oggi è evidente che quel metodo ha fallito.

Mario Marroccu

Abbiamo vissuto il tempo della sanità gratuita per tutti “dalla culla alla tomba”. Poi è venuto il tempo della Sanità a ranghi ridotti per risparmiare, e abbiamo cominciato a pagare esami e visite specialistiche. Adesso inizia il terzo tempo della “curva discendente” della Sanità pubblica: quello della nostra salute affidata alle assicurazioni. Ne esistono già i segni premonitori. Il giorno 24 giugno, la più nota emittente radiofonica italiana dedicata ai fatti economici, ha pubblicizzato la LTC (Long Term Care). Si tratta di un’assicurazione sanitaria per ottenere cure a lungo termine. Protegge dal rischio della perdita di autosufficienza in caso di malattie croniche inabilitanti. L’obiettivo della LTC è fornire un sostegno economico per coprire le spese sanitarie sia domiciliari sia in strutture specialistiche.

Durante la trasmissione ha chiamato un ascoltatore per dire quanto segue: «…io sono un lavoratore autonomo che sta andando in quiescenza con una pensione di 1.600 euro al mese. Supponiamo che riesca a destinare 100 euro mensili per l’acquisto della polizza LTC, quanto varranno quei 100 euro fra 10 anni?. Varranno tanto da pagarmi le spese di riabilitazione o di stipendiare una badante?»

I giornalisti hanno risposto: «E’ chiaro che non basteranno; infatti la polizza prevede che lei versi all’assicurazione anche tutto il suo TFR, cioè la liquidazione che riceverà andando in pensione». Si tratta di quella liquidazione che ogni pensionando attende per ripianare tanti debiti, per pagare le rate dell’auto, del mutuo della casa, dei lavori di manutenzione, eccetera. E’ evidente che il lavoratore e il pensionato medio non potranno rinunciare alla liquidazione. Potranno sottoscrivere quella polizza solo i titolari di redditi e pensioni corpose, cioè coloro che, comunque, potrebbero permettersi di pagare una badante, o il fisioterapista o la dialisi privata.

Il punto è questo: i super-pensionandi agiati non sono una preoccupazione. Sono una preoccupazione i titolari di piccoli e medi redditi e pensioni, cioè la maggioranza. Morale: l’assicurazione “long term care” non mette al sicuro la quasi totalità degli italiani con finanze appena autosufficienti. Soltanto lo Stato ha ancora il potere di proteggerli dalle difficoltà che dovrà affrontare la Sanità pubblica. E’ noto che i problemi internazionali, i dazi, le guerre, il riarmo, impegnano le risorse dello Stato in altre emergenze. Ci resta allora la possibilità di chiedere un maggiore sforzo in assistenza sanitaria alle Regioni. Esse negli ultimi decenni si sono impegnate a produrre leggi sanitarie regionali dedicate alla creazione di nuove “strutture organizzative” dotate di organigrammi amministrativi complessi. Si tratta di leggi ostiche, formulate con linguaggio burocratico poco comprensibile. Nonostante nella premessa di quelle leggi venga proclamato lo scopo di dare migliori servizi sanitari alla popolazione poi, negli articoli che seguono, il “malato” non viene neppure citato. Vengono invece elencati gli incarichi da dare alle gerarchie degli organi direttivi di nuove strutture più o meno utili.

Pertanto, anche l’interlocutore “Regione” non è facile da interpellare. Ci rimangono i sindaci: gli unici, concreti, presenti e avvicinabili rappresentanti delle popolazioni territoriali.

Visto che non si possono affidare le cure dei malati cronici, soprattutto degli anziani, ad aziende private, è necessario che i sindaci prendano l’iniziativa di proteggere i cittadini dalle prospettive illustrate dalle assicurazioni. Esse, infatti, sostengono che le polizze per le “ Cure a lungo termine” non vengono proposte al malato cronico in sé, ma ai suoi conviventi e segnatamente ai figli. La motivazione è la seguente: « … nel caso in cui un parente convivente, padre o madre, avrà bisogno delle cure che lo Stato non potrà più dare, i costi dovranno essere sostenuti dai familiari che hanno un reddito: in genere i figli. Pertanto, se i figli non vogliono finire nel baratro delle spese per l’anziano genitore o dell’inabile a carico, è meglio che si convincano che devono essi stessi acquistare la polizza assicurativa LTC». Ecco: il cerchio è chiuso. Purtroppo, ciò sta avvenendo in tempi in cui la tecnologia digitale sta riducendo progressivamente i posti di lavoro dipendente nelle banche, nei supermercati, nelle attività amministrative, nelle università, nelle fabbriche, nei servizi pubblici, eccetera. La circolazione del danaro dedicato agli stipendi si sta limitando e si sta spostando in un altro circuito più ristretto; ciò avviene a causa della sostituzione digitale di molte funzioni burocratiche. Così i soldi si fermano in mano ai gestori delle grandi reti digitali. E’ previsto che tale fenomeno aumenterà con l’arrivo della Intelligenza Artificiale (A.I.) nel mondo del lavoro. In un mondo così preso nell’ingranaggio digitale, come lo stanno ipotizzando gli economisti e i sociologi, chi potrà pagarsi una badante per assistere il parente non autosufficiente?

Inoltre, considerato che i vecchi non autosufficienti aumenteranno, mentre i giovani diminuiranno, chi riuscirà a pagare l’assistenza sociale e sanitaria per tutti i richiedenti  Si prospetta un incubo. Tutti insieme potremmo contrastare i danni. «Tutti insieme», come? Attraverso il senso di appartenenza ad una comunità solidale. Tale appartenenza non può frammentarsi in divisioni correntizie. Sarebbe ideale avere una rappresentanza locale, unificante e governante, espressa dalla fiducia di tutti. Ci serve l’abolizione dalla “fede cieca” nei potentati e l’applicazione di un metodo scientifico nel momento in cui votando sceglieremo il candidato a governarci. Come diceva Galileo «credi in quello che vedi, che tocchi, che sperimenti personalmente, che critichi, che puoi rifare e migliorare». Cioè credere che la verità sia solo quella empirica (basata sull’esperienza vissuta e personale), che si presti alla revisione, al controllo e alla correzione. Bene fanno gli americani che dopo due anni dall’elezione del Presidente rinnovano il rito del voto ai parlamentari. Si chiamano “elezioni di medio termine”. I parlamentari eletti, che dopo due anni non abbiano attuato le promesse dei programmi amministrativi, vengono rimandati a casa. Fra un anno e mezzo, in America, verrà rieletto il Parlamento. Se Trump non avrà soddisfatto il contratto elettorale, i suoi elettori si libereranno dei suoi parlamentari inadempienti e li rimanderanno a casa; lui andrà in minoranza e verrà messo sotto stretto controllo da un’opposizione più vasta. Questo è il vero segreto dell’efficienza della democrazia in America: il popolo può liberasi del parlamentare inadempiente. In quel caso il potere dato ai politici governanti è controbilanciato dal potere dato al popolo di rimandare a casa dopo due anni coloro che non hanno rispettato gli impegni presi. Stessa cosa si fa con gli alti dirigenti delle agenzie di stato con lo “Spoil system”. Nessun potente è al sicuro per sempre.

In Italia invece non esiste l’istituto delle “elezioni di medio termine”. Il popolo italiano non ha i poteri per controbilanciare il potere perenne del governante eletto. Ne consegue che i parlamentari eletti possono eludere le promesse elettorali senza correre il rischio di perdere il posto, l’autorità e lo stipendio, per 5 anni.

Questa mancanza di potere impedisce ai cittadini di far sentire la forza del loro controllo sulla Sanità. Fino al 1992, le USL (Unità Sanitarie Locali) erano gestite e controllate dai Sindaci tramite il Presidente. Di fatto l’incarico al Presidente di gestire la USL, avveniva per elezione popolare indiretta e il programma amministrativo era un vero “contratto”. Se il sindaco non rispettava il contratto veniva rimandato a casa con le elezioni comunali successive. Fu il periodo migliore della sanità pubblica. Poi, dopo il 1992, con Francesco de Lorenzo, Maria Pia Garavaglia e Rosy Bindi vennero prodotte leggi di riforma sanitaria che abolirono la presenza democratica di rappresentanti politici eletti dalle amministrazioni sanitarie territoriali. Lo fecero con un semplice marchingegno: abolirono le USL e le trasformarono in ASL (Aziende Sanitarie Locali). In tal modo poterono creare i “Manager”, figure non elette, messe a capo delle Sanità territoriali, e le svincolarono dal controllo della politica locale. Cioè le svincolarono dai sindaci. Questo fu l’inizio della fine. Dal 2000 i governi successivi produssero leggi ancora più rigide. Per il controllo della spesa pubblica si procedette alla riduzione del personale sanitario, dei servizi ospedalieri e iniziò il tempo degli accorpamenti di ASL e ospedali. Si raggiunse l’acme del rigore dopo la crisi di Goldman-Sachs nel 2008, la crisi economica internazionale che ne conseguì e l’aumento vertiginoso dello spread in Italia. I governi caddero e si dovette affidare l’Italia al rigorosissimo governo Monti, il quale avviò ulteriori restrizioni sanitarie. La sanità pubblica divenne un’esclusiva organizzazione burocratica, e i sindaci e le gerarchie sanitarie ospedaliere vennero estraniate definitivamente dalla gestione della Sanità. I “Manager” non stabilirono canali di comunicazione con le popolazioni e iniziarono a prendere direttive soltanto dalla burocrazia regionale. Tali strutture avevano un chiara “mission”: spendere il meno possibile.

Il nuovo modo di gestire la Sanità pubblica portò alla riduzione progressiva di Unità Operative Specialistiche ospedaliere, e alla scomparsa di molte migliaia di posti letto. Fino a quel periodo, tra i 1992 e 2000, all’ospedale Sirai di Carbonia avevamo 384 posti letto. Oggi, per effetto di quei fatti storici, i posti letto sono ridotti a un centinaio.

Il “Consiglio dei sanitari” che supportava il presidente della USL, fino a tutto il 1992, era formato da tutti i primari, da un rappresentante degli Aiuti medici e da uno dei tecnici. Esso era un istituto fondamentale per dare al Presidente della USL tutte le informazioni corrette sullo stato della Sanità pubblica, reparto per reparto. Dopo la eliminazione di quel Consiglio, il controllo di tutto il sistema dei reparti ospedalieri passò nelle mani della sola burocrazia Regionale che sapeva tutto sulla contabilità ma nulla sui malati. Era avvenuto un cambiamento importante: il “contratto” fra i cittadini e i politici eletti al governo della Regione finì: si passò dal “contratto” di atti concreti, richiesti dalla base elettorale, a semplici “promesse elettorali”. Le “promesse” sono generiche dichiarazioni sull’intenzione di fare “il bene di tutti” senza la garanzia di un sistema di controllo. Il potere di controbilanciamento al potere dei politici eletti, come nel caso dell’elettorato americano, in Italia non esiste. Così i politici, dissociatisi dal controllo dei cittadini elettori, passarono ad un rapporto diretto con i soli apparati amministrativi.

Per capire il cambiamento di mentalità avvenuto, basta leggere i testi delle leggi sanitarie varate da allora in poi: sono in linguaggio molto tecnico, riservato agli addetti, fatto di richiami ad altre leggi: sostanzialmente incomprensibili. Tanto incomprensibili che probabilmente quei testi non vennero totalmente capiti neppure dagli stessi consiglieri che poi li avrebbero votati.

Oggi, con l’incubo del futuro che arriva, è facile immaginare il fallimento sanitario che porterà povertà alle famiglie. Povertà dovuta alle spese che ogni cittadino dovrà sobbarcarsi per assistere i familiari non autosufficienti. Lo hanno capito con grande anticipo le assicurazioni private che stanno propagandando le polizze LTC (“cure a lungo termine”).

Che fare? Da queste premesse sembrerebbe necessario:

– Nominare, come Presidente della ASL, un sindaco con funzioni di controllo e verifica sulla gestione.

– Pretendere un “contratto elettorale”, per i candidati al Consiglio regionale, che contenga delle penalità, e decadenza, per chi non lo rispetta;

– Restituire autonomia gestionale al Consiglio dei sanitari.

– Associare il “Consiglio dei sanitari” alla “Commissione sanitaria provinciale” formata dai sindaci del territorio, con funzioni di controllo, verifica e proposta.

L’alternativa è: rassegnarsi e cedere alle assicurazioni private il controllo della Sanità.

Mario Marroccu

Per il prossimo Natale, vedremo un fenomeno a cui siamo abituati da anni e che può essere utile per spiegare cosa sta succedendo. In questi giorni può capitare, al momento di pagare, che alla cassa ci propongano di acquistare dei gadgets, o di fare un’offerta, a favore di un ricco ospedale, che diventerà un beneficio per i malati.
Premettiamo che un’offerta per la Sanità è un gesto altamente meritorio a cui tutti dovremmo partecipare. Questo meccanismo di raccolta fondi è anche utile per capire un fenomeno più generale diffuso in tutta Italia, soprattutto al Nord. Ci si chieda: chi ha pensato di raccogliere fondi per i malati? Forse i medici e gli infermieri? E’ poco probabile. E’ molto più probabile che l’idea provenga da un ufficio di contabilità ospedaliera. A cosa servono quei soldi? Servono senza dubbio a creare un “fondo integrativo “ per migliorare le cure del malato.
Bisogna tener presente che l’ospedale è già finanziato dal Fondo sanitario pubblico, ma il finanziamento pubblico non gli basta e raccoglie, privatamente, altri fondi. Secondo le norme i “fondi pubblici” dovrebbero essere “equamente” spartiti fra le Regioni, e assicurare “uguaglianza“ di trattamento a tutti gli italiani. La Costituzione, infatti, dispone l’“universalità“ delle cure. Ciò premesso, come vanno inquadrate quelle offerte natalizie? Si tratta di fondi extra che “integrano” il fondo pubblico, e che vengo definiti, per legge, “fondi integrativi”. Quei fondi verranno utilizzati dall’ospedale beneficiario in modo autonomo e indipendente dal controllo dello Stato, perché sono suoi, e lo Stato non interferisce nella libertà del loro utilizzo. Chi raccoglie fondi più ricchi conquista grande autonomia e grande potere di controllo sulla qualità e sulla scelta delle cure che erogherà. La differente entità di fondi integrativi esistente fra ospedale e ospedale, e fra Regione e Regione, può essere enorme; questo determinerà la differenza nella qualità di vita delle distinte popolazioni. Ciò avrà influenza sul criterio costituzionale di “uguaglianza”.
La rivoluzione dei principi di “equità”, di “uguaglianza” e di “universalità” introdotta da Tina Anselmi nella Costituzione, e da lei stessa concretizzata nella Legge 833/78, fu un’idea geniale ma venne depotenziata dal ministro Francesco De Lorenzo nel 1992 e poi dal ministro Rosy Bindi con la legge 299/1999; in quest’ultima vennero definitivamente riconosciuti i ”fondi integrativi” per finanziare gli ospedali.
Nel 2001 l’esistenza dei “fondi integrativi” ebbe un ulteriore supporto dalle modifiche portate al Titolo V della Costituzione. Gli emendamenti alla Costituzione hanno avuto conseguenze evidenti la Sanità nelle regioni ricche del Nord è una grande sanità. La Sanità nelle regioni povere è una povera Sanità. Non ci volle molto a capire che l’effetto dei fondi integrativi avrebbe differenziato gli italiani e da questa lezione prese piede l’idea nel ministro Roberto Calderoli di estendere quel metodo a tutti i servizi pubblici, e cioè, oltre alla Sanità, all’Istruzione, ai Trasporti, e a tutti i Servizi pubblici attinenti alla qualità della vita nazionale. Si tratta quei Servizi che tengono coeso un popolo. Il rischio, con la legge integrale di Roberto Calderoli, è quello di intaccare i quattro principi fondamentali della Costituzione: la Solidarietà, l’Uguaglianza, la Sovranità Popolare, i Diritti Inviolabili (articoli 1, 2, 3, 32, etc.).
Il difetto di Solidarietà e Uguaglianza si sta già vedendo nel sistema sanitario Sardo. E’ noto a tutti che, data la crisi profonda dell’assistenza sanitaria in Sardegna, molti sardi affetti da tumori, per curarsi, migrano verso le regioni più ricche del Nord Italia. Chi ha questa esperienza scopre che, secondo la Regione in cui vai, ogni malattia ha un costo diverso. Il prezzo da pagare è il DRG (Diagnosis Related Group) che permette di classificare tutti i malati dimessi da un ospedale in gruppi omogenei in base alle risorse. Ora, prendiamo il caso di una ipotetica paziente con cancro alla mammella che viene operata in un ospedale sardo. Il DRG per cancro di mammella operato in Sardegna viene pagato all’ospedale 4.500 euro circa. Se la stessa paziente venisse operata in un ospedale del Nord, il DRG per lo stesso intervento varrebbe circa 7.000 euro. Quindi l’ospedale guadagna di più e può offrire cure migliori. Chi paga l’aumento del costo, in questo caso, se il malato è sardo? Paga la Regione Sardegna. La differenza del costo dell’intervento per i malati di quella regione del Nord, viene pagato dai “fondi integrativi” della stessa regione. Tali fondi sono stati formati con un metodo paragonabile alle donazioni che facciamo nel corso degli acquisti di Natale. Si tratta cioè di fondi extra, indipendenti dal Fondo Sanitario Nazionale, che possono essere accumulati massimamente nelle regioni più ricche, sia attraverso donazioni sia attraverso una raccolta fiscale supplementare attuata dalla stessa regione.

I “fondi integrativi” di dette regioni possono essere scaricati dal conto che le stesse regioni devono allo Stato per finanziare la Solidarietà nazionale. Di fatto, quindi, tali regioni possono contribuire di meno alla formazione del Fondo sanitario Nazionale. Ne consegue che le regioni più povere possono attingere in misura minore e possono erogare una sanità di livello inferiore.
Questo meccanismo, secondo la legge sull’“autonomia differenziata” di Roberto Calderoli, dovrebbe essere esteso a tutti i Servizi pubblici, dalla Sanità ai Trasporti, dall’Istruzione e Università alla Viabilità e all’edilizia pubblica, etc.. Se passasse integralmente quella legge creerebbe una distanza incolmabile sulla qualità di vita tra i cittadini delle regioni del Nord e quelli del Sud. Lo stesso Sergio Mattarella ha messo in guardia sul pericolo che si corre nell’intaccare i diritti inviolabili della Costituzione; fatto che ci esporrebbe alla disgregazione nazionale. Verrebbero intaccati non solo i LEA (livelli essenziali di assistenza), ma anche i LEP (livelli essenziali di prestazioni); in sostanza ne soffrirebbero tutti i servizi pubblici.
Oggi la Consulta ha dato il suo parere sulla legge e sostiene che essa è costituzionale (art. 116) ma illegittima in alcune parti decisive. I Giudici, infatti, richiamano al rispetto della Costituzione e sottolineano che la forma dello Stato, insieme al ruolo fondamentale delle Regioni, riconosce i principi della Unità della Repubblica, della Solidarietà tra le Regioni, dell’Eguaglianza, della garanzie dei Diritti dei Cittadini e dell’equilibrio di bilancio. Testualmente sentenzia: «La distribuzione della funzione legislativa e amministrativa tra i diversi livelli territoriali di governo (Comuni, Province, Regioni) non deve corrispondere all’esigenza di un riparto di potere tra i diversi segmenti del sistema politico, ma deve avvenire in funzione del bene comune della società e di tutela dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione. A tal fine, è il principio costituzionale di sussidiarietà che regola la distribuzione delle funzioni fra Stato e Regioni. In questo quadro l’Autonomia differenziata deve essere funzionale a migliorare l’efficienza degli apparati pubblici e ad assicurare maggior responsabilità politica, rispondendo meglio alle attese e ai bisogni dei cittadini».
La sentenza richiama al rispetto dell’articolo 116 della Costituzione e all’osservanza dei principi fondamentali della Costituzione tutta. Principi che il proponente ignorava.
Le quattro regioni che hanno ricorso, per adesso, ci hanno salvati da un disastro.

Mario Marroccu

Per capire quale fosse la condizione femminile fino al Referendum Istituzionale del 1946 bisogna andare a vedere il film “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi. E’ un’opera d’arte fantastica, da Oscar. Non si può raccontare la trama del film, perché è fortemente raccomandato andare a vederlo senza compromettere la sorpresa allo spettatore.
La storia raccontata nel film ha un preciso rapporto con l’Articolo 3 della Costituzione in cui si afferma che: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».
Quell’articolo indusse una profonda trasformazione nella struttura sociale italiana e nel costume, perché riconobbe che Uomini e Donne sono uguali senza distinzione di genere, qualunque sia l’etnia di appartenenza, la religione professata (vedi leggi razziali), l’opinione politica (vedi la messa al bando dei partiti), il censo, la cultura, la condizione fisica ed economica. Fino ad un attimo prima della promulgazione della Costituzione, la società italiana era ancora regolamentata dallo Statuto Albertino del 1848. In quello statuto la Donna era posta “sotto la tutela del marito”. Con tale espressione si disponeva che le donne dovessero vivere sempre, sia da nubili che da coniugate, sotto la “tutela” di un uomo. Ciò comportava quella soggezione economica, culturale, sociale, politica che oggi Amnesty International definisce “sistema di sorveglianza”. La Costituzione Repubblicana liberò le donne da quella soggezione e, dal giorno in cui venne promulgato l’articolo 3, esse ebbero per la prima volta il diritto di programmare la propria vita. Quella legge nacque a conclusione di una Guerra mondiale e di una sanguinosa guerra civile combattuta tra fascisti-repubblichini e partigiani dal 1943 al 1945.
Chi non ha conosciuto quei tempi, dovrebbe vedere il film di Paola Cortellesi per capire cosa vuol dire non avere diritto a una propria identità e vivere sotto tutela a causa del genere di appartenenza.
Contemporaneamente all’articolo 3, i Costituenti dettero forma alla Sanità futura con l’articolo 32.
Anch’esso, come raccontò Tina Anselmi, era nato dalle utopie libertarie e ugualitarie disegnate nel periodo della guerra civile 1943-45. I legislatori che produssero la grande Riforma sanitaria con la legge 833/78 erano riusciti a liberare gli ospedali e la sanità territoriale dalla tutela delle Casse mutue, ma purtroppo nel 1992, per sfuggire alla grave crisi economica, si cadde nella tentazione di prendere una scorciatoia verso il risanamento economico adottando provvedimenti legislativi d’emergenza che rimisero il Sistema Sanitario Nazionale sotto la tutela di strutture formalmente pubbliche ma oggettivamente di tipo privatistico. Fu fatta una scelta che oggi equivarrebbe all’idea di rimettere le donne “sotto tutela” degli uomini per mettere sotto controllo un bilancio familiare critico. Oggi è accertato che l’ impostazione data alla gestione della Sanità italiana dal 1992 in poi è fallita. L’ha dimostrato scientificamente pochi giorni fa il più autorevole istituto nazionale che si occupa di Economia sanitaria, l’Istituto Gimbe (gruppo italiano per la medicina basato sull’evidenza) che ha reso pubblico uno studio in cui si sostiene che la Sardegna è al 19° posto fra le province e regioni autonome per inefficienza sanitaria. Le gravi condizioni in cui ci troviamo sono attestate dalla documentata insufficienza delle cure, dalla ridotta aspettativa di vita messa in rapporto alla spendita sbagliata dei fondi, dal forte aumento dei viaggi in continente per curarsi, dallo scarseggiare di medici e infermieri, dal fatto che il 45 % delle spese sanitarie in Sardegna è a pagamento mentre nelle altre regioni d’Italia lo è solo il 25%, dal fatto che circa la metà delle risorse assegnate ai cittadini non ha prodotto alcun servizio e che il Nsg (Nuovo sistema di garanzia) ha registrato un punteggio insufficiente nell’area ospedaliera. Si è calcolato che gli obiettivi di assistenza agli anziani over 65, fissati dal PNRR, sono irraggiungibili. In questo contesto di dati, si resta frastornati davanti all’evidenza che il disagio sanitario patito non è esattamente compreso dai responsabili della Sanità pubblica. Quando la popolazione lamenta le carenze ospedaliere, immediatamente le viene offerta la costruzione di nuovi edifici ospedalieri. In realtà chi lamenta la carenza ospedaliera intende riferirsi al bisogno di ottenere una maggiore disponibilità di offerta sanitaria intesa come maggiore disponibilità di attrezzature mediche e di “Personale dedicato alla cura del malato”.
Il problema del “Personale” va analizzato secondo due aspetti:
– l’aspetto numerico: cioè l’adeguatezza numerica al bisogno contrattuale di cure.
– l’ aspetto etico: cioè l’elemento valoriale che lega il prestatore al fruitore di cure tramite il vicendevole rispetto e la compassionevole solidarietà.

La prima riforma sanitaria della storia fu propriamente una “Riforma etica”. Nacque tra quarto, quinto e sesto secolo d.C. dall’idea, di San Basilio di Cappadocia e San Benedetto da Norcia, di interpretare concretamente il significato della parabola del Buon samaritano. Il viandante ferito dai briganti rappresentava il malato, che era sacro in quanto rappresentazione del corpo sofferente del Cristo, l’oste e il suo albergo erano la rappresentazione dei curanti e del luogo fisico del ricovero, il Buon samaritano rappresentava la comunità solidale che si autotassa e fornisce le cure gratuite al bisognoso. Quello etico-caritativo fu il primo sistema sanitario nel mondo e durò fino al 1900.

Nella prima metà del 1900 nacque la Sanità basata sulle Casse mutue che erano enti assicurativi che affondavano le loro radici nelle società operaie.
La prima “Riforma ospedaliera” fu quella varata dal ministro della Sanità Mariotti nel 1968. Fu una vera rivoluzione perché istituì la prima “Rete degli ospedali pubblici” e, per la prima volta, la legge estese il diritto all’assistenza ospedaliera a tutti i cittadini a spese dello Stato. Quella riforma introdusse il concetto che gli ospedali devono essere pubblici e devono essere finanziati con la fiscalità generale. Con questo atto l’“Etica laica” entrò nel sistema sanitario italiano.
La “Prima Riforma sanitaria”, legge 833/78, introdusse il “Sistema sanitario nazionale” finanziato dalla fiscalità generale. Quella riforma abolì le Casse mutue e realizzò il dettato dell’articolo 32 della Costituzione.
Poi dopo il 1992 noi italiani, con la nostra esperienza millenaria di civiltà ospedaliera, riuscimmo a invertirne la rotta verso la sua autodistruzione.
La “Seconda Riforma sanitaria” fu la 502/92, chiamata anche Riforma italiana alla Tatcher, perché fu improntata al rigore amministrativo per ridurne i costi, e introdusse il principio della gestione manageriale della Sanità.
La “Terza Riforma sanitaria” fu quella del 1999 della ministra Rosy Bindi; fu improntata a metodi gestionali di spiccata privatizzazione con l’obiettivo della efficienza-efficacia, cioè della maggior produzione con la minor spesa possibile. Con la nuova riforma le ASL divennero aziende produttrici di servizi sanitari che venivano pagati dalle regioni secondo i DRG. I DRG sono codici di identificazione delle diverse prestazioni sanitarie; ad ogni codice viene attribuito un valore in euro (si immagini il cartellino del prezzo su un prodotto in vendita). Quanti più DRG sanitari vengono erogati tanto più l’azienda incassa.
Con i fondi incassati, ogni reparto ospedaliero si finanzia per pagare gli stipendi, i farmaci, i presìdi e le spese alberghiere. I reparti specialistici che non hanno raggiunto gli obiettivi sono stati chiusi. La ministra Rosy Bindi allargò la platea delle prestazioni che potevano essere fornite anche da Società di servizi sanitari privati e accettò che il privato accreditato potesse fornire le prestazioni dei LEA socio-sanitari a nome e per conto dello Stato. Così dal 1999 il privato iniziò a sostituire il pubblico competendo per economicità nell’impiego delle risorse e diventando più conveniente tanto da farlo preferire alle strutture ospedaliere pubbliche. Incredibilmente sfuggì che il sistema sanitario pubblico, che si occupa di patologie non assistibili dai privati (ad esempio: rianimazioni, tumori, demenze, urgenze ed emergenze “h24” nei Pronto Soccorso), era più costoso perché si doveva sobbarcare un impegno professionale infinitamente più difficile di quello che poteva fornire il privato. Ne conseguì che il diritto alla salute nel sistema pubblico, subordinato al limite delle risorse messe a disposizione dallo Stato, entrò in crisi. Sembrava che il privato accreditato, meno oneroso, potesse addirittura sostituirsi al sistema sanitario pubblico.
Qui non si tratta di capire se le intuizioni dei ministri Di Lorenzo, Garavaglia, Bindi e di tutti quelli che seguirono fossero state giuste o sbagliate, ma si tratta di ricostruire il nesso causale tra quegli eventi e l’attuale stato di disagio sanitario della nazione. Si tratta di capire perché il sistema sanitario pubblico sia arrivato impreparato davanti all’epidemia del 2020 e abbia dovuto sopportare, con poche attrezzature e poco personale, la potente spallata del Covid, soffrendone profondamente. Nello stesso periodo il sistema sanitario privato fu esentato dall’affrontare direttamente l’epidemia e resse molto bene. Le funzioni dei due sistemi sono distinte e complementari, com’è il caso delle specialistiche oculistiche e ortopediche delle Case di cura private che sono di supporto agli ospedali pubblici i quali non riuscirebbero a contenere le file d’attesa colossali che si sono formate. Si deve prendere atto, dopo l’esperienza di questi ultimi anni, che il privato non è in condizioni di garantire l’organizzazione dell’Igiene pubblica e della Prevenzione o di sobbarcarsi l’impegno a curare tutte le grandi patologie, dai tumori alle demenze, alle epidemie e alle urgenze ed emergenze. E’ ormai accertato dai più autorevoli osservatori economici che il sistema sanitario privato è del tutto incapace di sostituirsi al Sistema sanitario nazionale e la lezione che abbiamo avuto dall’epidemia di Covid ha dimostrato che solo lo Stato può garantire un Sistema sanitario nazionale efficiente. Oggi davanti al problema demografico, e con i problemi geopolitici incombenti come il rischio di guerra, l’urgenza di ricostituire un Sistema sanitario nazionale secondo i principi della legge 833/78 è ineludibile.
Un nesso causale evidente che collega le buone riforme sanitarie iniziali al decadimento attuale è rappresentato dall’estromissione dei Sindaci dalle ASL; con quell’atto venne impedito alle Amministrazioni locali il “controllo” sulla Sanità. Di fatto da allora le autorità territoriali e le Usl vennero messe “sotto tutela” e affidate a entità esclusivamente burocratiche, interrompendo la “cinghia di trasmissione” che mette in comunicazione le popolazioni e le Amministrazioni centrali.
Per liberare le donne dalla tutela del “sistema di sorveglianza” a cui le condannava lo Statuto Albertino, fu necessario superare una guerra mondiale e un’atroce guerra civile. Così si addivenne al Referendum del 1946 per la scelta della forma istituzionale da dare allo Stato. Per la prima volta votarono le donne che avessero almeno 21 anni d’età. Con quel referendum vennero eletti i deputati all’Assemblea Costituente cui spettò il compito di redigere la nuova Carta Costituzionale. Quei deputati, eletti da 12 milioni e 700mila donne e da 10 milioni e 700mila uomini, scrissero sia l’articolo 3 (uguaglianza di genere) sia l’articolo 32 (Sanità) della Costituzione. Mentre l’articolo 3 ha dato i risultati cercati, l’articolo 32 ha ancora forti difficoltà a raggiungere gli scopi immaginati dai padri Costituenti.
Per rappresentare cosa sta avvenendo in questo stato di “tutela sanitaria” in cui siamo stati posti, ci vorrebbe una Paola Cortellesi sanitaria. Per adesso non ci resta che andare a vedere il suo film “C’è ancora domani”.

Mario Marroccu

Il disastro sanitario ed economico del Sulcis Iglesiente non è nato dal nulla. Ha radici nei fatti politici del 1992. E’ utile fare un viaggio nella storia di quegli eventi sia per capire e, forse, per porre qualche riparo.
Lo stato di salute della sanità pubblica è oggi talmente grave e la sua gravità è talmente complessa che, a questo punto, è difficile anche il solo sospettare che veramente esista fisicamente qualcuno che abbia programmato tanto degrado. Dovrebbe essere un genio fornito di una maligna intelligenza superiore.
Ammesso che esista un soggetto del genere, a che scopo lo avrebbe fatto? C’è chi sostiene che il danno al servizio sanitario nazionale sia stato progettato da un’ignota organizzazione al fine di favorire la sanità privata. Sarebbe un’organizzazione di matti veramente sciocchi perché sostituirsi del tutto alla Sanità pubblica non conviene a nessuno. Per esempio: a chi converrebbe accollarsi i malanni di tutti i vecchi d’Italia, soli, inguaribili e con in tasca i pochi soldi per la sopravvivenza? A chi converrebbe l’onere di assistere tutti i malati di cancro, debilitati nel fisico, nella famiglia e, soprattutto, nel conto in banca? Chi glielo farebbe fare ad assumersi l’impegno di prendersi in cura i pazienti in Rianimazione in uno stato di coma più o meno profondo? Perché dovrebbero pagare le ingenti spese dei trapianti d’organo a pazienti senza speranza e non solvibili? E gli infarti del miocardio? E tutti i casi di diabete ai limiti della invalidità? E i tossicodipendenti? E le malattie rare? I morti sul lavoro? E gli psichiatrici? E gli incidenti stradali? Chi glielo farebbe fare ad assumersi il compito costosissimo di affrontare le epidemie tipo Covid-19 o le campagne vaccinali, o le spese dell’Inail e dei Pronto soccorso?
Gli imprenditori privati non sono matti. A sé riservano le cliniche dove si curano le malattie, tutto sommato, più semplici, facili, guaribili e, soprattutto, di pazienti solventi. Ciò che compete alla Sanità pubblica è diversissimo da ciò di cui si occupa la sanità privata.
E’ assolutamente vero che negli Stati Uniti d’America esistono le assicurazioni private costosissime che si limitano a poche malattie e per tempi di cura molto limitati; in genere non pagano le spese del pronto soccorso o fanno dimettere i malati dopo tre giorni da un intervento a cuore aperto, per risparmiare sulla degenza in ospedale. Bisogna sapere che in America esiste anche una Sanità pubblica, che si chiama “Medicare”, a beneficio di chi non può pagarsi l’assicurazione privata e che, oltre ad essere molto carente, costa allo Stato il doppio di quanto costa il Sistema sanitario italiano. A questo punto, oltre al sospetto che dietro ci sia l’interesse di qualcuno, potremmo anche considerare il sospetto che dietro il nostro disastro sanitario ci sia in realtà qualche grosso errore commesso da politici poco accorti. Può anche essere accaduto che la grande Riforma sanitaria varata col DPR 833 del 1978 si sia inceppata a causa di leggi successive fatte male; può anche darsi che quelle nuove leggi non siano state lette con attenzione e che i votanti abbiano votato senza vedere gli errori che hanno prodotto queste conseguenze.
Anche questo sospetto, paradossalmente, è sommamente ingiusto, perché è anche vero che i politici italiani furono i primi al mondo a riconoscere nella Costituzione del 1948, all’articolo 32, il diritto di tutti alla salute. Quell’articolo, nella sua semplicità e completezza, fu uno degli elaborati intellettuali più geniali che un Costituente potesse generare: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti». Fu una frase rivoluzionaria contenente due principi: l’inviolabilità assoluta del diritto alla salute e la certificazione che tale bene è di rilevanza collettiva. Così fu sancita la solidarietà nazionale. Altro che privatizzazione! Altro che svantaggio a danno dei molti che non possono permettersela! Tutte le leggi che vanno contro questo principio sono incostituzionali e, se qualcuno avesse votato nuove norme contrarie a questo principio per disattenzione, sarebbe gravemente colpevole.
Esaminiamo cosa è avvenuto nella storia delle Riforme sanitarie italiane. Nell’anno 1968 la legge Mariotti istituì gli “Enti ospedalieri” che sostituirono gli ospedali caritativi provenienti dalla tradizione ospedaliera medioevale. La stessa legge istituì il “Fondo ospedaliero nazionale” e attribuì la competenza di gestione degli ospedali alle Regioni. Quel Fondo e quella legge ospedaliera furono la base su cui si costruì la Grande Riforma sanitaria con la legge 833 del 1978, concepita dalla Commissione parlamentare di Tina Anselmi. Ella raccontò in quei giorni che quell’idea era nata da discussioni e progetti formulati da gruppi partigiani riuniti intorno ai fuochi dei bivacchi di montagna. La legge 833/78 rappresentò un’utopia che si concretizzava in un documento scritto. Il sogno prese forma nella premessa della legge nel cui testo sta scritta la frase: «…Il Sistema sanitario nazionale è costituito dal complesso delle funzioni, delle strutture (ospedali), dei servizi e delle attività destinate alla promozione, al mantenimento, e al recupero della salute fisica e della salute psichica di tutta la popolazione». In nessuna legge del mondo era mai stata scritta questa premessa.
Mentre gli ospedali, dal medioevo al ‘900, erano stati sempre amministrati da comitati caritativi religiosi o filantropici, nella nuova legge si volle che gli ospedali fossero amministrati da rappresentanti popolari democraticamente eletti. Fu una rivoluzione. I cittadini, dopo 1.500 anni dall’istituzione degli ospedali dai tempi di San Benedetto e San Basilio, divennero per la prima volta i proprietari e gestori diretti degli ospedali. La comunicazione fra cittadino e gestore divenne immediata perché il Sistema venne dato in mano ai sindaci e ai consiglieri comunali. Essi avevano il compito di eleggere l’”Assemblea generale” che era formata da consiglieri comunali e l’Assemblea eleggeva il presidente della Usl (Unità sanitaria locale). Furono gli anni più produttivi della storia sanitaria italiana.
Scomparvero le Casse mutue e comparve il Ssn (Sistema sanitario nazionale), finanziato dal sistema fiscale universale. Ne conseguì anche che ai grandi miglioramenti si associò il crescere della spesa pubblica dello Stato. Per contenerla il ministro Carlo Donat Cattin nel 1987 abolì l’Assemblea generale ma mantenne il presidente della Asl e il Comitato di gestione, eletto dai sindaci dei Comuni del territorio.
Secondo gli indicatori economici internazionali, l’Italia godeva di un generale benessere economico tanto che nell’anno 1991 venne dichiarata quarta potenza industriale del mondo e il PIL pro capite risultava superiore a quello dell’Inghilterra.
Appena un anno dopo, la Repubblica entrò nel suo “annus horribilis”: il 1992. La commissione governativa presieduta dall’economista Piero Barucci rivelò che l’economia era al collasso a causa di un imponente debito pubblico causato dalle Partecipazioni statali. Eni, Enel, Iri, Ina, Efim, stavano portando al tracollo lo Stato. L’indebitamento aveva messo in crisi il Governo espresso dal CAF (Craxi-Andreotti-Forlani). Caduto il Governo Andreotti II e dimessosi Francesco Cossiga, si andò a nuove elezioni sotto l’effetto dell’esplodere dello scandalo di Tangentopoli. A febbraio era iniziata l’indagine della procura di Milano diretta da Francesco Saverio Borrelli e condotta da Antonio di Pietro, in seguito alle rivelazioni di Mario Chiesa, il direttore del Pio Albergo Trivulzio. Oscar Luigi Scalfaro, sostenuto dalla corrente dei “moralizzatori”, venne eletto presidente della Repubblica e immediatamente indisse le nuove elezioni; queste avvennero ad aprile contemporaneamente all’esplosione della sfiducia popolare nei partiti storici, in un clima di forte instabilità politica. I partiti tradizionali crollarono ed emerse la Lega Nord che passò da 2 a 80 parlamentari. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiutò di concedere incarichi di Governo a Bettino Craxi e nominò presidente del Consiglio il deputato Giuliano Amato. La Prima Repubblica era finita con un’ondata di arresti e di avvisi di garanzia. A maggio, ad opera della mafia, avvenne la strage di Capaci, seguita due mesi dopo da quella di via d’Amelio. Lo Stato era preso fra molti fuochi. Giuliano Amato si trovò ad affrontare una condizione di dissesto economico più grave dal dopoguerra ad allora. Si correva il rischio di non poter pagare gli stipendi pubblici. La Nazione si sarebbe fermata.
La Banca d’Italia fu costretta a vendere 48 miliardi di dollari per difendere il cambio e la lira fu svalutata del 30%. La lira uscì dallo Sme (Sistema monetario europeo); era il 16 settembre 1992, il “mercoledì nero”. Giuliano Amato per sostenere le casse dello Stato procedette al “prelievo forzoso” retroattivo del 6 per mille dai conti correnti degli italiani e, in base alle indicazioni del ministro del Tesoro Piero Barucci, dette avvio ad una grande operazione di privatizzazione delle Partecipazioni statali (banche, energia elettrica, trasporti pubblici, Alitalia, industrie manifatturiere, industrie dell’acciaio, comunicazioni, poste, idrocarburi, assicurazioni, agroalimentare, etc.). Lo Stato si spogliava di tutte le sue pregiate proprietà, nell’intento di allontanare la politica dalla gestione delle imprese statali. Su tutta la gestione pubblica, sotto l’effetto delle indagini di Tangentopoli, cadde il sospetto di possibile collusione con la corruzione e vennero varate leggi e norme fortemente restrittive nell’intento di arginare l‘idea che il malaffare fosse in agguato ovunque ci fosse la gestione del politico. In questo crollo finirono anche le miniere del Sulcis Iglesiente e le industrie di Portovesme espressione dell’Eni. Gli operai di Portovesme, per fermare i licenziamenti in massa di oltre 20mila operai promossero la famosa “Marcia per lo sviluppo”. Gli operai iniziarono a marciare il 19 ottobre e, al suono di tamburi di latta, saltarono il mare. Raggiunta Civitavecchia, percorsero a piedi le vie del Lazio fino a Roma, dove vennero accolti da Papa Woytila ma non da Giuliano Amato.
A fine anno, il vortice autodistruttivo coinvolse anche il Sistema sanitario nazionale quando il ministro della Sanità Francesco di Lorenzo il 31 dicembre varò il decreto che iniziò la “privatizzazione” del Sistema sanitario pubblico col DPR 502/1992. Le Unità sanitarie locali (Usl), rette dai sindaci, vennero trasformate in entità rette dai “Direttori generali con autonomia gestionale di diritto privato” nominati dalla Regione all’interno di un elenco di idonei. La “mission” del Sistema sanitario cambiò in modo radicale per due motivi. Primo, i sindaci, che rappresentavano la parte politica, vennero espulsi dalla gestione del sistema sanitario locale; secondo, l’obiettivo dei nuovi amministratori non fu più quello di soddisfare le richieste della popolazione locale ma venne sostituito dall’“equilibrio di bilancio”.
Questo dava ai direttori generali l’opportunità di poter modificare la risposta alle richieste provenienti dal territorio, ignorandone la soddisfazione globale e mettendo al centro il calcolo ragionieristico della salute che doveva ora attenersi a un nuovo criterio: i Livelli essenziali di assistenza (Lea). Oggi, a distanza di 32 anni, sappiamo che tutte le premesse alla legge, che promettevano Uguaglianza, Equità e Prossimità dell’assistenza sanitaria in tutto il territorio nazionale non sono state rispettate. Ciò avvenne a causa della mancanza del “controllore”, cioè la parte politica elettiva rappresentata dai sindaci. Al ministro Francesco di Lorenzo, seguirono le ministre Maria Pia Garavaglia e Rosy Bindi che perfezionarono l’“aziendalizzazione delle Asl”.
Nell’anno 2003 il Governo Berlusconi dettò regole per ridurre la spesa sanitaria dello 0,5% l’anno; ciò comportò il blocco del turn-over del personale andato in pensione e portò all’assottigliamento e disgregazione dei reparti ospedalieri. Col Governo Monti, il ministro Balduzzi emanò norme restrittive per i reparti ospedalieri che, ridotti in povertà di personale dalle norme precedenti, non potevano più funzionare. Ne conseguì la chiusura di ospedali.
Nel 2015 il DM 70 del Governo Renzi pose regole stringenti, basate anch’esse sul risparmio; ne conseguì un peggioramento ulteriore degli ospedali provinciali che portò alla desertificazione del sistema sanitario territoriale a vantaggio della centralizzazione della Sanità. In Sardegna la Sanità pubblica venne centralizzata a Cagliari e Sassari.
Nel 2017 la regione Sardegna, presidente Francesco Pigliaru e assessore della Sanità Luigi Arru, istituì la Ats (Azienda tutela salute). Con tale legge le 8 Asl sarde vennero ridotte a 1 soltanto, che assunse tutte le funzioni delle altre 7. Sopravvissero:
– l’Ats (a Cagliari e Sassari)
– il Brotzu di Cagliari
– il Policlinico Universitario di Cagliari
– il Policlinico Universitario di Sassari
Alle altre 7 Asl venne tolto il nome di “Azienda” e divennero “Aree sanitarie locali”. Erano diventate periferie sanitarie e persero l’autonomia programmatoria e amministrativa precedente. Ne conseguì l’esplosione delle “liste d’attesa” e l’insoddisfazione popolare. Alle elezioni del 2019 la popolazione sarda mandò a casa la Giunta Pigliaru e promosse una nuova maggioranza guidata dalla “Lega” di Matteo Salvini che, capeggiata da Christian Solinas, prometteva di restituire le vecchie ASL alle 8 province sarde. In effetti, la Giunta Solinas produsse rapidamente una sua riforma sanitaria regionale e l’assessore Mario Nieddu varò la legge regionale 24/2020 con cui istituì la Ares (Azienda regionale salute). In realtà però le vecchie Asl non vennero integralmente ricostituite; al posto delle “Aree territoriali sanitarie” vennero identificate le Asl 1-2-3-4-5-6-7-8 che, a parte il nome, non hanno nulla delle precedenti Asl; infatti, non hanno il diritto né di assumere personale, né di far acquisti e programmare. In sostanza non esistono; l’unica vera Azienda capace di programmare e gestire, centralizzando tutti i poteri gestionali, è la Ares di Cagliari e Sassari. Oggi lo stato di degrado direzionale e amministrativo nelle Province è ulteriormente peggiorato e l’insoddisfazione e infelicità dei cittadini sono esplose nelle elezioni regionali del 25 febbraio 2024 con la bocciatura del Governo regionale sardo.
Recentemente un politico esperto ha suggerito di cercare nella legge 833/78 gli strumenti per uscire dalla crisi sanitaria. Quale può essere lo strumento?
Lo strumento che si deve utilizzare nella pubblica amministrazione è sempre lo stesso: il rispetto delle regole democratiche. Queste regole prescrivono che la volontà popolare sia affidata ai propri rappresentanti eletti e, nel territorio, i rappresentati ufficiali dello Stato sono i sindaci. E’ certo che i sindaci non possono entrare nel merito di tutto, ma possono essere i “custodi” degli interessi della gente. Fra questi, oggi, l’interesse più sentito è la Sanità. Dare un nuovo ruolo ai sindaci nelle Asl è fortemente indicato.

Mario Marroccu

Rodolfo Valentino fu il massimo attore di film muto degli anni ‘20. Fu tanto amato da suscitare, nei suoi fans, il primo fenomeno di massa mai visto: la “divinizzazione”, essendo ancora in vita. Da quel fatto, ancora oggi deriva l’espressione “divo del cinema”.
La sua fama mondiale era esplosa col film “I quattro cavalieri dell’Apocalisse”, per effetto di una famosa scena in cui egli ballava il “tango argentino”. Morì a 31 anni nel più importante ospedale di New York, dopo un’operazione per appendicite acuta complicata da peritonite. In tutto il mondo, i suoi ammiratori dettero luogo a scene di disperazione isterica.
Nel 1977 si ricoverò nel reparto Chirurgia dell’ospedale Sirai di Carbonia il suo sparring partner. Anche costui era un pugliese che era emigrato in America da ragazzino. Aveva conosciuto Rodolfo Valentino a San Francisco e con lui aveva fatto squadra nelle gare di tango organizzate dalle balere americane. Erano gare pazzesche che duravano ininterrottamente per più giorni, senza dormire e senza fermarsi mai. Chi sopravviveva alla fatica vinceva cospicue somme di denaro. Quando costui si ricoverò al Sirai, a causa di una gangrena alla gamba destra, raccontò che talvolta in quelle gare vinceva Rodolfo Valentino e talvolta lui stesso. In valigia aveva articoli e fotografie di rotocalchi americani dell’epoca che lo ritraevano col “divino” e le mostrò con fierezza. Era tutto vero: era proprio il compagno di gare di Rodolfo Valentino. Invecchiando si ritrovò in solitudine e decise di tornare in Italia ma, non avendo più parenti in Puglie, decise di venire ad invecchiare a Carloforte.
Trascorreva le giornate fumando come aveva sempre fatto. In valigia, oltre ai rotocalchi americani degli anni ‘20, aveva stecche di sigarette americane. Il primario, professor Lionello Orrù, lo avvisò che per tentare di fermare la gangrena era necessario smettere di fumare lui, magrissimo, sempre sorridente e molto cortese, continuò a fumare nascondendosi in bagno o nei balconi. La suora ogni giorno gli sequestrava le stecche di sigarette ma l’indomani, sotto il materasso, si materializzavano altre stecche di Chesterfield e Pall Mall.
La gangrena peggiorò. I farmaci vasodilatatori erano chiaramente inutili e lui concordò: «Professore, non posso smettere di fumare e non posso più tollerare i dolori alla gamba. Me la tagli». Fu una scena incredibile. Lui, che aveva vissuto in virtù delle doti atletiche delle sue gambe nelle esibizioni di ballo col “divino”, preferiva rinunciare alla gamba destra piuttosto che alle sigarette. Il professore lo accontentò e dette disposizione ai suoi “aiuti” di eseguire l’amputazione a livello della coscia destra. Egli avrebbe seguito l’intervento. L’indomani il ballerino era sereno e sorridente. Continuò a fumare.
Non si capì mai chi gli portasse le sigarette: si trattava di un miracolo derivato dalla sua pensione in dollari americani. Dopo una settimana comparvero i segni della gangrena anche alla gamba sinistra. Il professor Lionello Orrù lo mise in guardia: «Se continua a fumare perderà anche l’altra gamba». Nei giorni successivi i dolori alla gamba sinistra peggiorarono e la gangrena salì dal piede alla caviglia. Nonostante tutto continuò a fumare e nessun discorso del Primario lo fece desistere. Fu lui stesso a risolvere il problema con questa proposta: «Professore mi tagli anche l’altra gamba perché io voglio continuare a fumare ma non tollero più i dolori che mi dà». Il professore lo accontentò e dette disposizione agli “assistenti” di eseguire l’intervento di amputazione, lui avrebbe seguito l’operazione. Il primario desiderava che tutti i chirurghi eseguissero correntemente quel tipo di intervento così come le operazioni per peritonite, per occlusione intestinale e per rottura traumatica di milza. Voleva che chiunque fosse presente in servizio, in sua assenza o in assenza degli “aiuti” più esperti, fosse in grado di eseguire con urgenza quel genere di operazioni salva-vita.
Era l’anno 1977 e l’ordinamento degli ospedali era ancora sotto le leggi Mariotti 132/ ‘68 e 128/ ‘69 ed esisteva nei reparti ospedalieri una struttura gerarchica dei medici ben definita; essa era formata dal primario, dagli “aiuti” e dagli “assistenti”. Tale struttura aveva un duplice fine. Primo creare una scala di responsabilità e di autorevolezza. Secondo: addestrare i medici e formarli alla professione.
La legge 128/’69 definiva esattamente, all’articolo 7, che il Primario aveva tutti i poteri, le responsabilità e tutti i doveri: doveva vigilare sul lavoro di medici ed infermieri e aveva la responsabilità di tutti i malati; era il giudice unico sui criteri diagnostici e terapeutici a cui dovevano attenersi gli “aiuti” e gli “assistenti”; formulava la diagnosi definitiva; doveva inoltre indicare la terapia medica o la tecnica chirurgica da adottarsi nel caso fosse necessaria un’operazione. Doveva eseguire personalmente sui malati gli interventi diagnostici e le operazioni chirurgiche curative che riteneva di non dover affidare ai suoi collaboratori; era l’unico che poteva autorizzare le dimissioni. Ne derivava che sui primari, con la loro responsabilità assoluta su tutto, ricadessero oneri ed onori; per tale ragione, i detrattori li definivano “baroni”. Un articolo successivo della legge 128 disponeva che il primario si impegnasse a mantenere elevato il livello culturale dei medici con una formazione continua sul campo. Egli era il caposcuola e la sua missione di insegnamento conferiva all’ospedale le funzioni di “ospedale di specializzazione”.
Insomma, per i medici il primario era il maestro e il parafulmine da tutti i guai. Gli “aiuti” venivano dopo il primario. Essi erano i medici più titolati, dotati di una certificazione di idoneità rilasciata da una commissione d’esame nazionale con sede a Roma. La legge disponeva che essi sostituissero il primario, in tutte le sue funzioni, ogni qualvolta fosse assente. Era come se la figura del “primario” fosse sempre presente e non se ne sentiva mai la mancanza. Al terzo livello erano classificati gli “assistenti”; si trattava dei medici più giovani, meno esperti, usciti da poco dall’Università, ma ancora da formare come professionisti specialisti.
Ogni Ospedale era una vera e propria scuola di formazione continua nella pratica medica. L’Università aveva fornito la cultura basilare portando gli studenti alla laurea in Medicina, e l’esame di Stato aveva garantito che il neonato medico fosse idoneo ad esercitare la professione come medico generico.
La costruzione professionale dei medici ospedalieri avveniva in ospedale ed era affidata al primario e agli “aiuti”. Mentre il primario era la figura carismatica autorevole che presiedeva la “scuola”, gli “aiuti” erano gli “istruttori” sempre disponibili e pronti a familiarizzare mentre addestravano gli “assistenti” alla professione.
La “scuola ospedaliera” di formazione alla professione di medico specialista (chirurgo, internista, ostetrico , traumatologo, pediatra, etc.) garantiva la costituzione di un perenne capitale culturale e umano all’interno dell’ospedale. Questo rapporto formativo continuo fra primario, “aiuti” e “assistenti” generava un rapporto di fidelizzazione tra medici, ospedali e territorio, e spesso induceva i medici venuti da lontano a trasferirsi nella città sede dell’ospedale, viverci tutta la vita e perfino formarvi le proprie famiglie. Le Amministrazioni ospedaliere favorivano e proteggevano questa funzione docente all’interno dell’ospedale perché così si garantiva la reputazione, la fiducia e il mantenimento di una sicura forza professionale che si sarebbe replicata, da una generazione all’altra di nuovi arrivati, senza temere mai l’abbandono degli ospedali da parte dei medici. Fin dall’inizio fu tale l’interesse che aveva l’Amministrazione ospedaliera a fidelizzare i medici e, soprattutto, i primari venuti da lontano, da costruire per essi, in prossimità dell’ospedale, degli appartamenti per la residenza loro e delle loro famiglie. Oggi non è più così.
Anche nella Medicina territoriale avveniva lo stesso fenomeno: i medici più anziani e più esperti contribuivano alla formazione professionale di altri medici, e anche lì si realizzava una catena solidale che assicurava la continuità.
Nell’ultimo decennio del secolo scorso, in conseguenza della grave crisi economica dello Stato, esplosa nel 1992, il Governo Amato tentò di arginarla con la privatizzazione delle Partecipazioni statali, ed avviò il processo di privatizzazione anche della Sanità pubblica. Le USL divennero ASL; i presidenti delle USL, che in genere erano sindaci del territorio, vennero sostituiti dai manager e tutto cambiò. Il ministro Francesco di Lorenzo fu l’artefice della legge 502 di controriforma; le ministre Maria Pia Garavaglia e Rosy Bindi modificarono l’assetto degli ospedali e abolirono le diversificate figure dei medici: gli “aiuti” e gli “assistenti” vennero posti ad uno stesso livello, dichiarati “dirigenti medici” e messi, praticamente, alle dipendenze del sistema burocratico. I primari vennero declassati a livello di precari, e ridefiniti col titolo di “direttori di Struttura complessa”, con incarico a termine della durata di 5 anni.
L’incarico poteva essere rinnovato previa valutazione dell’Amministrazione della ASL. Se non confermati venivano riclassificati ad un livello inferiore. Lo stipendio era uguale fra tutti i medici, corretto per anzianità, e con l’aggiunta di un’“indennità” di dirigenza per il direttore del reparto. I reparti e le Divisioni ospedaliere cessarono di esistere e furono sostituite dalla dizione “Unità operative complesse”. Terminologia usata anche per gli Uffici amministrativi. Era finita un’epoca. Del periodo che precedeva il 1992 ai medici era rimasta soltanto la “responsabilità medico-legale”. L’instabilità e l’incertezza, che ricaddero come una spada di Damocle sul loro futuro, ebbero conseguenze.
Il nuovo tipo di “direttore” non aveva più gli “aiuti” che lo coadiuvassero o lo sostituissero. Non aveva più le funzioni di “addestratore” delle nuove generazioni di medici e, in quanto sostituibile da chiunque ogni 5 anni, non aveva alcun interesse a crearsi un “competitor”.
Oggi l’improvvisa assenza del “direttore” per pensionamento o per trasferimento crea uno scompenso organizzativo, non esistendo più gli “aiuti”. Tale vuoto gerarchico e l’instabilità del primario “a tempo”, comportano un vuoto di autorevolezza e operativo.

Adesso stiamo assistendo alla crisi degli ospedali per mancanza di medici specialisti. Tale fenomeno non è dovuto solo alla “scarsità” di nuovi laureati; dipende anche dal fatto che nessun giovane medico si sente sicuro a lavorare in un reparto in cui manca il primario-direttore perché i rischi medico-legali che comporta ogni decisione, soprattutto, se presa in solitudine, sono molto, molto, molto pericolosi; meglio starsene nel territorio o nelle cliniche private. In passato la funzione del Primario era principalmente quella di prendere decisioni ad ogni momento della giornata; da essa derivava la salvezza o no del malato.
L’urgenza-emergenza era sempre in agguato. Il processo clinico che portava alla formulazione della diagnosi e del programma terapeutico costituiva di per sé lo strumento di addestramento dei nuovi medici alla professione ed era la base dalla “scuola-ospedale”. L’addestramento alle responsabilità medico-legali era una formazione imprescindibile: era l’esercizio che faceva la differenza tra il periodo dell’apprendimento universitario e il periodo della formazione professionale in ospedale.
Gli studiosi di “psicologia delle decisioni” nei dipendenti pubblici, hanno concluso ricerche che dimostrano come il sospetto che in tutto ci sia del “marcio”, dal 1992 in poi, ha indotto il ceto politico a produrre leggi che hanno generato un atteggiamento di alta avversione al rischio. Erano gli stessi anni in cui vennero soppresse e sostituite le figure gerarchiche dei primari e degli “aiuti” negli ospedali. Il timore dei dipendenti pubblici a prendere decisioni portò dapprima al rallentamento, poi alla quasi paralisi operativa. Questo è ciò che stiamo sperimentando. Gli illustri studiosi sostengono che l’alta percezione del rischio e delle conseguenze professionali genera il tipico comportamento di astensione prudenziale e il blocco decisionale.
Non è vero che la crisi sanitaria che stiamo vivendo sia da attribuirsi solo alla diminuzione dei nuovi laureati in medicina o ai pensionamenti. Questo fenomeno di decadenza dell’assistenza ospedaliera non ha solo motivazioni contabili.
Fra le cause assumono molta importanza il sovvertimento della politica sanitaria territoriale, sostituita dalla burocrazia e l’ inconsistenza delle gerarchie mediche negli ospedali, dominate anch’esse dalla burocrazia.
Prima o poi si prenderà atto che oltre al valore della contabilità esistono anche i professionisti e i loro principi etici. E’ auspicabile che venga agevolato il libero ritorno ai valori non contabili come: lo spirito critico, l’indipendenza dall’egocentrismo dei poteri centralizzati, lo spirito civico, la coscienziosità, l’altruismo, l’impegno e il sentimento di identità col territorio in cui si opera.
Adesso è urgente, per gli ospedali, ricostituire le figure dei “primari-guida” mancanti nelle Unità operative in crisi. Poi saranno loro ad attirare, con il loro prestigio, i nuovi medici.

Mario Marroccu

Lo spopolamento delle nostre città e la crisi della Sanità hanno una stessa origine che va combattuta. Analizzando le cause potremmo scoprire di non essere così impotenti come appare. In ogni centro urbano vi sono edifici pubblici o monumenti in cui i cittadini riconoscono la loro appartenenza perché hanno un valore storico, affettivo e esistenziale. Se quei luoghi vengono modificati avviene un danno nella struttura stessa del proprio vissuto. Luoghi come il Comune – sede del potere politico-amministrativo, la chiesa – sede della religione, il tribunale – sede della giustizia e l’ospedale – sede della sanità, sono l’anima vitale della città.
Se in una città viene cancellato il centro urbano, avviene un pericoloso vulnus dell’identità collettiva e sorge nel cittadino un senso di disagio, di frustrazione che sono premessa alla disaffezione, alla fuga e allo spopolamento. Ciò succede quando la città ha insufficiente potere politico e quando ha per vicino un’altra città molto più forte che si appropria di quelle funzioni urbane esistenziali.
Alcuni mesi fa un ex-presidente del Censis spiegò che lo spopolamento delle città di provincia iniziò negli anni ‘90 del Novecento quando l’esercizio della politica negli Enti locali divenne meno appetibile per i cittadini più vocati ad essa. Il fenomeno prese avvio a causa di alcune leggi. La prima fu la legge 142/90 che sottrasse agli organi politici locali il potere di amministrare gli uffici comunali.
A quell’epoca i consiglieri comunali avevano ancora il potere della gestione della Sanità attraverso le USL. Allora la legge istitutiva del Sistema sanitario nazionale dichiarava che le USL erano “articolazioni” dei Comuni, e che i Comuni dovessero esserne gli amministratori. L’assemblea dei sindaci portò gli ospedali al loro periodo d’oro. Ma durò poco. Nel 1992 iniziò la spoliazione dei Comuni. I ministri Francesco Di Lorenzo, Maria Pia Garavaglia e Rosy Bindi approvarono tre leggi (502-517- 229) che tolsero i poteri sulla Sanità ai politici degli enti locali e li consegnarono alle Regioni.
Fu un’opera di “centralizzazione” radicale. Finì il tempo in cui i sindaci assicuravano ai propri ospedali i migliori medici strategici per conquistarsi un prestigio sanitario. L’esclusione dalle decisioni politiche indusse la demotivazione progressiva dei cittadini all’interesse alla politica. La città maggiore che assorbiva le funzioni di gestione della cosa pubblica divenne attraente. Ne conseguì che i cittadini della provincia persero la passione per la partecipazione alla politica nella propria città, svuotata di servizi, e cominciarono a trasferirsi nelle nuove sedi del potere centrale. Cessò l’epoca del fervore per la partecipazione attiva alla politica negli enti locali e, da allora, è cresciuto il disinteresse al dibattito e alle candidature. Alla carenza di potere decisionale nonostante progetti lungimiranti conseguirono il disinteresse degli elettori e l’astensionismo.
Con un’altra legge, varata nel 2001, nota col nome di “Riforma del titolo V della Costituzione”, la centralizzazione dei poteri nella Regione aumentò ulteriormente. Contemporaneamente dallo stesso periodo iniziò il degrado della rete ospedaliera e della medicina territoriale.
A conferma di questa tendenza ad accentrare servizi sociali fondamentali nel 2011, per effetto di una rigida legge di risparmio del Governo Monti, vennero chiusi i tribunali periferici, ed anche la giustizia fu centralizzata. Secondo i sociologi del Censis lo spopolamento, l’immiserimento di servizi e l’impoverimento dell’economia, sono strettamente connessi alla “centralizzazione” voluta da un chiaro progetto che viene da lontano. Anche la salute entrò in quel meccanismo.

Mentre la salute in sé è una competenza della medicina, la “Sanità” intesa come organizzazione per dare salute al popolo è una competenza della politica. Il senso di scoramento che ci prese nel vedere l’impreparazione ad affrontare il Covid nei tre anni passati è ben motivato da quella distruzione delle gerarchie politiche locali. Oggi ci saremmo aspettati che il Sistema sanitario nazionale e quello regionale, con l’esperienza della pandemia, si fossero attrezzati meglio sia per contenere il probabile arrivo di altri virus, sia per l’epidemia demografica in atto.
E’ evidente che il problema sociale futuro sarà l’enorme aumento di richiesta di assistenza sanitaria dovuta al forte invecchiamento della popolazione e alla mancanza di progetti di “presa in carico”. In contrasto con questa evidenza, negli ospedali stanno diminuendo sia i posti letto che il personale nelle Terapie intensive e nelle Rianimazioni; nel contempo, è in campo il progetto di costruire nuove strutture murarie, che chiameremo ospedali, le quali dovranno funzionare senza il personale necessario per lavorarci.
Negli ultimi 20 anni abbiamo assistito alla distruzione del sistema ospedaliero di Iglesias, al decadimento progressivo dell’ospedale Sirai di Carbonia e alla rarefazione dei medici di base.
La Regione, un volta esclusi i Comuni, ha creato una nuova entità amministrativa di tipo privatistico che ha il compito di governare tutte le Aziende Sanitarie Locali. Tale entità si chiama ARES (Azienda Regionale Salute). Le ASL hanno oggi perso una reale autonomia di gestione: non hanno veri poteri di iniziativa e sono di fatto strutture acefale. L’unica testa pensante è ARES regionale. I poteri decisionali di questa nuova entità sovrana della Sanità pubblica sono assoluti. Per “assoluto” si intende esattamente la definizione del vocabolario: “assoluto = che non ammette limitazioni, restrizioni o condizioni, relativamente a se stesso, alla propria volontà o alle proprie attribuzioni”.
Ciò avviene perché la legge istitutiva della ARES non prevede i contrappesi della politica territoriale. Pertanto, si tratta di un’entità che non può essere scalfita dalla critica né può essere influenzata da alcunché se non dalla sua sola volontà. La legge, che ha costituito questo ente regionale, consente alla “Conferenza sanitaria provinciale dei Sindaci” la sola possibilità di esprimere pareri sul programma sanitario annuale. Ma tali pareri non sono vincolanti. Ciò significa che la volontà dei sindaci, se in contrasto con ARES, non ha mezzi per penetrarne la corazza di potere in cui è racchiusa.
La ARES venne istituita dalla regione Sardegna con la legge 24/2020, in piena pandemia, e fu progettata affinché avesse una struttura perfetta, monolitica, come un purissimo cristallo profondamente antidemocratico, impenetrabile alle influenze esterne. Il potere sanitario è tutto contenuto in questa entità e noi, popolo, siamo prigionieri all’esterno.
Mentre assistiamo al collasso della Sanità, scopriamo dalla stampa le notizie su innovazioni che dovrebbero avvenire nelle strutture ospedaliere di Iglesias, di Carbonia e dei Distretti. Si tratta di un bel disegno legato ai fondi messi a disposizione dal PNRR missione 6. Ma si tratta solo di un bel disegno, molto simile a un libro dei sogni.
Il quadro reale dello stato della nostra sanità è invece quello descritto dalle cronache dei quotidiani. Di Iglesias sappiamo molto perché è una cittadina che si lamenta puntualmente, e fa bene, attraverso gli organi di informazione. Di Carbonia sappiamo meno. Tuttavia dalle notizie che trapelano si sa che all’ospedale Sirai il corpo degli anestesisti è allo stremo. Una volta vi erano in dotazione dai 15 ai 20 anestesisti; oggi sono 6. Tre di questi sono in Rianimazione; gli altri tre assistono le sale operatorie.
Uno specialista anestesista-rianimatore è giunto all’età della pensione, pertanto, dovrebbe mancare presto per messa in quiescenza. I due restanti non sono sufficienti per un lavoro che impegna 24 ore su 24, senza interruzioni, tutto l’anno. I tre anestesisti dedicati alle sale operatorie devono assicurare l’urgenza ed emergenza e, pertanto, non possono sempre essere disponibili per le sedute operatorie di chirurgia programmata.

Di fatto, la situazione è gravissima e può portare, essa da sola, alla chiusura dell’Ospedale. La persistenza di queste condizione immobilizzerebbe la Chirurgia Generale. L’Ortopedia ha i limiti della Chirurgia Generale. L’Urologia sarà presto senza primario e probabilmente perderà 4 medici per trasferimento in altri Ospedali. Ne resteranno due che eroicamente dovranno prendersi cura dei problemi urologici dei 119.000 abitanti della ASL 7. Impossibile.
La Medicina è presa tra Covid e malattie non-Covid. Il Pronto Soccorso è ora senza primario; ha pochi medici di ruolo e deve ricorrere a convenzioni con esterni. Inoltre, deve assicurare tutte le urgenze del Sulcis Iglesiente. La Cardiologia è sovraccarica di lavoro ed è fortemente impegnata nel settore dell’urgenza. Il Laboratorio non esiste più in sede da nove mesi. Ora pare che debba riaprire la notte. La Radiologia ha l’organico del personale sottodimensionato. La Dialisi per i nefropatici è ridotta a tre medici e presto ne perderà uno. Come faranno a lavorare anche la notte, il sabato e la domenica, Estate e Inverno, sempre, e per tutto il Sulcis Iglesiente in urgenza, non si sa.
Questo quadro descrive uno stato di necessità sanitaria che, così grave, non si era mai visto. Sembra d’essere alle porte della caduta dell’Ospedale. Tutti i professionisti che lavorano nella struttura amministrativa dell’ospedale manifestano competenza e buona volontà. Se ne avessero i poteri, sicuramente affronterebbero i problemi della carenza di personale e li risolverebbero. Purtroppo, non hanno i poteri né di assumere liberamente il personale che necessita né di procedere liberamente agli acquisti. Tutti i meccanismi amministrativi per il funzionamento della sanità provinciale sono stati trasferiti dai nostri uffici di Carbonia e Iglesias quelli della ARES (vedi le competenze nell’articolo 3 della legge di istituzione).
A chi possono rivolgersi i dirigenti della ASL 7 per procedere alla soluzione dei problemi, senza vincoli, e secondo le necessità? Ai sindaci? Sarebbe la soluzione migliore, ma i sindaci sono stati estromessi dalla gestione della Sanità. Il problema è nato dalla centralizzazione dei poteri a Cagliari; non esistono responsabilità di questo disastro né ad Iglesias né a Carbonia.
Esiste una sola soluzione: cambiare la legge 24/2020 della regione Sardegna. Non è necessario cambiare tutta la legge, è sufficiente attenuare l’articolo 3 e aggiungere una riga dell’articolo 9 per iniziare a tornare alla partecipazione democratica nella sanità, questa (al punto – a -):

Articolo 9
Organi dell’azienda Sanitaria.

Sono organi delle Asl e dell’Azienda ospedaliera:
a) il presidente della ASL, che sarà un eletto tra i componenti della Conferenza provinciale sanitaria dei sindaci.
b) il direttore generale
c) il collegio sindacale”

Dando la carica di presidente a un sindaco si stabilirebbe perlomeno un controllo degli Enti locali all’interno della ASL. Con questo provvedimento si consentirebbe ai sindaci di svolgere realmente le funzioni loro attribuite dal Testo unico degli Enti locali, e salveremmo subito gli ospedali e la medicina di base.
Dai quotidiani apprendiamo che stanno nascendo Comitati per la difesa delle sanità territoriale in tutte le province della Sardegna. Questo movimento popolare in supporto ai sindaci è un bene perché i sindaci non possono essere lasciati soli ad affrontare l’ignoto che sta arrivando sul nostro futuro sanitario.

E’ tempo che tutti, maggioranze e opposizioni, parti sociali e enti locali di tutta la Provincia, comincino a discuterne. Il Sistema Salute è da ripensare prima che lo spopolamento e l’inerzia chiudano le città.

Mario Marroccu

I Sindaci chiedono ogni giorno, per la nostra Sanità, servizi concreti come:

– I “Pronto soccorso” funzionanti

– L’azzeramento delle “liste d’attesa”

– Ospedali attivi e con posti letto sufficienti

– Medici di base presenti “qui e subito”.

Fino ad ora le risposte dei Governanti sono apparse irrealizzabili, con un linguaggio burocratico poco accessibile, basate su schemi di progetti-tipo, come:

– Reti ospedaliere.

– Reti territoriali.

– Allegati vari.

Siamo nella nebbia.

Finalmente, in questa nebbia fitta, si vede una tenue indicazione che ha dell’incredibile: nell’ultima legge di riforma, che si chiama “DM 77”, nell’introduzione dell’allegato “1” viene riportato in auge il principio su cui si basò la Grande Riforma sanitaria 833/78 di Tina Anselmi.

Per intenderci, è quella Riforma che assicurava l’assistenza sanitaria gratuita a tutti “dalla culla alla tomba”. Quella Riforma fu un successo perché funzionò. E qui sta il mistero: perché funzionò?

Funzionò perché si pensò di affidare la concretizzazione del Piano sanitario nazionale ai sindaci dei vari territori. I Sindaci divennero Presidenti delle ASL e dei Comitati di gestione; i consiglieri comunali divennero componenti delle Assemblee generali delle ASL. Cosa fecero per rendere concreto il disegno della nuova Sanità? Utilizzarono i soldi del Fondo sanitario nazionale, suddivisi equamente fra tutte le ASL, per raggiungere gli obiettivi della legge di riforma. Vennero costruiti nuovi ospedali e nuovi reparti specialistici usando il buon senso: puntarono tutto sui professionisti strategici che avrebbero trainato il sistema sanitario nel futuro. Così ogni ASL cercò di accaparrarsi i primari migliori e gli specialisti più motivati e più capaci; vennero assunti contabili eccellenti e furono istituite scuole per la formazione di infermieri.

La strategia contenuta nella legge prevedeva che il Direttore sanitario potesse essere eletto fra i primari dei reparti; ad eleggerlo erano i rappresentanti dei medici, degli infermieri e dei tecnici. Ne conseguiva che il Direttore sanitario era un vero leader. La sua autorevolezza era indiscussa; l’obbedienza era certa; il controllo che esercitava era potente e ben accetto. Tutti sostenevano lo scopo del Direttore sanitario che era quello di far funzionare bene l’Ospedale. Il Direttore sanitario aveva lo scopo di soddisfare i desiderata del Presidente e del Comitato di gestione che provenivano dalle istanze democratiche della popolazione.

Questa fu la strategia.

Poi la legge 833/78 venne affondata dal ministro Francesco De Lorenzo nel 1992 e dal ministro Rosy Bindi nel 1995-1999. Questi due ministri trasformarono la ASL da aziende di Diritto pubblico in Aziende di Diritto privato. Le Aziende sanitarie privatizzate cambiarono la”mission” della legge 833 . Quella legge era basata sulla “solidarietà” che si esprimeva nell’idea di “dare il servizio sanitario secondo tre principi fondamentali: universalità, uguaglianza, equità”. Con le nuove Aziende pubbliche di Diritto privato la nuova mission fu: la “contabilità”.

La sostituzione della solidarietà con la contabilità finanziaria comportò un’altra sostituzione: i sindaci ed i primari vennero espulsi dalla funzione di controllo e di direzione del Sistema sanitario nazionale e al loro posto vennero nominati i “manager”, apolitici.

Lo scopo era quello di passare da una “costosa” amministrazione pubblica ad una (supposta) “meno costosa” amministrazione privata. Si voleva estendere all’Italia intera la riforma sanitaria della regione Lombardia che negli anni ’90 aveva affidato la cura della popolazione al sistema delle Case di cura.

Però, c’è un “però”. Mentre il padrone della Casa di cura privata produce Sanità a pagamento per trarne un utile, e per avere questo utile deve trasformare i cittadini-pazienti in suoi “clienti” attraendoli con servizi efficienti, i manager pubblici, che non hanno gli interessi di un padrone di clinica, hanno un solo fine: ottenere l’equilibrio di bilancio, anche a costo di ricorrere alla riduzione della spesa. La richiesta di spendere poco in Sanità divenne esplicita col governo Berlusconi del 2003 che con legge vietò nuove assunzioni negli ospedali, impose il blocco dei turn-over di chi andava in pensione e la riduzione dello 0,4% annuo della spesa sanitaria. Il risparmio della spesa sanitaria venne attenuto riducendo: il personale, l’acquisto di farmaci e l’aggiornamento tecnologico e strutturale.

In quegli anni la Sanità privata migliorava se stessa assumendo i migliori specialisti ed acquisendo le migliori tecnologie. Con ciò diventava l’oggetto del desiderio dei pazienti, mentre la Sanità pubblica diventava sempre più grigia, professionalmente e strutturalmente.

Maturò nella mentalità collettiva un effetto respingente della Sanità pubblica. Così, mentre la Sanità privata faceva un balzo in avanti, quella pubblica faceva molti passi indietro. Nel 2012 vi fu un potente salto all’indietro con ministro della Salute Renato Balduzzi, essendo presidente del Consiglio Mario Monti. In quell’anno, quel ministro emanò un decreto con cui imponeva la drastica riduzione dei posti letto ospedalieri a 2,7 posti letto per 1.000 abitanti. Tutti i manager si precipitarono al taglio dei posti letto, alla chiusura di reparti specialistici e di Ospedali.

Nell’anno 2015 venne emanato il DM 70 che è una legge di Riforma della rete ospedaliera voluta dalla ministra Beatrice Lorenzin ed approvata dal Governo di Matteo Renzi. Quella legge pose condizioni capestro ai piccoli Ospedali che non avessero raggiunto un certo numero di procedure chirurgiche e di alte indagini specialistiche, senza curarsi di verificare se i risultati fossero stati indotti dal declassamento delle strutture ospedaliere, impoverite dalle leggi di risparmio emanate dai Governi precedenti. Dato che i piccoli ospedali sono nelle province ed i grandi ospedali, con i loro grandi numeri, sono nelle città capoluogo, ne consegue che gli Ospedali territoriali (provinciali) vennero ulteriormente ridotti e messi nelle condizioni di chiudere, mentre i grandi ospedali dei capoluoghi crebbero ulteriormente in dimensioni e ricchezza.

In queste condizioni di depauperamento la nostra rete ospedaliera nazionale e la Sanità territoriale sono giunte ad affrontare lo tsunami dell’epidemia di Covid-19 del 2020. Il risultato è stato disastroso ma molto istruttivo. Si è visto come la Sanità privata sia inefficiente nell’affrontare i grandi problemi di salute pubblica. Infatti, soprattutto la Lombardia ed il Veneto, che sono state le regioni iniziatrici della privatizzazione della Sanità pubblica, sono state all’inizio del tutto incapaci ad affrontare l’epidemia. Il disastro fu tale che vennero in soccorso medici dalla Cina, dalla Russia, da Cuba, dalla Romania e gli Ospedali tedeschi e francesi misero a disposizione i loro posti letto per accogliere i nostri malati per aiutare il nostro sistema al collasso.

L’insufficienza sanitaria italiana fu talmente grave e penosa che la Unione europea concesse all’Italia un super-fondo, in parte regalato, in parte in prestito, per ricostruire la Sanità e il sistema produttivo.

Il Governo Draghi ha pubblicato il progetto per la spendita di 230 miliardi – Recovery Fund – per la ripresa e resilienza. Il Piano è distinto in sei “mission”. La “mission n° 6” è destinata alla Sanità. Saranno spesi per la Sanità 16 miliardi di euro. Quei fondi verranno spesi in preponderanza per la medicina territoriale e di prossimità.

Per spiegare come spendere quei soldi il Governo ha emanato il DM 71 e il DM 77 /2022. Mentre il DM 70 del 2015 dava disposizioni per la Riforma degli Ospedali, i DM 71 e 77 rappresentano la Riforma della medicina territoriale.

Il 22 giugno 2022, cioè pochi giorni fa la Gazzetta ufficiale fa pubblicato il DM 77 (decreto 23 maggio 2022).

Cosa contiene? Contiene il Piano di riforma sanitaria del territorio, quindi la medicina di prossimità.

Dal 26 giugno 2022 il Decreto è legge e quindi già da oggi dovremmo vedere realizzato il Piano. Esso contiene il progetto di:

– il Distretto sanitario

– le Case della Comunità

– gli Ospedali di Comunità

– la COT (Centrale Operativa Territoriale)

– gli IfoC (infermieri di famiglia o comunità)

– i LEPS (livelli essenziali delle prestazioni sociali)

– il Nea (numero europeo armonizzato 116117)

– il PAI (progetto di assistenza individuale integrato)

– il PNC (piano nazionale cronicità)

– il PNP (piano nazionale prevenzione)

– il PRI (piano riabilitativo individuale)

– il PUA (punto unico di accesso)

– il PDTA (percorso diagnostico terapeutico individuale) e tante altre cose.

In quel Piano c’è tutto il desiderabile. E’ un grande progetto. A leggerlo si rimane ammirati, tuttavia c’è una assenza importante: manca la strategia.

E’ come ricevere dall’architetto il progetto per costruirsi la casa. Si ha in mano un bel disegno ma ci manca l’ingegnere che realizzi la costruzione dell’edificio. Mancano i muratori, gli elettricisti, gli idraulici, il materiale da costruzione con porte e pavimento compresi.

Ecco. Manca la strategia di realizzazione della Riforma. Per questo, dalla riforma Balduzzi del 2012, e dalla riforma Lorenzin del 2015 in Sardegna abbiamo assistito alla demolizione di Aziende ospedaliere ma nessuna ricostruzione. Stesso destino, probabilmente, spetta alla Riforma dell’assistenza territoriale.

A questa immensità di progetti, ben disegnati ma talmente belli da sembrare irrealizzabili, fa da contraltare la realtà quotidiana del pensionato sulcitano o iglesiente che manda in piazza i propri sindaci e sindacalisti per chiedere almeno un medico di base che fornisca le ricette periodiche dei farmaci.

La situazione della Sanità reale è questa:

1 – Pochissimi posti letto negli Ospedali pubblici per effetto delle leggi dal 2003 ad oggi. Quelle leggi per la riduzione della spesa sanitaria vennero applicate, paradossalmente, solo negli Ospedali pubblici ma non negli Ospedali privati. Nell’ultimo anno in Italia sono stati inaugurati 12 Ospedali di cui solo uno è pubblico.

2 – Gravissime carenze nei Pronto Soccorso che, ricordiamolo, si trovano solo negli Ospedali pubblici.

3 – L’attribuzione ai medici del territorio di funzioni complesse che hanno l’effetto di complicare le procedure di assistenza al paziente.

4 – La persistenza della dualità fra medicina degli Ospedali e del territorio. Ne deriva l’assenza di un raccordo razionale, immediato ed efficiente, fra reparti ospedalieri, Pronto soccorso e medici del territorio.

Oggi il DM 77 merita attenzione e curiosità per un motivo singolare: perché dopo che i vari Governi che si sono succeduti hanno distrutto la Legge di Riforma sanitaria 833/78, il Governo attuale in premessa al decreto scrive: «Il Servizio Sanitario Nazionale (SSN), uno dei primi al mondo per qualità e sicurezza, istituito con la Legge n. 833 del 1978, si basa su tre principi fondamentali: universalità, uguaglianza, ed equità».

Per chi legge queste righe sulla Gazzetta Ufficiale, la frase equivale ad un atto di dolore per aver affondato la Legge 833/78. A questo punto, se questa premessa fosse una sincera dichiarazione di pentimento per aver prodotto, negli ultimi 30 anni, leggi sanitarie affette da “aborto abituale”, potremmo sperare nella comprensione di quanto sarebbe utile riportare in vita la strategia di applicazione che venne adottata per rendere reale la Riforma 833/78.

In particolare la Regione Sardegna dovrebbe prendere atto che l’istituzione di un Ente di diritto privato che gestisce la Sanità pubblica corrisponde alla rinuncia dell’autorità politica alla gestione diretta della Sanità regionale.

Di necessità la corretta impostazione della riforma, per funzionare, dovrebbe comportare:

1 – Il conferimento del potere di Presidenza, dell’Azienda regionale sanitaria, all’assessore regionale competente. La gestione al Direttore generale.

2 – la delega delle attribuzioni e dei poteri di Presidenza delle ASL ai Sindaci del territorio e, l’attribuzione dei poteri di gestione, ai Direttori generali.

3 – La suddivisione equa del fondo sanitario regionale fra le ASL.

4 – l’indicazione inequivocabile degli Ospedali di base e quelli di I livello.

5 – l’interpretazione autentica delle funzioni attribuite alle tre tipologie di ospedali. Identificazione del personale e dei reparti coinvolti nel DEA.

6 – La centralità ed il potenziamento dei Pronto Soccorso sia come sede di valutazione dell’urgenza, sia come raccordo immediato fra i servizi chirurgici e medici d’urgenza, e i medici del territorio.

7 – l’ampliamento degli organici dei Pronto soccorso.

8 – l’ampliamento dei posti letto per le degenze ordinarie e le terapie intensive.

9 – Sanità territoriale ed ospedaliera fusi e interconnessi in un unico sistema di servizio continuo e complementare. Il Pronto Soccorso inteso come estensione dell’Ospedale nel territorio con l’intento di superare la dualità esistente.

10 – Attribuzione di un nuovo ruolo strategico ai Primari delle Unità Operative specialistiche intesi some figure strategiche della ASL.

11 – Direzione Sanitaria costituita dal Direttore Sanitario eletto, fra i Primari, dalla Commissione dei Sanitari, e coadiuvato da un ufficio di Direzione costituito da medici legali, specialisti in igiene ospedaliera, avvocati, amministrativi e ingegneri sanitari. Queste strutture burocratiche sono già esistenti.

Per procedere in questa direzione le leggi attuali (legge regionale n. 24/2020) devono essere adeguatamente implementate. L’unica modifica sostanziale consiste nell’introduzione dell’assessore regionale alla Presidenza dell’ARES e dei sindaci del territorio alle Presidenze delle ASL, con funzioni di controllo e deliberanti, coadiuvati dai Direttori generali per la gestione.

Riferimenti:

Legge 833/78

Riforma Balduzzi 2012

Riforma Lorenzin 2015

DM 71;

DM 77

FOSSC (Forum delle società scientifiche dei clinici ospedalieri e universitari italiani).