Farsi male con le proprie mani è una cosa molto complicata. Si cerca di ottenere il massimo bene possibile per poi scoprire, dopo molti anni, che il risultato ottenuto è stato il peggioramento di ciò che si aveva. I filosofi lo chiamano “eterogenesi dei fini”. Pare che questo sia capitato alla Sanità pubblica italiana.
Sappiamo che per raggiungere il fine del benessere sanitario, dal 1948 ad oggi, sono stati fatti grandi sforzi per dare efficienza alla Sanità pubblica secondo l’articolo 32 della Costituzione e sono state varate leggi per migliorare la sua gestione che, tuttavia, una volta applicate, hanno portato ad una Sanità in cui la salute è realmente garantita solo ad una minoranza di cittadini dotati di risorse economiche proprie. I più devono iscriversi alle “liste d’attesa”.
Approvato l’articolo 32 della Costituzione per la Sanità, si dovette attendere il 1978 per avere la legge di istituzione del Servizio Sanitario Nazionale n. 833/78. Il SSN nacque per superare il precedente sistema della Casse mutue che garantiva cure solo a specifiche categorie di lavoratori e cittadini lasciando ampie disuguaglianze nell’accesso alle cure.
L’obiettivo politico del dopoguerra era teso a realizzare un sistema universalistico basato su tre principi cardine:
1 – L’Universalità: assistenza per tutti,
2 – L’Uguaglianza parità di accesso alle cure,
3 – la Globalità: non solo cure ma anche prevenzione e riabilitazione.
Nacque così la Sanità di Stato per la tutela della salute di tutti nell’interesse della collettività. Il compito venne affidato alle USL (Unità Sanitarie Locali). Esse erano strutture organizzative sub-provinciali affidate alla gestione dei politici locali (sindaci). Il programmatore e finanziatore era lo Stato.
Dopo 14 anni quella Sanità finì perché troppo costosa. Venne ritenuta responsabile dello indebitamento dello Stato a causa della spesa sanitaria lasciata in mano ai politici territoriali. Di conseguenza, appena se ne presentò l’occasione, come fu nel 1992, si fecero leggi per estrometterli.
Tale operazione di estromissione degli amministratori locali dalle USL venne adottata per fermare le ingenti spese “a piè di lista” che a fine anno obbligavano lo Stato a ripianare i debiti contratti.
Si ritenne che le spese fossero frutto di sprechi provocati dalla lottizzazione del potere locale. La crisi del 1992 fu l’occasione per giustificare la trasformazione delle USL in ASL (Aziende Sanitarie Locali).
Le nuove istituzioni sanitarie erano aziende dotate di personalità giuridica pubblica ma di autonomia imprenditoriale, gestionale e patrimoniale tipiche delle aziende private. Eliminati i politici locali si provvide a nominare, a capo delle ASL, i “Manager”, ideali esecutori delle direttive che imponevano alle ASL l’obbligo del “pareggio di bilancio“. Essi vennero dotati di strumenti di contabilità per monitorare costi ed efficacia come fanno i privati. L’obbligo del pareggio di bilancio occupò il primo posto nella lista dei compiti di mandato del Manager.
La crisi istituzionale e politica del 1992, iniziata con “Tangentopoli, e la fine della “Prima Repubblica”, aveva creato un vuoto di potere e una forte spinta al cambiamento. Lo spirito della riforma Sanitaria di Tina Anselmi, basato su Universalità, Equità e Globalità crollò davanti alla necessità di stringere i cordoni della borsa per ottenere il pareggio di bilancio. Lo Stato si liberò del problema della gestione della Sanità e lo trasferì alle Regioni presentandolo come un atto di distribuzione democratica di prerogative statali alle amministrazioni regionali. Ne conseguì che da un’unica Sanità di Stato nacquero 21 Sanità regionali. La redistribuzione della competenza in sanità dallo Stato alle regioni, e la trasformazione gestionale da pubblica a privatistico-contabile, avvenne in un decennio circa e con plurime riforme: il DPR 502/1992 di Francesco di Lorenzo, il DPR 517 /1993 di Maria Pia Garavaglia, il DPR 229/1999 di Rosy Bindi.
Queste riforme ottennero l’equilibrio di bilancio nelle ASL ma i legislatori non previdero quali sarebbero state le loro conseguenze sul funzionamento del Sistema Sanitario futuro.
Nonostante le buone intenzioni delle riforme, da allora, l’universalità, l’equità e globalità delle cure sono andate decadendo fino allo stato attuale. Ad aggravare questa carenza si è aggiunta l’assenza di una programmazione sanitaria pubblica che tenesse conto delle modifiche nella composizione demografica della cittadinanza. Oggi, infatti, da quello che chiamiamo “inverno demografico”, stanno nascendo nuove e crescenti necessità di assistenza sanitaria.
L’evoluzione della curva demografica fa ritenere che fra 15-20 anni la metà della popolazione italiana sarà formata da pensionati. Dati i pochi bambini di oggi si può prevedere che fra 20 anni avremo pochi lavoratori attivi, capaci di produrre reddito e di conferire tributi alle casse dello Stato. Ne consegue che mancheranno i soldi sia per le pensioni sia per la Sanità pubblica. Già oggi gli ultra-sessantacinquenni sono, in Italia, il 25% della popolazione; in Sardegna sono di più. I nuovi nati sono 1,2 per coppia in Italia; in Sardegna sono 0,8 per coppia. Nel Sulcis Iglesiente la percentuale di bambini è ancora più bassa. Siamo nella via dello spopolamento. Lo spopolamento nel nostro territorio è vieppiù aggravato dall’emigrazione dei nostri giovani verso le città per lavoro. Pertanto, oltre allo spopolamento, stiamo registrando l’invecchiamento relativo degli abitanti della nostra Provincia. Il dato demografico che pesa sulle province è tale da suggerire ai governanti sardi l’immediata riattivazione di tutti gli ospedali provinciali, pena la rinuncia alle cure per molti. I tanti vecchi sempre più soli, che domani saranno più numerosi, avranno bisogno di essere assistiti in ospedali vicini.
Il fenomeno demografico è stato ignorato a favore degli indirizzi programmatici finalizzati alla riduzione della spesa pubblica. Ne è derivato il disimpegno progressivo dello Stato dalla Sanità. Il primo atto del disimpegno avvenne con le tre leggi di riforma sanitaria degli anni novanta: quelli che estromisero i politici dalla gestione della Sanità pubblica. Tuttavia la norma più radicale escludente le Province e i Comuni dalla Sanità avvenne con una modifica della Costituzione. Si tratta della variazione del Titolo V, parte seconda. Per dare l’avvio a questa nuova Sanità di oggi vennero modificati soprattutto gli articoli 114 e 117. La modifica passò con la legge del 3 ottobre 2001, dopo referendum popolare.
Con quella modifica la Sanità divenne competenza delle regioni (legislazione concorrente). Allo Stato restò solo il compito di enumerare i principi generali dell’assistenza: i LEA (Livelli Essenziali di Assistenza). Nonostante l’intento democratico di coinvolgere pienamente le Regioni nella Sanità, si ebbe un effetto secondario non ricercato: la disgregazione della Sanità di Stato distribuita a 21 Regioni che dettero luogo a 21 diversi Sistemi sanitari regionali. Accadde che, nel rispetto dell’obiettivo dell’equilibrio di bilancio, le regioni ricche fecero bilanci ricchi mentre le regioni povere poterono fare bilanci modesti erogando un’assistenza sempre più inefficiente. L’aver ignorato questo aspetto condusse la Sanità nazionale in un percorso di divaricazione, tra nord e sud, della possibilità di tutti di poter accedere all’assistenza sanitaria e sociale con uguali diritti, e rese impossibile rispettare i parametri di Eguaglianza richiesti dalla Costituzione. L’opera formidabile attuata da Tina Anselmi (Equità, Universalità, Uguaglianza) venne demolita irreversibilmente con quell’atto costituzionale. Da allora sono comparse inaccettabili diseguaglianze regionali; l’equità nell’accesso all’assistenza sanitaria pubblica è ora un obiettivo irraggiungibile, ed è fonte di sofferenza per operatori e utenti. Oggi si comprende che, quando la Sanità pubblica era una competenza esclusiva dello Stato, esisteva un unico Sistema Sanitario Nazionale. In quel Sistema “unico” avevamo la garanzia di un unico gestore e di un unico Fondo per un unico Sistema Sanitario Nazionale, così come lo aveva ideato Tina Anselmi. Allo stato attuale le tre leggi di riforma degli anni novanta e le modifica del Titolo V della Costituzione hanno creato una vasta struttura sanitaria molto complessa e ormai i 21 Sistemi sanitari regionali sono entità definitive.
Dopo le riforme lo stesso assessorato regionale sardo è stato modificato: prima delle riforme era una struttura che gestiva direttamente il Sistema sanitario regionale. Dopo le riforme, a partire dal primo gennaio 2017, gli venne affiancata una nuova struttura chiamata ATS (Agenzia Tutela Salute) a cui vennero delegate molte storiche funzioni assessoriali. ATS era una espansione amministrativa della Regione concepita come una super ASL, posta a capo di tutte le ASL provinciali, con la funzione di ottimizzare i processi complessi come: gestione dell’erogazione di prestazioni sanitarie, pianificazione dei programmi di prevenzione, promozione della salute nel territorio, vigilanza sulla sicurezza alimentare, salute degli ambienti di lavoro, controllo delle strutture sanitarie, monitoraggio della spesa sanitaria, eccetera. Dopo tre anni il Governo regionale sardo ritenne più conveniente restituire alle ASL molte funzioni date ad ATS e, al suo posto, istituì ARES (acronimo di Azienda Regionale della Salute). Venne deliberata nel settembre 2020 allo scopo di gestire funzioni di supporto tecnico amministrativo per le ASL come: acquisti, personale, sanità digitale e formazione. Il suo obiettivo, che una volta era dell’assessorato, è quello di coordinare e rendere più efficienti i servizi sanitari e socio-sanitari in modo omogeneo su tutto il territorio regionale.
ARES è una struttura molto complessa che occupa, solo nel ruolo amministrativo, 415 dipendenti e svolge una funzione di intermediazione tra l’assessorato della Sanità e le ASL di tutta la Sardegna. Il complessivo apparato burocratico sanitario, che va dall’assessorato ad ARES e alle ASL, ideato per gestire la Sanità regionale è oramai definitivo, irrinunciabile e fondamentale per il funzionamento della Sanità pubblica sarda.
Nonostante questi grandi sforzi e la complessità strutturale raggiunta dal Sistema sanitario, le cose non sono migliorate. Davanti al quadro deprimente dello stato della sanità pubblica sarda, alla carenza di medici, infermieri e posti letto, alla difficoltà di essere inseriti in liste per interventi chirurgici, o per radioterapia, o per diagnostica endoscopica complessa, o per banalità come ricevere un consulto, non si può che valutare grave la crisi del sistema sanitario nostrano. Dopo tanti sforzi per escogitare nuove leggi l’assistenza sanitaria è peggiorata di anno in anno. E’ avvenuto il contrario di ciò che si voleva. L’espressione “eterogenesi dei fini” dei filosofi è un concetto che si attaglia bene al nostro caso: significa che eventi e progressi storici spesso non derivano dall’intenzione iniziale ma dall’azione complessa di diversi fattori e, spesso, gli esiti sono inaspettati e opposti a quelli voluti. Pensare, oggi, di poter risolvere il tutto con nuove riforme o nuove spese o nuova burocrazia, è probabilmente anch’esso un tentativo inane.
Partendo da queste considerazioni, probabilmente, si può tentare di intervenire su ciò che già abbiamo a disposizione, senza procedere a nuove, radicali ma inutili riforme.
Mario Marroccu