25 April, 2024
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Alcune settimane fa due chirurghi, il dottor Antonio Macciò, ginecologo-oncologo al Businco, e il dottor Stefano Camparini, chirurgo vascolare al Brotzu, hanno eseguito un intervento eccezionale su una donna affetta da tumore maligno. Si trattava di un cancro dell’utero invadente la parte sinistra della vescica, i grossi vasi arteriosi e venosi del bacino e i muscoli pelvici di sinistra.

La paziente versava in condizioni gravissime, da morte imminente. La febbre era persistentemente alta e dagli esami del sangue risultava uno squilibrio dei globuli bianchi simile a quello che si vede nei pazienti con Covid-19 in fase terminale. La paziente non aveva contratto il Covid; era invece in preda ad una “tempesta citochinica” indotta dal cancro.

Gli americani chiamano questo genere di chirurgia: “Interventi commando”. La definiscono come le operazioni di guerra particolarmente rischiosa.

L’intervento è stato distinto in due fasi: la parte demolitiva e la parte ricostruttiva. La “fase demolitiva” ha comportato l’escissione in blocco di quasi tutto il contenuto del bacino. Sono stati asportati: l’utero e annessi, la parte sinistra della vescica e un segmento terminale dell’uretere sinistro, la grande vena iliaca comune sinistra e la vena iliaca esterna che drenano il sangue venoso della gamba sinistra, la vena iliaca interna sinistra, il muscolo otturatorio interno sinistro (che serve a muovere la coscia), tutto il contenuto della fossa otturatoria costituito da ghiandole, grasso, nervi e vasi.

E’ stata una demolizione radicale.

Nella “fase ricostruttiva” il chirurgo vascolare ha ricreato un tratto venoso protesico per scaricare il sangue venoso della gamba sinistra. Il chirurgo ginecologo-oncologo ha proceduto a ricostruire la vescica e ad impiantarvi l’uretere sinistro.

L’intervento è durato 8 ore.

E’ noto che in Italia questa chirurgia così difficile viene eseguita al Policlinico Gemelli di Roma, ma non è noto come meriterebbe che il dottor Antonio Macciò fa questa chirurgia da molti anni, e la iniziò quando lavorava all’Ospedale Sirai di Carbonia. Negli stessi anni in cui apriva la strada a questa chirurgia al Sirai, egli aveva iniziato gli studi sul comportamento delle cellule Macrofagi nel cancro dell’ovaio. I Macrofagi sono cellule tissutali addestrate alla difesa dalle aggressioni batteriche, virali e tumorali.

Per capire come ci difenda questo esercito di “soldatini cellulari”, iniziò a raccoglierli nel liquido ascitico delle donne affette da cancro dell’ovaio, e iniziò a coltivarli. Con il suo “gruppo di studio” fin dal 1999 pubblicò osservazioni interessanti. Aveva verificato che queste “cellule soldato” producono una sostanza denominata Interleukina-6, e prese a dosarla in tutti i casi di tumore.

Tale mediatore chimico è un’arma potentissima che attiva altre cellule, i Linfociti. A loro volta, il Linfociti producono Interleukine di varie categorie, e scatenano un attacco difensivo multiplo per fermare l’invasore.

Si scoprì che queste cellule fanno una battaglia senza pietà nei confronti di chiunque sia coinvolto nello scontro. Ricorda l’impiego del gas Iprite nel fronte della prima guerra Mondiale: i tedeschi lanciavano il gas contro i francesi facendo strage ma, se per caso il vento cambiava direzione, il gas tornava indietro intossicando soldati del fronte tedesco facendo molte vittime. Infatti, invece di limitarsi ad uccidere il nemico (virus, batterio, tumore), le Interleukine dei linfociti massacrano anche le cellule amiche intaccate dall’infezione. In sostanza le cellule del rene, del polmone, del fegato, del cuore, eccetera, che sono state aggredite dall’infezione vengono uccise dal “fuoco amico” dei Macrofagi e Linfociti. Questa è la tempesta citochinica dell’infiammazione.

In questa guerra fratricida avviene il blocco della produzione di Linfociti, pertanto, diminuiscono di numero nel sangue. Al contrario, le altre cellule infiammatorie del sangue, i Granulociti, aumentano.

Antonio Macciò verificò e pubblicò, dal 1999 in poi, diversi articoli nelle riviste internazionali di Oncologia, di Ematologia, e di Immunologia. In Italia, la conferma ai suoi studi, proveniva dalla scuola universitaria milanese del professor Alberto Mantovani, immunologo.

Tutte le ricerche sull’infiammazione portavano a far ritenere che il grave deperimento del paziente con cancro fosse in ampia parte dovuto al meccanismo infiammatorio autoaggressivo.

Così si spiega il dimagramento, l’inappetenza e l’anoressia, la perdita di massa muscolare, l’astenia, l’anemia, l’insufficienza epatica, il danno renale, i disturbi della coagulazione (trombosi e emorragie) dovuti al danno epatico e al danno dell’endotelio dei vasi, le trombo-embolie, la febbre, la cachessia ed il decesso.

Tutto il disastro è dovuto all’infiammazione.

Ora, il suddetto intervento ginecologico e vascolare per un cancro invasivo dell’utero allo stadio T4, consente una verifica importante, cioè: la paziente, prima dell’escissione radicale del tumore, aveva febbre persistente, un numero molto alto dei granulociti neutrofili e un numero molto basso dei linfociti nel sangue. Si tratta di un quadro di laboratorio simile a quello che si trova nel Covid-19 in fase avanzata, premortale.

Dopo la rimozione della causa dell’infiammazione (in questo caso il cancro della paziente) la conta dei Granulociti e dei Linfociti è tornata rapidamente alla normalità; il motivo del miglioramento è legato al ritorno ai livelli normali delle Interleukine. Quando il tumore non c’è più, i Linfociti si riprendono. è il segno certo che la tempesta citochinica è finita. La vita può tornare.

Il caso descritto è una prova e controprova, col metodo galileiano, che i sintomi di decadimento profondo ed i dati di laboratorio su linfociti e citochine, sia nel cancro che nel Covid-19 sono fortemente legati all’infiammazione.

Questa pista, indicata da Antonio Macciò ed Alberto Mantovani in Italia, ed approvata dal mondo scientifico internazionale, è ormai una certezza, e su di essa sono state messe a punto terapie mirate.

Questa bellissima storia, nonostante la tristezza della vicenda umana della paziente, obbliga noi Sulcitani ed Iglesienti a rigorose riflessioni:

1 – Gli Ospedali di Carbonia e Iglesias 20 anni fa stavano molto bene. Questo significa che il decadimento organizzativo a cui assistiamo oggi non è dovuto a questioni di periferia geografica ma ad altre forme di periferia culturale e politica da individuare.

2 – La buona Sanità è legata alla corretta dotazione di personale Medico e Sanitario. Questo è il settore più colpito.

3 – L’ottima Sanità è dovuta alla competenza e alle qualità personali. Quell’intervento è stato eseguito in 8 ore. Significa che è stato fatto con l’intento della perfezione e della accuratezza, ignorando il tempo che scorre. Su questo bisogna riflettere molto.

4 – I programmi sanitari negli ultimi 20 anni sono stati concepiti per soddisfare algoritmi con finalità amministrative. Il caso descritto ci insegna invece che la componente umana professionale e individuale è centrale per spiegare il buon risultato, e la bravura non è inseribile in un algoritmo.

Ne consegue l’imprescindibile necessità di ripristinare e curare il personale degli Ospedali.

Mario Marroccu

Le riflessioni dell’amico Mario Marroccu, sul PNRR e sul ruolo e competenze che gli infermieri dovranno possedere, mi hanno sollecitato questo contributo, che riprende un interessante lavoro pubblicato dalla Redazione della prestigiosa Rivista del pensiero Scientifico “Assistenza Infermieristica e Ricerca”.
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) rappresenta un’opportunità imperdibile di investimenti, sviluppo e riforme per affrontare le sfide dei prossimi anni, con pacchetti di misure e interventi complementari tra di loro. Il PNRR è articolato in 16 componenti, raggruppate in 6 missioni:

Missione 1. digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura;

Missione 2. Rivoluzione verde e transizione ecologica;

Missione 3. Infrastrutture per una mobilità sostenibile;

Missione 4. Istruzione e ricerca;

Missione 5. Coesione e inclusione;

Missione 6. Salute.

Le misure previste sono in linea e rafforzano quanto previsto dalla Missione 5: Inclusione e coesione (Componente 2: Infrastrutture sociali, famiglie, comunità e terzo settore). Infatti – come dichiarato nel PNRR – solo attraverso l’integrazione dell’assistenza sanitaria domiciliare con interventi di tipo sociale si potrà realmente raggiungere la piena autonomia e indipendenza della persona anziana/disabile presso la propria abitazione,  riducendo il rischio di ricoveri inappropriati, anche grazie all’introduzione di strumenti di domotica, telemedicina e telemonitoraggio.
Nel testo della Missione 6 si riconoscono le disparità territoriali nell’erogazione dei servizi, in particolare di prevenzione e assistenza sul territorio; la mancata integrazione tra servizi ospedalieri, territoriali e sociali; i tempi di attesa elevati per alcune prestazioni; una scarsa sinergia nella risposta ai rischi ambientali, climatici e sanitari; l’importanza delle competenze digitali, professionali e manageriali e di un maggiore uso dei dati disponibili per poter migliorare la pianificazione sanitaria.
Il piano è indubbiamente un documento di grande respiro: la presenza degli infermieri è tangibile e nodale, soprattutto, nelle parti del Piano che orientano il futuro SSN verso la prossimità e la domiciliarità, aspetti che dovranno obbligatoriamente  prevedere una presa in carico della persona assistita, della famiglia, del reticolo sociale di sostegno e della comunità di riferimento, contestualizzata e personalizzata. Ruolo e spazi saranno figli delle competenze.
Nella Componente 1 della missione 6 (Salute) del PNRR è evidente il ruolo numericamente e qualitativamente significativo assegnato agli infermieri e gli investimenti, anche di notevole entità sulla professione infermieristica facendo riferimento ai progetti relativamente alle case di comunità 2 miliardi, al potenziamento dell’assistenza domiciliare 2.7 miliardi, istituzione di centrali operative territoriali (C.O.T.) finanziate con 280 milioni, 381 ospedali di comunità con un miliardo.
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che arriva dopo una serie di decreti nazionali e regionali atti a potenziare l’assistenza sul territorio (Decreto Rilancio del 19 maggio 2020; Piano pandemico influenzale 2021-23 per citarne solo due), rappresenta sicuramente un’opportunità per la professione infermieristica. Infatti, mai si erano visto esplicitare in una norma fabbisogni e relativi finanziamenti per portare, nelle case e sul territorio, professionisti, assistenza di base e specialistica, tecnologia e supporti informatici.
Nello specifico la Missione 6 del PNRR “Realizzare una nuova salute territoriale” si propone di:

– dare risposte integrate socio sanitarie a una domanda di salute costituita da bisogni complessi;
– potenziare l’assistenza domiciliare Integrata (ADI);
– garantire omogeneità di risposte tra regioni;
– potenziare infrastrutture tecnologiche e digitali;
– implementare competenze professionali, sia avanzate che specialistiche, di diversi professionisti sanitari: medici, con particolare riguardo alle cure primarie ma anche infermieri, fisioterapisti, assistenti sanitari e sociali;
– incrementare in termini assoluti il numero di infermieri, passando dall’attuale rapporto di 5,8 infermieri ogni 1.000 abitanti a 8,8 dello standard dell’Unione Europea.
Realizzare quanto previsto nel PNRR si scontra però con alcuni problemi che vanno affrontati nell’immediato: la carenza di infermieri, le competenze da garantire e l’organizzazione dei servizi.
I decreti legislativi che daranno applicazione alla riforma sicuramente daranno alcune risposte: è bene però sin da ora sollevare alcuni problemi e domande per tenere alta l’attenzione su aspetti che dovranno necessariamente trovare una riposta in modo tale che il PNRR diventi effettivamente operativo e non una dichiarazione di principi e una destinazione di fondi a strutture che non saranno poi in grado di operare.
Dove si reperiranno gli infermieri?
Il PNRR disegna un modello che dovrebbe portare a un riequilibrio dei luoghi di cura e dei modi di presa in carico dei bisogni dei cittadini, spostando l’asse degli interventi dall’ospedale al territorio. Per raggiungere questo obiettivo si punta a rafforzare l’assistenza domiciliare (con la presa in carico di almeno il 10% della popolazione ultrasessantacinquenne con problemi di cronicità o dipendenza), l’istituzione di 602 Centrali Operative Territoriali (COT) per il raccordo tra i diversi servizi sanitari e sociali, l’istituzione di 1.288 Case di comunità e 381 Ospedali di comunità. In ciascuno di questi contesti sarà presente la figura dell’infermiere: con competenze cliniche avanzate nell’assistenza domiciliare, con competenze di presa in carico dei problemi della famiglia e della comunità per l’infermiere di famiglia, con competenze cliniche e manageriali per gli infermieri degli ospedali di comunità, che saranno a gestione prevalentemente infermieristica.
È un piano che prevede un notevole incremento numerico che dovrà essere quantificato a breve termine.
Ci sono, però, diversi aspetti problematici, omessi o lasciati sottintesi, da affrontare e risolvere con urgenza.
Per illustrare meglio questi aspetti, ritengo opportuno far riferimento ad alcune considerazioni inviatemi dal Segretario Nazionale dell’Associazione Nazionale Dirigenti Professioni Sanitarie – affiliata COSMED, di cui faccio parte.
“Le Case di Comunità” – (ma non avevamo già le “case della salute”?) – assolutamente condivisibile il principio enunciato “dove il cittadino può trovare una risposta adeguata alle diverse esigenze sanitarie o socio-sanitarie, con la presenza di MMG/PLS/Infermieri … omissis…Ne vengono previste 1.288 (1/50.000 abitanti)!

Da capire:
a. i criteri distributivi, tenuto conto delle variabili “di contesto”, riportate nella tabella seguente ed i possibili accordi inter comunali;

b. i modelli organizzativi ed i sistemi di cura ed assistenza (non è “un’attività in tandem” come sostenuto da alcuni, ma una integrazione inter-professionale, con un impianto organizzativo interamente da ri-costruire, insieme al sistema delle cure primarie). Il fine è quello di implementare le attività di assistenza domiciliare (rif. DL 34/2020) e a favorire la presa in carico sia delle persone a rischio fragilità / disabilità / cronicità (il 3,7% delle persone da 65 a 74 aa e il 7% della popolazione con età > 75 aa – rif. Scaccabarozzi) per un totale  di 745.889 persone su 13.859.090), sia i circa 14 mln di persone, al momento in salute, ricomprese nella fascia di età > 65 aa, per le attività di promozione ed educazione alla salute e agli stili di vita sani, nell’ambito di progetti, percorsi e processi, definiti e condivisi con i MMG/PLS). Sta qui la differenza tra “prendersi cura” e “prendersi in carico”;
c. le necessità di risorse assistenziali (9.600 infermieri di comunità e famiglia, che vanno ad aggiungersi ai 10.500 infermieri necessari per l’implementazione dei pl di TI ed ai circa 3.100 infermieri necessari per la riqualificazione dei pl di SI, per un totale di oltre 23.000 infermieri – rif. DL 34/2020);
d. l’ipotesi di 96.088 infermieri disponibili dal 2027 rimane solo una ipotesi (il dato non è corretto in quanto il totale dei laureati non può scaturire dalla sommatoria dei posti messi a bando fino all’abilitazione del 2027, in quanto ci sono gli abbandoni, i fuori corso, etc.);
e. la stima di 26.018 infermieri pensionandi nel periodo 2020/2026 – I valori stimati presumibilmente sono in difetto, tenuto conto anche del fatto che il pensionamento non avviene all’età di 67 anni, come riportato, bensì ad una età più bassa di circa 4 anni; inoltre al 1 gennaio 2018 risultano n. 18.617 infermieri ricompresi nella fascia di servizio da 35 a 40 anni (i 2/3 – circa 13.000 già in quiescenza) e 65.000 ricompresi nella fascia di servizio da 26 a 35 anni (per una stima di circa 35.000 infermieri in quiescenza nel periodo 2020/2026 – fonte: min Salute);
f. a titolo conoscitivo (e per le necessarie comparazioni) nel periodo 2014-2018 sono usciti per pensionamento (SSN) 37.744 infermieri e ne sono stati assunti 37.731 (fonte MEF);
g. i neo-laureati (circa 50.000 nel periodo 2014-2018) hanno garantito il turnover e la copertura dei posti nelle strutture private (ospedaliere e residenziali);
h. potrebbe risultare utile conoscere i dati precisi relativamente alle assunzioni collegate al DL 34/2020 (TI/SI/Infermiere di comunità) e alle relative destinazioni, con la forte possibilità di riscontrare un utilizzo privilegiato per parziali compensazioni delle carenze di organici accumulate negli anni;
i. prima ancora è necessario definire le reali necessità criteri e standard per la determinazione delle dotazioni organiche (ospedali / territorio / residenzialità) e per la strutturazione degli staffing assistenziali, tenuto conto dei nuovi bisogni della popolazione e delle nuove esigenze di funzionamento delle strutture;
j. servono dati certi e non “ipotesi” ed è necessario affrontare la questione in maniera completa, evitando gli errori del passato (mettere “toppe” non serve a nulla … e spesso è maggiormente oneroso!), tenendo ben presente che ad un sistema assistenziale carente corrisponde sempre un grosso rischio per i pazienti.
Bozzi M. Il Pnrr va sostenuto, ma servono dati certi e rigore metodologico. Quotidiano Sanità 13 giugno 2021http://www.quotidianosanita.it/lettere-al-direttore/articolo.php?articolo_id=95678
Oltre tali considerazioni, bisognerà, ulteriormente, chiarire se l’importante incremento numerico di infermieri sarà “sottratto” alla compensazione del turn over del personale ospedaliero che andrà in pensione. Difficile pensare che al momento questa sia una decisione realistica, perché gli ospedali sono già in sofferenza di personale. Bisognerebbe, perciò, riprogrammare l’offerta formativa dei prossimi anni, tenendo ben presente che l’eventuale sforzo per l’aumento di questi numeri richiede congrui investimenti economici per aumentare le risorse umane (docenti, tutor, ecc.) e strutturali anche nelle sedi formative
universitarie e delle Aziende sedi di corso.
Sul versante delle risorse non vengono formulati parametri di riferimento. Non ci sono numeri ma un generico impegno “è stato previsto un incremento strutturale delle dotazioni di personale”. Un già sentito che non rinforza quanto al contrario è descritto in altre parti della Missione 6.

Continuare a proporre uno sviluppo formativo, tra l’altro necessario e condivisibile, senza però essere recepito dal mondo del lavoro attraverso un adeguato sviluppo di carriera e una remunerazione più consona causerebbe una ulteriore frattura all’interno della professione. Nei progetti che dovrebbero riorganizzare il nostro SSN non vi è traccia di tutto ciò.
L’analisi e le proposte inerenti la gestione della attuale scarsità di infermieri presenti sul mercato sono carenti nel PNRR: senza infermieri diventa impossibile non solo mantenere lo status quo ma anche avviare eventuali progetti innovativi. L’attuale carenza di infermieri resterà cronica se non si consentirà:
– un superamento del vincolo di esclusività dei dipendenti pubblici, resi finalmente liberi di portare la propria esperienza e competenza in quei settori dell’assistenza (domiciliare e residenziale) che maggiormente ne beneficerebbero. Si possono valutare possibili proposte quali collaborazioni con infermieri Libero Professionisti (esempio: infermieri di famiglia comunità contrattualizzati al pari dei MMG/PDLS e altri rapporti di lavoro in consulenza).
– un incremento delle retribuzioni, sia in termini assoluti che per il riconoscimento di responsabilità e competenze messe in campo. Oggi esistono sperequazioni che non valorizzano professionalità e retribuzioni.
Lo sblocco delle assunzioni nella pubblica amministrazione, per esempio, ha comportato una grave “emorragia” di infermieri che si sono dirottati verso Ospedali pubblici, sguarnendo le RSA e il territorio, laddove gestito tramite Cooperative. Le RSA sono in grave sofferenza per la carenza di infermieri e di conseguenza, gli standard assistenziali rischiano di non essere garantiti.
Gli investimenti proposti nel PNRR permettono alla stampa di titolare che verranno fatti maggiori investimenti sugli infermieri, dimenticando che tali provvedimenti sono necessari per la maggioranza dei casi per la carenza attuale e non tanto per un miglioramento qualitativo dei processi di cura.
Quale formazione e per quale infermiere
Leggendo orizzontalmente le Azioni 4, 5 e 6 si delinea uno scenario affascinante ma nel contempo altrettanto ricco di insidie. Quando nell’Azione 4 si parla di “ecosistemi dell’Innovazione (…) luoghi di contaminazione e collaborazione tra università, centri di ricerca, società e istituzioni local” e nell’Azione 5 si declina la Coesione e l’Inclusione affrontando “la qualità dell’abitare”, “la prevenzione dell’istituzionalizzazione degli anziano  autosufficienti”, “strategie per le aree interne” e i “servizi sanitari di prossimità”;, si viene a creare un processo che sfocia fisiologicamente nelle articolazioni dell’Azione 6 quali “casa come primo luogo di cura, assistenza domiciliare e telemedicina” e ancora nello “sviluppo delle cure intermedie”.
Per dare gambe alla professione perché sappia garantire un supporto consapevole e competente a quanto previsto dal PNRR si dovranno, sin da ora, rivedere i piani di studio, a partire dalla laurea triennale.
Colpisce in maniera preoccupante che non siano richiesti obbligatoriamente per i ruoli previsti requisiti di competenze specifiche avanzate e non siano previsti investimenti di formazione per gli infermieri domiciliari, di famiglia e di comunità e degli ospedali di comunità. Ancora più evidente risulta questa lacuna leggendo che, nella componente 2 della Missione Salute, è invece previsto (giustamente) il potenziamento delle borse di studio in medicina generale ma non avviene altrettanto per altri professionisti, limitando l’impegno alla realizzazione di percorsi di formazione su specifiche tematiche: un programma di corsi di formazione sulle infezioni ospedaliere (è ormai tanto tempo che il nome è stato modificato in Infezioni Correlate all’Assistenza (ICA), una formazione per figure manageriali per lo sviluppo della digitalizzazione del servizio sanitario.

Sembra trasparire la convinzione che un infermiere, con la sola formazione triennale, possa andare a ricoprire sul territorio ruoli di responsabilità clinica, assistenziale e manageriale, sia nell’assistenza diretta, sia nella prevenzione delle malattie, sia nella promozione della salute. L’Osservatorio nazionale delle professioni sanitarie istituito presso il Ministero dell’Università ha già dato indicazioni sulla necessità di formazione di competenze avanzate con master specialistici anche nelle realtà territoriali, come, peraltro, era già previsto dal profilo professionale del 1994.
È necessario modificare un approccio che rispecchia una cultura organizzativa risalente agli anni Settanta del Novecento, quello di un infermiere polivalente “adatto” (nel senso di adattabile) a qualunque contesto clinico assistenziale con la sola formazione di base. Approccio che poteva andare bene in un contesto di “responsabilità limitata” in quanto professionista sanitario ausiliario che doveva applicare correttamente in maniera intelligente le prescrizioni di altri professionisti. Oggi non solo è cambiata la normativa che assegna all’infermiere (e altri professionisti) una completa responsabilità nel proprio campo di azione professionale, ma sono cambiate soprattutto la natura e la complessità dei problemi e dei bisogni dei cittadini che rendono necessaria una formazione avanzata che renda possibile un’assunzione di responsabilità decisionale.
Naturalmente questo è un problema che riguarda tutti gli ambiti in cui l’infermiere svolge la propria professione, ma la riorganizzazione della sanità in senso territoriale pensata in generale nel PNRR può essere l’occasione per iniziare questa trasformazione. Senza la quale il raggiungimento degli obiettivi della prima parte della Missione 6 è destinato a fallire.
Il ruolo della tecnologia
Gli investimenti sono per lo più assegnati a riorganizzazioni che affidano alla tecnologia il governo dell’assistenza. Se da una parte la digitalizzazione e la teleassistenza sono elementi fondamentali, la reale presa in carico sembra sfumata in elementi tecnico-gestionali e non di centralità dei bisogni delle persone.
Anche se, chiaramente, è il bisogno di salute che anima l’erogazione dei servizi. Una fetta degli investimenti veramente importante è dedicata alle tecnologie e alla informatizzazione: sarebbe stato auspicabile investire su di essi ma a fattori inversi. Il fattore professionale legato alle competenze alle abilità e alle capacità relazionali rappresenta il motore trainante di tutto il processo di cura. Da sempre è noto che non sono le strutture né tantomeno le tecnologie e fare la differenza ma piuttosto i professionisti e le loro abilità professionali e la capacità di leadership dei team hanno sempre consentito all’organizzazione  di essere resilienti ed efficaci. Evidentemente le numerose prove offerte dai nostri professionisti durante questa pandemia non sono state sufficienti per convincere ad investire su queste dimensioni in modo più rilevante. È più semplice investire sulle tecnologie ma esse sono solo un mezzo non di certo un fine capace di garantire cure efficaci alla nostra comunità.
Pur consapevoli che l’alleanza con la telemedicina sia irrinunciabile, per evitare il venirsi a creare di nuove marginalità, in questo caso digitali, oltre alla ineludibile implementazione strutturale della connettività, servirà un intervento di affiancamento e di sostegno capace di evitare la spersonalizzazione della presa in carico.
Organizzazione dei servizi
Un altro degli aspetti da esplicitare è legato al tipo di organizzazione ed ai rapporti tra i servizi. Mancano il modello organizzativo e la governance dei processi. I progetti sembrano più una necessità formale da diffondere su tutto il territorio nazionale come strutture di frontiera, come prova della loro esistenza e non tanto della loro efficacia. L’analisi quantitativa del numero di infermieri da assegnare sembrerebbe far intendere questo e non altro. Dovrebbe esserci una maggiore consapevolezza dell’esiguità dell’incremento del numero x rispetto all’effettiva necessità ed ai criteri di dimensionamento degli operatori e alla necessità di pianificare i servizi in base agli esiti da raggiungere e non per prestazioni. Nei progetti di assistenza domiciliare si possono leggere indicatori di questo tipo: almeno una visita al mese fino ad un massimo di 15 giorni al mese nel caso di cure palliative. Non si trovano indicazioni di presa in carico e personalizzazione delle cure in base alla complessità assistenziale al nucleo familiare. Ancora, gli ospedali di comunità sono proposti con dotazione di organici infermieristici verosimilmente con rapporti pazienti/infermieri che al massimo potranno soddisfare il 10/1, in assenza di una riflessione sui modelli organizzativi, sulle competenze degli OSS (Operatori Socio Sanitari).
In un percorso di cambiamento, è fondamentale un ruolo forte di coordinamento centrale, per evitare la frammentazione dei servizi socio sanitari alla persona sul territorio: va strutturata una chiara cabina di regia che riconosca ruoli e processi che la garantiranno, altrimenti il grosso timore è che l’attuale strategia di progetto lasci autonomie operative regionali che se non ben governate porteranno ad ampliare ulteriormente la frammentazione dei servizi perdendo l’occasione, con le cure infermieristiche, di identificare questo ruolo come collettore dei bisogni di salute del singolo e della comunità. Nelle Regioni esiste troppa difformità in proposito e questo rappresenta un rischio anche per la gestione dei finanziamenti da destinare all’implementazione dei nuovi servizi.
Nei progetti si fa cenno a ruoli di coordinamento non ben definiti, mai a quelli di direzione in un contesto, quale quello sanitario, dove negli ultimi anni l’azione del management è stata indicata come indispensabile e strategica, vero e proprio volano di armonizzazione dei processi di cura che deve essere resa sempre più indipendente dalla politica. In questo ambito non una riga che indichi coinvolgimento progettuale, strategico e gestionale.
Sono poco chiari i rapporti con le ASL/ATS e con i distretti, che vengono nominati solo come sede di attuazione per 602 COT, strutture peraltro già presenti sotto altro nome, e affidate di fatto agli infermieri.

Poco chiaro anche il rapporto delle Case della Comunità con gli infermieri delle cure domiciliari dei distretti. Non si nomina il ruolo specialistico degli infermieri di famiglia e di comunità (infermieri di comunità nel Piano), che non possono essere assimilati agli infermieri con formazione di base attivi attualmente sul territorio. Gli studi  elaborati dall’OCSE e dall’OMS si basano sui Nurse Practitioner (NP), equivalente di una laurea magistrale clinica da noi non ancora presente. I NP hanno competenze e stipendi molto superiori rispetto agli infermieri con formazione di base.
Il PNRR assimila le due figure utilizzando il lavoro di divulgazione del ruolo portato avanti negli ultimi dieci anni dalla Federazione Nazionale Ordini Professioni Infermieristiche (FNOPI) e dall’Associazione Infermieri di Famiglia e di Comunità (AIFeC), senza riconoscere la funzione specialistica. In Italia inoltre, il riconoscimento delle specializzazioni si è interrotto nel 2008, ostaggio di rivendicazioni e posizioni regionali che giocano al ribasso sul ruolo infermieristico.
La collaborazione e il coordinamento tra gli infermieri di famiglia e di comunità previsti nelle case di comunità e gli infermieri delle cure domiciliari è un aspetto fondamentale per dare vita alle parole del PNRR e del Piano Nazionale di Prevenzione 2020-25.
Orientamento verso il pubblico o il privato
Un’ultima (non perché sia meno importante, anzi) nota di preoccupazione è la mancata chiarezza sul contesto nel quale si collocano gli investimenti delle strutture di prossimità sul territorio: se in una cornice pubblica o privata. Il PNRR non fa una scelta esplicita (il DM che definisce l’orientamento dovrebbe essere approvato entro il 31 ottobre 2021). I possibili scenari sono 2:
a. Mettere al centro il distretto, che governa sia le strutture ed i professionisti sanitari (magari anche i medici di medicina generale?) e sociali. Un governo pubblico, con personale dipendente, consente stabilità delle equipe, uniformità di contratti, investimenti sulla formazione, l’integrazione tra le diverse professioni e figure ed una regia dei servizi basata su una programmazione locale a partire dai dati che saranno resi disponibili dagli investimenti nelle strutture informatiche e nelle banche dati.
b. Continuare a lavorare con una logica prestazionale, che ha caratterizzato sino ad ora i nostri servizi territoriali, con scarso controllo del pubblico (basti pensare a quanto accaduto nelle RSA durante la pandemia). Quanto dichiarato nel PNRR non fa ben sperare “l’investimento mira ad aumentare il volume delle prestazioni rese in assistenza domiciliare” e non è chiaro il ruolo delle “602 Centrali Operative Territoriali (COT), una in ogni distretto, con la funzione di coordinare i servizi domiciliari con gli altri servizi sanitari”, che si sovrappongono ad una funzione che dovrebbe svolgere un distretto con ruolo centrale sul governo dei servizi.
Il PNRR è un documento tecnico di programmazione di ripartizione di fondi presi in prestito dalle generazioni future. I meccanismi di valutazione che propone non considerano il miglioramento della qualità di vita delle persone. ma mettono in campo gli strumenti affinché questo avvenga.
Si ribadisce la necessità che gli infermieri (al pari delle altre professioni, ma tenendo soprattutto conto del ruolo fondamentale che ricoprono per garantire continuità delle cure e presa in carico delle popolazioni) siedano ai tavoli Regionali dove vengono prese le decisioni, per portare l’esperienza concreta, i possibili problemi, le proposte.

Bibliografia
1. Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). https://www.governo.it/sites/governo.it/files/PNRR_0.pdf
2. FNOPI. Gli infermieri promuovono il Recovery Plan: protagonisti del cambiamento e dei nuovi modelli, 5 maggio 2021. https://www.fnopi.it/2021/05/05/fnopi-recovery-promosso/
3. Anessi Pessina E, Cicchetti A, Spadonaro F, Polistena B, D.Angela P, Masella C, et al. Proposte per l’attuazione del PNRR in sanità: governance, riparto, fattori abilitanti e linee realizzative delle missioni. https://www.panoramasanita.it/wp-content/ uploads/2021/05/Proposte-attuazione-PNRR.pdf
4. Bozzi M. Il Pnrr va sostenuto, ma servono dati certi e rigore metodologico. Quotidiano Sanità 13 giugno 2021http://www.quotidianosanita.it/lettere-al-direttore/articolo.php?articolo_id=95678
5. A cura della Redazione. Assist. Inf. Ric. 2021; 40 92-100

Antonello Cuccuru

Nella Storia Contemporanea sono in lizza due contendenti: il Coronavirus e l’Umanità. Fin dall’inizio della Pandemia molti affermarono che il Virus si sarebbe adattato all’Uomo e sarebbe diventato un innocuo “raffreddore”. Questa sottovalutazione sta tutt’oggi condizionando le scelte dei cittadini e le decisioni dei Governi. In realtà, è molto probabile che sia vero il contrario e che cioè il virus non si adatterà mai a noi e, piuttosto, noi ci dovremo adattare al virus. Esso vive sulla terra da sempre ed è estremamente più antico dell’uomo.
L’ominide Lucy visse due milioni e mezzo di anni fa ed il primo Homo Sapiens comparve appena 500.000 anni fa. Il virus esisteva da miliardi di anni prima e, probabilmente, come sostengono i genetisti americani, sono stati l’origine della vita sulla Terra. All’inizio di tutto, dunque, c’erano i Virus.
Se questa ricostruzione è vera, dobbiamo essere più rispettosi nei confronti del virus perché è un nostro antenato. Ebbene, esso non è mai cambiato, è rimasto come era nei primordi, invece Noi siamo il risultato di molti cambiamenti evolutivi. L’idea che il virus cambi in pochi mesi, per adeguarsi alle nostre esigenze, è senza basi. Degli altri virus con cui l’Uomo si è scontrato, si conoscono le vicende: il virus del Vaiolo ha ucciso uomini ed animali in tutti i millenni della storia conosciuta; oggi esso è scomparso per effetto delle vaccinazioni obbligatorie di massa; esiste solo in laboratori speciali e, per quanto si sa, non si è mai modificato a nostro favore. Così pure i virus della Poliomielite, della Varicella e del Morbillo, non si sono mai modificati ed oggi vengono tenuti a bada dai vaccini. Non sono mai cambiati, se non in peggio, i microbi della Tubercolosi, della Difterite, del Colera, del Tetano, della Rikettsiosi, della malattia di Lyme.
Si sostiene che il microbo della Peste Nera del 1347 sia spontaneamente scomparso improvvisamente nel 1700. Non è vero. Esiste tutt’oggi nel Tibet e nel Deserto della California, ed è sempre terribilmente mortale. Piuttosto, è vero che venne battuto il vettore del microbo, cioè la pulce del ratto nero asiatico (Rattus Alessandrinus), ma ciò avvenne per un cambiamento ecologico dovuto alla migrazione in Europa del ratto marrone del Nord (Rattus Norvegicus). Questo nuovo ratto, essendo più prolifico del ratto nero, occupò, per prevalenza numerica, il territorio europeo e si sostituì al ratto nero della peste. E’ vero che ne ereditò le pulci, tuttavia il mantello lanoso del ratto marrone ha uno strato profondo di lanugine talmente fitto da creare un ambiente invivibile per le pulci, e le pulci vi muoiono. Una volta scomparse le pulci ed il ratto nero, scomparve la Peste Nera.
Si può sperare in una mutazione benigna del Coronavirus, però per ottenerla, bisogna che mutino contemporaneamente tutte le varietà esistenti al mondo oggi. Dato che ciò è impossibile, ne consegue che la teoria che il Covid-19 diventi un innocuo raffreddore è ottimistica e anche molto pericolosa, a causa della sottovalutazione che implica. La sottovalutazione è stata fin dall’inizio il vero avversario che ci ha impedito di contenere la Pandemia.
Questa premessa porta a concludere che Noi dobbiamo adeguarci al virus perché esso è vincente. Sta succedendo un fenomeno epocale. Il virus ci sta cucinando lentamente come si fa con le rane vive in pentola. Il virus ha colpito il consorzio umano esattamente nel cuore di quel meccanismo dell’evoluzione neurologica della corteccia cerebrale che ha portato allo sviluppo della specie umana. Con la crescita della massa cerebrale, che è una grande centrale di comunicazione, avvenne il distacco di un ramo dall’albero della linea evolutiva dei Primati, quello del genere Homo. Il genere Homo ha la facoltà del linguaggio, della comunicazione verbale e dello scambio di informazioni che sta alla base della associazione. La necessità di comunicare compulsivamente ha indotto questo genere di ominidi all’aggregazione, al contatto fisico tra gruppi umani diversi, allo scambio di idee e beni e all’eliminazione del distanziamento. Sfruttando queste qualità, la specie Umana ha ideato le regole della convivenza sotto forma di Politica, Religione, Cultura, Commercio, e ha dato luogo alla organizzazione sociale, dapprima a livello di tribù, poi a livello di coordinazione di gruppi sempre più numerosi fino alla fondazione delle città ed alla costituzione delle Nazioni.
Da due anni il Covid-19 ci sta costringendo al regresso delle regole di aggregazione sociale e sta inducendo la lenta e impercettibile destrutturazione delle basi su cui la Società Umana è fondata, e cioè: l’associazionismo, la libertà di movimento, il trasporto di uomini e merci, l’arte, la scuola, la famiglia. Messa in questi termini, la Covid-19 non è una semplice malattia ma è un pericolo per la Società Umana così come oggi è costituita.

Se le cose stanno in questi termini, il problema è la sopravvivenza e, pertanto, è giustificato sostenere la formula pronunciata da Mario Draghi nel mese di luglio 2012 “ Whatever it takes”, cioè: bisogna fare «qualunque cosa sia necessaria», pur di uscire dalla Pandemia. Questa formula è facile da dire ma difficile da concretizzare in atti.
Proprio in questo frangente pandemico così delicato, siamo finiti in una disarmonia di voci contrastanti. Troppi pareri estemporanei, troppe ipotesi senza fondamenti scientifici, insomma confusione.
Alessandro Manzoni, per rendere meglio una situazione di conflitto dovuto alla nebulosità delle idee, inventò la metafora dei “galli di Renzo”. Invece, Winston Churchill, non riuscendo a mettere d’accordo tutti, arrivò a mettere in dubbio l’idea stessa di Democrazia, sostenendo che essa è la “peggior forma di Governo, eccezion fatta per tutte le altre forme”.
Anche oggi sta avvenendo che, Politici, Cittadini, Nazioni, piuttosto che risolvere il problema della Pandemia con un metodo condiviso e univoco, stanno affastellando in modo caotico una serie di problemi, diversi fra di loro e tutti importantissimi come: l’obbligo vaccinale, il suicidio assistito, la questione gender, la riforma del Fisco, il reddito di cittadinanza, la quota 100, il Patto Atlantico, la Via della Seta, il terrorismo informatico Hacker, il 5G, la scelta dei motori elettrici, la carenza di microchip, etc…, e ora, come se non bastasse, l’abbandono rovinoso dell’Afghanistan.
E’ difficile armonizzare le idee su un quadro storico mondiale e nazionale così complicato. In questo contesto, necessita fare una scaletta delle precedenze sui ragionamenti da impostare. Per adesso può essere utile fermarsi a riflettere sul problema dell’obbligo vaccinale. Si o No?
In premessa, si è tentato di dimostrare che la speranza che il virus attenui la sua aggressività è un’illusione. Pertanto, il virus non si adatterà alle esigenze dell’Uomo ma sarà l’Uomo a chinare la testa e si adatterà al Virus. Date queste condizioni di debolezza non esiste possibilità di trattativa e non ci rimane altro che il “Whatever it takes” di Mario Draghi, cioè dovremo adattarci a “qualunque cosa serva” per attenuare il pericolo pandemico che incomberà per molti anni ancora.
Il Vaccino è l’unica difesa oggi esistente. Fino ad oggi sono state messe in atto procedure molto intelligenti per indurre tutti i cittadini a vaccinarsi, tuttavia, il risultato non è soddisfacente, perché persistono sacche di umanità non vaccinata nelle quali il virus selvaggio prolifera. Da lì il virus riprende forza per attaccare anche i cittadini già vaccinati. Il Green Pass è uno strumento efficace ma l’applicazione è un po’ macchinosa e genera avversione.
Il Green Pass è stato adottato per impedire l’accesso dei non vaccinati nei luoghi di assembramento sociale e viene percepito come un surrogato dell’obbligo vaccinale universale. Questo è un punto delicato che necessita di chiarezza. La chiarezza la fornisce l’Articolo 32 della Costituzione, laddove dice che «nessuno può essere costretto ad un trattamento sanitario…. eccetto nei casi in cui vi sia l’obbligo di Legge». L’articolo è esplicito: il Governo ha il potere di emanare una legge che obblighi alla vaccinazione universale tutti i cittadini. Tale legge renderebbe inutili tante procedure di controllo capillare quotidiano.
Al mistero sulla titubanza se applicare o no la Costituzione si aggiunge oggi un altro problema che, per la verità, non è un vero problema. Si tratta della cosiddetta terza dose vaccinale. Questo giornale già un anno fa rese noto che il vaccino a RNA messaggero, secondo gli sperimentatori avrebbe conferito un’immunità della durata di 8 mesi circa. Ciò significa che coloro che sono stati vaccinati con 2 dosi a febbraio 2021, si troveranno scoperti, da un punto di vista immunitario, ad ottobre 2021. Pertanto, da ottobre tutti i vaccinati di febbraio dovranno essere considerati “non vaccinati” e dovranno, necessariamente, essere rivaccinati.
Dato che il Coronavirus non se ne andrà da questo pianeta, ma rimarrà per sempre con noi, si deve desumere che dovremo vaccinarci almeno una volta all’anno per sempre. Fu per questa considerazione che proponemmo ai nostri Politici del Sulcis Iglesiente di chiedere l’istituzione di un Reparto Infettivi, o un Covid Hospital, con personale medico ed infermieristico, da mantenere attivo per molti anni ancora. Nè più né meno di quanto si fece nel 1900 con gli Ospedali ed i Preventori antitubercolari di Iglesias e Carbonia.
Nel caso della Tubercolosi quei Preventori furono efficacissimi. Produssero la rarefazione progressiva del microbatterio tubercolare fino allo stato attuale di pacifica convivenza con pochi casi all’anno.
Oggi la vista di quegli edifici per la cura e la prevenzione, ormai dismessi ed abbandonati nel nostro territorio, suscita stupore. Eppure, sono la prova certa che in periodi in cui l’Italia era veramente povera si affrontarono con decisione campagne durissime per l’eradicazione di tubercolosi, tracoma, malaria, poliomielite, ed il contenimento di difterite, morbillo, vaiolo, pertosse, echinococcosi, brucellosi, tifo, che devastavano la vita e l’economia.
Anche nel secolo scorso e nel precedente, vi furono movimenti di opinione contrari alle vaccinazioni. Ai primi del 1900 vi fu un movimento molto seguito che sosteneva, contro il vaccino antivaioloso, la teoria che l’inoculazione di materiale vaccinale antivaioloso tratto dai bovini avrebbe provocato un cambiamento (genetico) dell’Uomo inducendo il minotaurismo, ovvero la nascita di figli per metà uomini e per metà tori, come nel mito di Dedalo alle prese col Minotauro di Minosse.
I Governi di allora capirono che esisteva un’epidemia che manteneva attive tutte le altre: l’analfabetismo.
Ne derivò la necessità di alfabetizzare la popolazione, istituendo l’obbligo alla scolarizzazione elementare delle nuove generazioni. L’istruzione obbligatoria fu il primo vaccino che spianò la strada all’uscita dalle epidemie. Mi pare si possa sostenere che anche oggi la Scuola possa essere l’arma vincente.
Oggi, nell’attesa che i Governanti trovino la determinazione giusta per applicare pienamente la Costituzione, cosa possono fare i nostri Politici locali? Certamente potrebbero pretendere che nei fondi del PNRR, Missione 6, destinati alla ristrutturazione degli Ospedali decadenti, si trovi il finanziamento necessario per istituire il “Reparto infettivi” al Sirai di Carbonia, così come venne previsto con un piano governativo negli anni ’90 , quando il Commissario straordinario della ASL 17 era il dottor Tullio Pistis, e fece portare a termine i lavori per la costruzione del padiglione a tal fine dedicato. Sarebbe grandioso il sentimento di riconoscenza che avremmo se sapessimo che in un Reparto infettivi dedicato vengano curati i Covid positivi, vicini ma separati dagli altri reparti e messi in sicurezza. I progettisti previdero sistemi di aerazione a pressione negativa per impedire la diffusione del virus. Dotarono la struttura della possibilità di avere una sala parto ed una piccola sala operatoria con terapia intensiva annessa e la possibilità di avere anche un rene artificiale per la dialisi separata. Nel 1990 si realizzava fantascienza. Similmente può essere attivato il Covid-Hospital ad Iglesias, già deliberato dalla Regione un anno fa.
Queste opere, sarebbero i primi atti di ricostruzione della Sanità del Sulcis Iglesiente.

Mario Marroccu

Gentile Direttore, non è consuetudine dell’Ordine di entrare nel merito di libere riflessioni pubblicate sul suo giornale da chiunque e a qualunque titolo poste in essere in tema di sanità pubblica e privata, ospedaliera o territoriale, di qualità o critica. Le chiedo, oggi, di ospitare una breve replica alle fuorvianti considerazioni del dr. Mario Marroccu sugli Ospedali di Comunità, che nel Sulcis Iglesiente non esistono, e sulla professione infermieristica che presiedo nel Sulcis Iglesiente e che è ben impegnata in tutt’altro che in mansioni di mera igiene alla persona.

In tutta Italia gli ospedali di comunità sono un luogo vicino ai cittadini, riconoscibile dai cittadini, aperto all’azione infermieristica ai cittadini. Non nel Sulcis Iglesiente e in ASSL Carbonia, dove il suo numero equivale a zero. In tutta Italia, per sua natura l’infermieristica si integra con i professionisti sanitari del territorio, è un vaso comunicante in un sistema di vasi comunicanti e non ha interesse alcuno a proporsi autoreferenzialmente e a collocarsi in una posizione di non veduta e di non ascolto. Anche nel Sulcis Iglesiente e in ASSL Carbonia, dove il numero degli Ospedali di Comunità equivale a zero, l’infermieristica si integra e si relaziona con il sistema e non si isola in se stessa.

In tutta Italia l’Ospedale di Comunità non è un progetto, è un’opportunità residenziale in grado di erogare assistenza sanitaria di breve durata, quindi dedicata ai cittadini utenti del SSN che, pur non presentando patologie acute ad elevata necessità di assistenza medica, non possono tuttavia essere assistiti adeguatamente a domicilio per motivi socio sanitari. E il territorio del Sulcis Iglesiente, significativamente intriso di motivazioni ostative ad una presa in carico domiciliare, è privo di Ospedali di Comunità.

La responsabilità clinica di un Ospedale di Comunità è di un medico di medicina generale, la responsabilità organizzativa e gestionale di ogni singolo modulo tocca invece al coordinatore infermieristico.

La responsabilità assistenziale spetta ovviamente all’infermiere secondo il proprio profilo professionale, il proprio Codice Deontologico, le proprie competenze ed esperienze, e garantendo la continuità assistenziale nelle 24 ore. Durante le ore diurne si avvale del responsabile clinico della struttura, nelle ore notturne e nei giorni festivi e nelle ore prefestive si attiva quando necessario con il l Servizio di continuità assistenziale, ed in caso di emergenza attiva il Sistema di Emergenza Urgenza territoriale, come avviene in tutti i servizi sanitari extra-ospedalieri.

All’interno dell’ospedale di comunità è inoltre inserito l’operatore socio-sanitario, responsabile di attività e funzioni domestico alberghiere.

Piaccia o meno, è quindi un modello multidisciplinare.

Non riconoscere, ostinarsi a non riconoscere o non avere proprio contezza urbi et orbi dell’evidenza che l’Ospedale di Comunità svolgerebbe una funzione intermedia tra il domicilio e il ricovero ospedaliero, è quantomeno ingeneroso ed anacronistico, pur comprendendo la forma mentis di un esercizio professionale medico ancorato al passato e superato dai tempi e dati fatti.

Ridurre quindi la digressione sugli Ospedali di Comunità focalizzandosi su un presunto limite nell’agire infermieristico e su un altrettanto fantomatico esercizio professionale basato su mansioni e non su competenze, non rende un buon servizio alla corretta informazione.

L’art. 44 della legge di riordino della rete ospedaliera è identico all’art. 8 della legge regionale 17 novembre 2014 n. 23. Gli Ospedali di Comunità devono essere resi fruibili e non solo previsti sulla carta. Se resta una scatola vuota l’Ospedale di Comunità previsto nell’ex Civile di Iglesias, meglio comunque nemmeno prevederlo, anche se qualcuno parrebbe non essersi accorto della sua inesistenza, e quindi una domanda sorge spontanea: ma di cosa stiamo parlando?

Tanto ritenevo di portare alla sua attenzione e di quella dei suoi lettori per una corretta informazione-

Graziano Lebiu

Presidente OPI Carbonia Iglesias

Dai quotidiani sardi ci provengono tre generi di notizie preoccupanti:

  • Gli incendi 
  • Il ritorno in “zona gialla”
  • La carenza  di medici.

Gli incedi sono dovuti alla meteorologia e a calcoli criminali.

La “zona gialla” è una minaccia concreta.

La mancanza di medici è invece un mistero da chiarire, visto l’enorme numero di medici in pensione non utilizzati.

Gli unici che si preoccupano e che si agitano, nella piramide della politica, sono i sindaci. Ovunque, in Sardegna, avvengono manifestazioni spontanee di Sindaci, con tanto di fascia tricolore a tracolla, che sfilano in piazza per protestare, ritenendo che la carenza dei medici di base nei paesi e nei Pronto soccorso degli ospedali sia una forma di abbandono delle autorità sovraordinate. Paradigmatica è stata la dimostrazione di sindaci nella superstrada 131.

Negli ospedali di Iglesias e Carbonia il depauperamento degli organici negli ospedali è serio: i reparti di ricovero e servizi specialistici sono dimezzati, gli altri reparti sono  ridotti ad un quarto del personale medico e tecnico; altri reparti ancora sono costretti ad essere accorpati e ridotti per sopravvivere; altri ancora sono chiusi per consentire le ferie estive che la legge impone al personale. Tutto questo, sta avvenendo nel bel mezzo di una pandemia recrudescente.

In questo periodo vacanziero, da cui proviene il 13 per cento del PIL nazionale, stanno avvenendo manifestazioni contro il green pass; c’è chi ritiene che bastino i vaccini a fermare il virus. Ciò avviene, nonostante i mezzi governativi di informazione stiano ripetendo che c’è una ripresa della mortalità da Covid-19 e che il 14 per cento dei morti è stato vaccinato con due dosi; tale dato certifica che il vaccino non protegge dal virus ma serve ad attenuare la gravità della malattia. Tutti, anche i vaccinati, la possono contrarre, ne è la dimostrazione il caso del signor G.L di Carbonia, anni 74,  regolarmente vaccinato con due dosi, che questi giorni è finito sui giornali perché, avendo manifestato i sintomi ingravescenti di un Covid-19 in forma acuta, è finito all’ospedale Sirai; da qui, imbarcato su un’ambulanza, è stato trasferito all’ospedale Binaghi di Cagliari. Giunto al Binaghi, che funge da centro per pazienti Covid, i medici si sono affrettati a comunicargli che il loro reparto era pieno di malati in terapia intensiva e non potevano accettarlo. Il nostro concittadino è rimasto ricoverato nell’abitacolo dell’ambulanza per 24 ore, in attesa che si liberasse un posto letto nella struttura ospedaliera.

Qui si delinea un mistero della nostra ASSL. Abbiamo dimenticato che un anno fa venne deliberato dalla Giunta regionale l’istituzione di un Covid-hospital al Santa Barbara di Iglesias per accogliere i pazienti del Sulcis Iglesiente. L’omissione è finita nella “cupio dissolvi” della nostra organizzazione sanitaria. Iglesias, tra le nostre città, è la più colpita dall’impoverimento sanitario. In questi giorni, al CTO di Iglesias verrà chiuso il reparto di Chirurgia generale per mancanza di personale medico ed infermieristico, e tutte le urgenze verranno convogliate al Sirai di Carbonia. Anche a Carbonia vi è il problema del personale medico ed infermieristico e, per compensare la carenza d’organico, si sono dovuti accorpare due reparti chirurgici, riducendone le sedute operatorie routinarie ad una per settimana. Tutto ciò, è conseguenza della penuria cronica di personale;  non ci risulta che esista un piano strategico risolutore, e nessuno avanza proposte.

Per la verità, un Piano c’è, ed è molto grosso: si chiama PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza). La parte del Piano che dovrebbe ricostituire la macchina sanitaria si chiama “Missione 6”. L’ha confezionata il governo Draghi ed è stata approvata dalla Commissione europea da Ursula Van der Leyen. Il finanziamento messo a disposizione dall’Europa è enorme. Si tratta di 209 miliardi di euro. Di questi, ben 80 miliardi sono un regalo dell’Europa, mentre 129 miliardi sono puro debito da restituire. Il finanziamento eccezionale va speso entro i prossimi 5 anni. Ben 20 miliardi del Piano sono destinati alla Sanità. Cinque miliardi sono stati già impiegati per altro; ne rimangono 15 da spendere.

Le voci di spesa sono queste:

  • Digitalizzazione del SSN (Sistema Sanitario Nazionale);
  • Medicina di prossimità nel territorio (Case della salute e Ospedali di Comunità); 
  • Strumenti tecnologici (TAC; risonanze magnetiche; ecografi, etc…)
  • Finanziamento Centri di Ricerca;
  • Corsi di aggiornamento per il personale dipendente;
  • Ristrutturazione degli Ospedali fatiscenti.

Gli Ospedali in Italia sono tanti ma soltanto 280 di essi sono veramente importanti. Sono quelli di I e di II livello. In Sardegna ci sono 2 ospedali di II livello (Brotzu e Azienda ospedaliero universitaria di Sassari) e 7 ospedali di I livello. L’ospedale Sirai di Carbonia è uno di questi 7. Questi ospedali verranno dotati di formidabili  apparecchiature tecnologiche e qui scatta un primo mistero: non verranno assunti né medici, né infermieri, né tecnici a tempo indeterminato. Ciò avverrà perché esiste l’ordine della UE di non aumentare la “spesa corrente.  La “spesa corrente” dello Stato è quella che tutti i mesi finanzia gli stipendi dei dipendenti e le pensioni. Ne consegue che è vietato assumere per non generare altra spesa corrente. Sono ammesse solo assunzioni temporanee. La domanda che sorge è questa: «Chi dovrebbe far funzionare le TAC e le Risonanze Magnetiche se non verrà assunto il personale specializzato dedicato? Lo sanno che al Sirai di Carbonia avevamo 9 radiologi e che oggi sono ridotti a 3?». Lo stesso ragionamento si applica per i tecnici specializzati. Conclusione: sugli ospedali e, soprattutto, su quelli del Sulcis Iglesiente, pende la “Spada di Damocle” del fallimento. Da questo si desume che tutti noi siamo candidati al destino del signor G.L. di 74 anni di Carbonia, ad essere rifiutati dal nostro Ospedale, ad essere imbarcati su un’ambulanza che dovrà condurci verso una destinazione senza speranza: gli ospedali respingenti di Cagliari.

Una grossa somma del Piano PNRR di Draghi è destinato alla “medicina di prossimità” nel territorio: si tratta della costruzione delle “ Case della salute” e degli “Ospedali di comunità”. Le prime non sono altro che gli attuali poliambulatori. Anche qui non si prevede l’assunzione di medici specialisti, però si prevede che vadano a lavorarci i medici di base. Per ora, si tratta solo di una ipotesi, perché tutti i sindacati dei medici di base non sono d’accordo e i medici staranno nei loro ambulatori.

Per quanto riguarda gli “Ospedali di Comunità” si progetta di darli in gestione agli Infermieri. E’ evidente che, senza i medici, gli infermieri, che non potranno certificare diagnosi né prescrivere farmaci, si limiteranno alla cura della persona (igiene) e i malati veri verranno inviati in ospedale; qui, per i motivi organizzativi anzidetti, faranno la fine del signor G.L. di Carbonia, ed imbarcati su un’ambulanza con destinazione…il nulla.

Con i fondi del PNRR verrà creata una rete digitale per la comunicazione tra il paziente adagiato a casa e l’ospedale; attraverso essa i nostri anziani avranno una pronta consulenza. E’ evidente che il redattore del Piano non ha esperienza di quanto sia difficile parlare con i pochi medici dei nostri ospedali, oberati da un lavoro che li assorbe totalmente; figuriamoci quanto saranno disponibili a rispondere alle infinite e-mail che riceverebbero dai 128.000 potenziali malati o parenti di malati del nostro territorio.  Non mi sembra tanto realistica neppure l’idea che vengano facilmente prodotti a domicilio tanti esami ECG e tante ecografie da spedire al cardiologo o al radiologo o al chirurgo dell’ospedale, visto la carenza disastrosa di medici di base nel territorio. Si tratta di un piano grandioso di acquisto di attrezzature tecnologiche che finiranno in un sottoscala visto che non è stata prevista l’assunzione del personale medico che dovrebbe utilizzarle.   

Senza il personale non si andrà da nessuna parte. Il PNRR ne vieta l’assunzione a tempo indeterminato e tutto comincia ad avere i connotati di un grande sogno a cui seguirà un brusco risveglio in un mare di debiti da ripianare.

Il caso del signor G.L. di Carbonia è un sintomo certo di una patologia che sta covando e stupisce che nei giornali e nella politica manchi un benché minimo accenno di dibattito su questo tema.

Gli unici che hanno percepito questa anomalia sono i sindaci, scendendo in piazza con striscioni e bloccando il traffico nella Superstrada per Sassari. Sono gli unici che hanno percepito che “non di apparecchiature TAC vive la Sanità” ma di “personale”.

Le radici dei mali del Sistema Sanitario Nazionale si trovano nel passato.

Dopo i tempi meravigliosi sperimentati con la Riforma 833/1978 del SSN, di Tina Anselmi, si iniziò l’arretramento sanitario nel 1992 col ministro liberale Francesco De Lorenzo. Quel ministro decretò il passaggio alla “privatizzazione” della Sanità pubblica. Con tale formula si intendeva risparmiare sulla Sanità attraverso la riduzione della spesa per il personale ed i Servizi.

Nel 1999 il sistema di risparmio venne regolamentato dalla ministra Rosy Bindi.

Poi nell’anno 2004, col Dlgs 311, il Governo Berlusconi pose un tetto alla spesa sanitaria minimizzando la sostituzione del personale andato in quiescenza. Addirittura si decretò che la spesa sanitaria, per ogni anno successivo, diminuisse del 1,4 per cento rispetto alla spesa del 2004.

Nel 2012, ai tempi del Governo Monti, il ministro Balduzzi ridusse drasticamente il numero dei posti letto negli ospedali da 6 posti letto per 1.000 abitanti a 3,7 posti letto per 1.000 abitanti. Proporzionalmente si ridusse il personale dipendente. Erano gli anni in cui in tutti i decreti compariva il proposito di “efficienza ed efficacia”. Con tali termini si intendeva «spendere di meno, con meno personale, ottenendo gli stessi risultati assistenziali».

Nell’anno 2015, col governo di Matteo Renzi, venne varata la legge nota con la sigla DM 70. Questa legge pose altri limiti ai posti letto e al personale.

Gli esecutori regionali sardi, nell’applicare la legge furono “più realisti del re”. Fu un disastro. Non soltanto non vennero rispettati i bassi parametri di posti letto e personale che ci veniva riconosciuto ma, per il Sulcis Iglesiente si procedette alla chiusura definitiva di reparti ospedalieri e dal depauperamento del personale medico e infermieristico ancora superstite.

Dal 1° gennaio 2020 la Sardegna è passata dalla Riforma della ATS alla riforma della ARES. Anche con questa Riforma non è stato preso in considerazione l’aumento dell’organico del personale sanitario.

Ora siamo in attesa di una legge che definisca i nuovi standard sugli organici del personale dei Servizi sanitari della Sardegna. E’ necessario che qualcuno dei nostri segua bene l’iter di questa nuova legge e verifichi che il nostro territorio non venga ulteriormente sacrificato.

Da questa ricostruzione storica si ricava l’informazione che il disastro sanitario in cui ci troviamo ha i nomi e i cognomi degli autori. Hanno partecipato tutte le parti politiche e tutte, alla pari, ne hanno la responsabilità.

Ci rimane una speranza. I sindaci.

Tuttavia i sindaci hanno bisogno d’essere sostenuti dall’opinione pubblica, la quale dovrebbe controllare i controllori che sono stati eletti.

Chi sono i controllori? Sono i rappresentanti dei cittadini inviati alla Regione, alla Provincia, alle Camere e al Governo.

Ma ancora più responsabili sono i controllori dei controllori, cioè Noi stessi.

Onestamente tutto questo disastro l’abbiamo lasciato crescere senza controllo e ne siamo responsabili. Siamo Noi stessi gli  autori della triste esperienza in cui è incappato il concittadino  G.L., di 74 anni, di Carbonia. Siamo in molti: 128.000 abitanti del Sulcis Iglesiente, e abbiamo la colpa di non aver stimolato adeguatamente i nostri rappresentanti. 

Mario Marroccu

Nella foto di copertina i sindaci della provincia di Oristano che hanno manifestato due settimane fa uniti in difesa del sistema sanitario territoriale

L’Ospedale Sirai fu un Presidio Ospedaliero che fungeva anche da “Casa della Salute” e da “Ospedale di Comunità”, in esso si sommavano sia la funzione ospedaliera che la funzione di ente di ricovero intermedio per la preparazione al “ritorno a casa”. Fungeva anche da “Hospice” per i malati tumorali terminali e da “Centro di Terapia Antalgica”. Il ricovero poteva durare pochi giorni o mesi. Oggi il Piano Sanitario Nazionale prevede che i ricoveri avvengano solo per ragioni puramente sanitarie e non debbano durare più di 7 giorni. Per mantenere la media sotto i 7 giorni, molti ricoveri durano solo 24 o 72 ore.
L’Ospedale degli anni ’70 e ’80, viceversa, aveva una missione sanitaria e anche sociale e a, tal fine, era organizzato come un’autarchica “Cittadella Ospedaliera”.
Oltre ai reparti di degenza per acuti e di lungodegenza, vi erano tutti i Servizi necessari ad una “comunità socio-sanitaria autonoma”: le cucine, la lavanderia e la stireria, la sartoria, la falegnameria, l’officina meccanica, gli idraulici, i carpentieri, i muratori, gli elettricisti, la centrale per la generazione autonoma di corrente elettrica e le caldaie, le case per le suore, per i medici e la chiesa col suo prete. Il prete si chiamava don Luigi Tarasco. Dato che allora si moriva molto (6-8 al giorno) e si nasceva molto (6-8 al giorno), don Luigi era molto attivo: molte estreme unzioni, molti battesimi, qualche matrimonio, e una Schola Cantorum. Politicamente era un Don Camillo alla Guareschi ed aveva il suo fucile da caccia e il cane per i tordi e le lepri di monte Rosmarino e di Santa Giuliana.
Raccontava d’essere giunto a Carbonia dal suo paese natale: Collodi, il paese di Pinocchio. «La storia del burattinoegli spiegava -, è la metafora della vita». Quel racconto serviva a mettere in guardia da quel genere di “Saltimbanchi” che avevano convinto Lucignolo e Pinocchio a seguirli verso il “Paese dei balocchi”. Poi quando i due si accorsero di avere la coda, gli zoccoli e le orecchie lunghe, capirono in ritardo d’essere caduti in inganno: erano pronti ad essere trasformati in tamburi di pelle d’asino. Don Luigi diceva: «Il problema nella vita è come fare a riconoscere i saltimbanchi«. Pinocchio, per don Luigi, non era una semplice favola ma era il racconto di un fatto reale che può capitare a tutti, e da cui bisogna guardarsi.
Carlo Collodi finì di scrivere “Pinocchio” nel 1883 proprio nel tempo della più forte fiammata di emigrazione italiana in Brasile. La coincidenza non è casuale.
Ed ecco il giocatore della Nazionale italiana Jorge Luiz Frello, detto Jorginho, l’idolo di tutti dopo Wembley, che irrompe in questa storia e dimostra che è tutto vero.
Carlo Collodi in quegli anni voleva mettere in guardia i migranti italiani dai “saltimbanchi” ma non ci riuscì con Giobatta Frello, trisavolo di Jorginho. Giobatta fu una vittima del tempo. Partito dall’altipiano di Asiago finì, dopo mille peripezìe, nell’orrore di Imbituba, nella provincia di Santa Catarina a Sud del Brasile, dove venne ridotto al rango di schiavo. Fu vittima della truffa organizzata da arruolatori di disperati che, in veste di compagnie di “saltimbanchi” facevano, come racconta in un documento padre Pietro Maldotti, «la propaganda più implacabile ed irrefrenabilmente più scandalosa fino a vedersene, nelle valli bergamasche, a predicare dalle carrozze, vestiti eccentricamente come saltimbanchi, su per i mercati e negli stessi sagrati delle chiese, facendo sognare ricchezze straordinarie e fortune colossali preparate per coloro che si fossero diretti in America». La truffa consisteva nel prestare i soldi per l’attraversata transoceanica fino al Brasile, con l’accordo che poi il prestito sarebbe stato facilmente restituito con i favolosi guadagni promessi. La realtà era un’altra. I poveretti, una volta arrivati in Brasile su carrette del mare, ammesso che ci arrivassero vivi, venivano inquadrati dai finanziatori come debitori di una somma che non sarebbero mai riusciti a ripagare e, trattenuti per garanzia, in un vero e proprio stato di schiavitù. Dopo lo sbarco venivano direttamente avviati a lavorare nelle piantagioni di caffè, di cotone, di canna da zucchero e alle miniere, dove erano venuti a mancare, per legge, gli schiavi neri. Il modo era esattamente identico a quanto succede oggi in certi posti del sud Italia con lo sfruttamento dei poveretti africani in mano ai “caporali”.
Il meccanismo della schiavizzazione dei bianchi era iniziato nel 1871 quando il primo ministro Josè Paranhos, visconte di Rio Branco, fece approvare dal parlamento brasiliano la “Ley do ventre libre”. Per effetto di quella legge, tutti i bambini che sarebbero nati dalle schiave nere, avrebbero goduto immediatamente dello status di “cittadino libero”. In breve i campi di lavoro si spopolarono di schiavi e fu necessario sostituirli con urgenza. In quegli anni, tutta l’Europa soffriva una crisi economica legata alla persistenza di un immenso latifondo inutilizzato ed all’industrializzazione con mezzi meccanici che aumentò il numero di disoccupati. I padroni delle piantagioni brasiliane, per riprendersi dalla scomparsa dei lavoratori schiavi a costo zero e preoccupati dall’improvvisa prevalenza di cittadini neri sui bianchi, organizzarono l’arruolamento di lavoratori bianchi europei in stato di povertà. Il metodo era semplice. Si organizzò una truffa colossale e capillare, con la promessa di favolosi guadagni con cui sarebbe stato restituito il debito contratto per le spese di viaggio in nave. Una volta arrivati in Brasile, gli immigrati vi sbarcavano con il peso dell’enorme prestito e venivano costretti ad accettare contratti miserabili con cui non riuscivano nemmeno a sfamare mogli e figli. Moltissimi morivano nei primi mesi per fame e malattie.
I sopravvissuti venivano trasformati in veri e propri “schiavi bianchi”.
I missionari italiani raccolsero prove di questi abusi e presentarono petizioni al Governo Italiano, affinché intervenisse a fermare quella truffa infernale. Il Governo reagì con la legge n. 2 del 31 gennaio 1901 ad opera del ministro degli Esteri Giulio Nicolò Prinetti. La legge disattivò il nodo centrale del meccanismo truffaldino:
il decreto proibì l’espatrio con viaggio pagato dal Brasile; da allora nessuno potè più partire usando prestiti brasiliani. Inoltre, venne istituito il “Commissariato Generale delle Emigrazione” che mise in atto questi provvedimenti:
– L’Italia si impegnava a proteggere i diritti dei migranti assicurando la sua protezione.
– Potevano gestire i viaggi transoceanici dei migranti soltanto le compagnie ritenute idonee dal Governo e che ottenevano la “patente di Vettore”.
– Erano consentiti imbarchi per l’emigrazione soltanto da tre porti autorizzati : Palermo, Napoli, Genova.
– Una “ Commissione Ispettiva” verificava che le navi fossero in possesso dei requisiti sanitari previsti dalla normativa.
– Al momento della partenza, saliva a bordo una Commissione governativa costituita da medici e militari che sorvegliava affinché le disposizioni di legge fossero rispettate e gli spazi a disposizione dei migranti fossero adeguati.
– Nel porto di arrivo i migranti trovavano ad accoglierli Patronati ed Enti di tutela del governo italiano che fornivano assistenza legale e sanitaria.

Nella metafora di “Pinocchio” sono rappresentati i grandi problemi di oggi:
– Il problema sanitario: come Pinocchio seppellì le monete d’oro con la promessa che sarebbe spuntato un albero di monete noi ci troviamo oggi a vedere il seppellimento dei nostri Ospedali nella promessa che poi spunti un Ospedale “Unico”.
– Il problema immigrazione : anche quei poveretti che oggi attraversano il Mediterraneo su carrette del mare, come il trisavolo di Jorginho sono stati spinti qui dai “saltimbanchi” dei loro paesi per trovarsi poi schiavi più di prima. Se l’Italia avesse un accordo bilaterale con i Paesi dei migranti, come la Legge Prinetti del 1901, non avremmo tanti disperati in mano agli scafisti.
– Il problema della ripresa economica con i sussidi e i prestiti europei: c’è da sperare che il Governo Draghi sia la “Fata Turchina” che ci salverà dal Gatto e la Volpe, e dalle torme di affaristi che saranno già in movimento.
Carlo Collodi “docet”, e alla fine ci fa anche capire che le fate non sono la soluzione, ma che dobbiamo salvarci da soli dai gatti, dalle volpi e dai saltimbanchi.

Mario Marroccu

E’ stata diffusa nei giorni scorsi l’intervista che il Direttore di “La Provincia del Sulcis Iglesiente”, Giampaolo Cirronis, ha raccolto dal dr. Rinaldo Aste il giorno della sua andata in pensione. Fino a pochi giorni fa, Rinaldo Aste era il Primario del reparto di Cardiologia dell’Ospedale Sirai di Carbonia. Ha lasciato l’Ospedale l’ultimo dei suoi Fondatori. In ordine storico, tra i “Primari fondatori” della Medicina Interna, si annoverano il dr. Enrico Pasqui, il dr. Cesare Saragat, il dr. Giorgio Mirarchi ed il dr. Rinaldo Aste.
I medici illustri che hanno fatto crescere il capitale di valore umano e scientifico del Sirai, sono molti, ma i componenti di questo elenco hanno generato, ognuno per la sua parte, nuove unità operative specialistiche che ora sono patrimonio definitivo della Comunità di Carbonia e del Sulcis: la Medicina Interna, la Cardiologia, la Neurologia, il Laboratorio, il Centro Trasfusionale, la Pediatria, la Nefrologia e Dialisi.
Come diceva il dr. Gaetano Fiorentino, primo Direttore Sanitario dell’Ospedale Sirai, «i Medici sono come l’acqua. Quando c’è, trovi naturale che ci sia e la ignori; quando manca ti accorgi della sua importanza». Ora stiamo facendo i conti con questa mancanza.
La politica di contabilità sanitaria degli ultimi 20 anni ha spogliato gli ospedali di personale, servizi ed attrezzature. L’Ospedale Sirai ha avuto un duro colpo che si è riflesso sul benessere fisico ed esistenziale del territorio; esso, infatti, non è soltanto una struttura muraria contenente Medici, Infermieri e Impiegati, è anche un luogo dell’identità collettiva. Nella visione popolare è il luogo sicuro, dove si registrano le fasi più importanti della vita, è cioè il luogo dove:
– si nasce in sicurezza,
– si curano le malattie,
– si muore in modo civile.
L’Ospedale è un luogo carismatico che appartiene alla sfera del sentimento popolare del conforto solidale nel momento della sofferenza. E’ ben distante dall’idea di Centro gestionale della Sanità, la cui separazione dal popolo è colmata dall’incomunicabilità burocratica.
L’Ospedale di cui qui si tratta, ha due nature, quella fisica e quella immateriale. Ognuna è rappresentata da soggetti diversi: la burocrazia da una parte, l’apparato assistenziale dall’altra.
Una è radicata nel sentimento popolare, l’altra no.
Dall’incapacità di capire la differenza tra queste due diverse nature deriva, in generale, il degrado della comunicazione tra la politica amministrativa di questi ultimi 20 anni e l’apparato sanitario. Gli effetti sono ricaduti sui cittadini e ne abbiamo avuto una potente prova durante l’epidemia di Covid-19.
L’uscita di figure carismatiche dal nostro Ospedale esalterà il danno identitario e ciò avrà conseguenze pratiche. E’ come se da un corpo uscisse la mente, come avviene in certe malattie degenerative del sistema nervoso centrale che distruggono le famiglie. Così pure l’Ospedale è diventato un corpo a sé stante che obbedisce correttamente a logiche giuridico contabili ma che ha perso l’anima popolare solidale idealizzata nell’articolo 32 della Costituzione. La perdita di anima della Nuova Sanità è coerente con gli algoritmi rigorosi e ben schematizzati, per il funzionamento di una macchina teorica, ma lontani dal bisogno popolare di fiducia nei suoi curanti e di conforto.
Il contatto con il popolo è interrotto. L’isolamento dell’Ospedale durante l’Epidemia ne ha esaltato la distanza. Oggi, sentita anche la protesta dei Sindaci della Sardegna che chiedono di partecipare al nuovo progetto di sanità finanziato dal Next Generation EU (prossima generazione europea), abbiamo la prova certa che esiste il bisogno diffuso di costruire quel luogo della mente del Sirai in cui deve tornare a rispecchiarsi l’alleanza sociale.
Se ciò non avvenisse, ne nascerebbe la delusione, la tristezza, il distacco. Togliendo l’Ospedale dalla città di Carbonia si annullerebbe l’idea stessa di città, e al suo posto si creerebbe la necessità di identificarsi in un altro luogo ideale a cui appartenere. Per i nostri giovani quel luogo potrebbe essere Cagliari, Sassari o Milano; cioè un luogo dell’immaginario collettivo dove i servizi essenziali esistono e funzionano. Ne nascerebbe la ricerca di un altro luogo dove andare a nascere, a farsi curare e a morire.
Non è strano che quest’anno, sino ad oggi, siano nati nella nostra ASL solo 133 bambini. Nel 1970 al Sirai nacquero 2.000 bambini, e altri 1.000 nacquero ad Iglesias. Mancano al conto 2.867 nuovi nati. Questo numero non si spiega con la curva demografica. Si spiega con lo spostamento delle giovani coppie in altri luoghi più serviti.
Lo spopolamento inizia così: con l’idealizzazione di un luogo in cui migrare alla ricerca di più sicurezza, cultura, solidarietà, giustizia, lavoro.
Queste sono le conseguenze pratiche della perdita delle istituzioni identitarie e dei carismi che vi risiedono.
L’uscita di scena di figure sanitarie, con il carisma di Fondatore dell’Ospedale, obbliga a riflettere sul fatto che la macchina sanitaria pubblica non è solo il luogo del padrone contabile del momento, ma è proprietà identitaria della popolazione, e la popolazione non si identifica con i manager ma con gli operatori sanitari che essa stessa ha generato. La Nuova Sanità non si può costruire solo con complessi algoritmi ma con l’introduzione di nuovo Personale che apporti umanità, creatività, passione e competenza.

Note biografiche e professionali del dr. Rinaldo Aste

E’ nato a Carloforte, 67 anni fa, dal mitico Maestro e Compositore di Opere musicali Angelo Aste. Questi era figlio di un altro Rinaldo, anch’esso musicista, ed era un artista talmente apprezzato che lo stesso papa Paolo VI lo investì del cavalierato dell’Ordine di san Silvestro.
La certificazione del DNA musicale del dr. Rinaldo Aste, cardiologo, è importante. Forse proprio per questo era destinato, nella vita professionale di Medico, ad accordare il ritmo cardiaco con i Pacemakers ai pazienti cardiologicamente fuori tempo.
Fu acquisito all’équipe del dr Enrico Pasqui a Carbonia nel 1983 e, nonostante fosse già specialista in Malattie Infettive, non resistette al richiamo dell’elettrofisiologia applicata alla Cardiologia. Nel 1988 applicò il primo PaceMaker nel Reparto Medicina dell’Ospedale di Carbonia quando era appena fresco di specializzazione. Erano tempi in cui, per la patologia della conduzione del ritmo cardiaco, bisognava rivolgersi alla Clinica Aresu di Cagliari, a Milano o a Londra. Chi lo vide eseguire l’intervento ricorda con quale precisione e freddezza introdusse una grossa cannula nella vena succlavia sinistra del paziente, ottenendo un iniziale impressionante fiotto di sangue. Per chi non lo sapesse quel metodo percutaneo era allora praticato in Italia da pochissime persone e l’abilità manuale, che ne riduceva la pericolosità, si acquisiva dopo un training di anatomia chirurgica molto severo.

Da precursore del metodo, Rinaldo Aste si trasformò in abituale impiantatore di stimolatori cardiaci e visse più tempo sotto le radiazioni degli intensificatori di brillanza in sala operatoria che alla luce del sole. Da allora, ha impiantato l’importante numero di oltre 2.500 pacemakers e defibrillatori biventricolari. Da alcuni anni aveva iniziato ad impiantare anche sistemi di controllo digitale a distanza del ritmo cardiaco nei pazienti a rischio. Per capirci, se il giocatore, della nazionale di calcio danese, Christian Eriksen, fosse passato all’Ospedale di Carbonia prima della partita Danimarca-Finlandia, il dr. Rinaldo Aste gli avrebbe impiantato sottocute l’antenna del rilevatore di anomalie del ritmo e l’arresto cardiaco sarebbe stato prevenuto.

Mario Marroccu

Nel 1945, negli Stati del Sud degli Stati Uniti d’America, si producevano quantità enormi di pomodori e per la raccolta si impegnavano innumerevoli squadre di raccoglitori. In quell’anno venne inventata una macchina che tagliava le piantine con i pomodori maturi e le metteva in carrelli che finivano in stazioni di cernita per lo stoccaggio. Le macchine ridussero moltissimo lo sforzo di raccolta e il prezzo dei pomodori crollò. Le macchine era molto costose ma i pochi che potevano permettersele avevano la possibilità di immettere nel mercato i pomodori a prezzo dimezzato. Il risultato della concorrenza fu implacabile.
Dopo un anno dei 6.000 produttori preesistenti ne sopravvissero solo 60. Gli altri, quelli senza la macchina, fallirono e con essi scomparve il lavoro per decine di migliaia di operai.
Questo è un racconto fatto dagli economisti per spiegare come la tecnologia che fa a meno dell’uomo è vincente ed è conveniente per chi la usa e per chi gode dei suoi vantaggi. Altri però non ne godono.
Per questo, oggi un termine entrato nella valutazione di risultato delle faccende umane è “Sostenibilità”.
Si parla, secondo il caso, di “Sostenibilità ambientale”, “Tecnologica”, “Digitale”.
In effetti, si è visto che ogni attività umana, che si avvale della tecnologia, genera vantaggi e svantaggi.
Per quanto riguarda la scienza medica, oggi si punta sempre di più sulla tecnologia, sul digitale e sulla robotica. Tuttavia, anche in questo caso, c’è un limite alla tecnologia che dovrebbe sostituire l’Uomo; oltre di esso non è più vantaggiosa.
Faccio un esempio. Se un paziente deve essere operato per calcolosi della colecisti, o per un tumore renale, o per un utero fibromatoso, è possibile farlo con un “robot da sala operatoria”.
Questo metodo promette poco dolore, decorso rapido, dimissione in 2-3 giorni, veloce ripresa delle attività usuali; pertanto, tutti oggi vogliono il robot: lo vogliono sia i chirurghi che i pazienti.
Quindi, si conclude che la tecnologia robotica in chirurgia è il futuro, ma pensare di impiegarla in tutte le patologie è un’illusione.
L’impiego del robot in sala operatoria ha indicazioni limitate. Il robot va bene per le malattie ad andamento cronico, trattabili con cure programmabili; pertanto, va bene per un Ospedale che fa chirurgia programmata ma non va bene per la chirurgia delle patologie tempo-dipendenti.
Cos’è questa chirurgia?
E’ la chirurgia delle patologie improvvise, gravi, che portano a morte il paziente se non si è velocissimi nell’operarlo. Per esempio: l’emorragia cerebrale per rottura improvvisa di un aneurisma. In questo caso il robot non può essere utilizzato. Oppure, prendiamo il caso dell’incidente della strada con rottura traumatica di milza e fegato: il chirurgo deve essere più veloce della luce, aprendo l’addome, asportando la milza, e riparando il fegato; il tutto in un mare di sangue che non lascia vedere bene l’anatomia del campo chirurgico, e dove l’abilità manuale è determinante sia per perfezionare la diagnosi man mano che procede l’intervento, sia per fare la migliore scelta sulla strategia da usare, e cambiarla, se necessario, subito dopo.
Oppure, prendiamo il caso dell’Ostetrica che sta assistendo un travaglio e che, improvvisamente, si accorge che bisogna rapidamente passare dall’ostetricia all’intervento cesareo, pena la morte della madre e del bambino.
Oppure, ancora, il politrauma per incidente della strada o in fabbrica, o anche la più frequente frattura del femore o la frattura della colonna vertebrale per una banale caduta.
Come si comprende, in questi casi patologici tempo-dipendenti, l’uso del robot non ha alcun senso. L’intervento umano diretto è preziosissimo, imprescindibile e necessario. Ancora di più è necessario per dializzare d’urgenza un paziente in insufficienza renale acuta, o per assistere uno scompenso cardiaco o respiratorio.
Ho portato gli esempi di queste situazioni gravi per essere più immediato, ma si può continuare sulla stessa falsariga, citando il caso del massaggiatore che soccorre il calciatore in campo per la distorsione di una caviglia; oppure il pediatra che dolcemente abbassa la lingua del bambino per esplorare la profondità del cavo orale alla ricerca di una possibile tonsillite suppurativa febbrile. è immaginabile un robot per queste procedure? No. In moltissimi casi l’intermediazione del robot è assurda. Questi esempi sono utili per distinguere fra due tipi di malattie: quelle croniche, prevedibili, e curabili, secondo un programma e quelle imprevedibili, urgenti, urgentissime tempo-dipendenti (come l’infarto). Le prime sono affrontabili da una struttura ospedaliera tecnologicamente dotata ad hoc e che impiega poco personale. Le seconde invece devono essere dotate di personale specializzato, il cui compito fondamentale è quello di fare diagnosi rapide, prendere le decisioni giuste, cambiarle in corsa se serve, ed ignorare completamente l’entità delle spese e l’equilibrio di bilancio del proprio datore di lavoro.
Stiamo parlando di due mondi diversi. Uno è il mondo della Medicina programmabile e robotizzabile, l’altro è il mondo della Medicina di urgenza tempo-dipendente. Il primo è fonte di guadagno per la struttura; il secondo è fonte di spese e pessimi bilanci, a causa della maggiore quantità di personale specializzato che impiega.
Per tale ragione è impossibile confrontare i risultati di produttività degli Ospedali privati con quelli dei Presidi Ospedalieri di I Livello (come il Sirai di Carbonia), sedi di DEA di I Livello (Dipartimento di Emergenza e Accettazione).
Gli Ospedali privati sono dedicati alla medicina e chirurgia d’elezione programmabile. Le loro procedure sono eseguibili secondo un diario che non riserva sorprese. In tali ospedali le attività mediche e chirurgiche vengono concentrate nelle ore che vanno dalle 8.00 del mattino alle 14.00. Nelle ore della sera, della notte, e dei giorni prefestivi e festivi, le attività rallentano fino a fermarsi; il lavoro di assistenza ai malati viene affidato ad un Medico di guardia, che talvolta ha in carico più di un reparto. Invece i Presidi Ospedalieri di I Livello con DEA non interrompono mai il loro lavoro.
La loro “mission” è, soprattutto, l’“urgenza” del paziente acuto grave o gravissimo. L’urgenza non ha orario e non si può inserire in una lista d’attesa. L’urgenza annulla la possibilità di concedere pause all’attività medica e chirurgica.
L’attività è continua e perenne. Pertanto, mentre negli Ospedali privati il personale è massimamente presente nelle ore del mattino, dal lunedì al venerdì, e perlopiù è assente la sera, la notte, e nei giorni prefestivi e festivi, nei Presidi Ospedalieri di I Livello (come il Sirai ed il CTO) il personale, che è sempre d’Urgenza, è presente in reparto.
Vi è poi una quota di personale che non è di turno ma è prontamente disponibile con arrivo in reparto entro 30 minuti.
Questa enorme differenza comporta anche un’enorme discrepanza nel rapporto fra posti letto/operatori sanitari /costi.
Nei reparti d’urgenza del Presidio Ospedaliero di I Livello deve essere presente lo Specialista di turno, inoltre per ogni specialità chirurgica e medica devono essere immediatamente disponibili, sia i medici che gli infermieri formanti l’equipe perfetta. Le équipes devono essere presenti o disponibili in 3 turni al giorno (mattino-sera-notte), sempre. Non esistono giorni festivi per le équipes. Ciò significa che i Presidi di I Livello hanno bisogno di una compagine di Personale pronta sia alle attività di routine sia a quelle di urgenza e, pertanto, il numero di dipendenti deve essere doppio rispetto a quello degli Ospedali privati.
Ne consegue che gli Ospedali privati, con il loro poco personale, spesso convenzionato, sviluppano una produttività sanitaria enorme, con poca spesa e molto utile.
I Presidi d’urgenza di I Livello, viceversa, hanno un costo altissimo sia in fase di operatività, sia in fase di attesa, e l’utile è in negativo.
In sostanza, i due tipi di struttura non sono neanche lontanamente paragonabili sia per complessità di organizzazione, sia per i costi e per i risultati.
I Presidi Ospedalieri di Base devono fornire le prestazioni d’urgenza col Pronto Soccorso ed avvalersi di Personale reperibile.
I Presidi di I Livello, maggiormente impegnati, devono avere gli Specialisti in presenza nei reparti nell’arco delle 24 ore.
Per esempio, un Ospedale privato che abbia due sale operatorie in attività ha bisogno di due anestesisti in presenza solo al mattino. Invece negli ospedali di I Livello, con lo stesso numero di sale operatorie, vi devono essere due Anestesisti di mattina, uno di sera, uno di notte e due anestesisti per la Rianimazione per ognuno dei tre turni. Queste presenze devono essere assicurate sempre anche nel caso non avvengano emergenze.
Similmente dicasi per le équipes infermieristiche di sala operatoria. Tali turni di presenza attiva o di semplice attesa, devono essere presenti sempre, festivi inclusi.
Si comprende che questo triplo turno quotidiano deve essere attivo in tutti i reparti che fanno emergenza: la Medicina, la Chirurgia, l’Ostetricia, la Pediatria, la Traumatologia, la Radiologia, il Laboratorio, il Centro Trasfusionale, la Psichiatria, la Cardiologia, la Dialisi, il Pronto Soccorso, l’Anestesia e la Rianimazione, L’Otorinolaringoiatria, l’Oculistica, la Neurologia.
Quanto detto, conduce alla conclusione che gli Ospedali di I Livello devono avere organici completi e numerosi e la loro gestione è molto difficile e costosa. Gli Ospedali di I Livello in Italia sono 260, 7 in Sardegna: l’Ospedale di Nuoro, di Olbia, di Sassari, di Oristano, di San Gavino Monreale, di Carbonia ed il SS Trinità di Cagliari.
Inoltre, vi sono in Sardegna 2 Ospedali di II Livello: il Brotzu di Cagliari e l’Azienda Ospedaliero Universitaria di Sassari.
Tutti gli altri Ospedali sardi sono Presidi di Base e, in caso di necessità per urgenze gravi, devono trasferire i pazienti più impegnativi negli Ospedali di I e II Livello.
Quanto detto, conduce alla conclusione che gli Ospedali della nostra provincia del Sulcis Iglesiente sono preziosissimi, che nessun Ospedale privato può sostituirsi ad essi e che dobbiamo salvaguardarne l’esistenza, l’efficienza ed il capitale umano e culturale che vi è racchiuso. Dopo, vengono per ordine di importanza, gli edifici nuovi ed i robot.

Ci stiamo abituando, nel paesaggio cittadino, ai nuovi simboli di questa “Era pandemica”: i cartelli che indicano il percorso per raggiungere i luoghi in cui ci vaccinano in ordine alle fasce d’età. In essi si trovano scritte le parole “Hub vaccinale”, oppure “Centro vaccinazioni”.
La parola inglese “Hub” tormenta gli ospedalieri dagli anni ’90.
Risuonò per al prima volta, a Carbonia, nell’aula “Velio Spano”. Vi erano stati riuniti tutti i medici, gli infermieri, gli amministrativi ed i rappresentanti politici delle USL (Unità Sanitarie Locali) n° 16 e n° 17 del Sulcis Iglesiente. Erano tutti lì per ascoltare un economista bocconiano venuto dal Continente per esporre il verbo della nuova rivoluzione sanitaria: “Hub and Spoke”. Spiegò: “L’Hub” è il mozzo della ruota del carro; gli “Spoke” sono i raggi della ruota. Dobbiamo trasformare la Sanità in un “Sistema Hub and Spoke”..., e proiettò un’immagine che rappresentava una stella con i suoi raggi luminosi. Sembrava una bella cosa.
Questi nuovi disegnatori del futuro sanitario della Sardegna, venuti dal Continente, stavano, invece, facendo crollare le basi di due riforme sanitarie eccezionali: la riforma del 1968-69 emanata con le leggi 132 e 128, e la riforma sanitaria del 1978 emanata con la legge 833. Erano due Riforme talmente fantastiche da sembrare più utopie che realtà. Contenevano  concentrati, tutti i valori umanitari della carità cristiana maturata in 1.000 anni di Medio Evo, i valori solidaristici della cultura laica del 1700, 1800, 1900, e il bisogno di uguaglianza, equità e fratellanza esplosi alla conclusione della Seconda Guerra Mondiale.
Con la nuova visione degli “Hub and Spoke” si stavano cambiando le basi ideali delle “Unità Sanitarie Locali” (USL) e si preparava il terreno per impiantare, al loro posto, la “Aziende Sanitarie Locali”(ASL). Dove stava la differenza? Era grossa e non ce ne avvedemmo. Nella Riforma del 1968 gli ospedali cittadini erano giuridicamente gli “Enti ospedalieri” della città di appartenenza, ed il presidente era il sindaco della città. Quel sindaco era la cinghia di trasmissione dei bisogni di Sanità dei sindaci di tutto il territorio. Nella riforma n° 833, del 1978, la gestione della Sanità ospedaliera e territoriale era sotto il controllo del “Comitato di gestione” che nominava al suo interno il presidente. Il Comitato di gestione era costituito da cittadini del territorio, nominati, a loro volta, dalla “Assemblea generale” dei consiglieri comunali delle varie cittadine.
Ne consegue che, fino ad allora, la conduzione della Sanità ospedaliera e territoriale era sotto il vigilissimo controllo dei sindaci e dei consiglieri comunali e, quindi, dei cittadini. Nel 1988 il ministro Carlo Donat Cattin abolì le “Assemblee generali” per semplificare l’apparato. Poi nel 1992, 1995, e 1999, con altre leggi avvenne la progressiva eliminazione dei “Comitati di gestione” e la loro sostituzione con una unica figura al comando: il Commissario straordinario nominato dalla Regione. I Commissari vennero poi chiamati “Manager” e venivano pescati da una lista di amministratori selezionati per titoli. Le Unità Sanitarie Locali vennero trasformate in aziende a gestione di tipo privatistico, sul modello della Sanità privata. Lo scopo era la “razionalizzazione” della gestione e l’amministrazione del patrimonio mobiliare ed immobiliare, al fine di raggiungere “efficienza ed efficacia”.
Così, nella nuova lingua parlata, in sanità scomparvero progressivamente parole come medico, infermiere, ostetrica, farmacista, etc., che divennero “Operatori sanitari”. La parola “malato” venne sostituita col termine “cliente”. In tutte le leggi e disposizioni comparvero nuove espressioni come “hub and spoke”, “efficienza ed efficacia”, “razionalizzazione”, “equità”, “omogeneità”. Questo nuovo modo di esprimersi, sottintendeva l’obiettivo di raggiungere un “Livello Essenziale di Assistenza” (LEA) con la minor spesa possibile. Eravamo usciti dal linguaggio sanitario, derivato dalla solidarietà laica e dalla carità cristiana, per entrare nel linguaggio amministrativo. A questo punto la “gestione contabile” della Sanità si sostituì alla “gestione politica” dei bisogni di salute della cittadinanza.
L’”Hub and Spoke” fu la chiave per spostare il controllo amministrativo della Sanità dai territori al centro. In realtà quella espressione inglese non andava tradotta con l’espressione italiana “ruota del carro” o “stella con i raggi” ma semplicemente e crudamente: “Centro e periferia”.

Così il nostro territorio divenne “periferia” e la città capoluogo divenne il Centro su cui devono convergere tutti i finanziamenti ed i Servizi sanitari, tagliandoli a noi. Con l’“Hub and spoke” la città divenne il “buco nero” che risucchia le stelle e i pianeti che gli passano vicino, facendo il deserto attorno.
Con l’esclusione dei sindaci e dei Consigli comunali dal controllo della ASL, è iniziato l’impoverimento di strutture sanitarie del nostro territorio. Oggi stiamo assistendo alla diminuzione progressiva di medici ed infermieri, alla chiusura di reparti ospedalieri, alla difficoltà di ricevere prestazioni sanitarie e strumentali, e alla generazione di liste d’attesa infinite, sia per essere visitati che per essere curati. La diminuzione di assistenza sanitaria, in loco, obbliga a mettersi in viaggio e chiedere il dovuto a Cagliari e anche al Continente. Ormai la nostra incapacità di produrre Sanità è arrivata ad un punto gravissimo: il 47 per cento di prestazioni sanitarie devono essere comprate all’esterno del nostro sistema. Questo è l’effetto dello “Hub and Spoke”.
Apparentemente la centralizzazione della Sanità nella città capoluogo è un beneficio disponibile per tutti. In realtà, la migrazione dei nostri malati sta portando solo ad affollamento in centri già saturi di pazienti ed alla formazione di lunghe file per essere operati per patologie comuni, o solo visitati o sottoposti ad esami. Questo fenomeno si traduce in aumento della spesa sanitaria per le famiglie che hanno la disgrazia di avere un componente ammalato, alla frustrazione e, addirittura, alla rinuncia ad essere curati.
Gli Hub sono stati il fallimento del Sistema sanitario dei territori, ridotti a “periferia” povera e sguarnita. Il Covid-19 ha dimostrato che gli accentramenti dei servizi sono un errore. Un esempio si trova nella cronaca recente. La sindaca di Roma, Virginia Raggi, ha dovuto lamentare pubblicamente la sua impotenza nel gestire un importantissimo Hub: il cimitero di Roma. Vi sono accatastate, nei magazzini, migliaia di bare con il loro triste contenuto. Le squadre di operai non fanno in tempo a tumulare o cremare i cadaveri, che restano per mesi miseramente impilati. Quell’umiliazione finale tocca indistintamente tutti, poveri e ricchi, miseri e potenti. Ecco, questo è il problema degli “Hub”: l’affollamento. E l’affollamento genera “inefficacia e inefficienza”, “iniquità”, e “umiliazione”. Cioè l’esatto opposto della “efficacia ed efficienza” proclamati da quei professori bocconiani che negli anni ’90 ci introdussero al concetto miracolistico degli “Hub and Spoke”.
Chi ha seguito l’evoluzione di questa rivoluzione, che poi si è rivelata un’involuzione, oggi legge con amarezza la scritta “Hub” nei cartelli indicanti i “Centri di vaccinazione”.

Mario Marroccu

Ormai è evidente: questo virus cambierà gli umani e lo farà col metodo della “selezione naturale”.
Charles Darwin scrisse, nell’anno 1859, nel libro “L’origine delle specie”, che la Natura seleziona, per la sopravvivenza, gli individui più “adatti”. Non scrisse “più forti”, “più ricchi”, o “più intelligenti”. Scrisse proprio “i più adatti”.
Ora questo virus sta selezionando gli umani che più si “adattano” al rispetto delle regole del “distanziamento sociale” .
Ci sono molti motivi per prendere sul serio Charles Darwin, e sono questi:

1) I vaccini non sono sufficienti a fermare la circolazione del coronavirus. Pertanto, esso resterà con noi molti anni ancora.

2) Il vaccino che fece sparire il Vaiolo dalla faccia della terra dava un’immunità perenne. Questo per 6-8 mesi soltanto.

3) Ne consegue che fra 6-8 mesi tutti coloro che sono stati già vaccinati ad Aprile 2021 perderanno l’immunità ad ottobre 2021. Ad Ottobre tutti i vaccinati di oggi dovranno nuovamente mettersi in fila per essere vaccinati di nuovo.

4) Se si considera che, fino ad oggi, in Italia sono state vaccinate 10 milioni di persone, e che ne rimangono ancora 50 milioni (o 40 se si escludono i bambini gli allergici ed i negazionisti), ci vorranno, alla velocità attuale, altri 10-12 mesi per vaccinare tutti.

5) I soggetti già vaccinati oggi, fra 6 mesi non saranno più protetti dal vaccino fatto ad aprile, pertanto ad ottobre (fra 6 mesi) ci saranno da vaccinare sia i 20 milioni non ancora vaccinati, sia i 10 milioni già vaccinati ad Aprile ma con effetti di immunizzazione scaduti. Cioè 30 milioni.

6) Lo stesso ragionamento si può applicare ogni 6 mesi per gli anni successivi. Cioè saremo in una campagna vaccinale continua che durerà parecchio.

Si sta realizzando il paradosso del filosofo Zenone, che visse nel V secolo avanti Cristo. Egli propose un calcolo matematico sul “moto”. In esso dimostrava che in una gara di velocità fra Achille “piè veloce” ed una tartaruga, Achille non riuscirà mai a raggiungere la tartaruga. Se Achille inizierà la corsa dopo che una tartaruga sarà partita dal punto A ed avrà raggiunto il punto B, Achille per raggiungerla impiegherà un tempo X1. Ma nel frattempo la tartaruga avrà raggiunto il punto C. Achille per raggiungere il punto C impiegherà un tempo X2. Ma in quel frattempo la tartaruga avrà raggiunto il punto D. Achille, per raggiungere la tartaruga nel punto D impiegherà un tempo X3. Ma in quel frattempo la tartaruga raggiungerà il punto E, e sarà ancora in anticipo su Achille. Procedendo così all’infinito, in questo ragionamento logico-matematico, Achille non raggiungerà mai la tartaruga, perché la tartaruga avrà sempre un tempo di vantaggio su Achille della durata di tempo Xn a suo vantaggio. Il paradosso di Zenone è diventato la metafora della nostra attuale gara di velocità per fermare il coronavirus con le campagne vaccinali subentranti.
Anche Albert Einstein si cimentò per risolvere quell’ipotesi matematica ed ebbe difficoltà.
Se fosse vero il paradosso di Zenone saremmo messi veramente male, e dovremmo trovare un’altra via di scampo.
Colui che ha capito più di tutti il paradosso di Zenone è il premier britannico Boris Johnson. In Europa è il premier che ha avviato la campagna vaccinale più efficace, e sta riaprendo al pubblico tutti gli esercizi di commercio umano in cui è inevitabile l’assembramento. Eppure, nonostante il suo chiaro successo con le vaccinazioni, alcuni giorni fa ha tenuto un discorso alla Nazione, proclamando l’inutilità della vaccinazione di massa qualora non si rispettino, per molti mesi ancora, e forse per anni, le regole del “distanziamento” e l’uso della “mascherina”. Così ha riportato tutti al realismo, facendo crollare l’illusione di una facile fine della pandemia.

La via del “distanziamento sociale” riprende vigore. Prima che esistessero i vaccini, le regole del distanziamento sociale erano l’unica arma efficace contro le varie pesti che si sono succedute nei secoli.
Uno studioso dell’Università norvegese di Oslo, il professor Ole Jorgen Benedictow, alcuni mesi fa, quindi prima di Boris Johnson, ha sostenuto lo stesso ragionamento dopo aver letto un vecchio libro. Egli aveva scovato, nella Biblioteca Nazionale di Parigi, un antico testo scritto da un medico calabrese: Quinto Tiberio Angelerio. Costui aveva avuto l’ esperienza della Peste in Sicilia del 1575 e, seguendo la teoria “miasmatica” di Galeno (II secolo d.C.) e la teoria del “contagionismo” di Girolamo Fracastoro (XV secolo d.C.), attenuò e sconfisse la Peste di Alghero del 1582. Poi pubblicò i risultati di quella sua esperienza in un manuale stampato a Cagliari nel 1588: “Ectypa pestilensis status Algheriae Sardiniae”. Di questo manuale destinato ai Medici, per informarli sul come si gestisce una epidemia, ne esiste una sola preziosissima copia a Parigi. Prima che lo si rendesse noto in Italia, il libro di Quinto Tiberio Angelerio venne presentato al pubblico inglese dalla rete televisiva BBC, ed ebbe grande risonanza. Forse lo stesso Boris Johnson ne ha tratto ispirazione.
Mentre assistiamo alla gara fra Nazioni per accaparrarsi le dosi di vaccino, vale la pena raccontare la storia di quel medico di Alghero che, non avendo a disposizione i vaccini, utilizzò altri metodi di controllo dell’epidemia basati sul corretto comportamento sociale.
Alghero si sarebbe spopolata a causa dell’alta mortalità ed il suo Governo decise di assumere il dottore Angelerio per liberare la popolazione dalla peste. Angelerio era un medico scrupoloso ed appassionato e, sopratutto, non temeva di morire. Egli, con i poteri della Magistratura di Sanità emise delle ordinanze piuttosto rigide. Fra queste le più importanti imponevano:
– il divieto di stringersi la mano nel salutarsi;
– divieto di assembramento anche a piccoli gruppi;
– divieto di avvicinare un’altra persona a meno di 6 palmi (1 metro e mezzo);
– vietato uscire di casa;
– consentito ad un solo membro della famiglia l’uscita per fare la spesa;
– sconsigliata vivamente la partecipazione a funzioni religiose.
In sostanza vi erano l’obbligo di isolamento ed il divieto di assembramento. Questo irritò i commercianti ed imprenditori locali, i quali avevano capito quali danni ne avrebbero avuto gli affari. Nacque un movimento di opposizione che culminò in un tentativo di assassinio del medico. Tuttavia, il dottor Quinto Tiberio Angelerio non si impressionò e continuò nella sua opera di “mitigazione” dell’epidemia, fino a spegnerla dopo 8 mesi di Lockdown serrato. Il governo della città lo remunerò con una somma enorme: 100 scudi d’oro. In quell’epidemia perse la vita il 60 per cento della popolazione. L’azione di Angelerio fu così efficace che la peste fu circoscritta alla città di Alghero e non si diffuse ai borghi vicini e neppure alla città di Sassari. Per ottenere quello straordinario risultato, impiegò la forza pubblica per l’osservanza delle ordinanze e dedicò tutto se stesso alla cura dei malati. Fondò un ospedale nel quale ricoverava i pazienti sintomatici e predispose un Lazzaretto per ospitarvi i cittadini sani messi in quarantena. Nel 1588 pubblicò in un manuale le sue memorie ed i suoi metodi di contenimento dell’epidemia. Il libro andò a ruba in tutta Europa. La fama del dottore fu tale che venne poi assunto dalla città di Barcellona per contrastare una sua epidemia di Peste. Successivamente, venne assunto dall’imperatore Filippo II per liberare Madrid dalla Peste. Questo medico appassionato visse a contatto diretto con gli appestati e non contrasse mai la malattia. Morì vecchissimo, a 85 anni, nella città di Napoli. Le regole di distanziamento e di igiene applicate in modo sistematico ad Alghero, furono una lezione per tutto il mondo di allora.
Quando in Italia si promulgò il primo DPCM nel febbraio 2020 non si fece altro che ripetere pedissequamente le ordinanze della città di Alghero scritte da Angelerio.
Oggi, anno 2021, la Scienza ha fatto passi da gigante. Eppure, se non avessimo avuto i vaccini così tempestivamente, ci saremmo trovati nel punto in cui si trovò Angelerio nel 1582 ad Alghero, e le sue regole ci avrebbero salvato.
Boris Johnson, che è un tipo un po’ avventuroso in politica ma un cervello fino ed una mente formata alla cultura classica, ha colto nel segno quando, ha proclamato al popolo inglese «non aspettatevi che l’epidemia sia finita col vaccino. Mantenete ancora un comportamento prudente, scrupoloso delle regole del distanziamento».
Cosa ha percepito Boris Johnson prima degli altri? Forse ha temuto l’arbitrio ed i ritardi delle multinazionali del farmaco nella distribuzione dei vaccini. Colui che ha avuto la stessa percezione di incertezza è stato Mario Draghi. Davanti ad una Multinazionale che in modo unilaterale ha ridotto del 60 per cento la consegna delle dosi di vaccino pattuite, è stato il primo in Europa ad opporsi alla arbitrarietà della controparte contrattuale. Il suo divieto di esportare in Australia le 240.000 dosi di vaccino conservate nei depositi di Anagni, in Lazio, è stato un gesto risoluto che ha indotto il presidente della Commissione, Ursula Von der Leyen, a modificare il suo atteggiamento nei confronti della multinazionale inadempiente.
Il Coronavirus ha messo in evidenza il problema dei rapporti squilibrati fra la sovranità degli Stati ed il sovranismo delle multinazionali. E’ un problema che sta affrontando anche il presidente americano Joe Biden con le multinazionali della comunicazione multimediale via Internet. Sta affrontando il difficile problema di imporre un’equa tassazione internazionale dei gruppi Web e digital marketing fondati da Bèzos (Amazon), Google, You tube, Face Book et similia. Egli sta agendo per eliminare i paradisi fiscali e sottrarre le popolazioni al commercio arbitrario delle informazioni soggetta alla privacy digitale personale. E’ un problema la cui soluzione sarà difficile. Un problema simile di indipendenza sovrana dai controlli degli Stati sta emergendo questi giorni dalle multinazionali dello sport agonistico teletrasmesso digitalmente. In fenomeno delle Super League del calcio è sintomatico. Anche in questo caso, i primi ad opporsi sono stati Boris Johnson e Mario Draghi. Oggi tutti i capi di Stato europei si stanno precipitando a condannare questa nuova entità sovrana che assumerebbe l’esclusiva del grande calcio ed estrometterebbe dalla competizione sportiva, democratica e internazionale, i club nazionali identitari.
Vedremo come andrà a finire.
Mario Draghi, intanto, è oggi impegnato in un altro scontro di simile natura: quello contro il sovranismo dei Big Pharma dei vaccini. L’arbitrarietà con cui certe Aziende hanno deciso di tagliare le forniture pattuite con la Comunità europea, ci ha resi tutti consapevoli che i vaccini, ancorché scoperti in breve tempo da scienziati di tutte le Nazioni, non sono proprietà esclusiva delle Nazioni, ma sono proprietà esclusiva della grande industria del farmaco, e che questa può disporre unilateralmente i tempi ed i modi di distribuirli. L’arbitrarietà nella distribuzione dei vaccini, mette allo scoperto la nostra impotenza davanti all’epidemia e ci rende simili agli abitanti di Alghero che, come unica arma di difesa, avevano le regole comportamentali di Quinto Tiberio Angelerio. Quindi è bene riprendere in mano quelle regole e rispettarle.
In quei tempi, il governo della città, oltre a chiamare in soccorso il protomedico calabrese chiamò anche un altro Protomedico: il dottore Antioco di Sulci, medico, martire e santo. Di questo che sto affermando esiste un documento. Si tratta di un affresco del 1582 che raffigura il Santo Antioco che, in groppa ad un cavallo, viaggia alla volta di Alghero per salvarla. In quei tempi Sant’Antioco era il “Farmakon” più titolato in Sardegna in funzione anti-peste. Questo avveniva quando in tutta Europa, in caso di epidemie, si imploravano i Santi Cosma e Damiano, San Rocco, San Sebastiano, San Giovanni di Dio. In Sardegna nel XVII secolo intervennero altri Santi. Nel quinquennio 1652-1657 la Sardegna venne attraversata dalla Peste portata dalle navi commerciali provenienti dalla Catalogna appestata, ed approdate ad Alghero. Il morbo si diffuse a Sassari, Oristano, Villa di Chiesa, Cagliari. Da qui poi, sempre via mare, a Roma, Napoli, Palermo, Genova. Fu allora che a Cagliari prese vigore il culto per Sant’Efisio. Fu Efisio a decretare la fine della peste a Cagliari nel 1657 ed in memoria di questo miracolo da allora viene festeggiato il primo Maggio di ogni anno.
Secondo la tradizione Sassari, durante quella Peste, venne salvata dalla “Madonna Assunta” e la Faradda de li Candareri si svolge ogni anno in memoria di quell’intervento miracoloso.
Ad Iglesias tutti gli anni si svolge la festa di Sancta Maria di Mezo Gosto; anche questa in memoria della Vergine Assunta. Si tratta di una festa portata in Sardegna dai Bizantini nell’anno 535. Si interruppe misteriosamente nel XVII secolo, forse a causa della pestilenza che martoriò la città nel 1656.
Il culto de santi in funzione “anti-epidemia” riprende sempre vigore quando non hai più difese dal contagio. Da questo punto di vista, il manuale algherese di Quinto Tiberio Angelerio fu anch’esso un miracolo, anche se laico. Fu il primo scritto che mise ordine alle regole comportamentali del distanziamento sociale e fu assolutamente efficace.
Oggi sta emergendo un sentimento di incertezza alimentato dal ritmo alterno delle vaccinazioni, condizionato da temporanee ed insufficienti forniture da parte delle aziende dei vaccini. Tuttavia, stiamo ricevendo notizia di un fatto nuovo e rivoluzionario. Pare che il presidente del Consiglio Mario Draghi abbia rotto l’incantesimo del dominio sovranazionale dei Big Pharma. Si dice che l’Italia sia ad un passo dall’impiantare la fabbrica di un vaccino mRNA che darebbe all’Europa intera l’autonomia strategica nella produzione di questo genere di vaccino. Esisterebbe l’accordo fra il Governo italiano, l’americana Moderna, la tedesca Curevac e Reithera di Castel Franco, nel Lazio, per produrre, nei laboratori della azienda Reithera, il vaccino a RNA “messaggero” di Moderna, o uno simile. Qualora MariovDraghi con questa operazione riuscisse a svincolare l’Europa dall’arbitrarietà di certe multinazionali dei vaccini anti-coronavirus, avrebbe meriti tali da essere ricordato nei testi futuri di Storia della Medicina.

Mario Marroccu