15 December, 2025
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Dopo il brillante esordio della prima giornata, la pioggia caduta improvvisamente per una manciata di minuti, non ha fermato”Carta Carbonia 2025″, il festival letterario che ha confermato il suo successo anche nella serata di ieri venerdì 25 luglio, con un altro appuntamento da sold out. L’Arena Mirastelle ha accolto circa 200 spettatori attenti e curiosi, pronti ad ascoltare alcuni tra i più importanti protagonisti del giornalismo e della scena artistica internazionale.

Ad aprire la serata è stata la giornalista Barbara Serra, volto noto dell’informazione internazionale insignita nel 2019 del titolo di Cavaliere dell’Ordine della Stella d’Italia. Nel suo libro più recente, “Fascismo in famiglia” (Garzanti, aprile 2025), Barbara Serra ripercorre le radici familiari della “città fondata dal regime”, Carbonia, ricostruendo la storia di suo nonno Vitale Piga, podestà durante il ventennio fascista. Usando documenti d’archivio, testimonianze familiari e riflessioni attuali, l’autrice solleva temi cruciali come la memoria collettiva, la trasmissione identitaria e la fragilità delle democrazie contemporanee.

Il dialogo tra Barbara Serra e Franca Rita Porcu ha approfondito la necessità di comprendere le relazioni tra passato e presente, offrendo uno sguardo crudo ma necessario sulla storia personale come chiave di lettura del presente.

A seguire, sul palco di “Carta Carbonia”, Marco Varvello, corrispondente Rai a Londra dal 1997 (con esperienze anche a Berlino e New York). Marco Varvello ha dialogato con Andrea Fulgheri presentando il suo nuovo libro “Londra, i luoghi del potere. Il ritorno del Regno Unito tra i protagonisti delle sfide globali” (Solferino, 2025). Nel testo, Marco Varvello traccia un racconto appassionante degli ultimi dieci anni del Regno Unito: dalla Brexit ai cambi di leadership politica, dalla morte della regina Elisabetta II all’ascesa di re Carlo III, fino al ritorno del partito laburista con Keir Starmer. Il dialogo tra Andrea Fulgheri e Marco Varvello è stato “disturbato” dalla pioggia e si è concluso all’interno del teatro.

Cessata la pioggia, uno dei momenti più attesi di Carta Carbonia 2025 all’Arena Mirastelle è andato in scena con lo spettacolo teatrale “E ti vengo a cercare” scritto e diretto da Andrea Scanzi e, accompagnato dalle musiche dal vivo del pianista Gianluca Di Febo.

Con il suo stile narrativo preciso e coinvolgente, Andrea Scanzi ha ricostruito le tappe fondamentali della carriera del cantautore siciliano Franco Battiato: dalle sperimentazioni di “Pollution” alle suggestioni mistiche di “Fisiognomica”, passando per successi intramontabili come “Centro di gravità permanente”, “La cura”, “Bandiera bianca” e “Come un cammello in una grondaia”. Il racconto, arricchito di riflessioni su religione, filosofia, arte e politica, ha offerto al pubblico un ritratto sincero e affettuoso di un autentico genio della musica, un artista capace di fondere l’alto e il popolare, il mistico e il quotidiano.

A chiudere la serata è stata lo spettacolo “Versus. Claudia Aru canta Sergio Atzeni”, che ha regalato al pubblico un finale intimo e vibrante. Claudia Aru, con la sua voce calda e penetrante, ha interpretato i testi dello scrittore cagliaritano Sergio Atzeni, accompagnata al pianoforte da Simone Sassu. Il risultato è stato un omaggio originale e suggestivo, in cui musica, letteratura e lingua sarda si sono fusi in un dialogo emozionale capace di evocare l’anima più profonda dell’Isola.

 

 

 

Mercoledì 21 maggio, alle ore 17.30, presso la sala polifunzionale di piazza Roma, a Carbonia, si terrà la presentazione del libro “Fascismo in famiglia”, della scrittrice e giornalista Barbara Serra, volto noto del mondo del giornalismo. Barbara Serra, dal 2006 al 2022 corrispondente e conduttrice per Al Jazeera English, dal 2023 lavora per Sky News UK.
Attraverso documenti d’archivio, fotografie e testimonianze, “Fascismo in famiglia” ricostruisce una storia che affonda le proprie radici nel Sulcis e nel destino di un uomo, Vitale Piga (nonno di Barbara) costretto a una scelta lacerante: eroe di guerra, prima antifascista convinto, poi collaboratore del regime, podestà di Carbonia durante il Ventennio fascista.
A Carbonia fu nominato podestà con Regio Decreto del 28/09/1939, con verbale di giuramento del 16/10/1939 e rimase in carica fino al 21/04/1942.
L’iniziativa di mercoledì pomeriggio, alla presenza dell’autrice Barbara Serra, sarà coordinata da Piero Agus dell’associazione Amici della Miniera.
Sono previsti i saluti del sindaco di Carbonia Pietro Morittu e di Raffaela Giulia Saba, operatrice culturale Centro servizi culturali della Società Umanitaria Fabbrica del Cinema.
L’autrice dialogherà con il giornalista Giuliano Usai.

  1. L’eroe della prima guerra mondiale

Nato a Senorbì, Vitale Piga (1895-1974) si distinse giovanissimo come tenente pilota dell’aeronautica militare durante la prima guerra mondiale. Il suo nome divenne noto per un episodio che riassume in sé lo spirito tragico e cavalleresco del conflitto aereo, prima che l’ideologia totalizzante e la meccanizzazione bellica ne annientassero il senso romantico.

Il 13 luglio 1917, il tenente Vitale Piga fu protagonista di un drammatico scontro nei cieli del Trentino, durante una missione su Caldonazzo. L’obiettivo era il lancio di manifestini di propaganda nelle retrovie nemiche: un’azione tanto simbolica quanto rischiosa, che richiedeva coraggio e grande senso della missione. Decollato dal campo di Pergine, il velivolo di Piga fu intercettato da due caccia austriaci. Nel combattimento perse la vita l’osservatore, il tenente Renato Semplicini, mentre Piga, con il velivolo gravemente danneggiato, fu costretto ad atterrare in territorio nemico nei pressi di Levico, dove venne fatto prigioniero.

L’episodio fu raccontato da lui stesso in una relazione scritta il 6 dicembre 1918, dopo il suo ritorno dalla prigionia. Il documento, sobrio e dettagliato, è oggi una delle fonti principali per comprendere l’accaduto, ma anche lo spirito con cui Piga affrontava la guerra.

Si riporta qui la relazione, che mostra la precisione militare del racconto e, tra le righe, la tensione emotiva di chi ha visto la morte da vicino.

Correggio 6-XII-918

La mattina del 13 luglio 1917 ebbi ordine di eseguire una ricognizione d’orientamento ed il lancio di manifestini pei prigionieri russi nelle retrovie austriache del settore fra l’Adige e il Brenta.

Era a bordo con me il Ten. Oss. Semplicini il quale, doveva eseguire una serie di fotografie.

Partii dal campo di Casoni (Bassano) alle otto antimeridiane dovendo essere alle 8.30 già in quota all’imboccatura della Val Sugana.

Avrei dovuto colà trovare un apparecchio da caccia che mi avrebbe scortato. Invece non v’era.

Dopo mezz’ora di inutile attesa partimmo ugualmente.

Attraversammo il fuoco di sbarramento antiaereo del Forte Panarotta, del Forte Busa Verle, Cima 12, Forte Spitz Verle, Cima Mandrioli, eseguendo fotografie ed il lancio dei manifestini nei pressi di Levico e Pergine.

Dopo questo, come avevamo deciso prima della partenza, ci dirigemmo verso la Valle dell’Astico onde rientrare da quella parte.

Si sarebbero così evitate le batterie automobili del Ghertele, del Verena e di Monte Rovere, accorse colà numerose per l’azione dell’Ortigara.

Vedemmo allora a circa 1.000 metri sotto noi un apparecchio da caccia nemico che si avvicinava e qualche minuto dopo ci arrivò una raffica di mitragliatrice, dalla coda.

Virammo subito per aver l’avversario di fronte.

Ebbe così inizio il combattimento che doveva finire circa un’ora più tardi.

L’aereoplano austriaco era un «Tse-tse» da caccia con la velocità di 175 Km. l’ora.

In principio potemmo tenergli fronte tanto da costringerlo più volte ad allontanarsi per poter ritentare gli attacchi. Ma poco dopo giunse in suo aiuto un altro apparecchio, un «Brandenburg» armato di due mitragliatrici che aprì immediatamente il fuoco contro noi. Ci presero così dai fianchi.

Cercammo di riavvicinarci alle linee sempre combattendo.

Ma ben presto, alcuni fili di comando colpiti da pallottole non mi permettevano più le brusche manovre e feci cenno all’osservatore di sparare alle spalle ché avremo cercato di fuggire.

Uno degli apparecchi ci attaccò allora di fronte sbarrandoci la strada. Vedendo che non cambiavamo rotta si spostò di fianco e, ad una trentina di metri, ci lanciò delle raffiche di fuoco.

Una pallottola colpì l’osservatore al labbro inferiore e mentre questi in piedi, continuando il tiro, mi faceva cenno, un’altra, lo colpì alla testa attraversandola dalla tempia destra alla guancia sinistra. Le altre colpirono varie parti dell’apparecchio.

Il Ten. Semplicini, già dell’8° fanteria si accasciò immediatamente e non si mosse più.

Cercai allora di fuggire; ma giunto sopra Levico, altri colpi giuntemi dalle spalle, mi colpirono il serbatoio principale. Cercai di adoperare quello di riserva, ma mi accorsi che anche quello era stato colpito fin da prima.

Scesi spiraleggiando per non sforzare i fili di coda, i più colpiti.

Atterrai in un orto nei pressi della stazione di Levico non riuscendo a raggiungere un campo di atterraggio sito nei pressi del lago.

Poco prima di me era atterrato anche il primo apparecchio nemico colpito, credo, dagli ultimi colpi del mio osservatore. Ma, a mia domanda, il Feldwebel Kiss (secondo “asso” austriaco) mi disse d’aver avuto un guasto al motore.

Non potei incendiare il mio aereoplano. Avevo un bengalotto distruttore ma non funzionò. Prima che potessi prendere i cerini da sotto gli indumenti di volo ero in mezzo ad una brigata di fanteria austriaca che si trovava nella città a riposo. Venne anche il generale comandante la divisione che fece rendere gli onori militari al mio osservatore e che si congratulò con me per il combattimento.

Mi fece fare poi delle rimostranze dall’ufficiale d’ordinanza perché non avevo ringraziato.

Venni trattato in modo molto cavalleresco e gentile da tutti gli aviatori austriaci.

[Relazione fornitami cortesemente dallo storico Paolo Varriale, che l’ha riprodotta nel suo libro

«Gli assi austro-ungarici della Grande Guerra» (Editrice Goriziana, 2012)]

Difficile, oggi, leggere queste righe senza percepirne la compostezza e la dignità, l’equilibrio tra dramma e lucidità tecnica. Ma quel che colpisce maggiormente è il tono quasi distaccato, da soldato che compie semplicemente il proprio dovere, anche nell’eccezionalità di un’ora di combattimento contro due nemici, con l’aereo danneggiato e il compagno morto al suo fianco.

Piga fu trattato da prigioniero d’onore, in una delle rare occasioni in cui, anche in tempo di guerra, si riconosceva il valore morale, oltreché militare, del proprio avversario. Il generale austriaco che ordinò gli onori al caduto italiano, e le congratulazioni rivolte a Piga, non furono meri atti protocollari: testimoniano il rispetto umano tra uomini d’armi prima che la guerra moderna diventasse completamente disumanizzata.

Anche da parte italiana l’episodio ebbe risonanza. Il 20 luglio 1917, un aereo austro-ungarico sorvolò le linee italiane e lasciò cadere un plico contenente una lettera scritta da Piga e alcune fotografie dei funerali militari di Renato Semplicini. Un gesto che oggi stupisce, ma che allora confermava ancora l’esistenza di un codice d’onore fra aviatori, simile a quello dei cavalieri.

Con questo episodio nasce la leggenda militare di Vitale Piga: quella di un giovane ufficiale che aveva messo in gioco tutto per la missione affidatagli e che, anche nella prigionia, non aveva perso il proprio contegno e il senso del dovere. Era l’inizio di un percorso che lo avrebbe portato, quasi vent’anni dopo, a concepire per sé un’altra missione, ancora più estrema.

  1. Il kamikaze mancato del Duce

Per molti reduci, l’esperienza della guerra fu una frattura irreparabile, un trauma da rimuovere. Per altri, invece, rappresentò l’unico momento autentico della propria esistenza. Vitale Piga appartenne senza dubbio a questa seconda categoria: tornato dalla prigionia nel 1918, non si smarrì nella disillusione del dopoguerra, né cercò rifugio nell’oblio della vita civile. Al contrario, continuò a vivere nella dimensione bellica: idealizzata, trasfigurata, quasi sacralizzata. La guerra, per lui, non era solo un evento passato, ma una grammatica dell’onore, un’«etica dell’azione» che il tempo di pace non sembrava in grado di replicare.

Rientrato in Sardegna, aderì inizialmente al Partito Sardo d’Azione di Emilio Lussu, condividendone lo spirito combattentistico e il legame con le istanze autonomiste dell’isola. Tuttavia, già nel gennaio del 1923, abbandonò il partito per confluire, insieme a un nutrito gruppo di ex sardisti, nel Partito Nazionale Fascista, che considerava l’interprete più coerente e risoluto dei suoi ideali di ordine, sacrificio e grandezza nazionale. Da quel momento, la sua militanza politica si saldò indissolubilmente con la fedeltà al regime.

Entrò nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (M.V.S.N.) in qualità di centurione fuori quadro e vi restò fino a quando, per disposizione generale, ne fu escluso per non avere mai avuto un comando effettivo di reparto. Ottenne dal partito incarichi civili di rilievo. Fu nominato Podestà del Comune di Iglesias, carica che ricoprì dal 1927 al 1931, e in seguito divenne Segretario Provinciale della Confederazione dei Sindacati dell’Industria a Nuoro e poi a Cagliari. Il suo percorso mostra un uomo che, pur senza più combattere sul campo, continuava a concepire la propria esistenza come servizio permanente alla Patria e al Duce, in tempo di guerra come in tempo di pace.

La sua identità di combattente rimase inalterata. Quando, nell’estate del 1935, l’Italia fascista si preparava alla guerra d’Etiopia, Piga sentì riaccendersi dentro di sé la vocazione alla militanza, trasformata ormai in una fede politica totalizzante. Non era più soltanto un soldato, ma un uomo pronto a sacrificare la propria vita per la grandezza dell’Italia e per il Duce.

Fu in quell’estate che Piga scrisse due lettere al governo fascista, indirizzate al segretario personale di Mussolini, Osvaldo Sebastiani. La prima, datata 11 luglio 1935, conteneva un’offerta tanto estrema quanto rivelatrice: si offriva volontario per una missione suicida. La richiesta venne ignorata, ma Piga non desistette. Il 21 settembre dello stesso anno, reiterò la proposta in una seconda lettera, ancora più esplicita e appassionata, che rappresenta un documento straordinario della sua mentalità e del suo fanatismo politico:

Cagliari, 21 Settembre 1935/XIII

Ill.mo Dott. Sebastiani,
circa due mesi or sono le venne trasmessa dal Luogotenente Generale Comandante le Camicie Nere della Sardegna una mia domanda tendente ad informare S.E. il Capo del Governo che io e qualche altro eravamo disposti a guidare contro una nave od altro bersaglio, col sacrificio certo della vita, una torpedine aerea ad alto esplosivo.
Niente di originale nella proposta in quanto l’apparecchio è stato in parte già studiato dalla R. Aereonautica e perché questa immolazione è già stata ammessa nella Marina Giapponese con sommergibili minuscoli ed in quella tedesca con le torpediniere suicide.
Ella trasmise la domanda al Ministero dell’Aereonautica che non la capì.
Perciò insisto pregandola vivissimamente di riesaminare la proposta che non può, specie in un momento come questo, esser presa alla leggera.
In questa nostra Città che si appresta a mostrare i denti ed a non smentire la sua fama, a contatto col mare, io posso sentire più di ogni altro quanto possa essere utile il sacrificio alla mia Patria ed ai miei bambini.
Sono il Segretario dell’Unione Fascista dei Lavoratori dell’Industria di Cagliari e sono I° capitano pilota di aereoplano invalido di guerra.
La ringrazio sentitamente e La ossequio
Dev° Rag. Vitale Piga
[ACS, SPD, CO (1922-1943), serie numerica, b. 2059, fasc. 536125, Piga rag. cav. Vitale – Cagliari]

Il tono della lettera è solenne, quasi liturgico. Piga si presenta come un martire moderno, pronto a immolarsi in una missione che richiama modelli di sacrificio già adottati dalle marine giapponese e tedesca. La scelta delle parole – «sacrificio», «immolazione», «patria», «bambini» – rivela una visione del mondo assoluta, dominata da un’ideologia totalitaria che esalta la morte come supremo gesto di fedeltà.

La proposta di Vitale Piga, estrema e fuori da ogni protocollo, non fu accolta. Il Ministero dell’Aeronautica ignorò nuovamente la sua richiesta di compiere una missione suicida. E tuttavia, anche in questo rifiuto si riflette il segno più profondo della radicalità del suo fervore. Piga non era né un opportunista del regime né un nostalgico in cerca di riscatto personale. Era qualcosa di diverso e, forse, di più inquietante: un fanatico autentico, uno che viveva il fascismo come una religione civile, in cui ogni gesto, anche il più estremo, doveva essere testimonianza di fede, sacrificio e devozione assoluta al Duce.

Dopo il rifiuto ufficiale, Piga non rinunciò al proprio ruolo all’interno dell’apparato del regime. Continuò a servire fedelmente la causa fascista e, nel 1939, dopo la fondazione della città, fu nominato podestà di Carbonia. In questo nuovo incarico contribuì con zelo agli sforzi bellici del regime, organizzando e disciplinando le masse operaie impiegate nell’estrazione del carbone, una risorsa fondamentale per l’autarchia italiana e per le ambizioni militari dell’Italia fascista.

La vita di Vitale Piga si concluse molti anni dopo, lontano dai clamori della storia. Eppure, il contrasto tra le due grandi fasi della sua esistenza – quella del giovane eroe dei cieli nella Grande Guerra e quella del fervente funzionario e militante del fascismo – restituisce un ritratto complesso, quasi tragico. Piga fu, in modi differenti, un uomo profondamente legato al proprio tempo: dapprima testimone di una guerra ancora permeata da ideali cavallereschi, poi interprete di quella stessa guerra trasfigurata in ideologia, in culto della morte, in mistica totalitaria. Dalla nobiltà del sacrificio all’ossessione del martirio, il suo cammino racconta la parabola inquietante di un’intera generazione.

Alberto Vacca

È recentemente uscito in libreria «Fascismo in famiglia», il nuovo e coraggioso libro di Barbara Serra, nota giornalista italo-britannica con una lunga carriera nel giornalismo internazionale, tra BBC, CNN, Al Jazeera e Sky News. In questo intenso lavoro, Serra affronta una delle domande più spinose e irrisolte della storia italiana: abbiamo davvero fatto i conti col nostro passato fascista?

Per rispondere, Serra parte da sé, dalla propria storia, scavando nella biografia di famiglia e, più precisamente, nella figura di suo nonno, Vitale Piga, che fu podestà di Carbonia durante il Ventennio. L’indagine è al tempo stesso personale e storica, affettiva e politica, e si trasforma pagina dopo pagina in un viaggio dentro le zone grigie della memoria collettiva e individuale.

Il libro ha il tono di un’inchiesta condotta con rigore giornalistico e partecipazione emotiva. Serra non si accontenta di ricordi familiari vaghi o versioni addolcite della realtà: consulta archivi pubblici e privati, esamina documenti ufficiali, atti amministrativi, lettere, testimonianze. Ne emerge un quadro composito e complesso, dove il ritratto del nonno si arricchisce di sfumature, ma non elude il giudizio morale.

La domanda che aleggia sin dalle prime pagine è tanto semplice quanto destabilizzante: «Mio nonno era un fascista buono?». La risposta, che arriva gradualmente ma con crescente chiarezza, è negativa. Nonostante non emergano episodi di violenza diretta o crudeltà, Vitale Piga non si distaccò mai dalla politica del regime. Anzi, ne fu parte attiva, amministrando la città di Carbonia secondo i principi e i codici del fascismo, senza mai prenderne le distanze, né allora né dopo.

Vitale Piga, infatti, non fu un «fascista buono», ma piuttosto un «buon fascista», nel senso più pieno del termine. Aveva assimilato e praticato fino in fondo i tre precetti fondamentali della retorica fascista: «Credere, obbedire, combattere». Dei tre, quello che più sembrava appartenergli per indole e vissuto era «combattere»: Piga era stato un eroe della prima guerra mondiale, un tenente pilota dell’aeronautica militare. Il 13 luglio 1917, l’aereo su cui volava insieme all’osservatore tenente Renato Semplicini fu abbattuto dall’asso ungherese Josef Kiss. Nell’impatto Semplicini perse la vita, mentre Piga fu catturato e fatto prigioniero.

Nell’estate del 1935, mentre l’Italia si prepara alla guerra d’Etiopia, scrive due lettere al Duce per offrirsi volontario in una missione suicida, in nome della Patria e dei suoi due figli. Una proposta tanto estrema quanto emblematica, che non verrà accolta dal Ministero dell’Aeronautica, lasciando Piga a una vita ancora lunga, che si concluderà per cause naturali molti anni dopo. Ma quell’episodio basta a chiarire il tipo di adesione che animava la sua militanza: non tiepida, non opportunistica, ma convinta, orgogliosa, profondamente ideologica.

Il merito principale del libro è quello di trasformare una vicenda familiare in uno specchio dell’Italia intera. Serra non cerca assoluzioni, non indora la pillola, ma si mette a nudo in prima persona, mostrando quanto sia difficile – e necessario – fare i conti con ciò che si è ereditato, anche quando quella eredità è scomoda, dolorosa, in conflitto con i propri valori.

L’indagine su Vitale Piga diventa così l’occasione per interrogare una nazione che ha spesso preferito rimuovere, dimenticare, archiviare il proprio passato sotto etichette comode come «brava gente» o «fascismo all’italiana». Il libro ci mette di fronte alla realtà che, in molti casi, il fascismo non è stato solo una parentesi imposta dall’alto, ma un sistema condiviso e amministrato anche da persone comuni, padri, zii, nonni – appunto – che hanno collaborato con il regime senza mai pentirsene.

«Fascismo in famiglia» è un libro che scava, interroga e disturba. Non semplifica, non assolve, ma mette in moto una riflessione profonda su ciò che siamo stati e su ciò che ancora ci portiamo dentro. Con una scrittura sobria e coinvolgente, Barbara Serra riesce a intrecciare il dato storico con la memoria personale, il racconto intimo con l’analisi politica.

È un’opera che andrebbe letta nelle scuole, discussa nei talk show, usata come chiave per rileggere quel periodo storico non come un monolite ideologico, ma come una rete diffusa di scelte individuali che ancora oggi ci interrogano.

In tempi in cui il discorso pubblico sembra indulgere sempre più spesso a forme di revisionismo storico, con dichiarazioni che minimizzano la gravità del fascismo e ne esaltano i presunti meriti, il libro di Barbara Serra suona come un richiamo alla responsabilità. Quella di conoscere, di ricordare, ma anche di riconoscere – nei gesti, nei silenzi, nelle omissioni – le responsabilità di un passato che è tutt’altro che sepolto.

«Fascismo in famiglia» non è solo un’indagine su un nonno, ma un’operazione di verità su una memoria nazionale ancora fragile. È un atto di coraggio e di amore per la storia, anche quando fa male. Serra ci mostra che la memoria non può essere selettiva e che il vero antifascismo, oggi, passa anche attraverso la capacità di guardare in faccia i propri fantasmi, anche quelli che hanno il nostro stesso cognome.

Alberto Vacca

 

E’ morto oggi, all’età di 87 anni (era nato il 27 settembre 1935), l’ingegner Paolo Costa, ex consigliere, assessore e vice sindaco del comune di Carbonia. Il suo impegno professionale si è concretizzato, in particolare, nell’attività urbanistica, con la partecipazione alla redazione dei Piani di fabbricazione dei comuni di San Giovanni Suergiu, Giba e Santadi, del Piano regolatore del comune di Sant’Anna Arresi, del Piano delle aree turistiche (Zone F) di Chia, comune di Domus de Maria. Paolo Costa è stato anche incaricato, per conto dell’Istituto Autonomo delle Case Popolari della provincia di Cagliari, del progetto di Recupero Urbano del Rio Cannas-Corso Iglesias, a Carbonia. E’ stato responsabile dell’Ufficio Tecnico del Consorzio di Bonifica del Basso Sulcis, ente del quale è stato uno dei dirigenti sino alla pensione.

Quattro anni fa, Paolo Costa scrisse il libro “Due case e altre cose”, che venne presentato venerdì 10 maggio 2019 nella Sala del Centro di documentazione di Storia Locale della Grande Miniera di Serbariu. Il testo propone elementi di riflessione sui temi dell’urbanistica e dell’architettura della città di Fondazione, della sua impronta razionalista, attraverso i suoi protagonisti principali, Cesare Valle e Ignazio Guidi, personalità a cui si deve l’impostazione del Piano Urbanistico Originario della città di Carbonia. A loro si aggiunge Gustavo Pulitzer Finali, che ha progettato il profilo architettonico del centro, ed Eugenio Montuori, che si è occupato dell’attività di realizzazione di alcuni edifici di particolare pregio, quali Villa Sulcis e l’Albergo Centrale.

Di formazione politica socialista, Paolo Costa venne eletto consigliere comunale nel 1988. Nella Giunta guidata dal sindaco Ugo Piano, ricoprì l’incarico di assessore dei Beni culturali e ambientali. Nel corso della consiliatura, dopo la crisi politica che portò nel 1990 all’interruzione traumatica della seconda consiliatura da sindaco di Ugo Piano e all’elezione in Aula, al suo posto, di Antonangelo Casula (la legge 81 che ha cancellato questa possibilità, con l’elezione diretta del sindaco, del presidente della Provincia, del Consiglio comunale e del Consiglio provinciale, venne approvata tre anni dopo, il 25 marzo 1993), venne confermato assessore con le stesse deleghe e, in più, quella di vicesindaco.

«Paolo Costa è stato una figura di grande cultura e spicco della città di Carbonia e dell’intero territorio, ove si è distinto per le sue capacità e il suo impegno quale ingegnere-urbanista, nonché per il suo impegno verso la propria comunità come assessore dei Beni culturali e ambientali della Giunta guidata dal sindaco Ugo Piano e dal 1990 al 1993 come vicesindaco nella Giunta presieduta dal sindaco Antonangelo Casula – ha detto il sindaco di Carbonia, Pietro Morittu -. Solo qualche giorno fa l’ing. Paolo Costa ha espresso grande soddisfazione per le idee progettuali messe in campo dall’Amministrazione comunale con i diversi progetti del PNRR di cui sono state indette le gare per oltre 20 milioni di euro, con particolare riferimento alla riqualificazione del ponte sul Rio Cannas. Esprimo a nome mio e dell’intera Amministrazione comunale, le più sentite condoglianze ai familiari.»

Il segretario del Partito democratico del Sulcis Iglesiente, Mauro Esu, ha sottolineato in una nota che «quella di Paolo Costa è una grande perdita per la nostra comunità. Ingegnere, è stato un professionista di grande valore, uomo di cultura e brillante intellettuale, qualità queste, che ha saputo esprimere anche come amministratore pubblico quando ha ricoperto gli incarichi di assessore comunale e vice sindaco della città di Carbonia e da dirigente politico e militante della sinistra. Il PD si unisce al dolore della moglie Romana, delle figlie Elisabetta, Francesca, Barbara e delle rispettive famiglie».

 

Giampaolo Cirronis

Nella foto di copertina Paolo Costa all’incontro organizzato in ricordo di Vitale Piga, podestà della città di Carbonia dal 28 settembre 1939 al 24 aprile 1942, svoltosi il 10 novembre 2017 nella Sala del Centro di documentazione di Storia Locale della Grande Miniera di Serbariu. Nella seconda foto, con il collega di Giunta e compagno socialista Paolo Campus, nella vecchia sala consiliare.

Venerdì 20 maggio, alle ore 17.30, al Supercinema di Carbonia è in programma la proiezione del docufilm “Fascism in the family” della giornalista di Al Jazeera Barbara Serra, vincitore di due premi oro al New York Festivals Film & TV Awards nelle categorie “Storia” e “Attualità”. Barbara Serra verrà intervistata dal collega Luca Telese. L’evento è patrocinato dal Comune di Carbonia.
Coordinerà i lavori Paolo Serra, direttore della Società Umanitaria Carbonia. E’ prevista la partecipazione del sindaco di Carbonia Pietro Morittu, che porterà i saluti istituzionali della città.
Sono previsti interventi di rappresentanti di: Associazione Amici della Miniera, Circolo Soci Euralcoop, CGIL – Camera del Lavoro CGIL – Sardegna Sud Occidentale, CISL – UST Sulcis Iglesiente, UIL, ANPI – Sezione Carbonia.

Barbara Serra è nipote di Vitale Piga, podestà di Carbonia nei primi anni della neonata cittadina del Sulcis, dal 28 settembre 1939 al 24 aprile 1942, presidente dell’Ente ospedaliero ed autore del libro “Il giacimento carbonifero del Sulcis – Carbonia”. Barbara Serra era stata a Carbonia il 10 novembre 2017, in occasione di un incontro organizzato nella sala della Sezione di Storia locale, sita nella Grande Miniera di Serbariu, in ricordo del nonno Vitale Piga.

Il 14 aprile del 1992, all’età di 91 anni, moriva a Roma l’ingegner Valerio Tonini, era nato a Velletri nei Castelli Romani il 15 dicembre del 1901.

Il suo nome è noto a Carbonia come autore del romanzo “Terra del Carbone”, pubblicato dall’editore Guanda nel 1943 e come socio della ditta Fadda Tonini, una delle tante imprese edili che furono impegnate nella costruzione della città.

Si laurea in Ingegneria all’Università di Pisa nel 1924 all’età di 23 anni.

Dopo una breve parentesi al Distretto Militare di Cagliari come Sottufficiale di Complemento, si trasferisce in Sardegna alle dipendenze dell’Impresa Ansoldi, impegnata nella bonifica di Su Siccu e nel 1930 si unisce in matrimonio con Elena Salazar, di famiglia nobile, dalla quale ebbe due figli, Maria Bonaria e Ferdinando.

A Cagliari, la ditta Fadda&Tonini, costruirà diversi fabbricati civili in via Pola, proprio su progetto di Tonini e partecipa a diversi appalti da parte del Genio Aeronautico. Nel 1937 contribuisce alla realizzazione di Carbonia, costruendo molti fabbricati nel versante est della nuova città.

Fu richiamato alle armi nel 1940 e assegnato, con il grado di Capitano Comandante, al reparto Fotoelettricisti della Divisione Cremona che ebbe un ruolo nell’occupazione della Corsica, dove scriverà due brevi saggi “Note di storia corsa” e “Russia e Mediterraneo” pubblicati nella rassegna di Cultura militare del ministero della Guerra.

Dopo l’armistizio del 8 settembre del 1943 ritorna in Sardegna ed insieme all’ingegner Luigi Fadda, suo cognato e gli ingegneri Enrico Pani, Angelo Binaghi e Flavio Scano costituisce la SpA Imprese Riunite -, che ebbe un ruolo importante nella ricostruzione post bellica della Città di Cagliari.

Tra il 1946 ed il 1948 scrive diversi articoli per l’Unione Sarda e l’Informatore del Lunedì, dai quali si può rilevare una particolare attenzione ai temi sociali e al mondo della cultura isolano.

Contemporaneamente, si dedica a quella che si rivelerà la “missione principale” della sua futura attività di studioso della Scienza. Sono sempre del 1946 i primi scritti scientifici concernenti la teoria della relatività pubblicati nei “Rendiconti della Facoltà di Scienze” dell’Università di Cagliari.

Negli stessi anni, matura un rapporto intenso con Ludovico Geymonat uno dei filosofi italiani più importanti della seconda metà del ‘900.

Nel tempo Valerio Tonini matura la passione per la ricerca scientifica, che potrebbe apparire in un primo momento poco affine a quella di un costruttore edile e lo stesso romanzo sulla nascita della città potrebbe essere considerato una parentesi letteraria.

La passione per la Scienza lo porterà negli anni Cinquanta a fondare con Francesco Severi la Società Italiana di Logica e Filosofia e la rivista di Scienze dell’uomo e di Filosofia delle Scienze che chiamerà: “La Nuova Critica” e della quale assumerà la Direzione editoriale.

Alcuni tratti della sua personalità e degli interessi che lo assorbiranno nella vita, si rivelano a partire dal carteggio con l’editore Guanda, custodito presso la Sezione di Storia locale del comune di Carbonia, relativo alla pubblicazione di “Terra del Carbone” che in origine voleva titolare “Nascita”.

Nel carteggio, chiede all’editore la pubblicazione di un’opera, “Vocazione”, definita di carattere intimo e religioso ed oltre una analoga la richiesta di pubblicazione di un articolo a commento delle prediche volgari di San Bernardino da Siena.

L’attività di conduzione della rivista la Nuova Critica fondata nel 1955 lo ha accompagnato lungo tutto l’arco della sua esistenza e lo ha proposto come un’inesauribile animatore del dibattito scientifico che ha attraversato la seconda metà del Novecento.

Arturo Carsetti segnala «il collegamento strettissimo, anche se non sempre palese, della Rivista con le attività della Académie Internationale de Philosophie des Sciences di cui Egli fu membro titolare».

Valerio Tonini ha dedicato una parte della sua vita e delle sue energie alla ricerca epistemologica ed allo studio della filosofia della scienza e la rivista da lui fondata è stata una fucina importante del dibattito su questi temi, ne sono una solida testimonianza il livello assoluto dei collaboratori e degli interlocutori, oltre al già citato Arturo Carsetti (condirettore della Nuova Critica) Rita Levi Montalcini, Antonio Ruberti, Dario Antiseri, noti al grande pubblico.

Ho avuto modo di interloquire con l’ingegner Tonini attraverso l’intermediazione di Ignazio Delogu, nella fase che ha preceduto la ristampa del suo romanzo “Terra del Carbone”.

Eravamo rimasti d’intesa che ci saremmo incontrati a Roma per definirne i dettagli, purtroppo, la sua improvvisa scomparsa non lo ha consentito, sento tuttavia il dovere, ancora una volta, di sottolineare la gratitudine che come cittadini di Carbonia gli dobbiamo e credo che la coincidenza con il trentennale della sua morte sia un’occasione solenne per ribadirla.

Il Romanzo, rappresenta un contributo significativo alla cultura nazionale del lavoro minerario.

Lo stesso titolo dell’opera “Terra del carbone” riassume in maniera eloquente, quanto il nome della città, l’epopea della storia mineraria carbonifera del nostro paese.

Valerio Tonini è stato con questo romanzo un testimone autentico della nascita della città di Carbonia, ed ha offerto una testimonianza di verità sulla condizione della gente sarda di allora, i personaggi principali sono contadini e pastori che si misurano per la prima volta con la dimensione urbana della nuova città.

Il romanzo contiene suggestioni particolari, parla di quella generazione di pionieri che sono arrivati a Carbonia da tutte le Regioni d’Italia in cerca di fortuna, di riscatto, di una speranza di vita e di futuro.

La nascita delle nuove città è stata accompagnata nel Ventennio, da parole d’ordine molto forti: ruralismo, bonifica, autarchia, da una retorica celebrativa del regime e delle sue realizzazioni, da un dibattito culturale grossolano e farsesco che contribuiva ad allontanare da ogni regola del buon gusto un’impresa – quella della costruzione delle nuove città – che ha comunque lasciato obiettivamente un segno significativo nel tempo.

“Terra del Carbone” celebra la nascita di una città, ma lo fa con stile elegante, asciutto, non declama i fasti di un regime che si è appena impegnato in una ridicola impresa coloniale ed in un’ingloriosa impresa bellica nell’Africa orientale, (che è in fondo la vera ragione della nascita di Carbonia che viene accelerata dall’embargo deciso della Società delle Nazioni in seguito all’occupazione dell’Abissinia).

Non racconta le gesta del Duce, come per certi versi il testo quasi coevo di Vitale Piga o i racconti di Stanis Ruinas, Tonini fa una scelta diversa, pone al centro della narrazione la vita di persone comuni, di coloro i quali sono stati gli anonimi protagonisti della nascita della città, con le loro aspirazioni, le loro speranze, le loro ambizioni e perché no i loro vizi, i loro difetti.

Il testo offre spunti di particolare interesse e si distingue da opere e contributi rievocativi del tempo per l’assenza di qualsiasi intento celebrativo e retorico dell’avventura imperialistica ed autarchica, ma racconta in con uno stile “verista” le vicende quotidiane, i sacrifici, le lotte dei minatori, della città e del nostro Paese.

Per usare un’espressione del compianto, Ignazio Delogu: «[…]si tratta di un’opera da suggerire all’attenzione di critici e studiosi della letteratura realista e neorealista, della quale il romanzo di Tonini è una vera e propria anticipazione».

Nel corso degli anni Novanta ’90 come Amministrazione oltre alla ristampa anastatica del romanzo, promuovemmo, su iniziativa dell’assessore Romano Morittu, negli Istituti scolastici della città, borse di studio dedicate alla memoria di Tonini, iniziativa che, purtroppo, non ebbe seguito.

Per questo non credo sia superfluo l’auspicio, rivolto innanzitutto a me stesso, ai nostri concittadini ed aggiungo all’Amministrazione della città, di assumere l’impegno di ricordare la figura di Valerio Tonini e valorizzarne l’opera e il pensiero in maniera duratura.

Antonangelo Casula

Foto del commendatore Paolo Fadda

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Nulla sarà come prima. Man mano che le settimane passano, tutte quelle morti e la paura di morire scivoleranno nell’oblio. Eppure, nei rapporti sociali, fatti di politica, economia, cultura, questo incidente sanitario durato tre mesi modificherà gli schemi della convivenza. Avverrà lentamente. All’inizio questi incidenti sembrano piccoli episodi della storia, successivamente si manifestano nella loro grandiosità.

Capitò a Cristoforo Colombo quando scoprì l’America pensando di aver trovato solo una nuova strada per il commercio delle spezie e della seta. Invece aveva messo il seme di: Canada, Stati Uniti eAmerica Latina.

Esistono tre fili guida su cui corre la Storia: la cultura umanistica, la ricerca del benessere e l’astrazione religiosa. Sono le tre direttrici dell’identità. Poi esistono direttrici peculiari dei luoghi:

  • Sant’Antioco si identifica col suo porto ed il mare;
  • Carloforte nella sua insularità;
  • Il Sulcis nelle sue vigne ed allevamenti;
  • Carbonia e Iglesias nei loro ospedali e nelle attività industriali.

Inoltre queste città riconoscono una identità comune nella storia del loro “Sistema sanitario”.

La Sanità di Carbonia iniziò esattamente il 18 dicembre 1938 con il discorso di Benito Mussolini dalla Torre Littoria, nel tripudio popolare.

Allora esisteva a Carbonia un piccolo ospedaletto in piazza Cagliari. La storia di quei primi anni è scarsa. Abbiamo più notizie nel 1941. Siamo in pieno fascismo e in piena guerra. Le miniere producevano la materia prima per il consumo bellico di energia. 

I primi  professionisti sanitari vennero assunti, con regolare delibera, nel 1941.

La prima figura di Sanitario dipendente fu la signora Liliana Casotti, infermiera ostetrica. Venne assunta il 16 agosto 1941. Lei  da sola, fece nascere migliaia di bambini dalle donne della vasta città di 65.000 abitanti appena sorta.

Il 16 Settembre 1944 venne assunto il dottor Renato Meloni, chirurgo, urologo, ematologo, oncologo, ostetrico e ginecologo. Aveva 25 anni.

Questi due personaggi furono i progenitori del futuro mondo Sanitario.

Esiste su Youtube un bellissimo film documento con immagini di Carbonia in quegli anni. “Fascism in the family”. Interessantissimo. E’ stato girato da Barbara Serra, la famosa corrispondente da Londra di Al Jazeera. Racconta del Podestà di Carbonia di quegli anni: Vitale Piga. Era il nonno di Barbara. Nel film è ben tratteggiato l’ambiente umano di cui si prendeva cura l’Ospedale di piazza Cagliari.

Alla fine della guerra l’Ospedale nuovo, sorto fuori città, venne utilizzato dalle truppe Inglesi. Poi nel 1956, finito il dopoguerra, tutto il personale di piazza Cagliari si trasferì al Sirai. L’Ospedale era diventato “Ente Ospedaliero Comunale”, ed era classificato come “Ospedale zonale”. Al di sopra dell’ospedale zonale vi era l’”Ospedale Provinciale di Cagliari”, il San Giovanni di Dio. Nel passaggio tra anni ’60 e ’70 il Sirai, per il suo volume di attività, stava per essere riclassificato come Ospedale “Provinciale”. Era Sindaco Pietro Cocco. La procedura non andò a conclusione.

Intanto la compagine Sanitaria era cresciuta:

  • Nel 1945 venne assunto il nuovo primario chirurgo, proveniente dalla Patologia Chirurgica dell’Università di Cagliari, dottor Gaetano Fiorentino. Era un  reduce della campagna di Russia come chirurgo dell’ARMIR.    
  • Nel 1951 venne assunto il dottor Luciano Pittoni, chirurgo, pediatra, ginecologo, ostetrico, traumatologo, neurochirurgo e, soprattutto, anestesista. Fu il primo specialista in Anestesiologia in Sardegna. 
  • Nel 1953 fu assunto il dottor Giuseppe Porcella, chirurgo, traumatologo, proveniente da Sassari.
  • Nel 1954 venne assunto il dottor Enrico Pasqui che, all’età di 25 anni, iniziò a dirigere la Medicina Interna e la Pediatria.
  • Nel 1955 fu assunto il dottor Pasquale Tagliaferri: oculista.
  • Nel 1956 fu assunto il dottor Mario Casula: farmacista.
  • Nel 1956 fu assunto il dottor Enrico Floris: nuovo primario internista.

Nell’anno 1956 il corpo sanitario era formato da 9 persone di cui: di cui 7 medici, 1 ostetrica, 1 farmacista.

Da quel primordiale crogiolo fu generata la complessa organizzazione Sanitaria successiva.

L’Ospedale fu governato, negli anni di crescita, dal Sindaco Pietro Cocco. L’Amministratore era Dioclide Michelotto. Il “Consiglio di Amministrazione” era lo stesso “Consiglio Comunale di Carbonia”. Il Sindaco della città, era il Presidente dell’Ente Ospedaliero.

Il numero degli ammalati messi nelle mani di questi pochi medici era immenso. Si consideri che Carbonia agli albori degli anni ’60, aveva 60.000 abitanti; Sant’Antioco ne aveva 14.000; Carloforte ne aveva 7.000.

L’Ospedale aveva 384 posti letto, tre volte tanto gli attuali  posti letto per acuti. Vi erano due reparti di Medicina Interna, uno di pediatria, uno di Chirurgia Generale, uno di Traumatologia, uno di Ostetricia e Ginecologia, il Pronto Soccorso, la Radiologia, un attrezzato Laboratorio, un Centro Trasfusionale, un ambulatorio chirurgico oculistico per le operazioni di cataratta e rimozione dei corpi estranei dall’occhio, un ambulatorio di Otorinolaringoiatria, le cucine per i ricoverati , la Lavanderia, la falegnameria, le caldaie per il riscaldamento, la squadra di elettricisti, l’officina, la squadra di operai tecnici. Vi erano residenti in Ospedale le Suore Orsoline e i medici (dottor Gaetano Fiorentino, dottor Renato Meloni, dottor Luciano Pittoni). I chirurghi erano immediatamente presenti per le urgenze.

Si eseguivano 1.600 interventi chirurgici l’anno, contro gli 800 circa attuali.

Nascevano 2.000 bambini l’anno, contro gli attuali 300 circa di Carbonia e Iglesias assieme.

Le prestazioni sanitarie venivano pagate dalle Casse Mutue. Il Bilancio dell’Ente era sempre attivo e Il surplus veniva utilizzato per le opere pubbliche nella città di Carbonia. Attualmente invece i bilanci annuali sono in debito per milioni di euro.

Poi arrivò la crisi delle miniere, ma l’Ospedale sotto la guida del Comune, aumentò la consistenza numerica dei suoi dipendenti, e distribuì stipendi che tennero viva la rete commerciale locale. Pertanto, il buon funzionamento della Sanità si traduceva anche in un beneficio economico per il territorio.

Era sempre Presidente Pietro Cocco quando venne promulgata la legge più importante della storia Repubblicana: la legge 833 del 1978. Era la “Legge di Riforma sanitaria”. Fu una grandiosa rivoluzione. Nacquero le ASSL. Quella di Carbonia fu la n. 17; quella di Iglesias fu la n. 16. Scomparvero gli Enti Ospedalieri Comunali e comparvero le “Aziende Socio Sanitarie Locali”. Tutti i Comuni dell’hinterland, cioè il Sulcis, nominarono nel 1982 i Delegati Comunali per il “Comitato di Gestione della ASSL”. Tra i consiglieri comunali eletti, venne formato il Consiglio di Amministrazione della ASSL. Il primo Presidente, dopo Pietro Cocco, fu Antonio Zidda; il vicepresidente fu Andrea Siddi, che era anche Sindaco di Sant’Antioco.

Le deliberazioni della ASSL venivano assunte dopo confronti serrati sia fra i consiglieri comunali del territorio, sia fra Amministrazione e Sindacati.

L’epoca dei Comitati di Gestione fu un fermento di idee e di partecipazione popolare. Furono prese allora le decisioni di miglioramento dei Servizi Ospedalieri fino ad oggi.

Il numero dei Sanitari aumentò e le istanze dei Medici furono rappresentate, in Amministrazione, dal “Consiglio dei Sanitari”. Il parere dei Medici fu fondamentale per qualsiasi decisione di tipo sanitario. La collaborazione fu proficua.

La Direzione Amministrativa Sanitaria della Sardegna era attribuzione dell’Assessore regionale della Sanità che agiva come super-presidente delle ASSL.

In questa scala gerarchica della catena direzionale la volontà popolare del territorio era genuinamente rappresentata.

Negli anni ’90 il corso della storia della Sanità Ospedaliera cambiò bruscamente direzione.

Arrivarono i “Tecnici”. Tristi figure di scuola bocconiana che stravolsero il senso del “prendersi cura dell’Altro”. Gli Ospedali cambiarono nome: si chiamarono “Stabilimenti”. Anche i “pazienti” cambiarono nome: si chiamarono “clienti”. Il prodotto dello “Stabilimento” doveva essere gestito con le stesse regole con cui si producono e si vendono i prodotti industriali. L’obiettivo non era più il benessere sanitario ma il “bilancio”. Il numero di posti letto per mille abitanti fu portato da 6 a 3. Il “bilancio” fu l’ossessione contabile prevalente e si pretendeva di conservare “efficienza e efficacia” pur tagliando posti letto, organici e spese per aggiornamento strumentale e strutturale. Le dinamiche decisionali non derivavano più dal confronto fra i bisogni popolari e la parte politica, ma dalla sequenza rigida di azioni dettate dalla scaletta di un algoritmo. L’algoritmo spodestò lo “spirito di servizio” e la “mediazione” con le “forze sociali” attraverso un retinacolo di passaggi burocratici, impenetrabile al cittadino comune. Il cittadino comune, e anche il più alto rappresentante sanitario della città, il Sindaco, vennero tecnicamente espulsi dal luogo dove si formulano le proposte programmatiche e si prendono le decisioni. Questo fu il frutto delle continue rielaborazioni fino al totale sovvertimento della legge 833.

Il centro del nuovo mondo sanitario venne occupato dallo “apparato burocratico”. I pazienti e i medici vennero posti alla periferia di quel mondo o, più frequentemente, al di fuori.

Il dominio del puro risultato “contabile”  sulla mission di tutela sanitaria della 833 produsse:

  • L’annullamento dei Medici nelle dinamiche decisionali sanitarie,
  • L’annullamento degli Infermieri,
  • La riduzione degli Organici,
  • La conseguente chiusura di reparti medici e chirurgici,
  • La contrazione delle spese per attrezzature ed aggiornamenti,
  • L’accorpamento di reparti deteriorati,
  • La mancata sostituzione dei primari e personale andati in pensione,
  • La insoddisfazione della popolazione costretta a cercare assistenza altrove generando mobilità passiva,
  • L’accentramento della Sanità nelle città capoluogo,
  • L’impoverimento dei Servizi,
  • Le scandalose liste d’attesa.

E ne sono conseguiti:

  • La mobilità passiva verso Cagliari, Sassari ed il Continente,
  • Il trasferimento di somme enormi del Bilancio per pagare i Servizi Sanitari comprati dal capoluogo e dalle Case di Cura private.
  • La perdita, lenta, di circa 1.000 posti di lavoro tra Carbonia e Iglesias a vantaggio di Cagliari.
  • Le 1.000 buste paga scomparse in progressione dal Sulcis Iglesiente, tra la fine degli gli anni ’90 ed oggi, corrisponde a oltre un milione e mezzo di euro di stipendi al mese che manca alla rete commerciale locale.
  • In un anno mancano al circuito di danaro nel Sulcis Iglesiente almeno 18 milioni di euro.
  • La mancanza di soldi dal nostro territorio a vantaggio di territori già traboccanti di privilegi e servizi come Cagliari genera: povertà.
  • La povertà e la mancanza di lavoro chiudono il cerchio e si autoalimentano.
  • La fuga delle giovani coppie che ne consegue si traduce in spopolamento ed invecchiamento relativo.
  • I meno giovani restano in balia di un sistema che non è più “accogliente” come ai tempi dei “Comitati di Gestione” ma “respingente”.
  • Le lunghissime “liste d’attesa” sono la rappresentazione grafica perfetta del “respingimento” in atto.

Durante il “lockdown” abbiamo assistito ad un fenomeno impensabile: il “silenzio” dei Medici Ospedalieri.

Nessuno parla, nessuno informa, né partecipa alle ansie della gente. Muti lavorano, distogliendo lo sguardo.  Il “silenzio” dei Medici Ospedalieri è il sintomo chiaro della loro esclusione dalla Sanità.

Ora è il momento.

Se è vero che nulla sarà come prima, dobbiamo stare attenti. Il cambiamento può essere in meglio o anche in peggio.

Per tutto ciò che ho detto in premessa, questo è un momento storico: sul cavallo in corsa della nostra Storia Sanitaria è stato cambiato il cavaliere. Bisogna verificare chi è, e in quale direzione intende correre questo cavaliere post-Covid.              

Mario Marroccu