5 December, 2025
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Le mie riflessioni nel quadro dell’antropologia mineraria non possono prescindere da un asse, tematico e concettuale, che riguarda i saper fare minerari vitali. Tale asse s’inquadra nello sviluppo dell’antropologia mineraria, diventata vigorosamente specialistica soprattutto a partire dal 2003 con Ballard e Banks, le cui critiche alla precedente letteratura antropologica sul piano teorico e le cui proposte di rinnovamento nell’antropologia assumono il piglio di una complessiva svolta mineraria.
L’antropologia mineraria vive attualmente uno straordinario sviluppo scientifico in cui gli studi realizzati in Sardegna hanno acquisito importanti riconoscimenti: di essere pionieristici in Italia; di essere stati attenti alla formazione di soggetti autonomi tenendo conto dei generi che partecipano all’industrializzazione mineraria; di aver collocato gli studi minerari in una prospettiva di storici rischi che parlano ai rischi del presente.
Per quanto riguarda i rapporti tra i saper fare minerari e il vitale, tali rapporti si possono ricondurre, sul piano dell’antropologia filosofica, a quanto aveva scritto Husserl negli anni che vanno dal 1935 al 1937, quando aveva indicato la crisi dell’Europa e delle scienze europee nell’aver creato mondi di verità scientifica come scienze di fatti, avulsi dalle relazioni con il mondo della vita, con le forme di esistenza umana e con i soggetti che lottano per l’esistenza. I semi delle riflessioni sul mondo della vita si trovano in alcuni suoi scritti di ricerca degli anni Trenta, pubblicati in italiano nel 2025, dati i rinnovati interessi sui temi del vitale. In Francia, importante filosofo della vita fu Canguilhem che ne scrisse nel 1965 e fu maestro di Foucault il quale giunse poi a individuare i biopoteri. Nella cultura filosofica italiana, la questione delle forme di vita e dei modi di vita ha un filone di rilevante interesse che parte da Bruno e arriva a Gramsci. L’opzione gramsciana su pensiero e vita consente di comprendere un ambito di studi non limitatamente eurocentrici, data la diffusione e l’elaborazione del pensiero gramsciano sia in Oriente e sia in America Latina. Richiamo tre filoni di pensiero e tre paesi europei (Germania, Francia, Italia) in cui il vitale ha assunto rilevanza culturale, limitandomi a lasciare sullo sfondo tali concettuali nei quadri d’epoca in cui i saper fare minerari vitali possono mostrare particolare significatività.
Rapportando il vitale al culturale nel rapporto fra storia naturale e storia umana, e fra scienze naturali e scienze umane, pare necessario riprendere e mettere a fuoco ancor più l’esperienza dell’ominazione, dalla posizione eretta alla produzione dei ciottoli che diventano strumenti e poi strumenti per fare altri strumenti (metastrumenti). André Léroi-Gourhan, antropologo e archeologo francese, ne parla nella sua opera Il gesto e la parola (1964) a proposito dell’evoluzione tecnica nelle fasi in cui la specie umana non aveva ancora conquistato la completa padronanza tecnica e di linguaggio. Nelle vicende dell’homo sapiens, vissuto tra il 30.000 e l’8.000 prima della nostra era egli situa l’esperienza dell’industria litica, l’insieme della produzione di utensili di pietra costituito da arnesi da taglio destinati a tagliare, a grattare, a trafiggere. Si tratta del primo collegamento fra la specie umana e le risorse del sottosuolo. I primi tagli sono sommari.
Percuotendo perpendicolarmente la pietra si ottiene un’estremità tagliente, perfezionata con una serie di schegge supplementari sulle due facce della punta. A partire da questo utensile molto grossolano, troviamo l’amigdala, una sorta di coltello di pietra a forma di mandorla che subisce una lenta evoluzione, forse per quattrocentomila anni. Al termine della sua evoluzione l’amigdala è diventata una mandorla di selce, spessa ed equilibrata. Fra l’8000 e il 6000 prima della nostra era, le lavorazioni si specializzano e si afferma una tendenza verso la produzione di piccoli pezzi, verso un generale microlitismo, in cui la lama serve a sua volta a creare altri prodotti. La pietra grezza diventa chopper che è pietra tagliata e anche pietra tagliente per le macellazioni e per le produzioni delle pelli. Nel Neolitico l’esperienza dell’agricoltura presenta nuove necessità tecniche. L’accetta e l’ascia hanno bisogno di un peso elevato per le lavorazioni del terreno. Si realizza un’importante differenziazione dei prodotti nell’industria litica del Paleolitico superiore.
Nella storia della specie umana i Paleantropi presentano tecnici di valore, capaci di progettare e realizzare strumenti litici con precise forme e funzioni, abili nell’unire il mondo delle cose al mondo delle idee. Sul piano delle differenziazioni culturali nella specie umana, in Sardegna l’esperienza dell’antropologia mineraria più lontana, a partire dall’industria litica, deve affiancarsi alla paleontologia umana. Può giungere pertanto all’archeologia delle frecce di ossidiana, ripensando esperienze locali sia per la solidarietà del cibo condiviso e sia per le crudeltà delle guerre con altri esseri viventi, umani e non umani. I fatti e le tendenze tecniche delle estrazioni di pietra, anche a cielo aperto, appaiono fin dai primi passi dell’umanità strettamente connessi alla produzione di oggetti e insieme di modi di vita, o meglio di modi d vivere e di convivere con altri esseri vitali, umani e non umani. Il poter vivere e il poter far vivere appaiono come lunghi obiettivi di un cimento vitale a varie dimensioni e relazioni con sé stessi e con altri viventi: beni da acquisire in antagonismi e in solidarietà, ristrette o ampie.
Nell’antropologia mineraria della modernità industriale, la prima questione che si pone riguarda l’individuazione di saper fare minerari vitali i quali, distinguendosi dall’efficienza in tante attività lavorative, si caratterizzano per efficacia nel produrre vita in situazioni di rischio, istituendo specifici valori culturali vitali. Ne propongo, pertanto, una necessaria definizione che ritengo utile per definire il perimetro concettuale, epistemico e trasformativo, di questo contesto di ricerca e di documentazione. I saper fare minerari vitali si distinguono da altri ordinari saper fare tecnici in quanto il loro risultato, oltre l’efficienza tecnica estrattiva, garantisce un’efficacia che salvaguarda le persone protagoniste di azioni tecniche in particolari condizioni di rischio, assicurandone la vita.
I saper fare minerari vitali si individuano in un doppio registro produttivo, economico e vitale. Riguardano fatti e relazioni, azioni tecniche e discorsive con cui e in cui persone e gruppi, protagonisti in situazioni di rischio, realizzano e affermano nuove condizioni di vita sicura.
Costituiscono un filone portante dell’antropologia mineraria. Offrono modelli operativi creativi iì quali trasformano luoghi e spazi, territori e paesaggi, da mortali in vitali, da degenerativi in generativi, da depotenzianti in potenzianti. Concernono gli universali investimenti del corpo umano negli spazi e nelle occasioni di rischio. Riguardano le grandi opere infrastrutturali di ingegneri e tecnici, per esempio di aerazione di eduzione delle acque nelle miniere.
Nell’antropologia mineraria del quotidiano industriale toccano minatori e cernitrici, queste ultime non immuni dai rischi mortali di mine inesplose nei minerali grezzi di cernita.
La nozione di saper fare minerari vitali è ancorata ai rischi, nell’antropologia mineraria quotidiana dello spazio e del tempo industriale. Tale nozione coglie il doppio registro culturale delle tecniche estrattive e delle tecniche di vita, operanti in congiunzione e in congiuntura nelle attività volte alla sicurezza vitale. Tale nozione riguarda rischi di fragilità e di limitazioni di salute e di vita alimentare, sanitaria, di istruzione, i quali incombevano nella vita sociale mineraria sia sopra e sia sotto la terra, con particolari correlazioni secondo i luoghi e i tempi.
Delle tormentate condizioni di lavoro e di vita mineraria esiste un ampio repertorio poetico in lingua sarda, sia orale e sia scritta. La poetica popolare, nelle forme scritte documentate per le zone minerarie in Sardegna, è nota in Europa nelle edizioni storiche di fogli volanti e libriccini di letteratura ambulante, come letteratura di colportage o letteratura da muricciolo. Oltre i 14 componimenti inediti da me pubblicati (Atzeni 1978 e 1980), le poesie in fogli volanti sono interessanti per quantità e qualità. Se vogliamo evitare riferimenti che possono apparire limitatamente eurocentrici, possiamo riferirci alla poetica orale che ha diffusione nel mondo islamico dove ha affiancato la recitazione di versetti del Corano, nel mondo dei Beduini dell’Egitto e dei Berberi del Marocco. Il patrimonio poetico minerario è a tutt’oggi sottovalutato. Diversi anni fa offrii la mia raccolta di letteratura orale mineraria al Parco Geominerario che ignorò l’offerta, poi la donai al Museo della Grande Miniera di Serbariu dove è rimasta inerte perché non è stato richiamato all’attività il Comitato scientifico, nonostante le mie benevole e recenti sollecitazioni all’autorità competente. Ho accumulato anche un prezioso materiale di registrazioni sonore realizzato molti anni fa con persone anziane che risalivano indietro nei tempi delle loro esperienze minerarie. Non ho raccolto manifestazioni d’interesse da parte delle istituzioni neanche per questi documenti. I musei, minerari e rurali, senza un adeguato comitato scientifico che elevi i lavori delle cooperative, per quanto eccellenti data anche la presenza di allievi e allieve di antropologia, in tutta evidenza non pare possano raggiungere uno standard culturale nazionale e ancor meno europeo o internazionale.
Il considerevole patrimonio poetico minerario, trascritto e scritto, colpevolmente trascurato, può essere invece assai utile da molti punti di vista e in molti modi da puntualizzare. I testi possono essere informatizzati, organizzati e tematizzati ed esposti in varie mostre permanenti e temporanee, secondo repertori di fruizione attiva, di ricerca-azione non solo scientifica ma anche artistica. In particolare, i repertori di produzioni poetiche possono essere proposti sia in collegamento con le produzioni letterarie sulle miniere della Sardegna, sia per creare reti con i paesi di provenienza dei poeti di miniere, allargando la rete dei Comuni interessati alla valorizzazione di tale patrimonio culturale poetico minerario. Inoltre, la traduzione dal sardo in italiano e in lingue europee di selezionate strofe delle poetiche minerarie può favorire nuovi scambi culturali creativi fra i giovani, e perfino innovative forme di turismo scolastico e familiare, europeo e non solo. I due versanti di iniziative, quello poetico e quello delle interviste, consentirebbero di attestare ulteriormente la ricchezza del patrimonio culturale minerario e di presentarlo maggiormente qualificato nelle occasioni di riconoscimenti internazionali.
I complessivi saper fare minerari vitali emergono con una portata transdisciplinare, come unitaria linea operativa e cooperativa. Questa è la prima questione importante che voglio porre sul piano scientifico e istituzionale.
La seconda questione che vorrei sollevare concerne la rilevanza degli spazi e dei paesaggi nell’antropologia mineraria. Noto subito che la documentazione e l’analisi dell’esperienza mineraria in ambiti spaziali e paesaggistici non può essere ridotta, per l’antropologia mineraria, a quanto delle esperienze passate rimane in luce e in superficie, palese e visibile, oggettualizzato e monumentalizzato, in rispondenza a una prevalente cultura architettonica. Certe monumentalizzazioni, con tutta la loro rilevanza, possono infatti rimanere disarticolate da certe opere di edilizia minore che, nella scala della quotidianità dell’antropologia mineraria, storicamente favorivano esistenze vitali individuali e comuni, mentre offrivano punti abitativi o di destinazione, con percorsi socialmente aggreganti. Un esempio vistoso di edilizia minore sistematicamente sottovalutata, o negletta rispetto ad altre opere edilizie nel patrimonio culturale minerario, è rappresentato dalle cantine, aziendali e non solo. Poco importarti dal punto di vista della cultura architettonica, hanno invece un rilievo non trascurabile per gli approvvigionamenti dei generi di prima necessità nelle reti di relazioni vitali e sociali, nei quadri d’epoca dell’antropologia mineraria.
Spazi e paesaggi, lavorativi e abitativi, esigono di essere assunti propriamente come contesti sia naturali e sia culturali, umanizzati e temporalizzati variamente e storicamente nei percorsi delle persone umane e dei loro corpi. I percorsi umani della storica vita mineraria, sotto e sopra la terra, richiedono primariamente di essere resi visibili e noti nella loro duplice correlazione per le esperienze di vita e per la vita, sopra e sotto la terra unitariamente. Nelle esperienze della Sardegna, la tesi qui prospettata di duplicità spaziale dei paesaggi minerari implica un’affermazione di rilevante portata. Si tratta di una imprescindibile correlazione, non di una semplice giustapposizione fra il sopra e il sotto della terra, in cui avvennero le umane esperienze minerarie vitali. Tali duplici e correlate realtà dello spazio minerario riguardano luoghi e tempi nei modi di farsi umani autonomamente, per dirla un po’ nel solco dell’antropologia dello spazio di Choay (2006).
In terza battuta la questione da approfondire attiene ai beni, detti materiali e immateriali, del patrimonio culturale minerario. I saper fare minerari vitali sono beni culturali particolari e particolarizzanti, creativi e inventivi. Mettono in vista modelli culturali operativi, nuovi e unici, di problem solving. Dal disgaggio delle rocce instabili al sistematico posizionamento delle mine secondo le tipologie delle rocce, i saper fare vitali risolvono rischi vitali e assicurano spazi e tempi lavorativi, potenzialmente mortiferi, trasformati in spazi e tempi assicurati per la vita. Ogni trasformazione di rischio mortale minerario, diventata creazione di ambiente vitale nella quotidianità lavorativa, si presenta come novum e unicum congiunti. La modifica vitale emerge come congiunzione inedita e temporalizzante, che fa storie e Storia. Inoltre, appare umanamente aperta a nuove sperimentazioni innovative di prove vitali e securitarie. Si tratta di esercizi vitali ogni volta sperimentabili, comunicabili e trasmissibili per principi finalizzanti il vitale come novum e unicum, ma non sono replicabili e trasmissibili per algoritmi, in sequenze e modalità fissistiche.
Le pratiche degli storici saper fare minerari vitali, oltre gli spazi e i tempi lavorativi securizzati, creavano persone abili a dare vita e a fare vita, con e nei lavori minerari. Nelle storiche miniere della Sardegna avvenivano esercizi di produzioni di vita e di produzione di sé che qualificavano le persone in quanto donatrici di vita a sé e agli altri. Erano produzioni di soggetti assoggettati che diventavano nuovi e autonomi, maggiormente abili rispetto a ciò che erano prima di cimentarsi efficacemente nel governo dei rischi.
Nell’antropologia mineraria ogni trasmutazione dei rischi in inventiva produzione di vita, autonomamente securizzata da lavoratori e lavoratrici per essere condivisa democraticamente, presenta caratteri di innovatività e di unicità come personale opera d’arte, d’arte di vita. Tale trasmutazione espone caratteri esclusivi che risolvono rischi di salute e di vita, senza suscitare una riproducibilità identica e di tipo seriale. Costituisce, di volta in volta, veri capolavori in quanto saggi di abilità professionale, nella cultura mineraria, specialmente popolare. Tali pratiche estrattive- vitali, produttive congiuntamente di minerali e di vita in situazioni con alti coefficienti di rischio, e di persone abili nel governare i rischi, hanno svolgimenti e pratiche materiali, unite a contenuti di pensiero intenzionale, progettuale, ideale. Il patrimonio culturale minerario assunto nell’antropologia mineraria è pertanto affermato nella sua doppia componente culturale, materiale e immateriale, nel solco di Godelier (1984). I saper fare minerari vitali, come pensieri in atto per dirla con Gramsci, sono materiali e immateriali insieme.
Complessivamente, il patrimonio culturale minerario dei saper fare minerari vitali, in quanto storico, non è fissista ma mobile. Il patrimonio culturale fissista si sottrae alla storicità dei cambiamenti, tramandandosi semplicemente e affermando esclusivamente la propria identica continuità. Invece, le soluzioni sicuritarie prodotte dai saper vivere minerari vitali sono mobili negli spazi e nei tempi, unite solo dal carattere dell’intenzionalità vitale.
I saper fare minerari vitali, pratici e di pensieri in atto, beni materiali ed insieme immateriali, incrociano la questione delle varie temporalità minerarie che addensa elementi di un quarto punto analitico, in realtà di primaria importanza. D’angelo e Pijpers nel 2018 usarono l’espressione temporalità minerarie, mining temporalities, per sottolineare come le risorse estrattive possono essere capite in un complesso di multiple temporalità e durate, ritmi e cicli, con differenti velocità, intensità, estensioni che diversi protagonisti cercano di conoscere e di manipolare, di sincronizzare e di de-sincronizzare, in linea con contingenti e spesso conflittuali interessi strategici. Essi sostennero, assai opportunamente, che gli ordini temporali sono costruiti socialmente e culturalmente, nei contesti economici e politici. Nella concezione di temporalità multiple, i protagonisti lavorano per stabilire o mantenere specifici regimi temporali minerari: ritmi di produzione, livelli temporali di lavoro e di vita, contesti temporali pratici e narrativi, percezioni e rappresentazioni temporali, discorsi e politiche del tempo.
Dai visuali spaziali ai visuali temporali, from landscapes to timescapes, le temporalità comprendono attività e corpi con le loro materializzazioni del tempo e con implicazioni di storicità che interessano passato, presente e futuro. Le temporalità minerarie toccano inuguaglianze di poteri temporali nelle politiche del tempo minerario, costruite e negoziate nei divergenti interessi dei protagonisti. Le politiche del tempo mostrano diverse facce nei casi presentati. Gli esempi più significativi di temporalità minerarie in drammatici conflitti nel corso delle storiche esperienze minerarie della Sardegna riguardano sia la riduzione del tempo di riposo a Buggerru nel 1904, sia le accelerazioni di lavoro diffusamente imposte con vari cottimi, e particolarmente con il sistema tayloristico Bedaux di matrice americana, specialmente dagli anni Trenta del Novecento.
Le storiche temporalità minerarie vincolano il presente, esigendo interventi attuali con coerenze, anche stilistiche, adeguate ai contesti storici pertinenti. Per esempio, non si possono usare tipi di lampioni da parco urbano contemporaneo che, per quanto pregevoli, non risultino possedere forme compatibili con certi contesti storici minerari. Occorrerebbe un serio e coraggioso inventario di quanto qualifica o squalifica il livello di ciò che è stato realizzato negli interventi culturali sui contesti minerari, per rimuovere e correggere gli errori più vistosi.
La nozione delle temporalità minerarie risulta assai efficace per le analisi e per le scoperte scientifiche, euristicamente. Consente di vedere e di capire tempi fratturati e complessi, di individuare soggetti in divenire e in cambiamento. Ciò può accadere attraverso particolari incontri minerari, come quelli sostenuti da Pijpers ed Eriksen nel 2019.
Gli incontri minerari tematizzano una quinta questione di antropologia mineraria, in quanto incontri che avvengono anche nello spoglio documentario. Nei casi studiati in Sardegna si incontrano informatori che rappresentano alcuni ceti dominanti. Essi offrono dal loro punto di vista preziose informazioni sul processo di industrializzazione mineraria nell’Isola con elitari modi discorsivi. Sono modi tecnici come fa l’ingegner Goüin per la mostra universale del 1867; modi istituzionali e propositivi come il deputato Sella nella sua inchiesta del 1871; modi imprenditoriali e propagandistici, come fa la mineraria Société Malfidano per la mostra universale del 1878. Le loro informazioni marcano la temporalità mineraria della seconda metà dell’Ottocento in Sardegna. Si situano in un insieme di vicende i cui protagonisti, da titolari di permessi di ricerca, diventano concessionari di permessi di estrazione.
Il passaggio dalla temporalità del regime permissorio a quella del regime concessorio introduce una nuova fase di insediamenti aziendali e societari minerari, italiani ed europei in Sardegna. Le attività delle aziende minerarie, con i loro passaggi e paesaggi umani, costituiscono un novum e unicum culturale in differenti scale spaziali temporalizzate. Nei discorsi dominanti compare, accanto ai migliori Piemontesi e Bergamaschi, la manodopera «indigena», che durante la temporalità della sua formazione industriale è abbondante e docile.
Entriamo invece nel vivo dei conflitti minerari facendo un sesto passo nelle conflittuali temporalità del Novecento minerario. I ceti subalterni si differenziano e si staccano dai ceti dominanti promuovendo nuove esperienze nelle loro relazioni di lavoro e di vita. Si confrontano e criticano, imputano e rivendicano, chiedono e propongono, progettano e manifestano pubblicamente. Subiscono e nel contempo agiscono autonomamente, trasmutandosi in figure culturali bifacciali. Si muovono facendosi gruppi e cortei, dicendosi un ‘noi’ e divenendo un noi minerario di contrattazione, per creare nuovi tempi di condizioni e di relazioni umane minerarie vitali condivise. Pur con certi limiti, quelle lotte furono cruciali esperienze culturali vitali, per poter vivere ma anche di saper vivere, per trasformare i limiti di salute subiti in diritti universali alla vita.
Il passaggio temporale che segna il cambiamento di masse amorfe, frammentate e disperse, che divengono i ‘noi’ conflittuali e in espansione, emergenti in superficie nelle miniere, nei paesi e nelle città minerarie, marca il Novecento a lungo agitato in vari casi e in vari centri della Sardegna.
La costellazione di casi che illustra i saper vivere minerari esercitati in Sardegna si manifesta assai prima del Novecento. Prende avvio, infatti, dall’urbanità mineraria medioevale di Iglesias. Si realizza con la magistratura dei Maestri del Monte per sanare contenziosi e conflitti, con le norme dei soccorsi nei rischi minerari e con le loro inappellabili parole sentenziali: inappellabilità come novum e unicum rispetto ad altri statuti comunali e allo stesso codice di Massa. Iglesias, esempio illustre nel panorama minerario italiano del suo tempo, è seguita da altri casi localizzati e temporalizzati di saper fare minerari vitali ben praticati nell’Isola. Nel Novecento emergono nuovi fatti, nuovi centri e nuovi protagonisti. Guspini nel 1903 con la creazione di ‘noi’ aggreganti e mobilitanti protagonisti nello sciopero e nella stampa locale. Buggerru nel 1904 e nel 1908 con minatori che s’impegnano per la produzione di diritti umani, anticipando di 40 anni la dichiarazione internazionale del 1948. Gonnesa nel 1906 con la marcia della popolazione nei centri vicini fino Barega, dove furono fermati dalle forze dell’ordine, per estendere nel territorio le alleanze popolari nelle lotte per poter vivere. Carbonia dal 1938 per l’antifascismo diffuso e rivolto alla rigenerazione urbana, per gli impegni democratici verso le periferie nella seconda metà degli anni Settanta con l’istituzione politica delle Circoscrizioni Comunali. Silius dal dopoguerra per l’estensione del saper fare tecnico minerario in altri settori produttivi di vita. Gadoni dal dopoguerra per la capacità di creare amicizie democratiche, che innovavano il tradizionale codice barbaricino, a partire dalle autonome condotte d’amicizia onorevole, promosse nelle solidarietà minerarie. Lula per le opposizioni contro le autorità ingiustamente impositive, anche quando femminili.
I territori del Sulcis-Iglesiente-Guspinese, del Sarrabus-Gerrei, della Barbagia, offrono una variegata costellazione di casi in cui si realizzano saper fare minerari vitali con caratteristiche di novum e di unicum di straordinario interesse antropologico. Presentano, a ben vedere, anche obiettivi di diritti culturali non raggiunti o aggirati, traditi o ridimensionati, vanificati o ignorati. Tuttavia, il percorso culturale delle masse minerarie subalterne del Novecento dalle sottomissioni subite alle affermazioni della propria autonomia è di straordinaria rilevanza antropologica. Fatti, discorsi, relazioni, indicano formazioni di gruppi e di movimenti che diventano soggetti collettivi di rappresentanza democratica nei conflitti vitali. Tali soggetti, individualmente e collettivamente, costituiscono un preziosissimo e inestimabile patrimonio culturale di sperimentazioni, localizzate e temporalizzate, che offrono sapienti realizzazioni del fare vita e del fare umanità democraticamente condivisa, insieme alle produzioni di minerali. Donano sperimentati esercizi del saper vivere e del saper far vivere creando un comune orizzonte democratico di condivisione vitale. Si tratta di una particolare rete di unità culturale che lega persone e gruppi che, perfino quando sconfitti nelle controversie democratiche delle storiche esperienze minerarie, sanno parlare nei rischi e nei conflitti vitali del presente. Tali esperienze attraversano il cruciale tema gramsciano delle masse disperse e inerti che si fanno gruppi e movimenti autonomi di emancipazione e di liberazione. Siamo di fronte a un tema che registra un rinnovato interesse di studio nell’attualità con le sue contrastate crisi frammentarie e divisive, come indica gramscianamente Chalcraft (2025).
L’autonoma capacità di farsi umani, scientificamente detta autopoiesi, in miniera aveva una forma assai differente dalle esperienze riferite da Remotti (2013). In miniera la trasformazione di sé era connessa a quella di vari luoghi e relazioni, secondo differenti livelli della produzione di sicurezza vitale. Tale configurazione costituisce il settimo passo dei saper fare minerari vitali.

Trasformando vari luoghi e relazioni a differenti scale di rischio in varie temporalità minerarie, appare come un patrimonio di sperimentazione per nuove territorializzazioni. Pertanto, possono apparire realistiche eterotopie, cioè cambiamenti di luoghi e territori, capaci di suscitare nuove soggettivazioni, nuove umanizzazioni, nuova umanità
Un innovativo eco-territorialismo e un neo-patrimonialismo, entrambi minerari e vitali, possono essere realizzati da nuovi e innovativi saper fare minerari vitali per praticare soluzioni dei danni ambientali minerari e industriali. Bonifiche, rigenerazioni e riabilitazioni territoriali e ambientali possono suscitare nuovi paesaggi vitalmente securizzati e volti al futuro con un’ampia creatività di benessere vitale condiviso, a partire dai corpi e dalle persone. Queste ultime possono assumere nuovo valore, partecipando a innovative soluzioni dei storici rischi territoriali, diventando soggetti capaci di trasformare luoghi malsani rendendoli vitali, e nel contempo modificando e abilitando sé stesse.
I moti emancipativi del primo Novecento presero avvio dalle penurie di cibo connesse ai salari insufficienti per garantire minimi vitali alle persone e ai loro corpi, in tempi in cui il difficile poter vivere costituì una specifica soglia di intollerabilità, sia fisica e sia culturale.
Era un mondo che diventava teatro di eccezionali violenze ed eccidi: lo sciopero e l’eccidio di Buggerru del 1904 con 4 morti; quello di Gonnesa del 1906 con tre morti fra Gonnesa e Nebida, in cui perse la vita una popolana, Federica Pilloni; i fatti di Iglesias nel 1911 con sette minatori uccisi. Nell’arco di sette anni si contano 14 morti, minatori e persone del popolo. A tali violenze si aggiungono, a marcare le temporalità delle morti sul lavoro fino al fascismo, 649 morti in Sardegna, comprendendo poi la modernità di Carbonia se ne contano lì almeno atri 312, secondo le preziose rilevazioni dell’Associazione Minatori e Memoria. I morti in miniera parlavano in quei tempi e parlano al drammatico presente dei morti sul lavoro. Hanno temporalità multiple che giungono all’oggi.
Operai e operaie erano vincolati in un sistema di consumi, organizzato dalle stesse aziende minerarie, imperniato su aziendali cantine privilegiate dove si acquistava con buoni o con moneta aziendali. Tale sistema aziendale aveva una genealogia culturale di riferimento inglese, nota come truck-system. Su Bacu Abis, nel corso degli interrogatori della Commissione Parlamentare d’Inchiesta nel 1908, un operaio fornì un esemplare di ghignone, il buono emesso dall’azienda con funzione monetaria nella cantina aziendale. Succedanei a Carbonia ne furono, durante il dopoguerra, i cosiddetti ‘boni fidus’. Nel sistema aziendale di monopolio del commercio minuto i viveri erano più cari, i generi scadenti e la circolazione monetaria avveniva con collaterali sistemi di prestiti ad altissimi tassi d’interesse, che erodevano i salari già insufficienti per vivere. Alcuni storici chiamarono “battaglie per il pane” i vari moti rivendicativi di quei tempi, altri li identificarono come “lotte salariali”. In uno schema evolutivo, quelle prime esperienze contestative e rivendicative dei movimenti operai sono state considerate deboli perché precedevano l’azione dei sindacati e dei partiti. In realtà cominciavano a sorgere le Leghe operaie e il partito socialista si muoveva già nelle zone minerarie dell’Isola e fra i battellieri di Carloforte.
Le lotte del primo Novecento, a ben vedere, furono collettive azioni vitali. Operai e operaie collegavano concettualmente le penurie di cibo e i difficili accessi al cibo sia agli alti prezzi dei generi di prima necessità e sia alla esiguità dei salari. Le loro ripetute richieste di un minimo salariale garantito documentano il legame stabilito, in quei luoghi e in quei tempi, fra salario e vita.
Quelle lotte salariali si situano nei movimenti storici per il diritto alla vita e in un arco rivendicativo e affermativo di diritti umani che anticipa penurie e crisi dell’attuale modernità. Visti con lenti gramsciane quei movimenti mostrano ancor di più. Presentano il passaggio di masse passive e dominate che divengono masse attive e autonomamente emancipative. Indicano la formazione di raggruppamenti, di movimenti e di consensi in espansione rivendicativa di diritti vitali durante contrasti aziendali e istituzionali, sia a livelli locali e sia a livelli territoriali più ampi, fino al territorio nazionale. Segnalano soggettivazioni collettive di gruppi e movimenti. Designano nuovi soggetti in formazione culturale e sociale.
Il percorso concettuale che ho prospettato è partito dalla prima questione dei saper fare minerari vitali come asse transdisciplinare. La seconda questione ha messo in luce la correlata duplicità dei paesaggi minerari sopra e sotto la terra e l’ineludibile importanza di certa edilizia minore nei paesaggi minerari. La terza tappa ha indicato nel patrimonio minerario caratteristiche congiunte di elementi materiali e immateriali. Il quarto punto ha riguardato le multiple temporalità minerarie e i conflitti per il governo democratico del tempo di lavoro e di vita. Il quinto passo ha toccato l’incontro con le élite minerarie, i loro discorsi e le loro informazioni. Il sesto tema ha interessato i conflitti minerari del Novecento e il loro carattere anticipatorio di modernità culturale democratica nell’orizzonte dei diritti umani. Il settimo ha riguardato la formazione di soggetti autonomi, le soggettivazioni individuali e collettive durante le sottomissioni. L’ottavo argomento parte dai soggetti del Novecento per sollecitare la formazione di nuovi soggetti produttori di vita nei territori minerari inquinati del 2000. Giunge agli attuali lasciti del malsano minerario e all’esigenza di una complessiva rivitalizzazione di luoghi e persone, in nuovi territori e paesaggi per farli diventare salutari.

Considerazioni provvisorie
Nelle temporalità di quest’epoca di de-territorializzazioni, favorite anche dalla rivoluzione informatica, un patrimonio di storiche umanizzazioni minerarie di grande rilevanza dal punto di vista antropologico e culturale è disponibile per incitare a dare nuovo senso culturale e antropologico agli storici territori minerari, investiti da nuovi rischi dopo le dismissioni estrattive. Il patrimonio degli storici saper fare minerai vitali incoraggia a trasformare gli storici territori minerari inquinati con innovative pratiche, capaci di fare e dare nuova vita durevole e democraticamente condivisa agli spazi industriali dismessi. Tale storico patrimonio culturale minerario giunge ora fino alla nostra contemporaneità. Costituisce un innovativo e originale lascito patrimoniale culturale, sostenuto da storici impegni vitali che toccano unitariamente i generi e il genere umano.
Il lascito dello storico patrimonio culturale dei saper fare minerari vitali, esercitati quotidianamente e diffusamente dai ceti subalterni nelle storiche miniere attive, si unisce nella contemporaneità a un’altra imponente eredità proveniente dalle aziende minerarie, private e pubbliche. L’eredità, incombente e onerosa, è costituita da discariche e da rischi ambientali, monumentali o impercettibili. Gli aspetti socio-tecnici della storica esperienza mineraria anticipavano rischi vitali i quali, con fenomeni e forme differenti, indicavano oscurità del presente.
Il complessivo lascito ambientale di storico malsano minerario s’intreccia, nel presente delle storiche comunità estrattive, anche con i rischi economici e sociali di una complessiva e dominante de-industrializzazione dei territori minerari. È accompagnata dalle fragilità storiche della generale mancata integrazione industriale delle zone agricole, interne o limitrofe agli storici territori minerari. S’intreccia anche con le emigrazioni giovanili e con gli spopolamenti che invecchiano, incupiscono e spengono centri minerari e produzioni culturali territoriali.
Urgono, in tutta evidenza, nuovi impegni innovativi e creativi di altissimo profilo culturale, con inedite e onorevoli qualità di novum e di unicum per realizzare nuove temporalità vitali, durevoli e democraticamente condivise, nei rischi e nelle fragilità del presente e del futuro negli storici centri e territori minerari della Sardegna. Urge un nuovo patto fra discipline scientifiche e fra queste e le istituzioni.
Nell’incombente de-territorializzazione appare necessario, nei centri minerari connessi a scala zonale e regionale, creare un’estesa dimensione territoriale di creativi cambiamenti vitali di nuovo benessere eco-territorializzato e soggettivizzante. Tale impegno diffuso e unitario pare ineludibile per la produzione di nuovi paesaggi capaci di esibire inedite estetiche paesaggistiche: nuove armonie di rigenerazioni che contengono il malsano storico, bonificato e risanato, malsano sostituito con inediti saper fare minerari vitali, scientifici e innovativi, capaci di rigenerazioni vitali spaziali e temporali degli storici territori minerari inquinati. Estetiche di nuovi esercizi di umanità che diventa accudente creando nuove temporalità, inclusive di nuove relazioni vitali tra territori e paesaggi, fra corpi e paesaggi, fra vite e paesaggi.
La produzione di nuovi territori e paesaggi vitali implica un importante cambiamento del ruolo e dello statuto culturale delle persone stesse, residenti o non residenti, che frequentano i territori minerari come territori d’affezione e di cura, impegnandosi in vari modi per renderli rigenerativi di vita. Pensiamo alle varie forme di riuso scientifico dei siti minerari, per esempio a Gonnesa e a Lula, in cui sono state dismesse le attività estrattive e in cui le duplici relazioni fra il sotto e il sopra della terra, con nuovi passaggi e paesaggi, segnano tempi di metamorfosi culturali e antropologiche nell’antropologia mineraria della contemporaneità.
Il turismo culturale, rigenerativo sul piano delle conoscenze e delle esperienze in sito, potrà assumere una nuova dimensione con la realizzazione di un innovativo modello sanitario che caratterizzi i centri minerari per una specifica connessione con i diritti alla vita attraverso la prevenzione dei rischi di salute che toccano non solo gli abitanti, ma anche la salute delle persone ospitate nei soggiorni turistici.
Nuovi impegni, di alto profilo scientifico e istituzionale democraticamente partecipato, possono essere realizzati nel solco culturale dei saper fare minerari vitali traducendone il senso, i principi, la democratica intenzionalità vitale. In tali modi potremo presentarci per nuovi riconoscimenti di valore, anche internazionali, per qualificare ampiamente il patrimonio antropologico e culturale del mundus e del tempus minerario, umanizzante in modi durevoli e democraticamente condivisi, che dalla Sardegna si volge all’Umanità.

Paola Atzeni

* Questo testo costituisce la conclusione delle mie riflessioni che compongono la prima parte di un Dossier di Antropologia Mineraria, attualmente in gestazione, che probabilmente uscirà in forma iniziale di pre-print. Una sintesi di questo scritto è stata presentata in occasione del Convegno su I valori del Patrimonio storico minerario della Sardegna per il mondo, tenutosi il 2 settembre 2025 a Carbonia. Si offre qui una parziale anticipazione del testo complessivo per favorire conoscenze, ampliamenti di riflessioni e impegni che possano diventare diffusamente molecolari nei territori minerari.

La mostra “I luoghi e le parole di Enrico Berlinguer”, che si svolge attualmente a Cagliari, richiama tra l’altro il legame tra Berlinguer e la Sardegna.

Proprio per dare un significato a questo legame, può essere utile leggere l’articolo che Ugo Baduel, giornalista di riconosciuto prestigio professionale, scrive per informare su due importanti comizi tenuti dall’allora segretario del PCI, a Carbonia e a Cagliari, rispettivamente l’8 e il 9 giugno 1974, durante la campagna elettorale per le elezioni regionali. Il testo giornalistico è accompagnato da commenti interpretativi sulle parole di Berlinguer e sulle notizie di contesto che l’autore offre al nostro presente per conoscere luoghi e tempi e modi in cui pensiero culturale e politico di Berlinguer si è diffuso, diventando condiviso e popolare. Iniziamo dal testo di questo articolo facendolo seguire da ricordi personali su Berlinguer, non celebrativi ma impegnativi, che il confronto con le sue parole incoraggiava e incoraggia ancora. L’articolo di Ugo Baduel, comparve su L’Unità del 10 giugno

Berlinguer a Carbonia e a Cagliari

Dalla Sardegna una riprova del malgoverno DC – Rompere il vecchio sistema di potere, conquistare una nuova direzione politica – Senza i comunisti non è possibile raggiungere l’obiettivo del rinnovamento dell’isola nell’interesse di tutto il Paese – CAGLIARI, 9 giugno

«Carbonia è un nome ben presente nella mente di tutti i lavoratori, in Sardegna e fuori della Sardegna. Tutti hanno nella memoria le tante e gloriose lotte proletarie e popolari che da anni, e fino all’ultimo sciopero di pochi giorni fa, hanno segnato il cammino – ora vittorioso, ora sfortunato – dei lavoratori del Sulcis Iglesiente in difesa dell’occupazione, contro il carovita, per la ripresa delle attività estrattive nelle miniere di carbone e per lo sviluppo delle altre attività minerarie e metallurgiche. Il segretario generale del partito.»

Enrico Berlinguer, ha cominciato con queste parole ieri sera, nella piazza di Carbonia, il suo discorso che è il primo del viaggio elettorale in Sardegna: un punto di partenza significativo. Dietro al palco, sulle mura del palazzo comunale, spiccava in rosso la scritta: «Brescia: fascisti assassini»; su un palazzo vicino, più sbiadita dal tempo un’altra scritta: «Carbonia non deve morire». Due autentiche dichiarazioni politiche che rappresentano la migliore descrizione di Carbonia e della sua vicenda. Il comune, retto da anni da un’amministrazione di sinistra, con il sindaco, compagno Coco, operaio comunista, perseguitato e incarcerato durante il fascismo, che la rappresenta fin dal dopoguerra. Città «rossa» quindi, e città operaia, antifascista con tanto più accanimento in quanto fu tutta, praticamente, concepita come un’opera del regime, trionfalistica e «mussoliniana» anche nella topografia, nella piazza sterminata e sproporzionata, nei palazzi «littori» del 1938, anno di fondazione della città. E insieme zona di crisi profonda da oltre vent’anni, esempio emblematico del deterioramento costante della situazione di tutta l’isola. Qui, nel 1950, c’erano 50 mila abitanti e i minatori e operai erano 18 mila. Venticinquemila abitanti sono emigrati da allora e oggi Carbonia ha 31 mila abitanti, 600 dipendenti precariamente occupati nelle miniere di carbone passate da alcuni anni all’ENEL e oggi in smobilitazione, meno di tremila operai negli impianti metalliferi (estrazione e lavorazione di piombo, zinco, alluminio) in pesante crisi, l’agricoltura in sostanziale abbandono. Ma, intanto, come ha ricordato il compagno Coco ieri sera presentando il compagno Berlinguer alla piazza affollata l’EFIM, ente pubblico, ha stipulato un contratto con una miniera carbonifera nel Sud Africa, infischiandosene del carbone sardo. La manifestazione, i cartelli che hanno accolto ieri Berlinguer, denunciavano appunto questa crisi e rappresentavano la ferma volontà di impedire che – come diceva la scritta – «Carbonia muoia». Una piazza piena di ragazzi e di anziani (manca, come sempre nelle zone di emigrazione, una larghissima fetta della generazione di mezzo): giovani e giovanissimi, ragazze a fianco di donne anziane, alcune nel costume nero tradizionale. Un pubblico dicono i compagni di Carbonia, molto nuovo rispetto a poco tempo fa, soprattutto per quanto riguarda ragazze e donne anziane: «Le ha tirate fuori in buona parte la campagna per il referendum», dicono. E a Carbonia i «no» sono stati il 72%.

Ieri a Carbonia, oggi a Cagliari nella piazza Garibaldi, gremita di folla dove Enrico Berlinguer è stato presentato dal segretario della federazione compagno Atzeni. Il discorso sulla Sardegna, sul tipo di sviluppo che s’impone per l’isola se non si vuole vederne naufragare le prospettive, è stato al centro dei due comizi del segretario del partito che ha anche affrontato poi questioni di politica generale, il tema della lotta al fascismo, quella della situazione complessiva italiana segnata da un lato dalla vittoria dei «no» nel referendum a da una grande spinta democratica delle masse, e dall’altro dalla grave crisi economica e sociale di cui sono responsabili i governi di questi anni e – come Berlinguer l’ha definita – la «piovra» del potere clientelare della DC, corrotto e corruttore, che soffoca, come la Sardegna, il Mezzogiorno e tutto il Paese.

Nodo centrale dello sviluppo della Sardegna, e quindi tema dominante delle elezioni regionali, è la legge 509 che sostituisce il vecchio piano di rinascita. Con l’approvazione ormai definitiva da parte del Parlamento della 509 – ha detto Berlinguer – si è delineato per la Sardegna un programma di trasformazione economica che potrebbe – se ben attuato – correggere gli errori e i fallimenti passati e avviare la Sardegna sulla via di una rinascita reale. Noi comunisti – ha aggiunto Berlinguer – per primi e da lungo tempo abbiamo affermato la necessità di una seria programmazione regionale, abbiamo svolto una critica tenace e radicale al modo in cui veniva applicata la legge precedente, al modo dispersivo o corruttore con cui venivano distribuite le ingenti somme a disposizione della Regione e per primi abbiamo sostenuto che il problema centrale della Sardegna era quello della trasformazione agraria. Per lunghi anni, invece gli altri partiti hanno alimentato l’illusione che si potesse dirigere uno sviluppo reale dell’economia, attraverso regali e elargizioni ad alcuni gruppi monopolistici o sparsi, senza altro criterio che quello clientelare. Poi però – ha detto Berlinguer – hanno parlato i fatti, dimostrando che per quella via nemmeno si avviava la soluzione dei veri problemi di fondo della Sardegna che sono: la trasformazione agricola e pastorale; un’industrializzazione diffusa e articolata, capace di creare un’effettiva e sensibile offerta di posti-lavoro; la creazione di servizi sociali adeguati nei settori della scuola, della sanità, dei trasporti. La via che si volle intraprendere, invece ha portato solo – come era prevedibile all’abbandono di grandi risorse materiali e umane, all’emigrazione (che in venti anni ha fatto toccare la drammatica cifra di 300mila unità), alla crisi profonda delle città e delle campagne. Per anni e anni – ha aggiunto Berlinguer – con lotte sindacali e popolari, con battaglie politiche, con manifestazioni di grande valore come la giornata di lotta della Sardegna del 29 gennaio scorso, sono stati indicati i giusti obiettivi per lo sviluppo della regione, che effettivamente mezzi e forze andavano concentrati e non dispersi in mille rivoli, indirizzati a un’opera di trasformazione dell’intera Sardegna e non a uno squilibrato sviluppo di «poli» monopolistici. La cosa importante e nuova – ha sottolineato Berlinguer – è che a questo punto anche fuori dell’isola si comincia a comprendere che la Sardegna (e tutto il Mezzogiorno) non sono zone da «assistere» ma sono zone che devono essere trasformate nell’interesse generale del Paese.

Berlinguer ha quindi spiegato quanto qualificanti siano i punti di connessione, in questo momento, fra un organico e pianificato sviluppo di alcuni settori chiave della Sardegna (e del Sud) e la crisi economica che il Paese intero sta attraversando. Il deficit della bilancia internazionale dei pagamenti – ad esempio – è dovuto in larga parte alla necessità di massicce importazioni di carne: è evidente dunque che uno sviluppo dell’allevamento e della zootecnia in Sardegna, potrebbe avere una benefica incidenza su un grave fattore della crisi economica nazionale. Lo stesso può dirsi per le fonti di energia di cui oggi l’Italia ha fame, mentre in Sardegna quelle esistenti sono abbandonate, come dimostra anche il caso di Carbonia. Il popolo sardo può dare dunque un contributo importante – ha detto Berlinguer – a una svolta reale nella politica nazionale: ma può darlo solo – ecco il punto – se il governo dell’Isola sarà nelle sue mani. Questa è la vera questione in gioco il 16 giugno, la questione politica. Ci sono da anni le idee, ci sono le forze per rinnovare la Sardegna: oggi possiamo aggiungere che c’è anche uno strumento che legge nuovo, la 509. Che cosa è mancato allora, che cosa manca? Manca l’elemento decisivo: una direzione politica per realizzare quelle idee, un potere che sappia fare leva e che sappia fondarsi sulle forze più avanzate, che abbia la capacità, la forza, l’autorità, i consensi che sono necessari per avviare una grande impresa come la rinascita della Sardegna. Dunque – ha esclamato il segretario generale del PCI – il problema è quello del governo dell’isola, di un governo che sia l’espressione dell’unità del popolo sardo, che sia fondato sulla collaborazione di forme democratiche e progressiste. Se questa svolta non si realizzerà – ha detto Berlinguer – non possono esserci garanzie che i fondi – insufficienti ma comunque considerevoli – della 509 siano utilizzati in modo diverso dal passato; e sarà un nuovo fallimento, saranno nuove delusioni.

Berlinguer ha ricordato i risultati, sotto gli occhi di tutti, dati dalle formule di governo sperimentate in cinque anni; la instabilità cronica di quei governi (otto o nove crisi, ben tredici presidenti dal ‘69 a oggi). Occorre quindi cambiare radicalmente la formula di governo, ma occorre qualcosa di più importante, e cioè un nuovo modo di governare che rompa il vecchio sistema di potere, che esprima un governo per il popolo con il popolo, ma che non potrà mai essere tale se si continuerà a voler escludere la grande forza del PCI. Tutto il resto è piccolo cabotaggio politico, ha aggiunto Berlinguer. Non convince, ad esempio, la posizione del PSI che, da un lato, critica l’azione delle Giunte passate delle quali peraltro ha fatto quasi sempre parte, ma poi riduce tutto al puro obiettivo di mutare i rapporti di forza fra la DC e lo stesso PSI nell’ambito di quella stessa formula che ha dato così fallimentari risultati. Ridurre tutto al problema di un assessore in più nel governo regionale, significa voler eludere la questione di fondo. Il problema – ha ribadito Berlinguer – è ben altro: si tratta di aprire un capitolo del tutto nuovo, di lasciare cadere le passate preclusioni, di dare al governo dell’Isola una forza e una autorità che nessun governo regionale ha mai avuto in venticinque anni. E per rendere possibile questo, noi comunisti non diciamo che «solo noi» possiamo realizzare un simile obiettivo, ma diciamo che esso non può in alcun modo essere raggiunto «senza di noi», che siamo, lo si voglia o no, la forza che raccoglie la fiducia della parte più avanzata dei lavoratori. Il voto del 16 giugno deve essere tale da fare avanzare in questa direzione nuova la Sardegna.
Deve quindi essere in primo luogo un voto che colpisca duramente il Movimento sociale italiano, riaffermando così i valori pregiudiziali della difesa e dell’autonomia regionale e della democrazia insidiata. Deve essere un voto che ridimensioni la DC, il cui strapotere è la ragione prima del corrotto sistema clientelare, degli sprechi, dei fallimenti passati. Un voto che crei nuovi rapporti di forza e, in primo luogo, che dia più forza al PCI. Dare più voti al PCI – ha aggiunto Berlinguer – significa indicare chiaramente la direzione verso cui si vuole andare, significa dare un aiuto politico per liberare e far contare di più in tutti i partiti le forze migliori oggi invischiate nel gioco di potere e schiacciate dall’arroganza democristiana. Dare fiducia al PCI significa – ha concluso per questa parte del suo discorso Berlinguer – darla a un partito diverso dagli altri, un partito la cui avanzata è necessaria per rigenerare anche gli altri partiti, per aprirli al dialogo e alla collaborazione; significa infine rendere non più rifiutabile una diversa maggioranza alla direzione della Regione. Per realizzare questo obiettivo il 16 giugno, serve lo sforzo e la convinta adesione, non solo dei comunisti, ma di tutte le forze che sono state le protagoniste della vittoria del «no» il 12 maggio: operai, intellettuali, ceti intermedi delle città e contadini, giovani, donne. Il momento è difficile e il 16 giugno è una grande occasione per il popolo sardo. Occorre non sprecarla.

Interpretazioni dei discorsi di Enrico Berlinguer a Carbonia e a Cagliari
Nel giugno del 1974, Enrico Berlinguer sceglie di aprire la campagna elettorale per le regionali sarde a Carbonia. Non si tratta di una decisione casuale, ma di una scelta profondamente politico-simbolica che richiede riflessioni pertinenti. Carbonia, fondata nel 1938 dal regime fascista come città del carbone, porta ancora i segni di quell’origine autoritaria, ma nel secondo dopoguerra diventa una delle roccaforti della sinistra operaia. È in tale trasformazione democratica che Berlinguer trova il punto di partenza per una riflessione che va oltre la Sardegna, toccando il cuore della questione meridionale, del sottosviluppo e del futuro del Paese.
I discorsi di Enrico Berlinguer a Carbonia e Cagliari del giugno 1974 offrono nell’articolo un testo complessivo politicamente denso, culturalmente radicato nel contesto storico, sociale ed economico della Sardegna e dell’Italia dell’epoca, ma anche proiettato in un futuro di cambiamento. Si prestano a più livelli di lettura.
Sul piano strettamente politico, Berlinguer parla in una Sardegna e in una Italia che è in pieno fermento post-referendario: il 12 e il 13 maggio c’era stato il referendum sul divorzio, vinto con la netta affermazione del “no” all’abrogazione. Questo è lo sfondo di una regione e di un paese in cambiamento, dove il Partito Comunista Italiano, con la guida di Berlinguer, si pone come protagonista del rinnovamento democratico. In Sardegna, Berlinguer si inserisce nella campagna elettorale regionale per le elezioni del 16 giugno, proponendo una rottura netta con il potere democristiano, accusato di clientelismo, inefficienza e corruzione. Il quadro primario di riferimento politico-istituzionale è la legge del 24 giugno 1974, n. 268 che riguarda il rifinanziamento del Piano di Rinascita. Rappresenta un punto di svolta per l’economia sarda, ma secondo Berlinguer manca la volontà politica e la capacità di governo per attuarla efficacemente.
La Sardegna è raffigurata da Berlinguer come emblema di crisi e di congiunte potenzialità. È rievocata come zona abbandonata, emarginata, devastata dall’emigrazione, con un’economia mineraria e agricola in declino, vittima di scelte sbagliate e sviluppo squilibrato. L’Isola è descritta, inoltre, come ricca di risorse e potenzialmente decisiva per il Paese: miniere, energia, zootecnia. Tali risorse rimangono inerti e abbandonate, mentre si importa carbone dal Sudafrica e carne dall’estero. Carbonia in particolare è il luogo drammatico, pratico e simbolico, di questa contraddizione: città operaia e antifascista, fondata dal fascismo ma trasformata democraticamente dalla lotta dei lavoratori. Carbonia riassume la Sardegna abbandonata, ma anche resistente e viva per la democrazia popolare antifascista in un periodo buio di attentati e di trame nere.
L’articolo di Ugo Baduel è costruito con grande sapienza narrativa ed è necessario percorrere tutti i lati dell’immagine poliedrica che egli offre per coglierne l’insieme. Il primo elemento di democrazia riguarda il rapporto tra il fascismo e l’antifascismo, le memorie e l’attualità. La presenza del sindaco Pietro Cocco il quale, incarcerato e confinato dal fascismo, introduce il comizio di Berlinguer, conferisce profondità di memoria storica all’attualità che compare nella scritta «Brescia: fascisti assassini», con il richiamo all’attentato di Piazza della Loggia nel maggio del 1974. Il discorso di Berlinguer, che lega la Sardegna alla lotta antifascista nazionale, è situato dal giornalista in un contesto assai eloquente e fortemente significativo che lega passato, presente, futuro, con i loro rischi democratici bisognosi di nuove sicurezze antifasciste, come mostra Carbonia. Le scritte sui muri della città diventano narrazione, visiva e popolare, della sua storia democratica che danno nuove voci alle pietre e alla stessa planimetria fascista della piazza e della città autarchica. Carbonia, fondata nel 1938 come “città del carbone” dal regime fascista, è emblematica della contraddizione italiana: da un lato il simbolo della pianificazione autoritaria e del corporativismo fascista, dall’altro una città che nel dopoguerra si è trasformata in roccaforte antifascista e comunista. Berlinguer coglie questo aspetto paradossale per sottolineare la capacità del popolo di riappropriarsi del proprio destino, rovesciando il senso originario imposto dalla dittatura. Le scritte sui muri «Brescia: fascisti assassini» e «Carbonia non deve morire» diventano una narrazione visiva potente, che unisce la lotta antifascista del presente sia alle memorie del passato, lontano e vicino, e sia al futuro di vita durevole che la città rivendica. Carbonia non deve morire, di fatto, volge l’interdizione al morire scritta sui muri esprimendo in tal modo un’affermazione di vita, sostenendo un preciso voler vivere che aveva una particolare risonanza nei corpi e nel suolo della città. Nell’esperienza lavorativa il voler vivere e il saper vivere dei minatori era la posta dei quotidiani rischi del sottosuolo. Tali rischi erano superati quando, insieme ai minerali, essi producevano spazi e tempi di lavoro resi sicuri per sé e per altri. Carbonia come luogo che vuole vivere e far vivere chi la abita traeva forze culturali da mortali esperienze risolte dai minatori, ma anche dalle donne che l’avevano fatta diventare città governando a lungo e in modi vari precarie sussistenze, perfino con cruciali attività procurative di risorse selvatiche, dati i salari insufficienti per vivere. Nel discorso politico di Berlinguer Carbonia è una città ferita, ma democraticamente viva e vitale. Nel resoconto giornalistico la vivace presenza di giovani nella piazza dice nuovi bisogni di una società locale che si vuole moderna per un futuro sicuro. Carbonia, pertanto, è il luogo pratico e simbolico di un antifascismo non retrospettivo, ma di un oggi che vuole assicurare un domani di vita egualmente condiviso.
L’immagine che Berlinguer tratteggia di Carbonia è emblematica e potente: una città che si svuota, che ha perso quasi 20.000 abitanti in trent’anni, segnata dalla crisi delle miniere, dall’abbandono industriale, dalla scomparsa delle prospettive, nonostante il recente passaggio delle miniere all’ENEL. Carbonia è luogo pratico e simbolico della de-industrializzazione in corso. L’inversione di questa tendenza riguarda non solo la città, ma l’Isola, il Meridione e l’Italia.
La prospettiva di un futuro vitale, democraticamente condiviso, riguarda nell’immediato Carbonia specialmente come luogo pratico e simbolico di una nuova rinascita economica della Sardegna, di cui Carbonia costituisce un nodo centrale. La deindustrializzazione del Sulcis-Iglesiente è presentata da Berlinguer con una fotografia drammatica ma lucida: in trent’anni Carbonia passa da 50.000 a 31.000 abitanti; le miniere si svuotano, le industrie chiudono, l’agricoltura è in abbandono. Il caso emblematico del contratto stipulato dall’ente pubblico EFIM con il Sud Africa – mentre si smobilitano le miniere locali – è una denuncia forte dell’assurdità delle politiche industriali. Qui si prefigura il concetto moderno di sovranità economica e valorizzazione delle risorse locali, temi più che mai attuali. Uno degli effetti più gravi della crisi economica sarda, secondo Berlinguer, è l’emigrazione di massa e la desertificazione sociale. In 20 anni, 300.000 persone lasciano l’isola. La generazione di mezzo è “assente”, e questo svuota il tessuto sociale e produttivo: le piazze piene di anziani e giovani non sono solo una fotografia del comizio, ma il simbolo di una rottura del ciclo vitale di una società. Egli propone un modello di sviluppo non più legato a “poli industriali” autocentrati e inespansivi, ma un sistema integrato, diffuso e radicato nel territorio, che connette agricoltura, zootecnia, energia locale, servizi pubblici. La nuova legge per la Rinascita, Legge 509 del 1974, è vista come uno strumento potenzialmente valido, ma inutile senza una seria politica di programmazione regionale che modifichi il modo dispersivo e corruttore che ha distribuito ingenti risorse, senza affrontare il problema centrale per la Sardegna della trasformazione agraria, e senza un cambiamento politico alla guida della regione. Le locali risorse combustibili e minerarie offrivano importanti punti di connessione di tale innovativa integrazione per una reale rinascita della Sardegna, indicando che il Meridione non era luogo da assistere, ma da valorizzare inclusivamente in ambito nazionale. Carbonia è luogo pratico e simbolico di vera rinascita della Sardegna.

La Sardegna, nei due discorsi di Berlinguer, diventa un laboratorio di analisi del “divario interno” italiano, tra Nord e Sud. Uno dei passaggi più duri è quello in cui Berlinguer definisce il potere della Democrazia Cristiana una «piovra clientelare, corrotta e corruttrice». È una critica senza mezzi termini a un sistema di potere parassitario, che distribuisce risorse non per sviluppare, ma per comprare consenso. Egli contrappone a questa degenerazione politica una visione di governo regionale come strumento collettivo di trasformazione sociale, in cui legalità e programmazione sono centrali. Berlinguer esprime una posizione lucida: la legge 509 rappresenta una possibilità concreta di rilancio per la Sardegna, ma solo se sarà applicata con criterio e senza ripetere gli errori del passato. Il vecchio Piano di Rinascita – nato con buone intenzioni – è stato dilapidato da gestioni inefficienti e frammentarie. La 509 diventa quindi il banco di prova di una nuova politica economica, orientata alla trasformazione e non all’assistenza, secondo un nuovo modello di sviluppo per la Sardegna. La Sardegna non può più essere pensata come “zona da assistere”, ma come territorio da valorizzare per l’intero Paese. Tale approccio è sorprendentemente moderno: inclusivo, territoriale, sostenibile. Prefigura concetti oggi fondamentali come la coesione territoriale e lo sviluppo equo. Il Mezzogiorno come risorsa, non come zavorra. Berlinguer rompe uno stereotipo radicato: il Sud come peso per il Nord. Al contrario, afferma che il rilancio del Mezzogiorno è interesse dell’intera nazione. Cita due esempi: la crisi energetica, a cui la Sardegna può contribuire con le sue risorse fossili in abbandono, e l’alimentazione a cui l’allevamento sardo può dare sostegno per ridurre le importazioni di carne. Carbonia è luogo pratico e simbolico di un nuovo meridionalismo per una nazione coesa.
La Sardegna, insomma, non è periferia. Anzi è posta al centro della politica economica nazionale, essendo situata da Berlinguer in una visione nazionale integrata. Cruciale rimane la mancanza di un governo regionale nuovo, popolare, progressista. Berlinguer denuncia l’instabilità cronica della politica sarda che ha dato 13 presidenti in 5 anni e propone una rottura con il passato. Serve una maggioranza stabile e autorevole, fondata sull’unità popolare e su una base realmente progressista, che non può escludere il PCI. Il messaggio è chiaro: o si cambia davvero, o si ripeteranno gli stessi fallimenti. Berlinguer accusa il PSI di doppiezza perché mentre critica i governi passati, non ne rompe davvero gli schemi, cercando solo di guadagnare un assessore in più. Egli critica la politica del piccolo cabotaggio, incapace di visione e di coraggio. In questa parte emerge anche l’indignazione verso le ambiguità riformiste, che non rompono con la DC ma la subiscono.
Il tema della rinascita della Sardegna, partito da Carbonia, assume toni quasi epici. Berlinguer usa il linguaggio della rigenerazione, della rinascita morale e politica. Incoraggia a dare fiducia al PCI, in quanto partito diverso dagli altri, «un partito la cui avanzata è necessaria per rigenerare anche gli altri partiti». Il cambiamento richiesto non è tecnico, ma etico-politico e strutturale-istituzionale. I suoi discorsi hanno un carattere inclusivo e mobilitante. Egli non parla solo ai comunisti, ma a tutti coloro che hanno votato “no”: giovani, donne, ceti intermedi, contadini, intellettuali. Il PCI viene presentato non come un partito settario, ma come forza inclusiva, indispensabile per il cambiamento: «Non diciamo che solo noi possiamo farcela, ma che senza di noi non è possibile». Il suo discorso è venato da ispirazioni di egemonia etico-culturale gramsciana: orientare conoscenze e coscienze verso nuovi valori etico-politici per acquisire la direzione politica di un blocco socio-politico più ampio, rigenerato e rigenerante in consenso e autorevolezza.
Carbonia è luogo pratico e simbolico di rigenerazione democratica per il futuro. Il ritratto della crisi economica sarda che Berlinguer offre è lucido e impietoso. Le miniere chiudono, l’agricoltura è in crisi, i giovani partono. A vent’anni dal Piano di Rinascita, il saldo è negativo. Si preferisce il profitto immediato all’investimento strategico sul territorio. È un capitalismo miope, incapace di valorizzare le risorse nazionali. La Sardegna, terra ricca di potenzialità, viene trattata come marginale, dimenticata, quando non sfruttata.
Ma la crisi non è solo economica: è anche e soprattutto sociale. I sardi emigrano, le famiglie si spezzano, i paesi si svuotano, le generazioni si separano. La Sardegna perde la sua “generazione di mezzo”, quella che lavora, produce, costruisce futuro. Il paesaggio che Berlinguer osserva è fatto di vecchi e bambini: una società che rischia di non rigenerarsi più. L’emigrazione, da scelta, è diventata necessità. E questa necessità è la sconfitta di una Repubblica che, a trent’anni dalla Liberazione, non ha ancora garantito uguaglianza di opportunità a tutti i suoi cittadini.
Un elemento di rottura, però, esiste. Ed è la nuova partecipazione femminile. Berlinguer la legge come un’eredità del referendum sul divorzio: le donne non sono più silenziose spettatrici della politica, ma soggetti attivi. A Carbonia, nel comizio del 1974, la presenza femminile di differenti generazioni è forte e visibile. Questo dato, che oggi potremmo dare per acquisito, allora costituiva una rivoluzione politico-culturale. Il voto delle donne non è più solo opinione privata: è azione pubblica, coscienza civile, scelta autonoma. La Sardegna, spesso vista come periferica, anticipa un cambiamento profondo nella società italiana.
Il bersaglio principale della critica di Berlinguer è la Democrazia Cristiana, descritta come «una piovra clientelare, corrotta e corruttrice». Parole dure, che però descrivono con precisione un sistema politico bloccato, che distribuisce potere non in base al merito o alla progettualità, ma in base all’appartenenza. La politica, da strumento di trasformazione, è diventata meccanismo di conservazione. Le risorse pubbliche sono usate per mantenere consenso, non per costruire sviluppo. Berlinguer propone un’alternativa: una politica etica, orientata al bene comune, fondata sulla partecipazione popolare.
Nel suo discorso, Berlinguer riconosce che la nuova legge di Rinascita rappresenta una possibilità concreta per il rilancio della Sardegna. Ma l’entusiasmo è temperato dalla consapevolezza: il rischio è che, come il Piano di Rinascita, venga svuotata di senso da una cattiva gestione. Serve programmazione, visione, controllo democratico. E serve soprattutto una politica che abbia il coraggio di rompere con i meccanismi che hanno prodotto il fallimento precedente.
Berlinguer non si limita alla denuncia: propone un modello alternativo di sviluppo. Non più assistenzialismo, ma valorizzazione del territorio. Agricoltura, allevamento, industria leggera, servizi pubblici: tutto deve concorrere a costruire una società più equa e moderna. L’idea è quella di una trasformazione strutturale, in cui il lavoro non sia più merce rara ma diritto garantito. Una delle intuizioni più moderne di Berlinguer è il rovesciamento della prospettiva sul Mezzogiorno. Il Sud non è una zavorra, ma una risorsa. La crisi energetica e alimentare degli anni Settanta lo dimostra: la Sardegna può produrre energia, carne, latte, conoscenza. Ma ha bisogno di investimenti, non di elemosine. In questa visione, il rilancio del Sud non è una concessione solidaristica, ma un interesse nazionale. Berlinguer è consapevole che senza un cambiamento radicale nella guida della Regione Sardegna, nessuna riforma sarà possibile. La sua proposta è chiara: serve una maggioranza popolare, progressista, onesta, fondata su un progetto comune e sulla partecipazione del Partito Comunista Italiano. Non è solo una questione di numeri: è una questione di credibilità. Senza un cambiamento di rotta, si rischia di affondare ancora una volta. Berlinguer denuncia la strategia del PSI: criticare la DC, ma senza rompere davvero con essa; chiedere rinnovamento, ma solo per ottenere più posti di potere. È una critica alla politica del compromesso senza progetto, che finisce per perpetuare l’esistente. Nel finale del suo discorso, Berlinguer rivendica tenacemente il ruolo governativo del PCI. Non come partito egemone, ma come forza necessaria per il cambiamento. «Non diciamo che solo noi possiamo farlo, ma diciamo che non si può farlo senza di noi». È una visione politica fondata sulla responsabilità, sull’etica pubblica, sulla coerenza. Il PCI non chiede voti per sé, ma per una prospettiva di giustizia, equità e sviluppo.
I discorsi di Berlinguer sono un esempio magistrale di comunicazione politica radicata nel territorio e nella storia. Egli collega le sofferenze personali e locali a problemi strutturali nazionali, offrendo una visione alternativa e unificante. Acquisisce la memoria, l’orgoglio popolare e la sofferenza sociale come forze per mobilitare consensi verso un cambiamento democratico. Non si limita alla denuncia, ma espone un progetto politico con un campo differenziato di valori culturali, economici, sociali, e una visione complessiva specifica, chiara e strutturata, pur nella consapevolezza delle difficoltà.
Nella configurazione delle relazioni politiche che Berlinguer prospetta nel suo discorso si intravede il “compromesso storico” come grande alleanza democratica che include il PCI nel governo, con responsabilità e potere per rinnovare lo Stato e la società italiana. Si scorge, inoltre, la “diversità” rigenerativa del PCI che si offre per aprire un capitolo del tutto nuovo, a partire dalla Sardegna, con una profonda rigenerazione di valori democratici nella società e nel governo dello Stato, in tutte le sue articolazioni. Egli rivolge il suo discorso non solo ai comunisti, ma a tutte le forze che il 12 maggio sono state protagoniste del “no” al referendum sull’abrogazione del divorzio: operai, intellettuali, ceti intermedi delle città e contadini, giovani, donne, affinché la grande occasione delle elezioni regionali, il 16 giugno, non sia sprecata. La sorprendente presenza femminile di differenti generazioni nel comizio di Carbonia, sottolineata dal giornalista come frutto della mobilitazione per il referendum sul divorzio del 1974, con il 72% di “no” a Carbonia, mostra una Sardegna tutt’altro che conservatrice in cui le donne, in particolare, si presentano come nuovo soggetto politico di cambiamento democratico.
Il discorso di Berlinguer a Carbonia è assai importante. Offre una sintesi del suo pensiero che si svolgerà nel corso del tempo e delle occasioni, con varie versioni e finalità politiche: dal “compromesso storico” alla “diversità” come insieme di pratiche politiche alternative al degrado democratico.
Il “discorso di Carbonia”, fatto da Enrico Berlinguer, non è solo un comizio elettorale. Per certi aspetti, appare come un manifesto politico. Per altri versi, offre una lezione di metodo. Per altri ancora, indica punti di vista e di visione democratica ben connessi. Berlinguer ci invita a guardare il presente con occhi lucidi per non rinunciare al futuro. Carbonia, per lui, è una città pratico-simbolica ferita, ma non vinta e ancora protesa verso la produzione di un futuro di equità e di sicurezza vitale. E proprio da lì, da una città che molti davano per finita, lancia un messaggio di impegno per rigenerare le vite della Sardegna e dell’Italia.
Perché, come dicevano quei muri, Carbonia non deve morire, deve vivere. Deve vivere per indicare percorsi vitali di luoghi, territori, persone nella democrazia delle sicurezze create e condivise equamente.

Il discorso di Berlinguer a Carbonia fra ricordi, lasciti e progetti

Non sono stata una fervente berlingueriana. Confesso. In primo luogo non condivisi la parte che egli ebbe nel 1969, come vicesegretario, nella radiazione dei compagni che diedero vita alla rivista “Il manifesto”. Sottoscrissi una lettera di protesta rivolta ai dirigenti del PCI. I compagni di Carbonia non furono espulsi. Si dice che Luigi Pirastu, nel Comitato regionale che ne discusse, sostenne che a Carbonia prevaleva una base stalinista. In realtà i firmatari della lettera, che sosteneva l’esperienza editoriale delle persone accusate di frazionismo, erano giovani e non stalinisti. Tuttavia, questa tesi fu accolta. Sarebbe interessante leggere il verbale di quella riunione. Non avevo condiviso neppure le ragioni che, Berlinguer segretario della FGCI nell’agosto del 1951, gli avevano fatto accostare Maria Goretti alla partigiana Irma Bandiera, come modello di autonomia femminile pagata con la vita. Mi fu difficile ingoiare l’adesione alla Nato, per quanto edulcorata da esigenze di riforma dall’interno, che emerse nell’intervista a Giampaolo Pansa del 15 giugno 1976. D’altra parte, ero così gramscianamente contraria ai comunismi realizzati da poter accettare una Nato da riformare. Non mi piacque neppure la scelta berlingueriana della parola «austerità», usata dal 1977 al 1983, per criticare privilegi, sprechi e consumismi eccessivi, coniugando la critica con una nuova giustizia morale e politica. Avrei preferito la parola “rigore”, anche in riferimento alle esigenze di riforme fiscali.

Quando Berlinguer giunse a Carbonia per il comizio, apprezzavo assai le scelte politiche di Berlinguer per connettere lo sviluppo della democrazia all’avvicinamento del socialismo in Italia e inEuropa. Vari pregi politici di Berlinguer avevano appannato quei miei dissensi, facendomelo sentire più vicino. Prima del suo comizio il gruppo dei comunisti eletti fu convocato nella stanza della Giunta per un incontro con Berlinguer. Ero presente a quell’incontro con Pietro Cocco, Vittorio Piano, Benito Labate, Gianfranco Fantinel, Maria Isabella Piras, Antonio Saba, Antonio Puggioni, Egidio Concu, Antonio Comina, Giuseppe Casula, Emilio Podda, Egidio Corrias, Salvatore Piras. Eravamo tutti in prima e seconda fila attorno a un grande tavolo. Berlinguer era affiancato da Antonio Tatò che prendeva appunti. Sarebbe assai interessante poterne avere accesso. Parlò soprattutto il sindaco Pietro Cocco, dando informazioni cruciali sulla vita della città. Non ricordo cosa farfugliai. Mi è rimasta assai forte la memoria dell’attenzione di Berlinguer che ascoltava e mi ascoltava. Riemerge ogni volta in cui noto dirigenti distratti quando dovrebbero ascoltare. Berlinguer sapeva ascoltare, oltre che parlare. Berlinguer sapeva anche vedere. Le donne, giovani e anziane, erano una presenza in parte nuova nel comizio che avveniva dopo la vittoria contro il referendum per l’abolizione del divorzio. Berlinguer le seppe vedere e seppe capirne l’urgente istanza di modernità, data la percentuale del 72 per cento a Carbonia che distanziava la media regionale del 55 per cento. Le compagne per allestire il palco avevano fatto prevalere il rosa e le gentili gerbere. Egli capì e disse un grazie per l’allestimento del palco. Fu ricambiato con un significativo mazzo di rose rosse che, a nome delle compagne, alla fine del comizio gli diede Luisa, giovane e bella che si era molto impegnata nell’allestimento del palco. Erano briciole di politica che, a quei tempi, erano anche briciole di poetiche. Briciole che nutrivano certi luoghi nel campo dei comunisti e della democrazia italiana: luoghi in cui le donne cercavano di distinguersi sia per le grandi controversie di genere, sia per marcare di sé perfino le qualità delle piccole e invisibili cose.

Eravamo allora orgogliose di essere donne comuniste. Alcune son diventate convinte di ogni svolta, giustificatrici di ogni calo elettorale, soddisfatte di ogni partecipazione governativa. Alcune sono diventate comuniste tristi. Altre, arrabbiate o rabbiose. Altre solo tenaci. Altre “libresche”, rintanate in rifugi letterari o filosofici, offerti anche da teorie di nuovi marxismi.
Credo che non vadano dispersi gli stimoli che la mostra di Berlinguer a Cagliari ha rinverdito o sollecitato. Credo che debba essere promosso un incontro per nuovi impegni di volontaria partecipazione democratica. Una via minima mi pare riguardare la materialità della nostra Costituzione formale, ovvero la realizzazione dei suoi principi. La Costituzione italiana non affronta tutti i problemi attualmente in campo: dall’intelligenza artificiale al fine vita e alla complessità delle questioni ambientali. Tuttavia, può essere un utile punto di partenza che richiama sia l’unità delle opposizioni democratiche, sia l’attuale governo che ha votato fedeltà alla Costituzione, sia le destre con il loro populismo che oscura il disfacimento del popolo impoverito, mentre subisce i privilegi dei vecchi e dei nuovi arricchimenti. Può essere utile, se si vuole.

Si vuole? E chi vuole? E come?

L’esposizione cagliaritana su I luoghi e le parole di Enrico Berlinguer, se non vuole essere fine a sé stessa e aspira ad avere un seguito di iniziative, può mostrare e a dire assai di più. Può nutrire nuove aspirazioni democratiche. Può esprimere nuove volontà di dare un futuro a progetti di cambiamento egualitario, volontà che l’attuale crisi richiede e che la mostra smuove in ogni intima coscienza profondamente democratica.

Luoghi e parole di Berlinguer in Sardegna non appaiono tutti in mostra. Questo scritto nasce dall’esigenze di dare presenza a luoghi e a parole mancanti, senza esaurirsi in un completamento dell’esposizione. Sorge, infatti, dall’esigenza di un nuovo confronto con le parole di Enrico Berlinguer che incoraggiavano a rafforzare una vita in comune democraticamente condivisa e che la mostra, ora, spinge avanti e altrove.

Paola Atzeni

1 I poligoni
Il recente libro di Aide Esu (2024) conduce fin dentro certi spazi isolani ignoti e ignorati. Porta la nostra attenzione lontano dall’iconografia turistica: dalle affollate spiagge delle élite da rotocalchi e dai più remoti luoghi boschivi o incontaminati, fotografati spesso per nobilitarli propagandisticamente come “selvaggi”. Tali luoghi sono definiti trasferendo impropriamente la natura selvatica in un ambito umano, un ambito idealmente ancora non toccato dalla civiltà e fortemente inferiorizzato nei durevoli approcci evoluzionistici che alimentarono vari razzismi fin dalla seconda metà dell’Ottocento. Pubblicato nel 2024 dalla casa editrice Ombre Corte nella sezione culture è abbondantemente documentato e sobriamente scritto. È avvincente fin dalla copertina che espone a tutta pagina la foto della recinzione di un sito militare.
Prima di leggere il titolo del libro, si scorge un cartello giallo. Nella prima riga si legge zona militare e si offre a grandi caratteri una toponomastica qualificativa della militarizzazione: divieto di accesso. La seconda riga, esplicita una prescrizione interdittiva e una preclusione all’accesso. Sorveglianza armata, la scritta finale, annuncia infine controlli rischiosi a cui si espongono le persone inosservanti dei divieti. La rete che sostiene visivamente il cartello dice ancor meglio degli enunciati, infine, i poteri e le interdizioni in campo. Il titolo rende conto del contenuto del testo: Violare gli spazi. Militarizzazione in tempo di pace e resistenza locale.
Richiama il violare e le violenze in tempo di pace. Indica immediatamente il carattere violento del fenomeno e del processo di militarizzazione localizzato nell’Isola.
L’autrice è una sociologa di ampia formazione, aperta ai dialoghi interdisciplinari e transdisciplinari, come indicano anche i suoi temi e i suoi casi di studio. Offre nel suo resoconto di ricerca un quadro globale delle esperienze di militarizzazione portate avanti dalle geopolitiche occidentali. Con la sua sociologia particolarmente attenta ai dati qualitativi, “qualitativista”, e che si avvale per questa indagine di precise ricerche etnografiche sul campo durate otto anni, è assai vicina a certi orientamenti etno-antropologici non solo metodologicamente, come vedremo scorrendo il suo scritto. La studiosa sceglie di indagare la socialità non solo nei conflitti in sé, ma specialmente negli spazi conflittuali, come ha fatto e continua a fare per il conflitto israeliano-palestinese. In questa sua ricerca va a monte delle guerre, entrando in luoghi specifici, istituiti per apprendere a esercitare la forza nei conflitti armati. Con la scelta di indagare i modi di spazializzare le basi delle esercitazioni militari la studiosa muove un’espansione della sua iniziale postura teorica, primariamente orientata soprattutto verso i protagonisti dei conflitti. Il dar luogo alle guerre e alle distruzioni armate simulate nelle esercitazioni dà luogo in vari casi a distruttive esperienze umane, individuali e di gruppo. In generale, esercitarsi alla guerra creando luoghi specifici di addestramento bellico si situa realisticamente in un preciso paradigma di relazioni di forza armata, piuttosto che di pacifiche relazioni diplomatiche volte a risolvere controversie. In più, il tema delle violenze tematizza e problematizza il fenomeno della produzione dei luoghi che, espropriati alle attività produttive con dichiarate assicurazioni vitali, assumendo un’esclusiva dimensione transnazionale e innovativa delle tecniche di guerra diventati militari con dichiarati obiettivi di sicurezze vitali e mutati invece in luoghi di rischi mortiferi con false promesse securitarie.
Il libro ci parla di luoghi della Sardegna espropriati per fini militari da più di mezzo secolo, contrastati e rivendicati per essere rigenerati e trasformati in nuovi luoghi da riabitare, da far ri-vivere e da ri-vivere in modi gestiti e controllati pacificamente e democraticamente. Su tali luoghi Aide Esu indirizza uno sguardo misurato dalla consapevolezza, esplicitata nell’introdurre il proprio discorso, che si tratta di conciliare le esigenze di uno stato democratico di organizzare un suo apparato di difesa e il mancato riconoscimento dei diritti dei residenti sui cui gravano le pertinenze militari. Il suo sguardo misurato apre sobriamente la questione democratica del riconoscimento e del rispetto dovuto alle autorità pubbliche e, congiuntamente, al riconoscimento e al rispetto che le autorità devono ai cittadini. Il libro non offre risposte, ma solleva una questione di fondamentale rilevanza. L’ultima parte del testo dà voce a residenti che non hanno avuto interlocutori con cui dialogare.
Di questo scritto tenterò una non facile sinossi, mirando a privilegiare secondo i casi alcune questioni connesse a linee di riflessione socio-antropologica. L’incipit del testo scelto è assai originale.
Sembra il brano di un’intervista, una tranche de vie o un racconto di vita di certi antropologi, sociologi, storici, i quali con preciso orientamento scientifico utilizzarono racconti di particolari esperienze vissute o di intere storie di vita come fonti utili, al pari e insieme a quelle archivistiche, per delineare epocali forme di vita localizzate, sviluppando teorie e metodi analitici in un vivace trentennio di ricerche (J. Poirier et alii 1983, M. Halbawachs 1987, E. Tonkin 1992, M. Pistacchi curatore et alii 2010, P. Clemente 2013). In realtà, nel libro di cui parlo è riportata una parte della deposizione, resa il 26 luglio del 2017 da una donna di 72 anni, Eligia Agus, al processo contro gli otto comandanti al Poligono Interforze del Salto di Quirra (PISQ).
Aveva vissuto 42 anni a Quirra. Due suoi figli erano morti di tumore, un terzo era stato operato per un tumore e lei stessa era stata operata per un tumore alla tiroide. Fin dall’incipit il problema della biografia di sofferenza, anche nelle pieghe delle plurali dimensioni familiari e comunitarie, diventa subito centrale e dirompente nell’accompagnare il filo narrativo ufficiale delle militarizzazioni. La testimonianza pone per sé il problema di un doppio riconoscimento dovuto alla persona: non solo di quanto e quale è da malata, ma di quanto e quale aveva diritto di essere in salute, come in un doppio registro dell’essere, dell’ontologia.
Il discorso personale e sconosciuto di questa donna diventa pubblico e noto nel processo, prima che nel libro. Appare come discorso di un’esperienza dolorosa cumulata in una serie di molteplici eventi vissuti e patiti, anche luttuosi, che fanno parte di sé e delle attività militari in tempo di pace incorporate dannosamente. Palesa in un duplice registro la valenza di un personale modo di essere, proprio di una persona diventata mutilata anche negli affetti e mutata nel proprio corpo, fatto malsano. Svela anche un possibile modo di essere al mondo, individuale e potenzialmente collettivo, tragicamente spazializzato e temporalizzato: modo di «esserci» diventando prossimi e destinati alla morte nello spazio-tempo militarizzato di Quirra. Scopre un modo e un mondo, non detto fino ad allora pubblicamente, in cui per certe persone sembra dominare la spazialità dell’esserci quasi come essere lì a rischio di morte, confermando una loro negativa condizione di vita subita. Si tratta di una condizione mortale incombente che Martin Heidegger nel 1927 aveva filosoficamente teorizzato come specifica dimensione umana esistenziale, alla quale la militarizzata modernità rischiosa sembrava dare una propria effettività e consistenza, storicamente situata e determinante a Quirra e nei singoli contesti identificati. I luoghi malsani e mortiferi di Quirra erano identificati nella loro verità nascosta, nell’immediato della scena processuale, a partire dai corpi dei morti e dei malati nominati da questa donna, dalla sua presenza e dal suo discorso di verità.
L’esperienza del nocivo materialmente incorporato in questa donna, che aveva patito e pativa anche quella dei suoi familiari deceduti e sopravvissuti, diventava discorso pubblico. Era sostenuto da immateriali saperi e valori di vita che davano concretezza di nocività sia allo spazio da lei abitato nella convivenza con il poligono, sia al poligono stesso come matrice localizzante lo spazio nocivo, negato nei discorsi istituzionali.
La militarizzazione documentata e analizzata dall’autrice, come fin qui detto, affronta varie questioni lasciate ai margini di vari discorsi istituzionali e si cala nelle profonde reti di relazioni celate, congiungendo altri fondamentali piani d’indagine: per esempio, quelli dei modi di produzione dei rischi negli spazi militari, storicamente socializzati in modo ineguale e ineguagliante in tali esperienze. La postura democratica della studiosa risulta esplicita quando afferma che «non possiamo abdicare alla logica delle forze distruttive» incoraggiando a non lasciarsi chiudere in un contesto e a connettere i diritti alla giustizia, superandone le disgiunzioni.

I primi tre capitoli del libro offrono una lettura critica delle militarizzazioni in Sardegna, evidenziandone i profili politico-istituzionali, sociali e ambientali. Il quarto riguarda le azioni e le rivendicazioni sostenute dai movimenti di resistenza alle militarizzazioni realizzate.
Aide Esu affronta fin dall’inizio il problema della militarizzazione e della costruzione del consenso che gli impatti sociali e politici, vitali e ambientali, rifocalizzati dalle scienze sociali attraverso temi quali forme di dominio e limitazioni di sovranità, risultano accomunare varie esperienze nella estesa rete delle basi militari dislocate nei due emisferi, palesando una dimensione globale. Con riferimenti alla letteratura internazionale, sotto il profilo geopolitico sono sottolineate le importanti funzioni che le basi hanno svolto nel rafforzamento delle reti interstatali, nella creazione di una efficiente logistica globale, nel contrasto al terrorismo. Nel versante dei governi locali, dei cittadini e degli attivisti, le basi risultano generatrici di privazioni della sovranità territoriale, di inquinamenti, di rumori e molto altro.
Le relazioni di potere interstatali non erano paritarie. I dispositivi negoziali di subordinazione erano lungamente secretati, come l’accordo italo-americano che risale a un’intensa attività diplomatica bilaterale degli anni 1949-1954. La segretezza di questo negoziato, ancora oggi vincolato, non contemplava l’approvazione parlamentare. Emerge un paradosso tutto italiano. A differenza di altri Paesi dell’area mediterranea, l’Italia non ha mai rinegoziato gli accordi siglati durante la Guerra Fredda o ridotto il numero delle truppe presenti. Anzi, queste sono raddoppiate in cinquant’anni. Inoltre, nonostante l’Italia rinunci alla produzione nucleare, vengono stoccati armamenti nucleari in territori italiani. Di qui il dispiegamento dei missili Pershing cruise negli anni Ottanta e degli F-16 alla fine degli anni Novanta. Le attività militari sono al centro dell’attenzione mediatica per altri aspetti che, per esempio a Perdasdefogu, assumono la connotazione antropologica di cambiamenti di forma di vita o di stili di vita. I militari creano un teatro e un cinema, incentivano le attività sportive, creano iniziative ludico-culturali per le feste, incoraggiano la costruzione di un istituto tecnico. Forniscono anche nuovi servizi alla comunità come l’assistenza medica d’urgenza, e sostengono il servizio antincendio per la prevenzione estiva. Tali narrazioni costituiscono il filo giustificazionista della presenza militare a Perdasdefogu dove si realizza il modello del consensus building affidato a specifici servizi, chiamati Combined Information services (CIS).
Il demanio e le servitù militari occupano lo spazio che va da nord a sud, da est a ovest della Sardegna con poligoni militari, basi aeree, base appoggio per sommergibili nucleari. I gravami delle servitù militari nel territorio nazionale incidono percentualmente lo 0,36 in Friuli e lo 0,56 in Sardegna, scelta come territorio elettivo per gli addestramenti, per le sperimentazioni dei sistemi d’arma e per la ricerca aerospaziale. Le superfici occupate con finalità militari sono catalogate in tre tipologie: spazio occupato permanentemente ed esclusivamente dai militari per usi specifici; aree in prossimità delle basi o dei poligoni non occupate permanentemente ma interdette ai civili per ragioni di sicurezza; aree non permanentemente occupate dai militari e interdette in ragione delle esercitazioni stagionali. Il concetto di servitù militare, introdotto in epoca napoleonica, è stato normato dallo statuto albertino e in seguito modificato. La servitù militare è l’insieme delle limitazioni e dei divieti imposti tanto sui beni privati quanto sui beni pubblici, situati in vicinanza delle installazioni militari e delle opere a queste equiparate. Tali limitazioni possono dar luogo a forme disciplinate e parziali di co-uso. Il consenso viene alimentato intrecciando il filo della modernizzazione che sostituisce l’arretratezza, quello dell’orgoglio per il nuovo peso che la Sardegna assume nel Mediterraneo e nello scacchiere militare internazionale, potendo acquisire un futuro di conquiste spaziali.
Andiamo ora nei siti, caso per caso. La base di La Maddalena si discosta parzialmente dagli altri casi per la mancata resistenza alla Base Usa, probabilmente per una storica apertura culturale alla marineria.
L’accordo del 1972 dettaglia la tipologia d’uso dell’isola di Santo Stefano, convertito da deposito di carburanti a punto di approdo di nave appoggio per sommergibili di attacco della U.S. Navy. Le pratiche degli accordi-quadro, in un sistematico rinvio a scatole contenitive di ulteriori accordi, consentono modifiche degli accordi senza regolazione in materia nucleare mentre, come dice un attivista maddalenino: «rende difficile orientarsi e più forte il segreto, la riservatezza, la indefinitezza delle cose». La giustificazione del ruolo antisovietico di questa base regge fino alla caduta dell’Urss nel 1990-91. La unilateralità delle decisioni su questa esperienza riapre la questione sui limiti della sovranità nazionale e sulla segretezza delle decisioni e delle loro applicazioni. L’opposizione della Regione Sardegna fu respinta dal Vice Commodoro Usa perché la Regione fu considerata autorità non competente e la base venne usata nel corso della guerra in Iraq, violando le decisioni del Parlamento italiano e del Consiglio Superiore della Difesa. Nel 2004 il governatore della Regione Sardegna, Renato Soru, aprì un contenzioso con il governo italiano per chiedere la riduzione delle servitù militari e la chiusura della base di La Maddalena. Nel 2008 gli americani lasciarono questa base.
Alcune oscurità e certi rischi democratici connessi alle militarizzazioni si trovano in indagini laterali, com’è accaduto in occasione della testimonianza di Giulio Andreotti alla commissione parlamentare sulle stragi a proposito della segreta organizzazione armata di Gladio, con 622 appartenenti rilevati ma stimati almeno il doppio. Gladio fu elaborata e armata dalla Cia nel 1956 con il nome Stay Behind, con zona addestrativa ricadente fra Poglina e capo Marraggiu. È ora noto che contava su quaranta nuclei operativi: 6 informativi, 6 di propaganda, 6 di evasione fuga, 10 di sabotaggio, 12 di guerriglia. Al contrario di altri paesi con l’eccezione della Turchia, in Italia questa organizzazione segreta si mantenne anche dopo la caduta della “cortina di ferro” per contrastare le forze politiche di sinistra. Inoltre l’indagine del giudice Casson, riaprendo nel 1980 il caso della dimenticata strage di Peteano, avvenuta nel 1972 con tre carabinieri morti e un reo confesso della destra eversiva, confermò l’attività della Gladio come struttura clandestina. Mostrò, inoltre, che il plastico usato per l’attentato era in uso alle forze Nato. L’evidenza del contributo della Nato nello stragismo nero di quegli anni aprì uno squarcio investigativo sulle pratiche stragiste, generalmente attribuite alla sinistra. Nel buio di quei fatti e di quegli anni prevalevano i segreti e le secretazioni, insieme alle produzioni discorsive volte a incrementare i consensi sulle militarizzazioni.

Procedendo nei luoghi militarizzati, sulle prime essi appaiono dispersi. In realtà, non mancano interessanti connessioni funzionali fra loro.

Il Poligono Interforze del Salto di Quirra (PISQ) di Perdasdefogu è una struttura permanente che occupa una superficie di circa 120 kmq, a cui si aggiungono quasi 10.000 miglia a mare. Convertito in Ente interforze nel 1959, è la più grande base militare italiana e uno dei più importanti poligoni sperimentali per esercitazioni e addestramento d’Europa. Ricade per la maggior parte nel comune di Perdasdefogu e per un’altra nel comune di Villaputzu. La base opera in modalità integrata con l’attività aeronautica di Decimomannu, il poligono di capo Frasca e il distaccamento aereo di Cagliari-Elmas. Nel poligono si svolgono attività addestrative nazionali ed estere in bianco e a fuoco, comprendenti unità missilistiche e di artiglieria, utilizzo di laser e di altri sistemi tecnologici, esercitazioni a fuoco sia a terra che a mare, esercitazioni aeree e navali  anche a fuoco. Durante le esercitazioni della Nato si aggiungono esercitazioni anfibie, navali e aeree, in coordinamento con le basi di Decimomannu, di Capo Frasca e di Capo Teulada. Attualmente si svolgono collaudi di prototipi di missili e di bersagli, prove di qualità in collaborazione con industrie ed enti nel settore dell’elettronica aerospaziale, attività legate alla ricerca scientifica del Distretto aerospaziale della Regione Sardegna, ricerca e sperimentazione in cyber-defence, cyber-security e modelling&simulation.
Il poligono di Capo Teulada, nel sud-ovest dell’Isola, si estende per quasi 7500 ettari nel territorio del comune di Teulada e solo in minima parte, circa 25 ettari, in quello di Sant’Anna Arresi. Ai 72 kmq di area permanente si aggiungono 748 kmq di zona marina e di aree interdette alla navigazione nei periodi di esercitazioni. Secondo la Marina Militare il poligono non ha alternative comparabili in tutto lo spazio europeo ed è il solo poligono che consente addestramenti interforze e combinati con altri paesi alleati. Si svolgono attività di sganci reali di munizionamento inerte, lancio di missili inerti da aeromobili, sbarchi anfibi, aviolanci, aviosbarchi ed elisbarchi. Le interdizioni permanenti coprono un territorio di oltre 32 kmq, mentre l’area marina interdetta può giungere fino a 1.300 kmq. Vi si svolgono esercitazioni di forze Nato con l’installazione di strutture mobili nei periodi di addestramento.
L’aeroporto militare di Decimomannu, operativo dal 1940, dista 20 km da Cagliari. Dal 1991 al 2016 è passato alla gestione Italia-Germania. Oggi è un reparto sperimentale per la standardizzazione di tiro aereo.
Il poligono di Capo Frasca, in prossimità di Oristano, è un’installazione di tipo permanente. Occupa un’area di circa 14 kmq in cui si praticano tiri con munizionamento inerte. L’operatività è integrata con addestramenti Nato e nazionali dell’aeroporto di Decimomannu. La base Air Force di Monte Limbara, nel comune di Tempio Pausania, è stata abbandonata nel 1993.
Esigenze della Difesa e delle comunità locali pongono problemi non solo di ordine istituzionale, ma anche di ordine economico e di ordine ambientale. La costituzione di comitati paritetici regionali non riesce a risolvere il problema delle compensazioni, della complessità delle loro procedure e delle loro erogazioni irregolari. Decenni di addestramenti e di sperimentazioni hanno compromesso lo stato ambientale delle aree dei poligoni. La condizione ambientale del poligono di Teulada è fortemente compromessa e procedono le azioni legali per devastazione ambientale. Avanzano, inoltre, denunce dei familiari di deceduti per tumori del sangue. Appare una maggiore lentezza negli accertamenti delle responsabilità sanitarie a Teulada mentre il caso di Quirra, con il lavoro della commissione parlamentare sull’uranio impoverito, al di là degli aspetti infruttuosi, apre una breccia nel silenzio istituzionale sui costi ambientali e specialmente sugli impatti delle militarizzazioni nel versante della salute pubblica. Pare poco, ma è già tanto importante.
I casi di La Maddalena e di Quirra fanno emergere, nel secondo capitolo, le relazioni interstatali dominanti alle quali corrispondono le debolezze istituzionali dello Stato italiano e delle sue articolazioni che determinano le sottrazioni di territori abitati e lavorati, limitandoli ad esclusive attività militari. A La Maddalena sembrano prevalere varie incertezze che, di fatto, delegittimano le rilevazioni del rischio . Nel poligono del Salto di Quirra l’incuria, la minimizzazione e il diniego del rischio deresponsabilizzano i vertici militari per gli impatti ambientali. Le isole in una prospettiva mondiale sono accomunate, nel terzo capitolo, da un generale processo globale di militarizzazione, da pratiche coloniali insediative, finalizzate a situare le attività militare in spazi resi invisibili e a propagandare un ambientalismo di facciata (greenwashing).
Il quadro complessivo apparve alquanto unitario delle singole situazioni quando, nella relazione finale della commissione parlamentare sull’uranio impoverito, si manifestò la necessità di pianificare una riduzione degli insediamenti militari entro tre mesi dall’approvazione della relazione. Il contenimento avrebbe dovuto realizzarsi su molteplici piani: la progressiva riduzione delle aree soggette a servitù militari, la dismissione dei poligoni di Capo Teulada e di Capo Frasca, la riqualificazione del Poligono Interforze del Salto di Quirra, la stipula di un’intesa con la Regione Sardegna, la bonifica e la contestuale riqualificazione delle aree liberate dai vincoli, il finanziamento, la progettazione l’insediamento di attività alternative, idonee ad assicurare e a incrementare i livelli occupativi. Il documento raccoglieva le richieste degli amministratori locali per limitare la finestra esercitativa nel periodo estivo al fine di non danneggiare le attività turistiche. In applicazione della normativa europea sull’ambiente, si affermava la non derogabilità ai limiti di concentrazione dei valori di soglia per specifiche sostanze, data l’incidenza di malformazioni o di patologie, soprattutto nelle aree caratterizzate dalla presenza pluridecennale di poligoni. Infine, si sosteneva la tutela di lavoratori, militari e civili, che operavano nelle aree soggette alle servitù militari. Tali impegni si rivelano pure enunciazioni di principi. In pratica, venivano successivamente azzerati gli esiti delle commissioni investigative ed esautorate le istituzioni parlamentari. L’insieme degli addestramenti nella primavera del 2023 ha coinvolto gli spazi militari di tutta l’isola.

Il percorso delle esperienze di protesta e di resistenza, dirette contro le occupazioni militari, spingono a tentare di cogliere le aspirazioni che nutrono la democrazia e producono futuri come fatti culturali, per dirla con l’antropologo Arjun Appadurai (2013). L’ampia letteratura richiamata da Aide Esu per individuare i caratteri magmatici e intersezionali, che situano tali esperienze in un contesto globale, è di indubbio valore euristico. Altrettanto utile è la sua storicizzazione delle azioni di protesta secondo scansioni di periodi-chiave. Il primo periodo (1956-1968) coincide con le installazioni militari propagandate come progetto di modernizzazione. Nella seconda fase (1981-2000) la critica alla militarizzazione e il suo rifiuto cominciano ad avanzare. Nel terzo tempo (2001-2013) iniziano ad affacciarsi timori associati al rischio.
Nell’ultimo periodo le comunicazioni si concentrano particolarmente sui rischi ambientali e sulle conseguenze per la salute umana. Andiamo dove è iniziata la protesta.

2 Orgosolo
Vediamo più da vicino il percorso della resistenza alle occupazioni militari partendo dalla Barbagia, cuore della Sardegna, e da Orgosolo. All’epoca della rivolta contro l’installazione permanente del poligono di tiro nel villaggio abbandonato di Pratobello, la Barbagia e in particolare Orgosolo erano al centro dell’attenzione per i sequestri di persona, che raggiunsero l’apice nel 1967 con 26 persone rapite. La Barbagia, classificata come zona delinquente nelle relazioni parlamentari fin dai tempi dell’Unità d’Italia, sottoposta a misure speciali di sicurezza, ha realizzato una storica relazione conflittuale con lo Stato in cui la polizia appariva come guardia armata del privilegio. Sicurezza inferiorizzante imposta con violenza, di contro al giusto rispetto per le autonomie delle persone, con i luoghi ad esse accomunati, appaiono come codici culturali in contrasto, come esperienze storiche locali mal congiunte in ambito nazionale. Studiate antropologicamente da Franco Cagnetta e poi filmate con importanti riconoscimenti da Vittorio De Seta, tali esperienze rimasero orientate da una semantica razzializzante per una lettura neocoloniale a sostegno di misure militari speciali, specialmente nel corso delle ripetute evasioni e catture del bandito Graziano Mesina. Nel 1966, l’invio di migliaia di Baschi Blu per la repressione del banditismo con capillari pattugliamenti alimentò diffuse insofferenze, non solo nel territorio barbaricino.
La protesta di Pratobello fu preceduta da un esteso attivismo politico che assunse la forma di circoli culturali giovanili, dando luogo a fermenti democratici maturati specialmente nelle università. La precedente ribellione contro l’istituendo Parco del Gennargentu sboccò nell’occupazione dell’edificio comunale, ribattezzato Casa del Popolo. Oltre la protesta, si rivendicava la partecipazione democratica alle decisioni e alle scelte. Inoltre, si rifondava e si rinominava il municipio, ribattezzandolo esplicitamente come luogo di tutta la popolazione. Principi di democrazia dal basso sostennero quattro giorni di occupazione del comune con assemblee per favorire la partecipazione popolare. Dichiarata decaduta la giunta in carica per la mancata consultazione popolare in merito all’istituzione del Parco, criticata la mancata trasparenza sulle decisioni in campo riguardanti le attività agro-pastorali, si affermava e si praticava un “giusto” diritto di scelta e di decisione, percepito come legittimo sulle questioni vitali per la comunità locale. Nei quattro giorni di assemblee e manifestazioni furono numerosi i temi affrontati, in particolare quello degli investimenti infrastrutturali e dell’istruzione. In questo animato clima politico cominciarono a diffondersi le notizie sulla istituzione di un poligono di tiro nel territorio di Pratobello. Comparvero avvisi della prefettura, affissi sui muri del paese, nei quali si invitavano i pastori a trasferire temporaneamente il loro bestiame per consentire l’addestramento dell’esercito.
Mentre si materializzava la visione e la forma dell’ingiustizia imposta perentoriamente e violentemente con la sottrazione di un terreno di uso civico, quindi di un bene comune fonte di riequilibrio economico, montava l’indignazione per questo oltraggio. La configurazione della risposta fu quella della nonviolenza, assai innovativa in un contesto culturale in cui era considerato necessario rispondere alla violenza con altrettanta violenza, per contrastarla o mitigarla efficacemente e per farsi valere. Dar luogo e forme a una resistenza oppositiva alla militarizzazione e, congiuntamente, mutare in sé i comportamenti automatici che derivavano da una tradizione consolidata e incorporata che faceva fronte alla violenza con corrispettiva violenza, fu un cimento culturale straordinario e di esito incerto per ogni persona e per la comunità locale. La dimensione del contrasto alla giustizia e il carattere non violento di questo contrasto è ben chiaro all’autrice. Tuttavia, mi preme sottolineare, a proposito di questa esperienza, le pieghe del creativo ricreare luoghi con il concomitante creativo ricreare sé stessi: come una poetica spaziale e un’autopoiesi congiunta. Come una nuova e duplice produzione culturale di un far luogo e dar luogo a ciò che è giusto, sia nello spazio esterno e sia nel proprio sé intimo, da parte dei protagonisti che producendo luoghi del giusto si producevano come persone giuste.
Siamo di fronte a un’agency duale, proiettivamente ed estensivamente duale: agire dando luogo a ciò che è giusto e nel contempo diventare persone giuste. Tale cambiamento del far luogo al divenire del giusto in modi giusti e con valenza duale, spaziale e propriamente intima, si realizzò in primo luogo nel municipio e sul municipio di Orgosolo con i suoi protagonisti, e poi a Pratobello. Per queste ragioni Orgosolo, con le sue esperienze di partecipazione democratica, si presenta ancor oggi come una matrice culturale di soggettivazioni democratiche e autonomistiche, in un periodo di crisi dell’autonomismo, non solo istituzionale. Guardando propriamente verso i luoghi, i manifestanti andarono ben oltre l’ingiusta espropriazione del bene comune. Infatti, manifestarono intendimenti di uso propriamente rigenerativo del territorio quando criticarono l’invio di carri armati, cannoni e truppe, anziché trattori per arare, palesando aspirazioni e intendimenti propri per riabitare e riabilitare il territorio di Pratobello.
Emergeva un tipo di dualità nei modi e nei contenuti delle pratiche: pratiche contro e pratiche per, semplificando al massimo. In realtà, bisognerebbe individuare nelle azioni negative anche i possibili contenuti affermativi e viceversa. Inoltre, mantenendo un’attenzione analitica in mobilità durante processi in corso, pare necessario accompagnarne analiticamente il divenire ancora incompiuto e fluido, informe e instabile, differenziandolo da una identificazione statica o compiuta nelle indagini sul campo. Accade infatti che vari approcci funzionalistici, i quali ben visualizzano certe realizzazioni di processi compiuti, risultino ciechi di fronte a configurazioni transitorie, emergenti in particolari processi in corso, destinate o meno a esiti stabili. A Pratobello si faceva spazio a dinamiche incerte e a pratiche multiple: multiple per estensione spaziale e temporale, sociale e istituzionale.
Emerge l’esigenza di render conto dell’incerto nel divenire delle cose e dei luoghi, delle persone e delle loro relazioni compreso il sé, che si fa altrimenti nel corso di certe esperienze a misura dei cambiamenti. Fra non pochi filosofi, chi ha meglio studiato certi modi di divenire differentemente, svelandoli nella loro transitoria incompiutezza, è forse il filosofo Jacques Derrida (1993, 2008). Mi limito, in questo caso, ad indicare l’importanza della sua prospettiva per gli approcci sui processi in corso e sul divenire altrimenti che riguardano persone e cose, luoghi e territori.

Torniamo agli eventi della resistenza orgolese. L’occupazione fu preceduta da infruttuosi tentativi di mediazione da parte del commissario prefettizio di Nuoro, dalla Questura di Nuoro e dalle organizzazioni sindacali agricole. Il 18 giugno a mezzanotte trapelò la notizia dell’arrivo dei militari della Brigata Sassari per iniziare le esercitazioni. Tramite il segnale convenuto di una musica tradizionale, diffusa da un altoparlante usato per i bandi pubblici, si convocò l’assemblea del paese. Si decisero le iniziative per il giorno successivo.
Il 19 giugno gli abitanti percorsero insieme a piedi, in auto o sui camion, 11 km di salite che conducevano all’altipiano di Pratobello. I pastori avevano dormito in campagna ed erano pronti per occupare il terreno contestato. Le donne bloccarono le strade per impedire il passaggio dei militari. Respinte e trattenute, si difesero e si sparpagliarono. La partecipazione delle donne conferì alla iniziativa locale un carattere popolare unitario, intersezionale fra generi, oltre che fra generazioni. La stampa locale, intanto, attribuiva agli estremisti la guida della protesta. Il quarto giorno, il 23 giugno venne costituita una delegazione per negoziare con il ministro della Difesa. Il 25 giugno si raggiunse l’accordo. Il poligono non doveva essere permanente e ogni decisione doveva essere presa previa consultazione delle autorità locali. La protesta fu sospesa il 25 giugno. L’accordo, letto in assemblea, ebbe solo una decina di astenuti che miravano ad estendere la lotta antimilitarista. Alle denunce si rispose con migliaia di autodenunce.
Molti anni dopo, nel 2009, Beniamino Moro fece intendere i limiti politici della sinistra, specialmente del PCI di fronte a quel movimento, raccontando come fu estromesso dal partito, insieme ad altri suoi compagni, per non aver seguito la linea centralmente stabilita. La crisi dell’autonomismo istituzionale era profonda. Ne aveva vigorosamente parlato, un anno prima degli eventi di Pratobello, Armando Congiu in un articolo apparso su Rinascita sarda nella prima metà di giugno del 1968 con il titolo perentorio: L’autonomia da rifare. Tuttavia, il rapporto fra il partito verticistico e l’autonomia dei movimenti restò a lungo problematico e irrisolto nel P.C.I., costituendo un elemento di non facile convivenza nella sua vita politica interna. Pertanto, pare utile continuare ad osservare le molteplici esperienze di autonomismi locali e la loro difficile relazione con i vari livelli di centralismi standardizzanti e assoggettanti.
La restituzione all’autorità locale del territorio e la sua riabilitazione agli usi produttivi fu un successo di una certa lotta antimilitarista che si svolse in un contenuto ambito di relazioni istituzionali fra Regione Sardegna e Stato. Avvenne prima che avesse inizio un materiale insediamento militare permanente con specifiche relazioni spaziali e temporali. Nelle sottomissioni incombenti, si agì affermando il giusto rispetto dovuto sia all’autorità locale e sia al diritto di scelta degli abitanti per le comuni risorse vitali. Si produssero nuove soggettivazioni di persone e gruppi che realizzavano nuove padronanze di sé e dei luoghi e della stessa configurazione del paese. I murales realizzati e promossi da Francesco del Casino dicono di una lunga creatività democratica partecipata. La poetica di Peppino Marotto è diventato canto di un territorio ideale, spaziato da persone capaci di diventare autonome in condizioni di sottomissione. Il canto continua, nonostante l’uccisione di questo poeta sindacalista. Dice anche le profondità di fratture culturali a prima vista invisibili che riguardano la fragilità valoriale del giusto, sebbene ben misurato sulla condivisione egualitaria, per far fronte a prepotenti interessi, intolleranti di limiti e di controlli. Pratobello, pur considerando certi confini di quell’esperienza, parla al presente vivente e non solo all’antimilitarismo.
La riflessione sull’esperienza partecipativa di Pratobello consente di assumere l’insieme delle sue vicende come polo comparativo delle esperienze antimilitariste realizzate in vari poligoni, come Perdasdefogu, La Maddalena e Teulada nei tempi più recenti. In tali nuovi fenomeni diffusi di antimilitarismo si nota, a prima vista, una differente e ben più debole mobilitazione, nonostante l’attuale inquinamento nucleare e i relativi rischi per la salute incombenti sulle popolazioni locali. In questi casi è assai vistoso il paradosso nei rapporti fra cittadini e Stato il quale, per non far morire i propri cittadini in tempi di guerre, ne compromette la salute e perfino li fa morire in tempi di pace con la pretesa ragione di tutelarli.
Nella costellazione dei movimenti antimilitaristi il gruppo di A Foras (Fuori) promuove iniziative assembleari, insieme a pratiche di ricerca-azione e altri metodi innovativi che hanno permesso la costituzione di una rete capillare assai attiva. Rimane aperto il problema del rapporto fra i movimenti antimilitaristi e i partiti che hanno tenuta dischiusa, per certi aspetti meritoriamente, una prospettiva di pace. Un rinnovato rapporto fra movimenti antimilitaristi e partiti è ancor più necessario nella contemporaneità, considerato che le istituzioni attualmente impegnate nel rilancio delle militarizzazioni sono interstatali ed esigono specialmente un ruolo forte della debole Europa. Le responsabilità per giuste e durevoli relazioni generatrici di pace richiedono nuovi cimenti e nuovi impegni culturali nella globalizzazione dei rischi di cui le guerre e gli armamenti sono l’apice. Pratobello fa emergere, fin dalle origini delle esperienze di antimilitarismo in Sardegna, il problema sia del rapporto fra movimenti e partiti, sia di una democrazia dal basso o partecipata.

3 Territorialismo ed ecoterritorialismo all’opera
Pare necessario acquisire una rinnovata e adeguata consapevolezza del duplice affermarsi nella globalizzazione sia dei rischi vitali e sia dei biopoteri incontrollati. Eliminare i rischi vitali e instaurare inedite sicurezze salutari, bonificando innovativamente i territori, sono le due linee culturali che s’intrecciano preliminarmente nella trama, globale e locale, della società dei rischi su cui richiamò l’attenzione il sociologo Ulrich Beck. Egli, evidenziando la dimensione antropologica che riguardava la vita e la morte della stessa civiltà umana nella seconda modernità (1986, trad. it. 2001: 95), individuò la metamorfosi del mondo che accompagnava i numerosi fallimenti di varie azioni istituzionali (2002, 2004, 2007, 2016). In questo quadro socio-antropologico, che non ignora l’antropologia del rischio di Mary Douglas (1985),

Emerge con maggior vigore la visibilità dei rischi e la loro modernità. La moderna temporalità dei rischi vitali, pertanto, pone il riabitare in uno stato che richiede, nei territori militarizzati isolani inquinati, la preliminare esigenza democratica del riabilitare all’abitare e al vivere.

Il testo di Aide Esu è assai stimolante non solo nell’ambito dell’antropologia dei rischi, ma anche in quello dell’antropologia dello spazio. Offre elementi per una visione non contemplativa ma attiva, in cui si dispiega la sua postura democratica nella decostruzione dei poteri, anche di comunicazione in-formativa o dis-informativa. Nella costellazione delle associazioni antimilitariste appaiono esperienze non solo contrastive ma anche acquisitive e richiedenti compensativi risarcimenti. Si parla di esperienze le quali sono proprie di certe azioni che, diventando eventi generativi di possibili mutamenti, possono dar inizio e inaugurare modi d’agire che fanno apparire e avvenire l’altro, o dell’altro, o l’altro dell’altro, o tutt’altro. Ma precisamente come? E precisamente dove?
Questo studio apre e lascia aperto il problema generale del degrado ambientale e territoriale delle militarizzazioni inquinanti, di come recuperare gli spazi nocivi per portarli, come mondi ri-diventati vitali, in nuovi mondi di vita in avvento e in avvenire. Emergono, a lettura ultimata, oltre i numerosi e positivi aspetti di condivise pratiche democratiche, anche i limiti delle mobilitazioni, locali e globali, nel poter produrre immediate forme stabili di democratico radicamento locale e territori sperimentali della conversione ecologica non settoriale e co-evolutiva. Si sente la mancanza di un esplicitato e particolareggiato rapporto, durevole e pacificato, fra insediamenti umani e natura nei comuni gravati dalle servitù militari. Rimane non detto come poter credibilmente unire le future creatività ecologiche negli spazi militarizzati da acquisire alle immediate esperienze di conversioni ecologiche, praticate o possibili nel territorio comunale che contiene i poligoni.
L’esigenza di pensare a forme stabili di impegno localizzate, a partire dai comuni in cui sono presenti i poligoni, induce a esplorare altre elaborazioni riguardanti le storiche violenze esercitate sulla natura e le pacificazioni di tali violenze attraverso rifondazioni territoriali d’impegno non saltuario e occasionale, ma permanente e quotidiano in prima istanza nelle comunità locali militarizzate.
Gli spazi militarmente inquinati spingono la riflessione sulla necessità di articolare gli obiettivi del riabitare. Esplicitano la primaria istanza del riabilitare i luoghi malsani bonificandoli per poterli riabitare e, una volta sanati, riabitarli per poterli ulteriormente riabilitare e securizzare culturalmente. Per quanto l’assunto del primario riabilitare possa apparire a prima vista ovvio, a ben vedere richiede una serie di integrazioni e di aggiustamenti anche teorici. Per esempio, toglie esclusiva centralità alla fondazione storica di un contesto per attribuirla o ri-attribuirla alla sua ri-generazione ecologica. Inoltre, inserisce nella nozione di patrimonio anche lasciti culturali non pregiati come quelli tossici, onerosi e irrecusabili. Si tratta pertanto di questioni di indubbia rilevanza.
Pare utile avanzare l’ipotesi, oltre la sua formulazione pragmatica, di assumere un orientamento teorico connesso a specifiche elaborazioni di antropologia dello spazio, di ascendenza francese per le fondazioni e i modi dell’abitare (M. Augé 2006, F. Choay 2006, T. Paquot et alii 2007, M. Segaut 2007).
Rispetto alle generali esperienze rifondative e trasformative dei luoghi inquinati, mi pare tuttavia necessario un ulteriore passo avanti, individuando specifici elementi di crisi vitale vissuti dagli abitanti, secondo i luoghi. Penso a particolari emarginazioni di luoghi spaziali e sociali, generazionali e di genere, che costituiscono caratteristiche fragilità di salute e di vita congiuntamente umana e naturale. Spesso appaiono sconnesse, mentre necessitano di essere comprese secondo caratteristiche intersezionalità che marcano unitariamente, oltreché persone e gruppi, anche luoghi e territori. Nei casi del riabitare nei luoghi inquinati è necessario acquisire lo spazio di una globalizzata modernità liquida e sfuggente, che si scioglie disperdendosi nel corso di vite individuali con crisi o aspetti critici variamente incorporati (Z. Bauman 1989, 1998, 1999, 2000, 2001 a e b, 2008, 2018). Occorre scoprire nelle vite umane l’incorporata oscurità del malsano localizzato e diffusivo, per estenderne la conoscenza degli elementi critici, accomunanti i vari rischi vitali, patiti insieme da persone e da territori viventi. Siffatta connessione di patimenti accomunanti persone e luoghi è necessaria per ricostruire dal basso innovativi ambienti di vita, da parte di comunità territoriali infracomunali e municipali, connettendo corpi di luoghi e luoghi di corpi in un unitario intervento trasformativo.
La questione riguarda, congiuntamente, capacità teoriche e pratiche di agglutinare e condensare i punti di certe crisi di vita visibili e invisibili per affermare localmente, di fronte alle autorità istituzionali, giusti diritti al rispetto umano, umiliati nella cultura del nuovo capitalismo (R. Sennet 1980, 2003, 2006). In pratica, per governare democraticamente i luoghi inquinati non si tratta di sostenere il riabitare immediato, entrando con passo leggero in certe “belle contrade” tristemente spopolate per ripopolarle. Occorre riuscire, con azioni tenaci e pugnaci, a far riabilitare i territori militari inquinati, al fine di farli diventare prima risanati e riabitabili e, una volta riabilitati alla vita, riabitati.
Per quanto riguarda il riabitare gli spazi militarizzati, si può prospettare nell’immediato l’ipotesi di realizzare progetti di pace a partire dalla natura dominata e violata in quegli spazi, come nutrimento delle iniziative antimilitariste, facendo ricorso a una serie accreditata di principi di nuova territorializzazione con interventi ispirati da orientamenti interdisciplinari. Pare utile infatti esplicitare, nelle mobilitazioni antimilitariste e pacifiste, l’obiettivo di realizzare neoecosistemi viventi. Possiamo aprire entrambi i poli spaziali civili e militari, con differenti temporalità immediate e future, all’attuazione del principio territoriale e dell’ecoterritorialismo di Alberto Magnaghi (2020, 2023). Possiamo in particolare porre i luoghi inquinati, come parti imprescindibili del patrimonio culturale territoriale, al centro di una nuova coscienza dei luoghi per attivare una loro nuova coralità produttiva territoriale, nel solco indicato da Giacomo Becattini (2015) e dal gruppo che fa capo al Manifesto per riabitare l’Italia. Mi pare necessario esplicitare l’ipotesi che i comuni il cui territorio è in parte militarizzato diventino fin da subito luoghi sperimentali di ecoterritorialismo.

Il principio territoriale è stato elaborato compiutamente da Alberto Magnaghi in un testo che ha questo stesso titolo, edito da Bollati Boringhieri nel 2020. Successivamente è stato esteso e compreso in un libro collettaneo, Ecoterritorialismo, da lui curato con Ottavio Marzocca, edito dopo la sua morte da Firenze University Press nel 2023.
Il principio territoriale è cruciale, a questo punto della riflessione, per comparare le esperienze di mobilitazioni temporanee realizzate dai movimenti antimilitaristi con quelle che possono diventare permanenti, a partire dai comuni militarizzati. Più in generale, la sua elaborazione ha un ruolo strategico e un’importanza primaria rispetto alle funzioni marginali e di marginalizzazione, proprie dei contemporanei modelli socioeconomici, più o meno informatizzati e a-spazializzati. Ispirato a Adriano Olivetti sulla comunità concreta territoriale, Magnaghi ne riprende anche il primario livello fondativo del sistema politico dello Stato federale. La comunità territoriale è pertanto prevista secondo dimensioni che consentono di poter autogovernare i fattori di vita e di lavoro in modo integrato. Il sistema decisionale è orientato dal basso verso l’alto. Rimettendo in discussione tutti gli elementi di produzione dello spazio e restituendo agli abitanti la capacità di riprodurre i propri ambienti di vita e di autogoverno socio-economico, egli richiama prioritariamente la ricostruzione innovativa di regole e comportamenti, culture e tecniche ecologiche. Il nuovo statuto di abitanti capaci di autogoverno territoriale nei loro mondi di vita prospetta una nuova civilizzazione antropica nella quale i consumatori, governati da flussi globali e ridotti a clienti di multinazionali a-territoriali, possono diventare agenti nella produzione di nuovi mondi di vita locale nelle derive tecnocratiche e centralistiche della nostra contemporaneità.
La portata culturale della nuova civilizzazione eco-antropica prospettata da Alberto Magnaghi riguarda multipli ordini, anche temporali. Rivolta fondamentalmente e innovativamente al futuro, tale nuova civilizzazione recupera il passato che cambia nel nuovo contesto di riqualificazione ecologica. Sorge pertanto una delicata questione sul rapporto di convivenza fra il nuovo e il vecchio, fra innovazioni e persistenze. Il passato storico muta funzione e valore, ovvero serve e conta altrimenti in un processo di nuova civilizzazione eco-antropica. Le persistenze diventano cangianti. L’orientamento volto al futuro, infatti, può indurre a cambiamenti funzionali e valoriali con «retroazioni» sul passato. Per quanto possano apparire evidenti gli elementi di continuità del passato è necessario saper vedere gli aspetti di novità emergenti. Nell’ordine delle grandi esperienze di civilizzazione può essere forse un ausilio conoscitivo pensare, con André Leroi-Gourhan (1943, 1964), a similitudini per certi versi comparabili, per quanto assai lontane. Pensiamo a quando l’umanità assunse innovativamente la stazione eretta e, per retroazione, liberò funzionalmente e culturalmente sia la mano e sia la faccia da precedenti loro funzioni e valori. Nel processo evolutivo la cultura cominciò dai piedi, ovvero dalla periferia del corpo, retroagendo a catena fino al cervello, per dirla provocatoriamente. Fare futuro, proiettando in esso storiche esperienze localizzate, può produrre certi mutamenti sul passato che permane trasmettendo ciò che è messo in divenire. Tale cruciale e primaria proiezione creativamente innovativa sul futuro può favorire, evidentemente, anche importanti mutazioni di retroazione su certe presenze del passato e sul loro mobile statuto culturale, funzionale e valoriale. In realtà la posta in gioco della produzione di futuro riguarda l’innovazione ecologica dello spazio critico ereditato, nel suo divenire spazio vitale e securizzato in modo durevole. Riguarda nuovi tempi e nuovi luoghi di pacifica vita naturale e umana possibile, in cui frammenti del passato possono essere presenti e partecipi con un nuovo protagonismo cangiante in nuovi quadri d’epoca.
La nuova centralità del territorio e il ritorno ad esso sono stati elaborati dalla Scuola territorialista italiana la quale, sviluppatasi negli anni Ottanta del secolo scorso, nel 2011 ha dato vita alla società dei territorialisti e delle territorialiste. Dopo il fordismo, il passaggio dalla civiltà delle macchine alla civiltà digitale ha messo a nudo nuove insicurezze e nuove povertà nei e dei territori facendo avanzare esigenze di re-identificazione comunitaria delle società locali con il proprio territorio, la cui conoscenza profonda per la sua messa in valore riapre prospettive per la produzione delle stesse nuove comunità autosostenibili, connesse in reti solidali e sostenute da applicazioni appropriate di nuove tecnologie. Lo statuto degli abitanti, diventati capaci di produrre spazi ecologici durevoli, alimenta nuove comunità auto-progettuali.
Dalla città-fabbrica alla città-digitale dell’informazione, continuano a essere trasferite incessanti relazioni di dominio spaziale in quelle a-spaziali delle reti globali con imponenti omologazioni dei modi di vita e dei consumi. Dati i fallimenti delle politiche delle emergenze, l’aver cura del territorio per prevenire i danni alla salute presume una progettualità strategica che definisca regole e forme, insieme a opportune dimensioni insediative per ristabilire una nuova alleanza fra umanità e natura, riconoscendo il rispetto per le alterità del vivente. Per quanto questa scelta possa apparire tardiva nell’accumulo di azioni antropiche negative realizzate nel lungo periodo, è il solo approccio che può garantire una minima possibilità di successo per salvaguardare il territorio, neoecosistema vivente e bene comune per eccellenza.

La cura è distinta fra le differenti tipologie del prendersi cura e dell’aver cura. Il prendersi cura è interpretato come un atto sostitutivo dell’altro e può creare dominio e dipendenza. L’aver cura è considerato come un riconoscimento dell’altro e come una condivisione in cui l’altro è sollecitato ad attivare le proprie energie. L’aver cura del territorio è prevenzione vitale attraverso nuove regole di relazione fra insediamento umano e natura. Se questo approccio territorialistico congiunge il territorio vivente ai viventi umani senza esclusivisti antropocentrismi, quali metodi di cura praticare?

Di fronte al quadro complesso di obiettivi multisettoriali che il territorio presenta è necessaria l’integrazione di ambiti disciplinari e di settori amministrativi molto diversi. Per superare le pratiche delle risposte settoriali alle emergenze, i compiti progettuali richiamano una scienza multidisciplinare che tratti unitariamente la scienza del territorio in chiave neopatrimoniale, ovvero producendo diagnosi sulle cause del degrado, sapendo ricomporre i saperi disciplinari in progetti integrati per costruire una nuova qualità complessiva del territorio, frammentato da politiche settoriali e da interessi estranei ai singoli luoghi.
I percorsi del ritorno al territorio, in controtendenza ai processi di centralizzazione e di deterritorializzazione dei poteri, sono realizzabili in un complesso cammino di nuove forme di sviluppo locale, capace di attivare nuovi strumenti di democrazia partecipativa in costante crescita con forme contrattuali e pattizie fra molti attori che affrontano il governo del territorio come bene comune. Risulta cruciale la scelta di assumere la nuova e innovativa patrimonializzazione ecologica, fondata sulla peculiarità, unicità, autosostenibilità, come base per la produzione di ricchezza sociale durevole condivisa umanamente e oltre l’umano. Per rendere concreto il percorso di ricomposizione delle azioni di aver cura, occorrono dunque nuovi strumenti di progettazione del territorio e di pianificazione partecipativa che rovesciano i processi decisionali centralistici.
La prospettiva della ricomposizione dei saperi, guidata dall’azione collettiva nel territorio, ha cominciato a modificare i paradigmi di molti ambiti disciplinari per l’interpretazione strutturale del territorio nei suoi aspetti materiali (ambientali, infrastrutturali, paesaggistici) e immateriali (saperi produttivi, artistici, contestuali, capitale sociale), come valori costituenti della nuova qualità dello sviluppo del territorio in ristrutturazione.
Le tendenze all’innovativa ricomposizione del territorio inducono ogni disciplina a trattare il territorio come un soggetto aperto a relazioni in movimento, a realizzare azioni intersettoriali, a sostenere progetti integrati. Il nuovo processo potrà essere realizzato promuovendo una scienza del territorio in grado di trattare la nuova patrimonializzazione territoriale sia come antidoto al degrado ambientale e sia come valore di rinnovata esistenza per la produzione di ricchezza durevole, con un aumento del valore delle risorse locali per le generazioni future. Tali percorsi si fondano sulla crescita della coscienza di luogo specialmente degli abitanti-produttori i quali, attraverso numerose e variegate esperienze, grandi e piccole, tendono ad affermare il ruolo fondativo di nuove forme di comunità, caratterizzate da nuove relazioni coevolutive fra insediamento umano e ambiente. I processi di ri-territorializzazione che realizzano il principio territoriale di Magnaghi, il quale lega il vitale territoriale al vitale umano, sono imprescindibili dalla riconversione ecologica.
Non possiamo più prendere scorciatoie ecologiche rinaturalizzanti, secondo Magnaghi. Per curarele ecocatastrofi che abbiamo prodotto con la civiltà delle macchine dobbiamo dar spazio a nuovi strumenti adatti a produrre una nuova e migliore crosta dell’Antropocene, strumenti che facciano vivere il senso e la pratica di una vita comune nel cosmo.
Territorialista generosamente didattico, Magnaghi fornisce un prontuario per urgenti e volontari interventi che vale la pena di riportare per la loro importanza sia generale e sia specifica per i luoghi inquinati, anche militarizzati:
Reimparare ad abitare, ricostruire il territorio dell’abitare, dell’abitare i luoghi: andare e venire dal cyberspazio, ma tornare al territorio.
Preparare nelle coscienze, nei saperi, nelle visioni il ritorno dei luoghi, affinché gli abitanti li riconoscano.
Iniziare il pellegrinaggio verso i luoghi del ritorno là dove si torna.
Riaggregare i luoghi della comunità là dove i luoghi rinascono e rifioriscono curati dalle comunità come beni comuni; là dove, dopo il fordismo, nel territorio messo al lavoro, si formano econome di cura, ecosolidali, che trasformano l’idea di ricchezza e i suoi meccanismi di produzione, in conflitto con i meccanismi di mercato.
Questo «terrigno» viaggio di riconversione ecologica è portato nel caldo grembo di una nuova civilizzazione che, nell’aver cura dell’ambiente dell’uomo, possa restituirgli bellezza ed equilibrio, ricchezza durevole e autogoverno solidale: una civilizzazione eco-territorialista. La riconversione ecologica non è praticabile in una società senza coscienza del luogo da parte di abitanti inconsapevoli e incapaci di adeguate forme di autogoverno. Attraverso la coscienza del luogo si possono invece reinterpretare le regole costruttive del territorio, declinandole al futuro.
La declinazione al futuro delle storiche regole di territorializzazione induce a scandagliare il concetto di patrimonio in questo pensiero territorialista. Il ritorno al territorio non è un contro-esodo.
Ripercorrere sentieri e memorie di esperienze, storie di vita, classificazioni vegetali, elementi costruttivi, morfologie degli spazi, tecniche idrauliche, non è fine a sé stesso. Stimola ad andare oltre il patrimonio ereditato, per dar spazio ad un nuovo e meritevole processo di patrimonializzazione. La conoscenza del territorio ereditato può incoraggiare nuovi cimenti sulla nostra capacità non solo di stare al mondo, ma di trasformarlo per abitarlo felicemente e durevolmente, in modi democraticamente condivisi fra le persone e con la natura. Nel “far bene” o nel “ben fatto” dei profondi patrimoni che caratterizzano le comunità locali si possono scoprire impensati elementi di novità. Per esempio, alcuni beni tradizionali possono palesare anche il novum nell’attuale produzione di un certo cibo, o di un certo pane, o di un certo cultivar, che si innesta come unicum che particolarizza persone e territori storici nel corso di un cambiamento ecoterritorialistico. Appare importante, pertanto, distinguere esplicitamente i patrimoni storici ereditati in quanto tali, con un certo loro fissismo o continuità funzionale, dalle nuove patrimonializzazioni che possono riattivare parti ereditate situandole in un innovativo orizzonte culturale.
Il concetto di patrimonio elaborato da Magnaghi integra i concetti di patrimonio naturale e culturale e include molti caratteri del territorio, materiali e immateriali, specialmente quelli di coevoluzione di lunga durata, storicamente identificativi dei territori e dei suoi paesaggi, senza oscurare il novum che può ispirare le riterritorializzazioni e pertanto le nuove patrimonializzazioni. Il suo concetto di patrimonio, a ben vedere, integra il tradizionale e il nuovo, andando oltre il significato corrente di patrimonio riferito fondamentalmente al passato compiuto. Infatti, ha un carattere dinamico, non solo accrescitivo ma soprattutto innovativo. Tuttavia, la memoria dei luoghi rimane cruciale, non solo per attivare e parametrare le innovazioni. Infatti, le unità di paesaggi raccontate dagli abitanti producono uno sviluppo incrementale dei luoghi e concorrono alla produzione di mappe conoscitive a partire da parametri soggettivi. Percorsi familiari, luoghi simbolici e del sacro, conoscenza profonda della flora e della fauna e dei loro movimenti naturali, itinerari della raccolta di erbe e frutti spontanei, circuiti lavorativi fra campagna e paese, luoghi d’incontro, di festività, di cerimonie, di attività ludiche e così via, determinano una crescita incrementale degli elementi fondanti e rifondanti territori e paesaggi. In particolare, le reti dei mercati locali possono indicare nuove frontiere di sovranità alimentare. I saperi contestuali incrementali, messi in relazione con i saperi esperti nel percorso collettivo per la coscienza del luogo, portano a una moltiplicazione delle identità paesaggistiche e del loro carattere dinamico, mentre le addensano di elementi culturali.
La qualità, la quantità, la densità, degli storici elementi patrimoniali di un contesto, riconosciuti e immessi in un nuovo processo progettuale, sono strettamente correlati a fattori di soggettività individuale e collettiva che intervengono nella ridefinizione dello stesso patrimonio storico e del suo valore il quale può diventare risorsa innovativa che cresce in misura esponenziale integrandosi nell’insieme delle parti che concorrono al progetto nella sua complessità intersettoriale. Il concetto dinamico e processuale di patrimonio, elaborato da Magnaghi oltre la coevoluzione di lunga durata fra insediamento umano e ambiente, include anche i concetti di incrementalità e dinamicità della sua crescita. Il valore incrementale di patrimonio è determinato non solo dai macroprocessi storici coevolutivi, ma anche dai microprocessi locali di interazioni dinamiche fra società locale e patrimonio naturale, attraverso procedimenti generativi di specifiche tipologie ambientali che si situano all’interno di un percorso di ri-territorializzazione e di nuova patrimonializzazione.
Nei processi microlocali il valore d’uso del territorio può precipitare a zero o tendere all’infinito. Il primo caso si verifica con l’abbandono del presidio antropico, oppure con il seppellimento dei territori nell’urbanizzazione distruttiva dei luoghi rurali, o ancora con il loro riuso improprio. Il secondo caso si realizza nei processi di ritorno al territorio con l’aver cura crescente. Tali processi sono determinati da vari flussi. Per esempio sono determinati dalla nuova domanda di luoghi indotta dalla omologazione dello spazio; dai contro-esodi provocati dalla caduta della qualità della vita nelle condizioni urbane e post urbane; da contestazioni di invasione del globale nella vita quotidiana, come le megainfrastrutture, gli inceneritori, le cementificazioni; dalla sottrazione forzosa di spazi pubblici e di beni comuni territoriali. I processi incrementali delle nuove patrimonializzazioni, pertanto, non devono essere considerati soltanto negli aspetti quantitativi, accrescitivi del patrimonio, ma piuttosto in quelli qualitativi e perfino negativi che, rendendo complesso il patrimonio, ne ampliano le potenzialità innovative.
La relazione fra patrimonio territoriale, materiale e immateriale, e la società locale che ne ha cura è assai dinamica. Tale relazione dinamica, pertanto, si differenzia dal patrimonio in sé, nel suo valore di esistenza e d’uso come risorsa. Il suo percorso è marcato da varie tappe:
– riconoscimento progressivo del patrimonio alimentato dalla crescita della coscienza del luogo da parte della società locale (re-identificazione, ricostruzione individuale e collettiva della memoria dei luoghi, dei saperi contestuali;
– crescita, differenziazione, specificazione di azioni di cura e di riattivazione dei legami coevolutivi con l’ambiente;
– produzione di valore aggiunto territoriale;
– crescita di coscienza del valore d’uso e di identificazione identitaria del patrimonio, sia con il suo valore di esistenza e sia con le sue potenziali trasformazioni.
Il percorso di crescita della società locale può consentire nuove mediazioni culturali. Per esempio, può favorire l’identificazione di nuove potenzialità culturali, tecnologiche e progettuali del patrimonio storico come risorse cruciali, in una spirale di valore che può tendere a continuare secondo criteri di resilienze territoriali, di produzioni di ricchezze durevoli, di costruzioni di bioregioni. In tale spirale valoriale può avvenire un processo di intensificazione delle relazioni fra diversi settori di cui si percepisce l’interdipendenza culturale ed economica, con una crescita creativa della coscienza di luogo che può dar luogo a nuove patrimonializzazioni e a nuovi patrimoni, attraverso forme di coralità produttiva e di progettualità sociale.
I caratteri dinamici del patrimonio elaborato da Magnaghi impongono continui rinnovamenti degli strumenti e dei metodi di analisi. Tali strumenti evidenziano i modi ancora statici che determinano il risultato delle sintesi storico-strutturali e morfologiche del territorio. Le rappresentazioni paesaggistiche evidenziano solitamente, infatti, gli aspetti ritenuti di valore degli elementi ambientali, insediativi, rurali, che compongono le strutture territoriali note, mettendo in primo piano gli elementi persistenti della lunga durata. In generale, vengono lasciati sullo sfondo elementi considerati di bassa qualità territoriale, creando modelli di rappresentazione incompleti e accecanti rispetto alle realtà in cambiamento. Le innovazioni urgenti riguardano pertanto i metodi di rilevazione analitica che devono comprendere le dinamiche di trasformazione dei rapporti tra insediamento umano e ambiente nella scala delle microstorie, le quali evidenziano i ruoli delle soggettività nel definire qualità, quantità e densità degli elementi patrimoniali di uno spazio.
Il patrimonio territoriale è relativizzato dai cambiamenti d’uso e dalle possibilità tecnologiche di trasformarlo in risorsa durevole. I modelli di rappresentazione del patrimonio devono comprendere pertanto sia gli elementi statici e sia gli elementi dinamici. L’arricchimento metodologico degli strumenti di rappresentazione dinamica dei caratteri storico-patrimoniali di un contesto consente di misurare la consistenza patrimoniale di un territorio, mentre la sua trasposizione nel nuovo quadro trasformativo permette di moltiplicare gli elementi a disposizione per un progetto di ri-territorializzazione con nuove patrimonializzazioni e con nuovi patrimoni.
I processi di nuova patrimonializzazione ecocompatibile del territorio come bene comune sono alla base di modelli di sviluppo locale autosostenibili di nuova generazione nei quali la produttività non dipende dal singolo settore. Dipende piuttosto dall’ambiente locale, dalla maturazione della coscienza di luogo e dai caratteri tecno-merceologici improntati a filiere integrate dalla neoagricoltura, multifunzionale al terziario avanzato. Si parla di filiere che configurano sistemi locali di produzione e consumo fondati sulla specializzazione dei luoghi e delle comunità, volte all’autogoverno e a finalizzare la produzione al benessere socialmente condiviso. Per quanto riguarda i paesaggi, il carattere innovativo è dato dal fatto che non si tratta solo di conservazione dei paesaggi storici, ma di creazione di nuovi paesaggi e di nuove architetture la cui bellezza sarà data dall’esser frutto di regole produttive culturalmente mediate con l’ambiente: una nuova civilizzazione che produce il suo territorio.
Il principio territoriale elaborato da Magnaghi configura le produzioni locali in un ordine durevole, di salute e di securitas vitale condivisa in una nuova civilizzazione, con orizzonte culturale salutare e vitale di nuova generazione capace di superare i limiti economici dell’ambito mercantile, il quale ignora o comprime i costi sociali delle precarietà di salute provocati dagli inquinamenti.
4 Misure
Quali pratiche democratiche possono sostenere le aspirazioni all’autogoverno dei luoghi, fondato sulla messa in valore di una nuova patrimonializzazione territoriale come bene comune, nell’ambito di uno sviluppo locale autosostenibile? Sia la democrazia rappresentativa e sia la democrazia diretta, nelle versioni referendarie e telematiche, sono in evidente crisi. Un nuovo modello può ispirarsi alle forme più avanzate di democrazia partecipativa, strutturata in modi comprensivi delle forme di autogoverno territoriale delle comunità locali, secondo Magnaghi. Si parla di processi di mobilitazione permanenti come processi di riappropriazione delle capacità di autodecisione sulla quotidianità nel plasmare le forme di vita e dell’ambiente dell’uomo, oggi mercificate e fortemente degradate. Tali apprendimenti di autonomia richiedono l’attivazione di forme comuni di conoscenza e di cura gestionale dei beni comuni territoriali.
I movimenti antimilitaristi e pacifisti che agiscono in Sardegna possono ampliare ecologicamente i loro interventi pacifisti, curvandoli nelle mobilitazioni costanti e quotidiane dell’aver cura, orientate dal principio territoriale e dall’ecoterritorialismo delineato come neoecosistema di vita? Possono partire dalle varie esperienze di sicurezze vitali ambientali realizzate in vari comuni, orientandole verso un nuovo ambito tecno-culturale e valoriale come nuove piste situate in un nuovo ordine di neopacifismo ecoterritoriale, permanente e dirompente? Possono creare nuovi modelli di neopacifismo ecoterritoriale e di ecoterritorialismo pacifista? Lascio aperte queste domande insieme ad alcune ipotesi avanzate.
Nell’accostare la conoscenza di due esperienze e di due pensieri, quelli dell’antimilitarismo e dell’ecoterritorialismo, sul piano storico-antropologico ho cercato di introdurre il malsano come elemento culturale territoriale con un proprio carattere rilevante, non solo patrimonialistico ed esistente in quanto ereditato e non ricusabile. L’inserimento del malsano, come nocivo per la vita nell’ordine dei biopoteri, è stato rilevato specialmente come opportunità di specifica e innovativa responsabilità culturale nel campo dei reali luoghi compensativi di sicurezza, ossia delle eterotopie, piuttosto che delle irreali utopie. Ha suscitato, infatti, una doppia e incoraggiante sollecitazione: al pacifismo per diventare neopacifismo radicato con permanente esito ecoterritorialista e all’ecoterritorialismo per diventare esplicitamente ecopacifista.
La nuova responsabilità ecoterritoriale, che ha la rilevante portata culturale di una nuova civilizzazione, sottolinea gli elementi innovativi che sostengono le riterritorializzazioni in quanto nuove patrimonializzazioni ecologiche, vitali per umanità e natura. Per converso sul piano sociale il nuovo ordine culturale, che mantiene lo sguardo rivolto alle comunità locali produttive di nuovi autonomismi, riguarda la giustizia vitale nei poteri locali e nei territori. Tale giustizia vitale può essere attualizzata con nuovi protagonismi che materializzano nuove spaziature territoriali attraverso bonifiche dei luoghi, degli habitat, degli ambienti, degli ecosistemi e della terra in un possibile novum spaziale e temporale. Assai utile a tal fine è apparsa l’ipotesi di assumere profondamente e ampiamente l’ecoterritorialismo elaborato da Alberto Magnaghi per realizzare un esteso e pragmatico cimento civile federalista, culturalmente democratico e materialmente costituzionalistico, per un possibile dar luogo al luogo bonificato in ogni luogo malsano come prima istanza di una forma di nuova civilizzazione vitale del vivere giustamente, singolare e corale, democraticamente condivisa anche con la natura. Nei contesti di riconversione ecologica in corso, realizzando questo principio ecoterritorialista, si tratta non solo di valorizzare le esperienze tecnologiche come fatti innovativi, ma di connetterle territorialmente sostenendo il valore non solo di ogni parcella sperimentale, ma anche rilevandone plurali linee unitarie di possibili tendenze durevoli, capaci di alterare le storiche violenze o incurie storicamente inflitte alla natura, situandole in un nuovo orizzonte di pace.
La mia intromissione nel pensiero dell’ecoterritorialismo è forse fuori luogo rispetto ai discorsi di altri antropologi. Mi riferisco alle pertinenti elaborazioni di Pietro Clemente, con la sua dislocazione teneramente sovversiva che porta «Il centro in periferia», minando complessivamente le strutture centralistiche pensate e/o istituzionalizzate. Guardo inoltre le visibili “restanze” e i possibili ritorni, individuati da Vito Teti come risposte attive alle marginalizzazioni di luoghi storici, resi inerti dai processi globali de-territorializzanti. Mi è parso tuttavia necessario indicare alcuni problemi a mio avviso ineludibili, teorici e pratici, per quanto riguarda gli storici patrimoni culturali territoriali nocivi, ereditati e/o ereditabili, data l’urgenza di una loro diffusa innovazione vitale attraverso specifiche neopatrimonializzazioni ecologiche produttive di futuro vitale, democraticamente condiviso anche con la natura.
Le globalizzazioni neoliberiste sono state accompagnate da numerosi studi generalisti. In questo contesto, vari studi antropologici italiani si sono distinti per aver mantenuto un forte legame con le forme locali di vita e sui soggetti locali di cambiamento e/o di resistenza. Le alterità, caratterizzando sé stesse nelle autonome soggettivazioni, hanno offerto e offrono non trascurabili repertori di conoscenze anche dei luoghi in trasformazione. Pare giunta l’ora per ritrovarli.
Paola Atzeni

1 Premonizioni
Bacu Abis è un centro di 1.673 abitanti, situato nella Sardegna sud-occidentale. A vederlo oggi, può apparire come uno dei tanti villaggi che presentano il fenomeno delle dismissioni industriali e del cosiddetto “post minerario”, con le tracce sopra la terra che evocano ciò che accadeva sotto. Può manifestarsi anche come periferia della città di cui è in parte figlia e in parte madre. Può rivelarsi come luogo che marca un territorio extra urbano in cui gli usi del suolo per i trasporti minerari giungevano fino al mare andando oltre, in un’ampia rete di relazioni industriali che sorgevano e si estendevano. Può affacciarsi come borgo in cui le esperienze agro-pastorali s’intrecciavano con quelle industriali, ma anche come luogo corale che al momento fa comparire un di più degli abbandoni, in vista solo per chi scruta volendoli conoscere in profondità ai fini di una possibile riattivazione economica e culturale: di un nuovo modo di riabitarvi e di riabitare armonicamente, proprio nelle aree di sofferenza e di bellezza delle persone dei territori, regionali e nazionali. Può comparire perfino un possibile cambiamento nelle direzioni di nuove creatività che muovono dalla periferia per invadere il centro, sospendendo vecchie catene gerarchiche con un protagonismo delle persone marginalizzate che vogliono partecipare alle decisioni che riguardano il loro futuro. Tuttavia, in tali territori ora infragiliti è impensabile una ripresa esclusivamente autonoma senza grandi politiche nazionali ed europee, capaci di realizzare provvedimenti tarati sui luoghi: sulle conoscenze e sulle abilità delle comunità locali.
Andare a Bacu Abis consente di situarsi nei paesaggi neri ai margini di Carbonia, città di fondazione fascista che l’ha inglobato. Permette di vedere la città da una delle sue numerose periferie in cui emerge una rara particolarità. Bacu Abis, infatti, offre l’opportunità di andare oltre le pietre dell’urbanizzazione detta razionalistica o “a bocca di miniera” o da “company town”, com’è stata ripetutamente chiamata.
Autorizza a vedere nell’urbanizzazione la pianta piramidale autoritaria che congiunge la terra, sotto e sopra, marcando le gerarchie relazionali che l’asettica etichetta di razionalismo cela, tacendo le disposizioni sociali verticali assegnate dal razionalismo fascista. Fa apparire vistosamente invece, per esempio, la gerarchica zonizzazione dell’abitare: dall’apice delle villette riservate ai dirigenti, discendendo alle case per gli impiegati per giungere fino a quelle per gli operai.
Da Bacu Abis si vede meglio il profilo del dominio industriale che il regime fascista intendeva imprimere al territorio agro-pastorale, in cui la città era edificata, negando la realtà rurale che sosteneva e abbracciava la città. La prova più concreta si trova nel discorso con il quale Mussolini inaugurò Carbonia il 18 dicembre 1938. Egli parlò di una «landa quasi deserta» in cui la città era stata costruita. In realtà ben nove Comuni erano stati istituiti nel territorio del Sulcis, prima di quella nascita: Giba, Gonnesa, Narcao, Palmas Suergiu, Portoscuso, Santadi, Serbariu, Teulada, Tratalias.
Bacu Abis concede di pensare alla parte della città ancora non nata prima del fascismo e al suo carbone, usato per una industrializzazione non ancora bellicista-imperialista e non ancora razzista, come emerse nel biennio 1936-1938 dalla proclamazione dell’impero fino alle leggi razziali.
Cercando le miniere carbonifere del Sulcis nelle fonti archivistiche, possiamo muoverci fra i permessi di ricerca e le successive concessioni per gli scavi carboniferi che ci restituiscono la prima rete di siti estrattivi caratterizzante il territorio carbonifero, prima del fascismo. Quintino Sella nell’Inchiesta del 1871 riferiva che la miniera di Bacu Abis era stata concessa alla Società Tirsi-Po nel 1853 con un’estensione di 400 ettari, mentre, nello stesso anno e con la stessa estensione, per quella di Terras de Collu aveva ottenuto concessione la Società Timon-Varsi. La Relazione di questo deputato diceva già molto nel suo titolo Sulle condizioni dell’industria mineraria nell’isola di Sardegna. Relazione alla Commissione Parlamentare d’Inchiesta. Corredata da una carta mineraria con l’indicazione delle miniere in esplorazione e concesse fino al 1870, l’indagine si occupava delle condizioni dell’industria.
Per mettere in luce le condizioni dei lavoratori, pare però necessario volgere primaria attenzione verso gli Atti della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulle condizioni degli operai della Sardegna del 1911 e verso i due centri carboniferi di Terras Collu e Bacu Abis, entrambi facenti parte del Comune di Gonnesa, data la rilevanza che tali luoghi assumono nell’indagine e anche nel corso della difficile modernità industriale, occidentale e mondiale. Questa indagine seguì una serie di eccidi: quelli di Buggerru del 1904 con 3 morti e quelli di Gonnesa del 1906, con 2 morti a Nebida e 3 nella stessa Gonnesa, fra i quali una donna, Federica Pilloni.
I morti, i feriti, gli arresti, determinarono la decisione di precisi accertamenti istituzionali sulle condizioni che avevano generato quei drammatici fatti. Nel corso di tali verifiche incontriamo una folla di nuovi e importanti protagonisti della moderna industrializzazione che si realizzava nell’Isola e in Italia: imprenditori, sindaci, medici, lavoratori, tanto per citare i principali. Dal punto di vista dei rapporti di potere e di quelli fra culture egemoni e subalterne, tale fonte storica – che può essere privilegiata per l’analisi antropologica degli assoggettamenti e delle soggettivazioni autonome – agevola un contatto con le testimonianze date direttamente dai lavoratori sulle forme di lavoro e di vita da loro vissute.

2 Un percorso nei primi siti neri anno per anno, cercando carbone
Prima di percorrere tale fonte privilegiata è utile lo spoglio di altre fonti per compare notizie generali sulle iniziali esperienze carbonifere che possono offrire un quadro informativo complessivo.
Percorrerò la via degli annali e userò una rivista, intitolata Notizie statistiche sull’industria mineraria in Italia. Si tratta di una pubblicazione del Regio Corpo delle Miniere che faceva capo al Ministero dell’Agricoltura Industria e Commercio. Limiterò i miei passi al settore del Distretto di Iglesias. La chiamerò Rivista del Servizio Minerario perché così era chiamata nell’archivio in cui ho lavorato. Cercherò sequenze di fatti significativi a partire dal 1880, dai dieci anni successivi allo studio di Quintino Sella, fino al 1908 che è l’anno in cui furono interrogati gli operai delle miniere carbonifere in esercizio nel corso dell’Inchiesta Parlamentare, pubblicata nel 1911.
Limitiamoci alla cronaca offerta, sapendo che tali resoconti ufficiali, con il loro stile burocratico, non sono di piacevole lettura. Tuttavia, questi documenti offrono agli occhi amorevoli i cambiamenti che avvengono passo dopo passo, le differenze minute che marcano svolte epocali, le ripetizioni dei tentativi falliti che cercano successi. Si tratta di scritti che richiedono una forte vocazione alle scoperte.
Nel 1880 fu riattivata la miniera di lignite di Bacu Abis e si chiuse quella di Terras de Collu. Due anni dopo a Bacu Abis si produssero 4157 tonnellate di lignite del valore di lire 62.942. Furono fatti anche lavori importanti: una galleria situata 15 metri sotto il livello delle acque che permetteva di estendere le ricerche e che ampliò il campo di coltivazione nel cantiere Andy con 3 gallerie a differenti livelli.
Nel 1884 la produzione della miniera di Bacu Abis fu di 2.180 tonnellate di lignite di prima qualità e di 1.802 tonnellate di seconda, per un valore complessivo di circa 60.000 lire. Tale produzione, di poco inferiore a quella dell’anno precedente, era stata fornita dalle coltivazioni eseguite nei cantieri Sulcis e Venezia. In quest’ultima era stata innestata una discenderia di 56 metri per comunicare con la galleria Marchese. Nel cantiere Torino si proseguì lo scavo nella galleria principale, giungendo alla misura di 137 metri. Inoltre, si aprì una traversa di 56 metri, destinata a preparare le coltivazioni imminenti. All’esterno, il lavoro di maggiore importanza fu un impianto per la fabbricazione di mattonelle piriche, tramite l’utilizzo di carbone minuto che non aveva mercato industriale e costituiva uno stock considerevole sui piazzali della miniera. La fabbrica sorgeva a circa 300 metri dalla fermata di Bacu Abis sulla ferrovia di Monteponi.
Nell’officina il minerale minuto, misto a materie terrose e scistose, subiva una preparazione meccanica durante la quale era classificato per grossezza, arricchito ai crivelli e frantumato minutamente. La materia prima era poi essiccata in un forno a ritorno di fiamma, scendeva in un mescolatore in cui era mescolata con il catrame proveniente dai forni di distillazione, con percentuali dal 6 al 7 per cento. Il miscuglio passava allora nella macchina agglomeratrice, in cui era automaticamente distribuito in una serie di forme disposte sopra una piattaforma girante e dove subiva una pressione di 265 chilogrammi per centimetro quadrato per essere in seguito sfornato con movimento automatico. Si ottenevano così mattonelle compatte e resistenti, pesanti 2 chili ciascuna. La macchina poteva fornire 15 mattonelle al minuto e 20 tonnellate ogni giorno.
Nella miniera di Terras de Collu continuavano i lavori nella galleria di ribasso per lo scolo delle acque e per facilitare l’estrazione dai livelli superiori, attraversando strati carboniferi non ancora conosciuti e utili per la coltivazione. La produzione giunse a 9.300 tonnellate e al valore di 120.000 lire.
Nell’anno seguente le miniere di lignite facevano registrare progressi nei lavori all’interno, mentre l’attività nella fabbrica di Bacu Abis fu sospesa per rimediare a vari inconvenienti che riguardavano il lavaggio incompleto del minuto e la sostanza impiegata per l’agglomerazione. Si prevedeva di modificare la fabbricazione senza variare la pressa, perfezionando la classificazione e il lavaggio del materiale, aumentando il numero dei crivelli, sostituendo il catrame e migliorando l’impasto con un nuovo rimescolatore. All’interno fu avanzata per oltre 40 metri la galleria Napoli, destinata al trasporto del materiale minuto all’officia di agglomerazione. I lavori di preparazione furono limitati ai cantieri Sulcis, Firenze, Palermo dove si sviluppavano le coltivazioni, mentre non era ancora ultimata la galleria di scolo. A Terras de Collu si raggiunsero le coltivazioni del terzo strato, fatte al terzo livello. Fu scavato un pozzetto d’areaggio che comunicava con la lunga galleria di direzione nel primo strato, al livello Maddalena. Si rinvennero cinque banchi di lignite, ma se ne lavoravano solo quattro.
Nel 1886 i lavori sotterranei della miniera di Bacu Abis continuarono in misura assai modesta a causa delle difficili condizioni finanziarie della Società. L’avanzamento della galleria Napoli continuò per 170 metri, mentre furono poco spinti i lavori per la galleria di scolo. Nelle gallerie Napoli e Andy i lavori che continuavano confermavano una discreta potenza dei banchi. A Terras de Collu proseguiva l’estrazione senza importanti interventi. Seguì un anno difficile a Bacu Abis, dove le frane nella galleria Napoli fecero sospendere la coltivazione. Tuttavia, si cominciò un nuovo cantiere denominato Polveriera mediante una discenderia, e continuò l’avanzamento della nuova galleria di scolo, chiamata Torino, portandola a 175 metri dall’imbocco. All’esterno si ripresero scavi a giorno per straterelli di carbone inutilizzati. La fabbrica di agglomerati, attiva fino a giugno, fu chiusa per guasti che si erano verificati nella laveria annessa. A Terras de Collu proseguiva l’avanzamento nella galleria di direzione dove lo strato si manteneva regolare ed era costituito da buona lignite. Si prevedeva infine una produzione di 10.000 tonnellate.
Si ebbero soddisfazioni a Bacu Abis nel 1888 dove le nuove coltivazioni fatte allo scoperto permisero di utilizzare parti residuali di lignite in diversi strati e anche in straterelli inutilizzati. Da 50.000 metri cubi di materiali diversi si erano ricavate circa 10.000 tonnellate di combustibile. All’interno, la galleria Torino veniva portata a 250 metri. All’esterno, la locale fabbrica di agglomerati rimase completamente inattiva. A Terras de Collu la produzione fu di 10.000 tonnellate, però i lavori furono sospesi a giugno, quando la miniera fu consegnata dall’ingegner Erminio Ferraris al signor Felice Levi che era diventato aggiudicatario in base alla sentenza del tribunale civile di Cagliari. Distanti e differenti, altre miniere di combustibili fossili spuntavano in altri luoghi: Caput Acquas, Corongiu, Culmine o Is Nuraghis.
Nel 1889 a Bacu Abis la galleria Torino giunse a 305 metri e continuarono i grandi scavi a giorno, mentre restava inattiva la fabbrica di agglomerati. A Terras de Collu il signor Levi affittò al signor Rodriguez i lavori di ricerca e di preparazione. Altre ricerche si fecero con gli scavi esterni esaurendo un po’ di lignite di buona qualità. Anche in questa miniera, come nella vicina Bacu Abis, si tentò la coltivazione con tagli a giorno, ma senza risultati soddisfacenti. Allargando lo sguardo alle altre miniere fossili, a Culmine le coltivazioni erano ristrette e saltuarie. A Corongiu proseguirono di pochi metri le gallerie Lamarmora e Domestica. Lo scopo principale di tale lavoro fu la preparazione di un campione di antracite che fu spedito alle Ferrovie Complementari. Il campione risultò soddisfacente per essere usato nelle locomotive.
La Rivista del Servizio Minerario nel 1890 offrì un’appendice alla relazione del distretto di Iglesias dedicata ai combustibili fossili della Sardegna. Illustrò le caratteristiche dei fossili sardi, rispetto a quelli europei. In Ogliastra il terreno era discontinuo, con una superficie utile ridottissima e potenza limitata. Tra Seulo e Perdas de Fogu, solo Seui presentava strati di combustibile abbastanza potenti da legittimare i lavori di ricerca, viste le complessive analisi stratigrafiche. Il terreno più interessante appariva pertanto a ponente del villaggio di Gonnesa, a levante della città di Iglesias, a sud dell’abitato di Narcao. I tre bacini avevano 37, 75 e 30 chilometri di superficie, ma le ricerche furono incrementate solo nel bacino di Gonnesa. Una tabella illustrativa mostrava in modo comparativo le sezioni verticali delle stratigrafie che caratterizzavano Bacu Abis e Terras de Collu.
Il bacino di Gonnesa era il più conosciuto. Aveva una superficie di 37 chilometri quadrati e si sviluppava in una zona allungata di circa 12 chilometri tra Fontanamare a nord e il monte trachitico denominato Sirai a sud. In tale bacino, specialmente verso il nord, erano stati aperti i lavori di 7 miniere: Funtanamare, Culmine o Is Nuraghis, Terras de Collu, Bacu Abis, Caput Acquas, Barbusi, Cortoghiana. La prima era già esaurita, l’ultima non era ancora concessa. Queste miniere occupavano una superficie di oltre 20 chilometri quadrati, quindi poco più della metà dell’estensione del bacino. I calcoli sulla densità di lignite facevano prevedere un buon rendimento, e a Bacu Abis si lavorava con grandi tagli a cielo aperto. Un campione medio della sua lignite, sperimentato per conto del Comitato per le esperienze sui combustibili minerali italiani, aveva accertato un potere calorico di 5.690 calorie, considerando la presenza dell’azoto.
Queste analisi, unitamente ad altre eseguite nell’acciaieria di Terni, confermarono che la qualità di lignite dell’Isola si prestava per combustione su griglia, costituendo un ottimo succedaneo al carbone inglese, specialmente per la produzione di vapore nelle industrie. Inoltre, nel mercato dei fossili, il carbone di Bacu Abis si vendeva a un prezzo da 9 a 12 lire per tonnellata, quello inglese si vendeva nei porti di sbarco mediamente a 32 lire. Intanto, proseguivano gli studi per migliorare gli usi della lignite eocenica sulcitana, l’unica riconosciuta con un avvenire industrialmente assicurato.
Nel 1891 a Bacu Abis continuavano i grandi scavi a giorno e continuava a restare inattiva la fabbrica di agglomerati, mentre a Terras de Collu i lavori di ricerca e di coltivazione restavano piuttosto limitati.
Nell’anno seguente Bacu Abis ebbe maggiore attività e fu premiata con la medaglia d’argento alla Esposizione Nazionale di Palermo. All’interno, la galleria Torino giunse a 370 metri dall’imbocco, mentre interventi murari surrogavano le armature in legno. A Terras de Collu si prolungò la galleria Pasqualino e si procedette con tagli sotterranei anziché a cielo aperto. Nel 1893 continuavano a Bacu Abis i lavori a cielo aperto e all’interno quelli nella galleria Torino che giunse a uno sviluppo di 380 metri; a Terras de Collu, invece, i lavori furono poco sviluppati; le altre miniere furono inattive. L’anno seguente non fece registrare miglioramenti che avvennero invece nel 1895 a Bacu Abis: sia realizzando un nuovo cantiere e sia raggiungendo la produzione di 95.000 tonnellate di lignite. La miniera di Terras de Collu fu aggiudicata per sentenza del tribunale civile di Cagliari all’ingegner Erminio Ferraris che la cedette alla Società Monteponi, concessionaria della attigua miniera di Culmine. Nel 1896 a Bacu Abis i cantieri a giorno più produttivi furono Napoli e Millo, mentre veniva quasi ultimata la nuova laveria per l’annessa fabbrica di agglomerati, capace di trattare 50 tonnellate al giorno di materiali, essendo mossa da una motrice della forza di 30 cavalli e alimentata dal vapore generato in una caldaia, detta Cornovaglia. Nella vicina miniera di Terras de Collu non si fecero lavori di coltivazione.
Nel 1900 ricompaiono notizie sulle miniere carbonifere nella Rivista del Servizio Minerario. Il prezzo del litantrace era in continuo aumento e aveva favorito lo sviluppo dei lavori e la conseguente produttività nelle miniere del bacino lignitifero di Gonnesa. Nell’anno successivo la produzione di lignite del bacino di Gonnesa toccò un massimo d’intensità, superando di 4.184 tonnellate quella dell’anno precedente con un maggior valore di 92.919 lire. Tuttavia, calò leggermente nel 1902 per la concorrenza estera. Nell’anno seguente, mentre Bacu Abis diminuì l’attività per problemi amministrativi, ripresero i lavori a Cortoghiana e Caput Acquas. A Terras de Collu procedeva l’attività della Monteponi che preparava la ripresa dei lavori a Culmine.
Nel 1904 sulla Rivista del Servizio Minerario apparvero inusuali notizie sociali: si riferì degli scioperi realizzati nel 1903 che riguardavano i salari, la cui paga media era di 2,10 lire; dei magazzini dei viveri tenuti dalle aziende o da loro fiduciari che vendevano a prezzi maggiorati; delle imprese appaltatrici di cui si chiedeva inutilmente l’abolizione; delle paghe di cui si lamentavano i ritardi e per le quali si chiedeva la paga quindicinale. Altre richieste erano di ordine politico: che fossero riassunti gli operai licenziati; che alcuni impiegati cessassero di perseguitare gli operai iscritti alle leghe; che fosse concessa libertà di fare conferenze sulle miniere; che fossero accordati terreni per fare forni cooperativi; che fossero abolite le multe. Nella rivista si riferì che le richieste non furono accolte immediatamente, ma per la maggior parte in seguito. Nel 1905 venne segnalata una ripresa «notevolissima» dei lavori nei terreni lignitiferi dell’Iglesiente, specialmente a Barega e a Piolanas. In quell’anno fu fatta la prima ispezione mineraria per l’attuazione della legge sul lavoro di donne e fanciulli del 19 giugno 1902. Nel 1906 cominciò a Bacu Abis la coltivazione nei cantieri sotterranei che si sviluppò nell’anno seguente. Siamo dunque giunti a un momento di sviluppo dell’attività estrattiva carbonifera e anche dei conflitti sociali, assai prossimi a quelli che animavano gli operai delle miniere metallifere.
Cosa ci ha fatto conoscere questa fonte preliminare? Possiamo tentare una prima elencazione delle configurazioni assunte dalle esperienze estrattive emerse: la produzione di località con propri siti minerari che marcavano uno specifico territorio carbonifero; le tipologie estrattive carbonifere e il passaggio dai lavori a cielo aperto a quelli sotterranei; la tensione verso un possibile processo secondario per la lignite con la fabbrica di agglomerati di Bacu Abis; le precarietà di certi assetti aziendali proprietari e produttivi; le dipendenze delle produzioni carbonifere locali dai mercati internazionali.
Qualche riflessione specifica, a questo punto, è opportuna per capire il ruolo delle Società minerarie carbonifere nella creazione dei siti estrattivi e degli abitati minerari come produzione di luoghi di lavoro e di vita, secondo la loro stabilità e la loro forza insediativa, in quel tempo della fine dell’Ottocento e del Primo Novecento che precedette l’autarchia mineraria del fascismo industriale e bellico.

3 Discorsi sulle imprese e sui luoghi nascenti del carbone sulcitano
Un ausilio può forse provenire dai discorsi fatti da certi studiosi, storici ed economisti, su questo periodo delle origini delle esperienze estrattive che costituirono una modernità industriale multiscalare: isolana, nazionale ed europea. Intrecciando i loro discorsi ai fili delle cronache estrattive raccolti nello spoglio della rivista, si può forse scoprire qualcosa. Proviamo.
Per accostare Maria Stella Rollandi al nostro inizio carbonifero dobbiamo cercare nel suo discorso su La formazione della “Nuova Irlanda” in Sardegna. Industria estrattiva e sottosviluppo (1848-1914). Il saggio venne pubblicato nella rivista «Classe», nel novembre del 1972. Si tratta di uno studio pregevole dedicato agli sfruttamenti minerari piombo-zinciferi: criteri e modi delle concessioni minerarie, andamento produttivo e tecniche, condizioni della manodopera compresi donne e bambini. Imprese liguri, belghe, francesi e inglesi sono fotografate e pesate economicamente, nel quadro isolano delle povertà e delle arretratezze del mondo rurale, della penuria di trasporti e dell’esiguità del commercio, mentre si esportava massicciamente carbone vegetale e aumentava il costo della vita alla metà dell’Ottocento. Bacu Abis compare per informare che nei primi tempi i cameroni per gli scapoli erano gratis, ma erano insufficienti e sporchi a detta degli operai, mentre le stanze per le famiglie costavano 5 lire. A Terras de Collu vi erano casette di proprietà private, ma gli operai abitavano a Gonnesa. La studiosa è ben attenta a quanto emerge dall’Inchiesta Parlamentare che ho scelto come fonte storica privilegiata. Ne segue alcune tematizzazioni generali, mentre io intendo perseguire una messa a fuoco dei luoghi attraverso i discorsi degli operai registrati negli interrogatori.

Altri discorsi storici da visitare utilmente sono offerti da Giuseppe Are e Marco Costa, che scrissero nel 1989, per l’editore Franco Angeli, Carbosarda. Attese e delusioni di una fonte energetica nazionale. Il libro apparse nella collana CIRIEC, dedicata alle storie d’impresa. Il primo periodo dello sfruttamento del bacino carbonifero del Sulcis appare piuttosto frammentato. L’identificazione del giacimento carbonifero sulcitano era fatta risalire al 1851, era attribuita a Ubaldo Millo ed era indicata in prossimità di Gonnesa. Siriferiva che Alberto La Marmora, giungendo nell’anno seguente, ridimensionò le potenzialità del bacino.
Nonostante le incertezze, nel 1853 venne costituita la prima società per lo sfruttamento del carbone che ebbe la concessione della miniera di Bacu Abis: la Società Tirsi-Po, formata da Millo, Fontana e Compagna.
Nell’anno successivo furono estratte le prime 175 tonnellate. Mancando un mercato locale, la miniera di Bacu Abis rimase inattiva nove anni, fino al 1863. Proseguì per sette anni la produzione, che giunse al 1870.
Intanto, nel 1865 nasceva il piccolo centro di Bacu Abis la cui miniera, insieme alla vicina Terras Collu, rimase l’unico impianto estrattivo fino al 1938. Lo sviluppo del settore fu dovuto soprattutto all’ingegner
Anselmo Roux il quale, rilevata la Società Tirsi-Po, fece nascere nel 1873 la Società Anonima della Miniera di Bacu Abis, con sede a Torino e domicilio a Iglesias. Nel 1874 fu costituita anche una Società Carbonifera Sarda per la miniera di Caput Acquas che si sviluppava in sotterraneo e fu subito assorbita dalla società di Bacu Abis. Nel 1876 le analisi eseguite dai tecnici dell’arsenale di La Spezia diedero soddisfacenti risultati.
Nell’anno seguente, una seconda analisi nello stesso arsenale dichiarava che il carbone di Bacu Abis era un combustibile da potersi usare nelle macchine fisse e in quelle delle navi. In questo discorso compaiono notizie che confermano la presenza dell’impianto di agglomerazione del minuto, senza alcun arricchimento del minerale. Nel 1895 cominciarono i tentativi di lavori all’interno. L’anno successivo fu realizzata una laveria. Nel 1898 la produzione raggiunse le 16.000 tonnellate. La lignite veniva usata quasi esclusivamente nelle miniere metallifere vicine.
I discorsi visitati mettono in vista le debolezze che caratterizzarono gli esordi delle estrazioni carbonifere. Rispetto alla fonte storica primaria percorsa anno dopo anno, gli ultimi discorsi hanno fornito conferme importanti, sia sulle incertezze del primo avvio dell’estrazione carbonifera e sia sul sorgere dei primi centri minerari che marcavano la presenza della modernità industriale nel territorio sulcitano.
Pertanto, pare utile, a questo punto, sottolineare almeno un aspetto qualitativo di tale fase iniziale: l’esperienza di una fabbrica per produrre mattonelle con gli agglomerati, cioè il tentativo di sperimentare il carbone fino come risorsa non esclusivamente combustibile, ma idonea a differenti usi industriali.
Lasciamo fonti e discorsi storici con tanti interrogativi che si possono coagulare in una domanda di fondo. Sono sufficienti le informazioni raccolte per avere precisa coscienza dei luoghi minerari che sorgevano? Tali luoghi minerari, che andavano assumendo rilevanza economica, sociale, politica, in che relazione erano posti nei processi industriali in corso, rispetto ai precedenti processi di insediamento agro- pastorale degli habitat sparsi detti medàus, di origine pastorale, e furriadroxius di carattere agricolo, poi annucleati nei boddèus, spesso attorno a una chiesa? Maurice Le Lannou li aveva ben studiati facendo risalire la loro vasta portata di popolamento al XVI e al XVII secolo e la loro fissazione residenziale e aggregativa dopo il 1850. Egli indicò estensioni e attività produttive con esempi tipologici, unitamente all’importanza dei toponimi i quali coincidevano, generalmente, con il cognome del capofamiglia fondatore dell’insediamento. Quanto i luoghi della modernità industriale mettevano in ombra quelli della storica
attività rurale fondativa e manutentiva del territorio sulcitano?
Risulta evidente, pertanto, che il complessivo territorio sulcitano non può più essere rappresentato dalla dominanza di un solo settore di attività, per quanto dotato di particolare forza attrattiva, escludendo altre presenze operanti e validanti le multiple produttività del territorio. I vari cromatismi del territorio, con le loro differenti intensità storiche di attrazione e di innovazione aprono il paradigma concettuale della geosettorialità verso linee plurime e verso differenti registri di durevolezza, secondo le sostenibilità produttive. Così l’esperienza estrattiva poneva fin da subito, al di là del nome di coltivazione dato al prelievo che non aveva rigenerazione, il suo esito senza ricambio di vita con i rischi ambientali delle discariche e delle autocombustioni, unite alle subsidenze, sopra la terra. Di tali aspetti converrà parlare alla fine di questo percorso di conoscenza e di riflessione, dopo aver acquisto maggiori indicatori sulle condizioni di lavoro e di vita a Bacu Abis, muovendoci fra gli operai interrogati durante l’Inchiesta Parlamentare. In questo movimento procederò in doppia corsia, zigzagando fra i documenti e raccontando qualcosa della loro presentazione in pubblico, avvenuta il 22 novembre 2024 a Bacu Abis.

4 A Bacu Abis un canto, una citazione e un prologo. Un incontro magico
Anna Carla Casu proviene da un differente centro minerario di Carbonia: Barbusi. Cantante e poetessa, porta Barbusi con sé e con la sua chitarra negli altri luoghi della città e fuori dalla città. Barbusi è pertanto una frazione mobile, che si muove con il canto di Anna Carla. Giunge in altri luoghi e congiunge luoghi incontrando persone: unisce punti della città e unisce la città ad altre città. Di Anna Carla so quel poco che lei ha detto in pubblico: che ha avuto una nonna, vedova di miniera, cernitrice di carbone e che ha amato, fin da piccola, ascoltare racconti di vecchie donne. So anche che risponde generosamente con qualche canto alla richiesta di una sua presenza, donando Barbusi come parte delle periferie di Carbonia che canta il mondo, specialmente quello minerario. Il mio discorso a Bacu Abis è stato introdotto dal suo canto in sardo che ora porgo in italiano con il titolo Dimmi quale è la musica:

Non dirmi chi sei e neanche da dove vieni
Raccontami la tua storia, perché piangi e come ti senti
Dimmi se sai cantare il dolore della gente
e se sai affrontare con la tua faccia il prepotente
Dimmi quale è la musica che qui ti ha portato
e se canti e se suoni come hai imparato
Non dirmi cosa fai e neanche dove vivi
Cantami la vita tua, cosa sogni, cosa scrivi
Dimmi se sai toccare tutte le corde della mente
e se alzi la tua voce per difendere l’innocente
Dimmi quale è la musica che qui ti ha portato
e se canti e se suoni come hai imparato
Non dirmi se sei matto e neanche dove vai
Raccontami di luoghi lontani, cantami di terre straniere
Dimmi se davvero hai cuore, quello che pensi realmente
e se per tirarmi fuori dal fuoco sfideresti la brace
Dimmi quale è la musica che qui ti ha portato
e se canti e se suoni come hai imparato.

Il suo canto era una chiamata che arrivava in profondità. Pareva voler giungere a incontrare identità e provenienze speciali e occultate, differenti da quelle note e attestate. Voleva conoscere la musica inaudita che ogni persona porta con sé e con le capacità imparate, insieme ai dolori patiti e facendo fronte ai prepotenti. Non voleva sapere professioni e residenze, ma vite e sogni e scritture e fili della mente che diventano voce per difendere chi è innocente. Non voleva sentire anormalità e direzioni migratorie, ma udire racconti di luoghi lontani e stranieri, e anche sincere vicinanze di chi si impegnerebbe a sfidare forti rischi per salvare un altro. Pareva richiamare responsabilità apprese, ma anche coraggiose disponibilità in divenire. Pareva, perché non so cos’è diventato questo canto attraversando chi l’ha sentito e chi è diventata ogni persona, dopo aver ascoltato questo canto. So, invece, quanto furono scosse le emozioni delle persone presenti: qualche capo chino intristito, spalle e visi protesi in avanti per vedere la prima slide del mio discorso.
Esordii richiamando Primo Levi, attingendo dalla pagina 80 del suo libro del 1975 Il sistema periodico, aggiungendo i miei commenti che incalzavano interrogativi sulla contemporaneità:

In questo villaggio che io ho fondato presso il ruscello delle api selvatiche e a cui avrei voluto dare un nome della mia lingua che sto dimenticando Bak der Binnen, che significa appunto «Rio delle Api»: ma la gente di qui ha accettato il nome solo in parte, e fra di loro, nel loro linguaggio che ormai è il mio, lo chiamano «Bacu Abis».
Cosa poteva significare nella contemporaneità degli abbandoni e del malsano che incombevano sulla crisi dell’industrializzazione ripensare alla fondazione, o a una rifondazione, a partire dalle api? Quali significati erano collegati e collegabili alle api e alla loro operosità generativa e rigenerativa? Potevamo e volevamo diventare api? E come? Lasciai le mie provocatorie domande senza risposta. Mi bastava, al momento, sollecitare forti domande sulla contemporaneità ambientale nei siti industriali dismessi e sul condivisibile agire salutare di ogni persona nel territorio, prima di viaggiare insieme nel passato. Avevo un titolo da seguire: Bacu Abis e la Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulla condizione degli operai nelle miniere della Sardegna 1911. Avevo anche un preciso compito. Dovevo far conoscere ai convenuti attendibili fonti storiche per favorire una migliore coscienza del luogo abitato Questo centro minerario, rispetto ai tempi dell’Inchiesta, avrebbe visto chiuse le proprie miniere nel 1933. La breve e tormentata esperienza locale della modernità industriale, tuttavia, pareva aver profondamente e lungamente orientato aspirazioni e aspettative delle persone verso un futuro di lavoro e di vita mineraria migliore. Come riprendere questo corto ma robusto filo di valori connessi all’attività industriale per intrecciarlo con il più lungo ma assottigliato filo delle esperienze agro-pastorali che da più di tre secoli avevano determinato il popolamento sparso del territorio, rimanendo sottaciute e in ombra, specialmente durante l’esperienza mineraria del fascismo? Con quelle domande in testa ero giunta all’incontro.
Avevo beneficiato degli incontri informali che precedono i momenti ufficiali. Avevo preso nota di nominativi e di recapiti delle persone disposte a parlare di sé e del luogo. Ero riuscita perfino a fare una breve intervista a una donna. Si preparavano gli strumenti tecnici di ascolto e di ripresa. Si cominciava.
Introdusse brevemente il presidente della Circoscrizione Gianfranco Fantinel, che moderò il dibattito. Diede subito la parola ad Antonangelo Casula, ex sindaco di Carbonia ed ex sottosegretario, onorevolmente impegnato in una serie di iniziative storico-culturali che alimentavano la coscienza democratica della città.
Parlò puntualmente e utilmente della presenza delle imprese e degli imprenditori minerari a Bacu Abis.
Cominciarono ad apparire sulla scena i primi protagonisti. Poi venne il turno di una valida archivista che dirigeva una stimata cooperativa: Susanna Musa. Parlò assai puntualmente ed efficacemente dei fatti, dei temi e dei protagonisti che caratterizzavano l’indagine e i suoi atti. Toccò a me.
Avevo preso un microfono senza fili. Uscii dal tavolo dei relatori e mi avvicinai al pubblico. Dissi subito che dovevamo accordarci: che dovevano interrompermi con un segno di mano, quando dicevo qualcosa in modo poco chiaro. Era mio dovere farmi capire, quindi ero assolutamente disponibile a realizzare un dialogo amichevole e non ingessato in ruoli distanzianti. Affiorarono i primi sorrisi e i primi commenti sottovoce. Rispondendo ai sorrisi, percorsi il lato esterno delle file di sedie. Potevo vedere faccia a faccia tutte le persone, andando avanti fila per fila. Quando mi girai, e tornai indietro per vedere con loro la prima slide, era come se ci tenessimo per mano. Una magia! Non so precisamente come e perché avvenne. Sentivo chiaramente però che c’era un palpabile clima di reciproca attenzione e di vicendevole ascolto. Potevo rilassarmi. Potevo tentare di indicare le ombre del fascismo che dovevano giungere complessivamente nel territorio carbonifero e di far conoscere lo sguardo antropologico che si sarebbe mosso, con la sua cassetta degli attrezzi teorica e metodologica, nel seguire le pagine dell’Inchiesta. Potevo andare avanti e indietro, e perfino a zig-zag. Eravamo insieme.

5 Il territorio carbonifero e lo sguardo antropologico
Mostrai come apparve il territorio carbonifero nella retorica mussoliniana della landa «quasi deserta», espressa da Mussolini nel discorso inaugurale di Carbonia il 18 dicembre 1938. Indicai come nascondeva la realtà rurale e indeboliva le stesse precedenti esperienze minerarie carbonifere del territorio. Infatti, fin dal 1936 risultavano istituiti nel Sulcis ben 9 Comuni: Giba, Gonnesa, Narcao, Palmas Suergiu, Portoscuso, Santadi, Teulada, Tratalias.
Per motivare il mio sguardo antropologico su Bacu Abis, cercando di semplificare, diedi alcune informazioni generali. Dissi che l’antropologia studia le esperienze umane in cui, a partire dalla propria naturalità corporea, a vari livelli (individuale e di gruppi, di etnie e di specie) ci umanizziamo e/o ci disumanizziamo in modi creativi e/o distruttivi, secondo pratiche, valori e modelli di relazioni emarginanti e distruttivi o inclusivi e solidaristici. In particolare, affrontai la questione della cultura materiale. Precisai che in generale era stata privilegiata la relazione umana con gli oggetti, tuttavia, i miei studi e certi altri si rivolgevano a corsie multiple di materialità: ai corpi umani che agivano nella vita lavorativa e sociale e la materializzavano; alle persone che agivano su sé stesse, partendo dalla loro base naturale e divenendo congiuntamente culturali, individualmente e in gruppo, distinguendosi secondo specifici saper-fare; alle relazioni subite e agite dagli stessi corpi con vari effetti realizzati sulla realtà individuale e sociale.
Sottolineai che l’antropologia mineraria nel 2003 da Chris Ballard e Glenn Banks fu definita una partizione specialistica dell’antropologia nello studio delle esperienze minerarie. Velocemente confrontai il concetto tradizionale di cultura come erudizione e scrittura delle élite con il concetto scientifico-antropologico di cultura, offerto dall’evoluzionista Edward Burnet Tylor nel 1871 con il suo Primitive Culture: un insieme complesso che include conoscenze e credenze, arte e morale, diritto e costume, e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società. Misi in evidenza come l’antropologia instaura una nozione scientifica e democratica di cultura. Aprii una parentesi per gli studi italiani, richiamando soprattutto Antonio Gramsci, con la portata teorica e globale dei suoi pensieri nei quali egli si opponeva sia al materialismo volgare economicista, sia alla concezione nazionalistica e idealistica del popolo, considerato eterno e immutabile; situava le produzioni e relazioni di pratiche, valori, modelli di comportamento, nell’ambito dei rapporti di potere e di dominio che identificano gruppi e classi sociali; considerava tali produzioni culturali nelle varie dinamiche, in senso discendente e ascendente, cioè dall’alto verso il basso e viceversa, pur nella asimmetria dei poteri in campo. Anticipai la vista dei conflitti prospettando orientamenti teorici come quelli espressi da Tim Ingold nel suo The Life of Lines del 2015, in cui affermava che agire nella sottomissione è differente al sottomettersi nell’agire: è fare umanità.
Come si collegavano tali studi ai tempi del fare umanità a Bacu Abis? Tali tempi di umanizzazione riguardavano non solo i momenti degli scioperi e dei conflitti, per esempio nel 1906, ma soprattutto i tempi quotidiani della vita lavorativa, individuale e sociale. Lo sguardo antropologico richiedeva tempi di osservazione più lunghi di quelli scelti per la data dedicata all’Inchiesta Parlamentare e anche un occhio attento alla identificazione economica del carbone, connessa a molti versanti di rapporti di ricerca. Come si formava una cultura tecno-scientifica, con quali competenze e in quali ambiti durante le collaborazioni con scienziati di varie nazionalità, specialmente tedeschi e belgi? Quali erano gli sviluppi storico-giuridici nella costituzione delle società minerarie? Come si formava una cultura economico-commerciale sugli usi del carbon fossile che interessava non solo caldaie a vapore, ma anche illuminazione, caloriferi e cucine economiche, stufe e caminetti? I dialoghi necessari fra scienze dette dure e scienze dette umane sono lenti e difficili, com’è evidente. Affrettiamoci, pertanto, a seguire i dialoghi dei lavoratori riferiti dall’indagine parlamentare.

6 Incontri con i gruppi dei minatori di Terras Collu. Sopra e sotto la terra con le voci dei minatori
Era il 15 maggio 1908 quando avvennero gli interrogatori degli operai delle miniere carbonifere di Terras de Collu e di Bacu Abis, nel Comune di Gonnesa. Il primo gruppo era costituito da 7 operai di Terras de Collu, tutti registrati con le iniziali personali. Dalle risposte si intuiscono i tipi di domande iniziali su provenienze, stato familiare e paghe. Due erano di Serbariu, due di Gonnesa, uno di Sant’Antioco, uno di Turri e uno di Figinas. Erano tutti ammogliati, tranne uno. Avevano da uno a 7 figli. La paga giornaliera più comune era di 2,20 lire, ma poteva giungere a quella massima di 2 lire e 70 centesimi. Una domanda sui modi di ammissione al lavoro e una risposta: era fatta direttamente dall’Amministrazione alla quale venivano presentati i documenti. Poi una domanda sulle multe per le mancanze. Erano comminate dall’impresario e andavano da 0,25 lire a 1,2 lire o anche più. Fino a mezza giornata o più poteva, pertanto, essere persa con le multe. Il pagamento era quindicinale e fatto dall’impresario. Non avevano premi, ma solo un orario di lavoro. Seguiamo il filo delle risposte. L’Amministrazione forniva i ferri da lavoro e la dinamite. Nei fornelli ognuno portava i suoi ferri. C’era un solo impresario e 4 capi-sciolta pagati a giornata: 3 per l’interno e uno per l’esterno, adibito ai trasporti. Ogni sciolta aveva un capo-sciolta. Una era diretta dal capo-sciolta impresario. I vagoni erano trasportati dagli stessi operai all’interno, mentre i vagonisti agivano fuori dalla galleria. Il lavoro in miniera era continuativo di 24 ore. La prima sciolta cominciava alle 8.00 di mattina e usciva alle 4 di sera, la seconda dalle 4.00 di sera a mezzanotte, la terza da mezzanotte alle 8.00 del mattino. Talvolta si facevano due turni per scarsezza di operai. Gli operai, nell’inverno, si rifugiavano nei cameroni. Tutti reclamavano che fosse costruita una tettoia, almeno per ripararsi sia all’entrata che all’uscita della galleria, necessaria per le intemperie, ma anche per cautelarsi all’uscita dalla galleria. Non c’era nessuna tettoia.
A questo punto C.E. presentava un memoriale, allegato negli Atti dell’Inchiesta. A Bacu Abis è stato letto da Piero Deidda, un attore di una compagnia teatrale locale che realizza spettacoli generalmente in sardo. Piero, in prevalenza, impersona personaggi forti con voce forte. Il giorno dell’iniziativa era ancora convalescente dopo un intervento cardiaco. La voce era calata quanto si addiceva ad un umile operaio, ma egli trovò un’improbabile forza espressiva nei punti cui erano richieste condizioni di lavoro e di vita e vivibili. Il testo letto minimizzava i numerosi errori di scrittura contenuti nel memoriale che propongo integralmente, dato il suo rilevante valore storico.

Allegato n. 55

Condizioni di lavoro della Miniera Carbonifera di Terras Collu

13 maggio 1908

Con onore tutta la completta compagnia di Terras Collu, trascrive alla V. S. Ill.ma Quanto appresso sarà da noi redatto.
1 Si onoriamo di far conoscere alla V. S. Ill.ma Che noi opperai appena che riviamo al posto bisogna prima di tutto a d ispogliarsi la Camiccia, restando nudi perché non si può resistere del troppo calore; e poi appena spogliati per cominciare a lavorare? Vi tocca a fare il ginocchioni, mettendo i ginocchi e le mani per terra, per causa d’essere troppo basse le coltivazioni, non potendo rimanere neanche seduti, ma col gomito per terra, raccogliendo fango ed Acqua sopra la nostra veste, inmodoché la paga che ora abbiamo è di L. 2 e 2,20, E non vi basta meno per la pulizia personale, e la famiglia? E affito casa?
2 Faciamo puro conoscere al più di essere in un posto cattivissimo? siamo proprio come condanati alla reclusione, ed anzi più ancora da dieci mille Volte; perché siamo durante otto ore proibiti di riposarsi cinque minuti, essendo il lavoro dato acottimo; ad uno impresario a prezzo tropo scarsissimo, e per trovare la sua giornata? Fa creppare il personale con molto lavoro, con due Caposciorte sempre davanti minaciando sempre con molte bestemie che fano quasi compromettere, se non fosse che siteme la giustizia, e poi che sià famiglia fano scaldare il sangue, essendo lavorando e sempre forza che forza, e se non ti piace prendi la giacca e vai fuori?
Facio pure conoscere alla S. V. Ill.ma chencie un lavoro per discendere il Carbone? Di dove si scava? al posto di caricare ivagoni per portarlo fuori in ciè una strada in salita chenciè un Vagoncino piccolo, e lo portano quattro uomini, per di scenderlo di sopra a basso, e aquesto Vagoncino lomettono due ferri nelle ruote per non caminare e quatro uomini attacati di dietro tirando sempre e non sipuò fermare, e poi a montarlo sopra Vuoto per ritornarlo a riempire che fa ispaventare anche a un animale tanto di un Cristiano.
Faciamo pure conoscere che secaso un operaio manca una giornata? per causa di cattiva Voglia o per malattia all’indomani quando riva alla compagnia? per di spetto lo fanno ritornare in dietro facendolo fare tre o quattro e fino a otto giorni di festa, overo centesimi cinquanta di multa, e premuito Che mancando unaltra Volta che lo mandano fuori del lavoro. E come deve fare l’operaio a questo caso? è obbligato a morire della fame? oh che? Bisogna pure che non siamesso il medico della Ministrazione, come è, presidente dell’infortuni, perché se viene disgraziatamente qualche operaio ferito? in lavoro Vienne dallo stesso Medico visitato, e per causa d’essere dalla parte dell’infortuni ancorachè fosse gravemente ferito. la mise sua guarigione minima da cinque giorni appunto per non darlo la sicurazione facendolo il biglietto di rientrare al lavoro ancorchè non sia ancora benne guarito. Perciò noi vogliamo che il personale sia sussidiato del giorno stesso che viene ferito; oppure malato di malattia con il sussidio di lire una, e centesimi venticinque, al giorno. Seno come può fare un padre di famiglia a camparela sua numerosa famiglia? e obbligato a mandare i suoi figli alla limosina.
Vogliamo il lavoro a conto di Ministrazione e fuori limpresari.
Pensionato il nostro personale anziano che ha molto anni di lavoro nella ministrazione, un sussidio mensile, allogio per colocazione agli operai che entrano alla sciorta di mezza notte perché quando si entra a mezza notte massimo nell’inverno? Non trovandosi Camberoni nella Mignera? Quando piove sitocca a perdere la giornata oppure entrare in galleria tutti abbagnati. Ci si è una casa, maperò la Ministrazione la affitatta a uno caposciorta.
Per i viveri della Cooperativa sicome estata fondata da noi operai stessi a prezzi che non siano tanti cari, ma un buon patto.
Crediamo che le S. V. Ill.ma nefacia conto della nostra domanda, carcolando pure che i lavori Carboniferi, non sono come i lavori Minerali, perchè siamo in mezzo del fuoco, con tanto calore lavorando nudi in modo che non possiamo resistere e perciò più di sei ore non si può lavorare, compagando pure la giornata al meno di lire otto al giorno, perché carcolando benne tra mangiare e sapone per pulizia e pagando lire dieci di affito di Casa ogni Mese, si può fare puro il contoquanto tranquillità passa per il povero opperaio nella sua famiglia.
Sarà basta perché incivuole un romanzo per la vita dei poveri opperai e con questo chiudiamo, e speriamo che la V. S. ne farà conto della nostra domanda non credendo anoi prendano pure informazioni del nostro lavoro.
Firmiamo tutti opperai Minatori e Manovale, E Vagonisti di Terras Collu Gonnesa.
Il discorso degli operai è assai significativo ed evita commenti superflui. Tuttavia, sottacerne l’importanza sarebbe una colpevole sottovalutazione. Affidato alle mani del Presidente della Commissione, lo scritto dei lavoratori segna un importante intervento di autonomia discorsiva. Cerco di spiegarmi. Mentre negli interrogatori i minatori rispondevano a domande rivolte a loro esercitando un potere di risposta, nel memoriale erano loro a stabilire l’ordine del discorso. Affermavano un potere di autonomia non solo nella scelta dei contenuti ma, soprattutto, nella gerarchia delle priorità espositive. Il documento ha una precisa struttura: prima le informazioni e poi le richieste. Inoltre, informazioni e richieste hanno un proprio ordine
interno. Al primo punto si indicano le fatiche del luogo di lavoro: il difficile modo di lavorare con le costrizioni corporee determinate dalle condizioni dei luoghi di estrazione estremante bassi, bagnati e fangosi, e il corrispettivo di paghe insufficienti perfino per la pulizia personale, oltre che per la famiglia e per l’affitto. Al secondo punto si spiegano i modi faticosi dei cottimi e le relazioni umane che li caratterizzavano: lavoro senza riposo, forzato con la forza delle minacce e delle bestemmie, subìto per paura della giustizia e per mantenere la sopravvivenza della famiglia. Successivamente si indicavano lavori pericolosi, come il vagonaggio; le malattie e il rischio della fame; gli infortuni non riconosciuti e i rientri al lavoro prima della guarigione. Nella seconda parte erano elencate le richieste. La prima riguardava i sussidi per malattia, senza i quali i figli erano destinati a elemosinare. Poi l’eliminazione degli impresari, le pensioni mensili, l’alloggio per i turni di mezzanotte, il contenimento dei prezzi della cooperativa. Alla fine nel testo si chiudeva il cerchio, tornando alle difficili condizioni di lavoro, specifiche delle miniere carbonifere dove si lavorava nel fuoco, con un caldo che non si poteva resistere per più di sei ore, e dove si giustificava l’esigenza di un minimo salariale che raggiungesse almeno otto lire al giorno.
Cominciamo a sottolineare la presenza dei cottimi, che assumeranno una parvenza scientifica negli anni Trenta. Risultano operanti fin dalle origini dell’industrializzazione mineraria. Pertanto, sull’evoluzione di questa esperienza con particolari conseguenze nella vita lavorativa dei minatori, sarà necessario riflettere successivamente in modo adeguato. Semplificando l’analisi del testo, possiamo almeno notare la sequenza dei verbi al plurale: si onoriamo di far conoscere, faciamo puro conoscere, faciamo pure conoscere, noi vogliamo, vogliamo, crediamo, chiudiamo, firmiamo tutti. Rileviamo, soprattutto, l’esplicita ed espressiva formazione di un “noi” accomunato e anche accomunante nel discorso comune performativo, in cui il noi prende appunto una sua forma. Gli aspetti di un tale noi, rivendicativo ed espansivo di riconoscimenti democratici in ambienti minerari isolani, alimenteranno le culture sindacali e politiche fino ad intrecciarsi con la carta per il riconoscimento dei diritti umani nel 1948, di cui questo documento
costituisce uno dei tanti e vari semi generativi.
L’interrogatorio del primo gruppo continuò sui prezzi degli alloggi e dei viveri, sul medico e sui sussidi di malattia, sui ritardi delle paghe, sull’acqua insufficiente, sulla distanza della miniera dal paese. Il secondo gruppo era egualmente di 7 operai: 3 di Gonnesa, uno di Tramatza, uno di Nuxis, uno di Serramanna, 1 non interrogato. Tutti erano ammogliati e con figli, da 3 a 7. Paga più frequente 2,20. Solo due arrivavano a 2,30. Confermarono l’organizzazione del lavoro a impresa e con capi-sciolta, congiuntamente agli orari dei turni. Ribadirono, inoltre, le condizioni di lavoro e le posture dei corpi. Si lavavano in ruscello. Reclamarono una specie di spogliatoio con tettoia, un riparo per far fronte agli sbalzi di temperatura. Il più giovane lavorava da un anno, il più anziano da 13. Non lavoravano in miniera né donne né bambini. Prepariamoci ora ad altri incontri.
Incontri con i gruppi dei minatori di Bacu Abis. Sopra e sotto la terra con le voci dei minatori
Il primo gruppo di interrogati era di 4 operai. Uno era nato a Guasila, uno ad Arbus, uno a Nurri e uno a Codrongianus. Due erano celibi, uno era vedovo, uno ammogliato. Due erano sotto Amministrazione e due sotto impresario. La paga andava da 2,20 a 2,60. L’orario era di otto ore per chi lavora all’interno e di 10 ore per quelli che operavano all’esterno. La paga era mensile, ma spesso si pagava dopo la scadenza. Si davano acconti. Con la venuta della Commissione, la si faceva figurare come quindicinale. Venne esibito un libretto di paga. Esaminato, risultavano pagamenti quindicinali che gli operai smentirono. I libretti erano tenuti dall’Amministrazione un paio di giorni prima di fare la paga, che veniva scritta come quindicinale. Gli operai erano assunti dall’impresario e da caposervizio. Non prendevano contanti, ma buoni.
C.B. Non prendo contanti ma buoni che sconto alla cantina di Gonnesa…Se da questa cantina prendo denaro contante pago il 10 per cento d’interesse; se domando un francobollo, siccome non ne ha, mi danno lire 0,15 e a nota si segna lire 0,18 e così una scatola di fiammiferi 0,11, invece di lire 0,10. Un’altra cantina di Targhetta sta a Bacu-Abis, come succursale di quella d’Iglesias ed è privilegiata…L’impresario fa il buono, il quale è vistato dal capo servizio per la cantina di Crotta, che sarebbe lo spacciatore pure di sali e tabacchi (che sta a Gonnesa). Poi, oltre i buoni, vi sono i ghignoni, nei quali c’è una somma fissata: buono per lire 0,10, lire 0,15, ire 0,25 e così di seguito fino ad una lira, e si possono spacciare solamente presso Targhetta.
…si usano solamente a Bacu Abis. Ha un vantaggio il ghignone sul buono di cantina, di potersi cioè scambiare.
Io ho un ghignone e dico a un amico: «Fammi il piacere di cambiarmi questo buono in denaro». L’amico mi dà il denaro e poi spende il buono, il ghignone, alla cantina di Targhetta…Alle volte con un piccolo sconto…Si tiene conto della giornata lavorata. Se l’operaio è in credito, domanda e ha il ghignone alla cantina di Targhetta, la quale in contracambio vi consegna, per l’importo della somma segnata sui ghignoni, generi da mangiare, e alle volte pure dei sigari…Occorre a Gonnesa di avere qualche soldo in tasca, e quindi scontiamo i ghignoni fra colleghi.

P.A. Ho sentito ieri che un compagno aveva 10 lire di ghignoni. Alla Cantina di Gonnesa, Crotta prende, accetta i ghignoni con lo sconto o interesse del 20, 25, 30 per cento e li conteggia poi alla pari con Targhetta…del resto Crotta e Targhetta hanno i loro interessi.

Ghignone in suo a Bacu Abis e nei centri minerari della Società Eredi di A. Roux

Ovviamente tali comportamenti non risultavano nei contratti formalmente corretti, stipulati dalle Società minerarie con le cantine, come risulta dagli allegati dell’Inchiesta Parlamentare.
Si realizzava a Bacu Abis un’esperienza di truck system, nota nell’Inghilterra mineraria: anziché in denaro si pagava in buoni validi solo in un negozio aziendale o di fiducia della Società mineraria, dove gli articoli venduti erano più cari. Un accenno, per esempio, si trova nel libro di Friedrich Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, scritto nel 1845 e pubblicato nel 2021 dalla Feltrinelli di Milano, a pagina 312. Tale esperienza situa Bacu Abis in una rete comparativa storico-culturale di estensione europea.

Contratto tra la direzione della miniera e l’esercente della Cantina di Bacu Abis

Gli interrogatori si indirizzarono successivamente sugli alloggi, provocando vivaci risposte:
C.B. Mi hanno destinato in un camerone, dove ci sono tutti gli insetti che Dio ha creato…Nel primo camerone cinque individui potevano a stento dormire, e si pretendeva che ve ne fossero sedici, mettendo le brande sospese l’una sopra l’altra in modo da raggiungere 3 piani. L’Amministrazione usa certe spilorcerie che non le fanno onore, ed appena ora che è venuta questa Commissione ha dato ordine e fatta eseguire, per astuzia, l’imbiancatura delle pareti…L’altro giorno. Anche stamane si dava, in furia, una mano di pulizia alle finestre.
D. Da quanto tempo non si imbiancavano le pareti, e si verniciavano le imposte?
C.B. Chi lo sa!
D. Le abitazioni sono sufficienti?
M.S. Per le nostre abitudini sarebbero sufficienti, ma dovunque si richiede maggiore pulizia. L’alloggio nei cameroni è gratis.
D. L’alloggio nei cameroni è gratuito?
C.B. Sì, ma i cameroni sono in tristi condizioni.

I successivi dialoghi riguardarono l’impossibilità di coltivare qualche lembo di terreno, il mancato diritto di legnatico, la distanza fra Gonnesa e Bacu Abis che era di 35-40 minuti.
Si passò successivamente alle informazioni mediche.

D. Il servizio medico v’è in miniera?
P.A. Sì, il medico viene ogni quattro o sei giorni, ed è curioso che in generale prescrive sempre medicine comuni e purganti, forse perché, non facendoci pagare medicine, l’Amministrazione vuol pagare poco.
L’armadio farmaceutico è tenuto dal medico
D. C’è l’ospedale?
U.F. Più che ospedale è un’infermeria, essendo solamente due stanze a disposizione degli operai che vi sono ricoverati.
D. C’è una cassa soccorso?
P. A. C’è e noi contribuiamo al suo mantenimento con la ritenuta del 4 per cento sul nostro salario. Alcuni dicono che propriamente la cassa soccorso non esiste. All’ammalato danno un sussidio di 4 lire al giorno.
U.F. C’è un operaio ammalato da sei o sette giorni, e appena si è presentato per essere ricoverato nell’ospedaletto, gli hanno detto: qui non c’è posto. È un pover’uomo che attende qui fuori, e vorrebbe parlare con la Commissione.
Presidente. Lo faccia entrare.
U.F. si allontana, e quindi ritorna nell’aula accompagnando l’operaio minatore S.A.
D. Di che vi lagnavate?
S.A. Che non mi hanno voluto accogliere.
D. Quale malattia avete?
S.A. Ho gonfia una gamba. Il medico mi ha visitato in miniera, e mi ha ordinato come cura alcune medicine,
fra cui anche il sale inglese.
D. Avete la ricetta?
S.A. No, perché la tengono conservata all’ospedale.
D. Qual è la vostra paga?
S.A. Lire 2,30 al giorno, e otto giorni fa mi hanno fatto la paga in cotanti, ma non mi hanno consegnato il libretto.
D. Dove state di casa?
S.A. A Capo d’Acqua nella miniera, lontano km. 1,3° da Gonnesa. Sono qui venuto in carrozza per carità, accompagnato dal caposervizio. Il medico dell’ospedale non mi ha ricevuto perché, dice, non vi è posto, ma il posto vi è.
Presidente La Commissione non può adottare provvedimenti speciali: prende intanto nota di ciò che avete riferito.

Le domande furono spostate su multe e sospensioni, su condizioni e relazioni di lavoro.

D. Quando commettete delle mancanze che punizione viene inflitta?
P.A. Si fa festa per due o tre giorni, oppure fanno lavorare, togliendo dalla paga l’importo di mezza giornata.
U.F. Si infliggono pure multe. L’anno scorso dovetti pagare una lira di multa; domandai la ricevuta, ma non me la dettero.
D. Si segna sul libretto la multa?
U.F. No
D. Potete reclamare?
U.F. No, perché quando si reclama, capita una sospensione. A proposito: è stato detto che d’ora innanzi saremo trattati peggio, perché siamo venuti qui.
Presidente. Non è possibile, state sicuri e tranquilli d’animo.
P.A. Per diciassette o venti operai i comandanti sono tre, mentre basterebbero due e si fa proprio tanto per angariarci.
C.B. È permesso a un semplice caposciolta di sospendere per una semplice, ordinaria mancanza di un operaio, mentre egli non è più di tanto. Il caposciolta non lavora come noi, basta un suo biglietto al caposervizio perché venga la punizione.
D. Il vostro è un lavoro penoso?
C.B. Sì, perché si deve lavorare sdraiati, coricati quasi, ed ogni tanto lo stillicidio ci bagna tutti, e stiamo quindi fino a otto ore nell’acqua, tutti sporchi con la polvere del carbone.
U.F. Una volta il carbone s’incendiò e con tutto ciò che avesse preso fuoco mi fecero entrare in galleria a prendere il legname: meglio salvare il legname che la vita di un uomo!
C.B. Ieri c’era tanto vento che le lampade non potevano rimanere accese, e perciò avevamo deliberato di non lavorare; ma il caposervizio ha detto: se non volete lavorare andatevene
D. Sì sono spesso verificati incendi, scoppi di gas?
C.B. No.
U.F. Una volta mi han tirato a forza fuori, con una corda per mancanza d’aria.
C.B. Sì, anche a me, ma col vagone.
D. Sono gallerie piccole?
C.B. Sì. Ci sono spazi di tre metri di larghezza per uno e mezzo di altezza e anche uno o mezzo, delle vere
fessure.
P.A. Altro che gallerie!
C.B. … e trattandosi di filoni ricchi ci fanno entrare in queste fessure vere e proprie, dove i puntelli sono messi senza imboscatura, e noi entrati, penetrati in queste fessure lavoriamo quasi coricati. I Vagocini poi si spingono a mano, ed in ginocchio.
P.A. Ieri ho fatto un brutto lavoro a Bacu Abis. Alle 2 ho fatto un buco per far passare un poco d’aria, e finitolo, l’impresario, che se n’è accorto, mi ha dato dell’asino e mi ha multato, eppure era necessario, perché il filone del carbone era basso, come è sempre.
D. Avete da esporre vostri desideri alla Commissione?
P.A. Sì: vogliamo il contratto di lavoro, l’abolizione degli impresari.
U.F. In generale un trattamento migliore.

Non so dire se fossero più drammatiche le condizioni di lavoro nelle fessure senza armature e nei filoni bassi oppure le relazioni in cui una vita contava meno di una cosa come il legname e si era multati e insultati come somari, se si creava un foro per respirare un poco. Non so. La disumanizzazione e l’assoggettamento delle persone nell’organizzazione autoritaria, dominante nel lavoro minerario di quei tempi, è una conoscenza molto dolorosa negli studi delle scienze umane.
Un secondo gruppo di minatori di Bacu Abis fu introdotto per le audizioni. I quattro minatori provenivano da Sanluri, Bitti, Asuni e Marrubiu. Uno era celibe, due erano vedovi, uno era ammogliato con 4 figli e si lamentò subito per la paga scarsa di 2,70 lire per i bisogni della sua famiglia. Le altre paghe scendevano fino a 2,25. La paga era mensile, ma nel libretto figurava quindicinale. Era senza acconti, pagata con buoni e ghignoni.

D. Quale la somma che ogni ghignone può rappresentare?
F.R. Da pochi centesimi fino a 3 lire, alle volte arrivano fino a 5 lire.
Gli interrogati mostrano alla Commissione alcuni di questi ghignoni.
D. Tutti i ghignoni sono di questa grandezza?
F.R. Sono di colore diverso e di grandezza uguali.
Il professor Dragoni si fa cedere, per incarico del Presidente, alcuni ghignoni, pagando l’importo.
D. La paga è fatta esattamente dagli impresari?
T.S. Sì: l’impresario paga quando l’amministrazione gli ha consegnati i denari
D. Per le mancanze commesse dagli operai o per inosservanza dell’orario o degli ordini impartiti dai capi, comminano multe, e sotto quali forme?
T.S. Sotto due forme: 1 o 2 lire di multa, diminuzione di paga facendo lavorare le otto ore, e detraendo la paga un terzo, mezza giornata, oppure la festa forzata.
D. L’importo della multa trattenuta, o del terzo o mezza giornata non pagata, quantunque lavorata, è segnata nel vostro libretto personale?
P.G. No.
D. Oltre il libretto c’è il foglio-paga; segnano nel foglio di paga la multa?
P.G. Noi il foglio paga non lo vediamo: non siamo cottimisti.
D. L’impresario paga in base al foglio-paga?
P.G. Sì. Tra l’amministrazione e l’impresario deve esserci un conto corrente.
D. Si pratica il riposo settimanale?
T.S. Alle volte sì.
D. Nel caso di congedo l’Amministrazione preavvisa?
P.G. Nossignore.
Neppure se si diminuisce il numero del personale?
P.G. Neppure, generalmente.
D. I buoni, i ghignoni valgono per la cantina di Targhetta?
M.M. Sì, ma si possono spendere a quella di Crozza con uno sconto piuttosto elevato, del 20 per cento, quando in cambio del ghignone si vuole denaro, e invece di lire 5 vi dà lire 4.
D. Oltre la cantina di Crozza a Gonnesa, di Targhetta a Bacu Abis, vi sono altre cantine?
F.R. Vi è una piccola cantina in campagna, poco distante da Bacu Abis, e per questa cantina pure si rilasciano buoni. C’è insomma un doppio prezzo, uno quando si paga a contanti, ed uno quando si paga a buoni.
D. Quali sono i prezzi?
P.G. ed altri. Targhetta: pane di prima qualità 0,40 (a contanti o col ghignone sono questi prezzi), di seconda qualità 0,32 – farina (semolino) buona qualità lire 0,45 – pasta 0,60, generalmente la qualità è unica, questa di lire 0,60 è la seconda, ma è buona – formaggio 1,50 il vecchio, lire 2 il nuovo, lardo 2,50, olio da ardere 1,10
D. Il cotone per la lampada è pure a vostro carico?
P.G. Sì.
F.R. La cantina di campagna ha prezzi più alti – forse per la lontananza e pel ristretto smercio – così la farina costa lire 0,47 al kg. e manca il pane di seconda e quello di prima si vende a lire 0,40 – pasta a lire 0,65 – l’olio da ardere lo stesso prezzo, da pasto 0,10 in più – il formaggio nuovo lire 1,67 e mezzo e arrotondando lire 1,68, il vecchio 2,10, 2,50.
D. E la cantina di Crozza quali prezzi fa?
P.G. Gli stessi prezzi di Targhetta, però c’è maggior pulizia.
D. C’è il medico e si danno gratuitamente le medicine?
T.S. Sì, c’è il medico e le medicine che si fruiscono, comunemente sono qualche carta senapata, sale inglese, chinino. In generale si vorrebbe a Bacu Abis una cura medica più sollecita, e pare che qualche volta ci sia troppa trascuraggine perché l’ospedaletto è troppo piccolo.

A questo punto, erano state date maggiori informazioni sugli usi dei ghignoni, sullo stato delle cantine, sui costi dei viveri, e sulle condizioni mediche. La centralità della penuria di cibo, dati i bassi salari e gli alti costi dei viveri, gravati dal pagamento in ghignoni, delinea un quadro di cinici poteri di vita, o biopoteri come direbbe Michel Foucault.

Miniera carbonifera Roux – Foto Vittorio Besso

Casa Congia e cantina 1905 (foto tratta dal volume Bacu Abis pubblicato da SEI Cagliari nel 1926)

Casa del Direttore – Foto Alinari

Mentre i minatori di Terras Collu informavano specialmente sui cottimi e sulle condizioni di lavoro rischiose per la vita, i primi due gruppi di Bacu Abis denunciavano soprattutto le penurie alimentari e mediche, lesive della salute. L’insieme di tali condizioni delinea un quadro, con i minatori delle miniere carbonifere sarde, che ha una certa coerente continuità almeno fino alla metà del secolo scorso e che è marcato da fortissime difficoltà di vita.
Venne introdotto infine un terzo gruppo composto da 5 manovali e 4 vagonisti. Uno era di Atzara, uno di Iglesias, uno di Decimoputzu, uno di Baressa, uno di San Vero Milis, uno di Tramatza, uno di Senis, uno di Macomer. Due si dissero ammogliati con figli. Le paghe andavano da 1,70 a 2,10. L’olio e il cotone per la lampada erano a carico dei lavoratori; un litro d’olio bastava per sei giorni di lavoro, di otto ore ognuno. All’esterno la giornata era di 10 ore, all’interno di 8 ore senza riposo. Sentiamo le loro voci:
G.A. All’interno c’è la tolleranza di una ventina di minuti, e per l’esterno ancora più. Nella miniera di Capo d’Acqua il lavoro è troppo forzato, intenso, siamo una quindicina con due impresari.
D. Dove e come alloggiate?
S.B. Dormo in un camerone e pago lire 5 al mese, per mia quota.
D. In quanti siete in questo camerone?
S.B. In cinque e l’Amministrazione quasi pretende di più.
O.S. Io non pago e dormo in un camerone.
D. E perché voi non pagate?
S.B. Lo spiego io. Siccome gli operai destinati a un dato camerone son scelti dall’Amministrazione, capita che si è destinati con compagni arroganti, fastidiosi, inquieti, ed allora si preferisce stare con altri di propria scelta, con amici, e quindi 4-5 operai si uniscono, prendono in affitto dall’Amministrazione un camerone, e ognuno paga la sua quota di fitto.

G.A. Vivo nella località della miniera, in compagnia di altri due operai, e paghiamo lire 6, ossia ognuno lire 2 al mese.
C.L. Vivo in casa mia.
A.A. Vivo a Gonnesa con la famiglia.
S.V. Lire 5 al mese, in Gonnesa.
D. Il medico viene in miniera? L’ospedale come è?
M.S. Il medico fa rare apparizioni in miniera. L’ospedale è infelicissimo, e da qualche tempo manca pure l’infermiere. Avviene che alle volte un ammalato esca dall’ospedale in condizioni peggiori di quelle dell’entrata. Le medicine si danno con molta renitenza, e sono sempre le più comuni.
D. Si dà un sussidio agli operai ammalati?
M. S. Sì, eguale a mezza giornata di lavoro.
Insieme al lavoro «troppo forzato» emerge anche le difficoltà dello stare insieme fra operai. I “noi” solidali non erano costituiti dappertutto. Per abitare e dormire insieme si doveva stare lontani dagli arroganti, dai fastidiosi, dagli inquieti. E bisognava pagare. Per l’insufficienza dell’ospedale, del medico, delle medicine dei sussidi di malattia continuavano le conferme.
Prima di uscire dalle pagine dell’Inchiesta è bene riferire alcuni discorsi, diversi da quelli operai. Il discorso del sindaco di Gonnesa, signor Toro, per esempio, mostra la diminuzione di autorità dei sindaci nel processo di industrializzazione mineraria:
Nello inizio della mia gestione di sindaco m’ero prefisso di fare qualche cosa per eliminare abusi da queste miniere, ma ho avuto una serie di fastidi e dispiaceri che mi è passata la voglia di muovermi…Sono stanco.
Informazioni assai interessanti furono date dai medici. Disse il dottor Sebastiano Forteleoni, direttore e proprietario di un ospedale in Iglesias:
Gli operai sono affetti in generale dall’anemia per deficienza o cattivo nutrimento, ed il miglioramento del regime alimentare dovrebbe essere la base per concorrere all’eliminazione di molti mali, come la tubercolosi che ha una certa diffusione…fra le malattie predominano…le polmoniti e si verificano dei casi d’intossicazione saturnina…i viveri sono di qualità scadente, e sono smerciati da una cantina privilegiata, cioè garantita. Certo ci vorrebbe una maggiore vigilanza igienica, non interrotta… nella miniera di Bacu-Abis si verificano delle antracosi, delle malattie derivanti dall’aspirazione delle polveri di carbone, tanto che i lavoranti sputano nero
Gli effetti dell’insufficiente nutrimento furono rilevati anche dal dottor Loi, medico delle miniere di Gonnesa, San Giovanni e Monte Onixeddu:
I viveri non sono molto buoni, e la nutrizione è deficiente o anormale…
Tutto il sistema di nutrizione influisce notevolmente sull’organismo di persone già infiacchite, le quali anche in rapporto al genere di lavoro avrebbero bisogno di una nutrizione igienica e sufficiente
La centralità dell’insufficiente nutrizione, dati gli esigui salari con effetti devastanti per la salute e per la vita, emerse con una tonalità drammatica da voci mediche, scientifiche. Sul piano antropologico della materialità dei corpi umani nelle materiali relazioni di potere è necessario formulare alcune esplicitazioni.
Soprattutto nel dialogo con gli storici che si riferiscono agli scioperi del primo Novecento criticandone il carattere salariale scapito delle coloriture politiche, gli studi di antropologia mineraria in Sardegna aprono una visione differente che raccoglie e porta in primo piano radicali rischi di vita, specialmente nel lavoro e nella sussistenza alimentare.
In queste radicalità di urgenti invivibilità vanno visti gli scioperi e i moti della fine dell’Ottocento e dei primi anni del Novecento nella Sardegna mineraria, specialmente quelli del 1904 e del 1906 con gli assalti alle case del dazio e alle cantine. Furono azioni per lo più spontanee e carenti nell’organizzazione, con tutti i limiti che ciò comportava nelle debolezze storicamente vistose dei partiti e dei sindacati. Furono azioni iniziali, ma con una loro linea di continuità, per affermare i diritti umani alla vita promulgati poi nel 1948, quasi 50 anni dopo.
Nel 1899 ci fu uno sciopero a Lula, nel 1900 a Flumini, nel 1903 Guspini, nel 1904 a Buggerru, con 3 morti, nel 1905 5 scioperi tutti nella provincia di Cagliari, nel 1906 7 scioperi con 5 morti. Fra questi si situano gli scioperi di Bacu Abis: quello del 23 Aprile 1906, documentato negli Atti Della Commissione Parlamentare nel volume secondo a pagina 365, e successivamente nella partecipazione della sua popolazione ai moti di Gonnesa del 20-21-22 maggio, con l’assalto nel giorno 20 alla cantina aziendale di Anselmo Roux di Bacu Abis, dove si comprava con i ghignoni: nel giorno seguente si ebbero 2 morti a Nebida e 3 morti a Gonnesa fra i quali una donna, Federica Pilloni.
Vorrei riprendere il filo lungo delle “lotte per poter vivere” con un salto storico a Carbonia, fino alla conclusione di una lunga vertenza con l’Azienda Carboni Italiani, durata 72 giorni, intrapresa nel 1948 dai minatori con una forte ed estesa partecipazione popolare. Vorrei fare un salto in avanti fin lì. Poi un altro fino alla nostra contemporaneità post-industriale. Infine, un passo laterale. Vedremo come. Per ora, annuncio solo un accidentato percorso a zig-zag.

8 Alcuni fili di significato
Cerco di afferrare importanti fili culturali nella trama delle vicende che hanno tessuto le vite delle persone a Bacu Abis e di portarli in vista per vederne il colore che riguardava il poter viver.
Si tratta di scegliere fili di significato e di saperli intrecciare significativamente. Il primo titolo dei fili scelti riguarda i cottimi presenti da subito nelle miniere di Bacu Abis. Agli inizi non ebbe lo spessore che acquisì con il taylorismo americano dell’on best away e neppure quello delle varianti minerarie che caratterizzarono in Sardegna il sistema Bedaux. Ne troviamo tracce negli scritti gramsciani su Americanismo e fordismo. Del sistema Bedaux ho lasciato tracce nei mei studi di antropologia mineraria e nel rilevamento di modelli lavorativi dominanti e dominati in conflitto. Adottando in parte espressioni locali dei minatori ho richiamato il modello del lavoro a cottimo intensificato il modello del lavoratore bestia, incurante dei rischi di vita per sé e per gli altri. Forse, genealogicamente, è un antenato dei contemporanei negazionisti. Il modello del lavoro ragionato per risolvere i rischi fu titolo dei “maestri” minatori che generarono sicurezze lavorative personali e condivise. Produssero, insieme al minerale, luoghi e tempi vivibili, presenze gravide di futuri possibili. Ne ho conosciuti alcuni di Bacu Abis, impegnati nella vertenza della non collaborazione, durata 72 giorni. Non farò nomi per evitare di dimenticarne colpevolmente qualcuno.
Bisogna nella densità dei significati, prodotti nelle esperienze di umanizzazione securitaria alternativa ai cottimi minerari, riprendere le elaborazioni di significati connessi alla produzione di spazi e tempi vitali nel sottosuolo, insieme ai minerali. Urge portare sopra la terra tali esperienze del sottosuolo produttive di spazi e di tempi caratterizzati da sicurezze vitali, continuamente ri-assicurate, per renderle visibili e operative, generative e rigenerative a Bacu Abis e nel territorio, non solo comunale. Può apparire, in tal caso, oltre la robustezza, anche la lunghezza di tale filo di esperienze storico-culturali che ebbero continuità, oltre la prima metà del Novecento, in ogni presenza della popolazione di Bacu Abis, dei minatori e delle donne e dei giovani, in una serie di vicende e vertenze per assicurare la vitalità produttiva del territorio, giungendo alla creazione del polo industriale di Portovesme, agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso. Vorrei ricordare che si realizzarono varie esperienze in cui questa periferia della città seppe farsi centro, anzi un nuovo centro nei tempi in mutazione. Forse basta ricordare i giovani accampati davanti alla miniera per nuove assunzioni e nuovi tempi di vita. Se si sa ascoltare, se ne possono ancora sentire gli echi. Analogamente, se si legge la parte del verbale di accordo che concluse la vertenza dei 72 giorni, si sentono gli echi delle voci sui cottimi dei minatori di Bacu Abis, uditi nei loro interrogatori nel corso dell’Inchiesta Parlamentare. L’eco delle iniziative democratiche della popolazione di Bacu Abis rimbalza dal presente al passato e dal passato al presente per volgersi al futuro.

Qualcosa di analogo accade per il filo della penuria di cibo e per l’insostenibile costo della vita nel verbale con cui si chiude la vertenza del 1948. Sono risonanze che giungono alla nostra contemporaneità?
Temo di sì, fatte salve non poche differenze. Ciò significa, tuttavia, che Bacu Abis può portare la sua coscienza di luogo democraticamente generato, e fatto centrale nella modernità urbana in certi momenti storici, a inediti livelli di nuova centralità democratica, rigeneratrice nel presente e nel futuro della città e del territorio sovracomunale. Si tratta di verificare, convertire e sollecitare le disponibilità istituzionali, a vari livelli. Si tratta di concertare direzioni di produzioni vitali verso un futuro condivisibile, locale e con proiezioni territorialistiche secondo aggregati di filiere, riprendendo anche le esperienze produttive rurali messe in ombra dal mito di autosufficienza dell’industrialismo monocolturale, monopolista e poi neoliberista, a lungo dominante e ora in crisi. Non è impresa di poco momento. Ma si può iniziare dal poco, ben potenziato da un nucleo progettuale forte e dinamico per farlo procedere, in modo aggregativo e quasi “a palla di neve”, dalle storiche penurie alimentari alle attuali sicurezze qualitative del cibo localmente prodotto.

9 Una certezza e molte domande
Tornando all’incontro del 22 novembre scorso a Bacu Abis, riferirò solo la mia proposta più immediata. Ho donato le copie dei documenti, da me raccolti e organizzati, affinché possano costituire, insieme a foto storiche e attuali, una unità espositiva sia stabile, in un locale idoneo da reperire, e sia itinerante. Possono servire anche per una piccola pubblicazione, se si vuole. Intanto, è necessaria una pre-inchiesta con videoregistrazioni sulla coralità dei produttori di cibo locale che possa rispondere qualitativamente agli echi delle storiche insufficienze e insicurezze di cibo, patite dalle persone del luogo.
Il mio sguardo è lungo e va oltre il mio tempo, ma è anche largo e va oltre le discipline demo-etno-antropologiche e la stessa antropologia mineraria. Si colloca nell’ambito degli studi francesi di antropologia dello spazio (F. Choay) che hanno dialogato con l’eco-territorialismo interdisciplinare promosso in Italia da Alberto Magnaghi (2001, 2003, 2010, 2012, 2020, 2023) e dalla sua scuola. Mi appresto a studiare questo caso di un possibile riabitare, culturalmente riabilitato, unendomi anche alle riflessioni antropologiche di Pietro Clemente (2020) sulle persone e di Vito Teti (2020) sui paesi. Studi che la pre-inchiesta dovrebbe tarare, selezionando l’affollamento di numerose domande, per una fattibilità concreta di ulteriori percorsi, senza rinunciare in partenza all’ambizione di lunga gittata per rendere possibile l’apparente e immediato impossibile.
Non voglio creare contrapposizioni rispetto ad altre possibili opzioni di percorso, per esempio le patrimonializzazioni proiettate verso il futuro e i risanamenti ambientali. Mi interessa partire dalle penurie e dalle insicurezze di vita e di cibo, che hanno storicamente marcato corpi umani di abitanti insieme al territorio, sia per rilevare le esperienze di resistenza vitale che hanno connotato insieme persone e territorio, sia per misurarne la forza culturale storicamente congiunta nel passato e nel presente, sia per provare a metterne in campo l’attuale portata ed estensibilità in azioni rigenerative unitamente delle persone e dei luoghi. Mi pare necessario studiare nei luoghi percepiti come “propri”, sani o sanati producendo mondi vitali da condividere democraticamente, da riabilitare e da riabitare: forse inventando uno straordinario villaggio delle api che Primo Levi ha saputo scorgere nel territorio del piombo «velenoso» e delle «pietra nera che brucia».
Con uno sguardo antropologico forse Bacu Abis può essere aperta a speciali e inaugurali prospettive per dare centro a Carbonia come città che ora vuole vivere producendo salute del mondo e nel mondo.
Forse Bacu Abis può essere luogo della fondazione di una nuova città vitale dove le nuove industrie e i nuovi modi di industrializzarsi sanno vivere con la natura nutriente e salutare, a partire dal cibo.
In quest’epoca detta Antropocene per richiamare le responsabilità della specie umana, responsabilità in cui hanno prevalso gli interessi finanziari senza alcun limite della modernità industriale anche estrattiva, forse si può partire da un piccolo seme o da un piccolo passo: come la creazione di un sito espositivo, che diventa ‘antenna’ connessa alla Grande Miniera di Serbariu, muovendo dall’esperienza mineraria carbonifera prima del fascismo urbano-centrico. Forse può bastare per dare concretezza a una rinnovata e rinnovante coscienza, propria di quei luoghi esausti e resi marginali dal modello di industrializzazione estrattiva realizzato, vistosamente in crisi nella nostra contemporaneità. Forse. Ma vale la pena di sperimentare.

Paola Atzeni

1 Silenzi

Desidero fare una premessa. Quando Velio Spano morì, nel 1964, io lo sostituii nel Consiglio Comunale di Carbonia. Ero la prima dei non eletti, indipendente nella lista del P.C.I. Velio Spano era stato un protagonista di grande rilevanza nella politica internazionale. Aveva avuto un’esperienza politica tunisina e mediterranea, come fuoriuscito nel fascismo. Nel postfascismo di Carbonia aveva diretto positivamente un lungo e difficile conflitto politico e sindacale. Nel 1956 e durante il risveglio dei movimenti di liberazione anticoloniale, era stato responsabile della sezione esteri del P.C.I. Nel 1958 era diventato segretario del movimento italiano e membro della presidenza dell’organizzazione mondiale per la pace. Accadde anche che fosse sostituito nel Consiglio Comunale di Carbonia da una sbiadita e inesperta ragazzina di 24 anni.
Nel 1964 ero una piccolissima briciola politica che si imbatteva nei cascami del fascismo residuale, che in certi ambiti di Carbonia perdurava. Mi pagavo gli studi universitari con supplenze precarie, a nomina dei presidi. In una scuola media, con un preside che si diceva liberale, ero sempre prima in graduatoria, ma non venivo mai chiamata per supplenze, date le mie posizioni di sinistra. Residui di autoritarismo fascista erano ben presenti a Carbonia quando Velio ne scriveva e durarono anche dopo la sua morte.
Era di plateale evidenza la mia inesperienza. Tacqui al momento in cui lo sostituii, per evitare ogni inutile retorica. Nadia lo ha avvicinato a me, offrendomi certe sue dimensioni di vita personale e familiare, e facendomelo sentire vicino e amico. Oggi voglio personalmente onorare Velio Spano dicendo quanto egli ha contribuito a farmi diventare una orgogliosa e ostinata comunista italiana, ancora impegnata per realizzare compiutamente la nostra costituzione, egualitaria e pertanto antifascista.
A Carbonia non eravamo tutti comunisti. Neppure nel 1948, anno di grandi conflitti. Nanni Balestrini, invece, nel 1971 scrisse di Carbonia. Narrò la storia di un minatore da lui intervistato e usò un titolo totalizzante: Carbonia. Eravamo tutti comunisti. Questo testo fu presentato con una versione in inglese nel 2012 all’interno di Documenta, una rassegna artistica internazionale, a cadenza quinquennale, che si tiene a Kassel. Il protagonista fu partigiano, prigioniero dei tedeschi e poi nei lager. A Carbonia lavorò in miniera e del lavoro dice: quello del minatore è un lavoro duro dove la persona s’imbestialisce (p. 36).
L’imbestialirsi appare un esito lavorativo obbligato e al lavoratore assoggettato rimane la violenza.
In breve, il protagonista appare estraneo alla dimensione democratica e profondamente autonomistica suscitata da Velio Spano nelle lotte operaie del bacino carbonifero. Sono celati differenti esperienze dei minatori i quali, proprio nel vivo di quelle lotte autonomistiche si fecero soggetti autonomi rifiutando gli esodi con super-liquidazione, che il suo protagonista invece accettò. In breve, l’autore e l’opera non hanno dato a Carbonia né verità né lustro, in tale prestigiosa occasione.
Vorrei partire da una personalissima dimensione di Velio nei giorni finali della “non collaborazione” dei 72 giorni che durò dal 7 ottobre al 17 dicembre 194: quella dei suoi silenzi.
Nella sua autobiografia pubblicata nel 2005, Mabrùk. Ricordi di una inguaribile ottimista (che può essere tradotto benedetto o benedetta secondo il termine di indirizzo, oppure congratulazioni secondo il contesto o l’occasione), a pagina 323 Nadia parla del «preoccupato silenzio» quando Velio e Pietro Cocco stavano insieme mentre la vertenza non si chiudeva. Nadia me li ha raccontati come “terribili silenzi”. Nel dialogo spontaneo diceva qualcosa di assai più toccante.
I “terribili silenzi di Velio”, dopo la sconfitta delle sinistre del 18 aprile e l’attentato a Togliatti del 14 luglio di quel 1948 con le sue rischiose conseguenze, probabilmente dicevano di rischi politici che erano anche rischi vitali per il futuro di migliaia di persone, rischi che si addensavano oscurando infine quella lunga e drammatica vertenza che riguardava particolari rischi patiti. Vi invito a riflettere con me sul ruolo di Velio e di Nadia sia sul patire comune e sia sulle strategie di solidarietà democratica realizzate nei conflitti sociali e politici presenti a Carbonia localmente, ma di scala assai più ampia.

2 Oltre i silenzi. Nei discorsi “carboniesi” di Velio la cruciale matrice gramsciana

Possiamo trarre certi elementi che nutrivano quei silenzi, in una certa misura, specialmente dai “discorsi carboniesi” di Velio, in cui appare evidente una matrice gramsciana. Un esempio si trova nel libro edito da Antonello Mattone nel 1978, con titolo assai eloquente Per l’unità del Popola sardo, quando Velio afferma:
La parola centrale dell’azione di Gramsci diventa la parola UNITA’…(egli) costruiva per l’avvenire…Egli proiettava la sua opera al di là della morte. Possiamo pertanto, a mio avviso, accostare Spano a Gramsci precisamente su due versanti messi in opera da entrambi: il primo versante riguarda l’obiettivo di perseguire l’unità popolare, il secondo l’orizzonte dell’operare per l’avvenire.
Propongo questo accostamento di fondo, come un modo utile per portare con noi sia Antonio Gramsci e sia Velio Spano oltre la memoria, proiettandoli insieme nel presente della nostra contemporaneità.

3 Con Velio per lavoro e vita e per vita e lavoro. Solidarietà umana e politica nella “non collaborazione”

Carbonia e il bacino carbonifero ebbero un ruolo assai rilevante nelle vicende del secondo dopoguerra e nel corso dei processi di concentrazione monopolistica e finanziaria delle imprese. Tali processi erano ben noti a Velio che mostra di conoscere, per esempio, il lavoro di Pietro Grifone, edito nel 1945 con il titolo Il capitale finanziario in Italia. Tuttavia, nei suoi discorsi egli metteva particolarmente in luce non solo il versante dei processi di concentrazione capitalistica, ma specialmente il versante degli effetti di tali politiche monopolistiche sulla vita quotidiana della popolazione. Inoltre, egli poneva in evidenza la prosecuzione della corruzione e della repressione, imperanti come forme continuative del fascismo. Infine, portava in vista la continuità storica della miseria e della fame che continuava a colpire persone e popolazioni locali nell’Isola. Egli affermava in modo assai radicale, come appare a pagina 60 nel testo di riferimento:
Si tratta, per la Sardegna, di una questione di vita o di morte.
A pagina 71 dello stesso libro si leggono frasi che purtroppo evocano una certa attualità sarda e nazionale, sui salari insufficienti per vivere: I sardi lavorano. Ma i sardi hanno fame.
Nell’Isola, durante il dopoguerra di fame e la politica repressiva del governo Scelba, le potenziali ricchezze del carbone sulcitano, che era servito «in vista della guerra e poi per la guerra», offrivano nuove opportunità per assumere caratteristiche inedite e valide in tempo di pace. Il carbone sulcitano, infatti, poteva valere in modo storicamente innovativo diventando materiale per nuovi usi chimici, rispetto ai suoi storici usi combustibili: poteva essere valorizzata proprio la presenza di azoto, penalizzante invece nella combustione.
Gli aspetti tecnici ed economici erano stati ben studiati e avevano ottimamente preso corpo soprattutto nel secondo Progetto Levi, incentrato sull’uso chimico-industriale del carbone e volto a superare il disordine aziendale imperante. Spano ne riferì assai puntualmente nella rivista «Rinascita», pubblicata nel dicembre del 1948. Il piano dell’ingegner Levi, presidente dell’Azienda Carbonifera, era avversato dal monopolio chimico della Montecatini che aveva vari alleati fra i dirigenti delle miniere carbonifere sarde, come il fedelissimo direttore generale della stessa Azienda Carbonifera, l’ingegner Spinoglio, che preferiva assecondare «l’imbelle politica» dei finanziamenti a fondo perduto, a scapito dei progetti di rilancio produttivo.
Richiamo fatti ben noti, per sottolineare che Spano, nelle vicende della “non collaborazione” dei minatori, metteva in luce certe connessioni fra vari aspetti convergenti nella crisi produttiva aperta.
In prima istanza egli faceva emergere l’intrigo del monopolio chimico, che incombeva sul bacino carbonifero, agevolato da certi vertici della stessa Azienda Carboni Italiani. Inoltre, mostrava come la direzione aziendale non collaborava con i lavoratori per lo sviluppo industriale carbonifero e contribuiva invece ad affossare le prospettive positive. Il primo indirizzo critico riguardava le complessive inadeguatezze e debolezze, fino ai reali sabotaggi, di certi dirigenti aziendali. Dall’altro lato Velio rimarcava le scelte antisociali che l’azienda preferiva per realizzare economie, adottando misure che incidevano sui livelli di vita delle persone che vi lavoravano e delle loro famiglie.
Presentando dettagliatamente i conti della spesa, Velio provava che i provvedimenti aziendali rendevano precarie le condizioni di vita per quanti non accettavano le super-liquidazioni e le smobilitazioni con un premio di 30.000 lire.
Consideriamo con Velio, e anche un po’ con la pertinente antropologia dei poteri del filosofo Michel Foucault, i salari di quel tempo in rapporto agli aumenti del costo della vita imposti dall’Azienda come insufficienti per vivere. Un alloggetto che era costato 63 lire al mese costava poco più del doppio, 132 lire. Un posto-letto per scapolo costava ogni giorno quel che prima costava ogni mese. I sei quintali di carbone concessi erano stati ridotti a quattro. Il prezzo del carbone era stato aumentato da 12 a 300 lire, quello della corrente elettrica da una lira e mezzo a dodici lire. Tali aumenti costituivano una brusca e forte riduzione del salario per una media di 1500-2000 lire mensili, con vari rischi di sopravvivenza a seconda del numero e dei bisogni dei familiari. Si era nel campo dei poteri di vita, drasticamente ridotti ai lavoratori e alle loro famiglie.
Per chi restava al lavoro le misure imposte dall’Azienda riguardavano in particolare nuovi criteri di applicazione dei cottimi. Inasprire i cottimi significava accelerare il lavoro a scapito dei tempi da dedicare all’attenzione lavorativa e pertanto alla prevenzione dei rischi vitali. Per quanto riguarda i cottimi, la direzione aziendale che era riuscita a modificarne l’applicazione a proprio vantaggio con vari colpi di mano: sia eludendo la vigilanza delle Commissioni interne e sia con la complicità di un Comitato di Gestione addomesticato con la corruzione di qualcuno e con l’ingenuità di qualche altro, oppure evitando di convocare i membri effettivi e facendo invece partecipare i supplenti più docili. Niente era stato fatto, invece, per migliorare le condizioni di lavoro, per rinnovare le attrezzature, per eliminare gli sprechi, per eliminare il disordine amministrativo, per ovviare agli errori tecnici, per utilizzare i residui sterili.
Queste erano le informazioni che Velio Spano diffondeva sulle difficoltà di poter vivere e del poter lavorare in sicurezza nell’Azienda. I poteri di vita dei minatori erano limitati per un verso con l’aumento dei costi di beni primari per vivere (affitti, luce, riscaldamento) per l’altro verso con i cottimi che, accelerando il lavoro, indebolivano l’attenzione verso i rischi lavorativi.
I vari cottimi minerari, denominati o meno Bedaux, avevano un’ascendenza mondiale che faceva capo alla cosiddetta Organizzazione Scientifica del Lavoro, al Taylorismo e al fordismo americano. Richiamo solo le note di Gramsci su Americanismo e fordismo. I principi di accelerazione del lavoro con un modello unico imposto di lavoro accelerato, riguardavano un cambiamento epocale mondiale. In miniera, a giudizio dei minatori carboniferi più accorti, significava instaurare pratiche da “bestia lavorante” che non pensava autonomamente al valore della vita condivisa.
I migliori minatori, i “maestri” nelle miniere carbonifere avevano invece creato pratiche autonome di attenzione ai rischi, sempre più condivise e validate. Le pratiche diffuse da tali minatori erano alternative rispetto ai bestiali e rischiosi cottimi accelerati e costituivano un alternativo modello culturale di lavoro ragionato, produttivo di spazio e di tempo vitali, insieme al minerale. L’impegno di Velio contro i cottimi stabiliva una particolare solidarietà culturale e politica con le pratiche e i modelli lavorativi vitali che si diffondevano fra i lavoratori di miniera.
La “non collaborazione” dei minatori affrontava anche il nodo dei poteri di vita nella parte che contrastava i rischiosi cottimi. Nel 1948 erano morti in miniera 9 operai. L’ultimo perì durante la vertenza, il 5 ottobre. I funerali dei morti in miniera esprimevano e costituivano una solidale comunità di dolore condiviso. Erano performativi. Producevano speciali solidarietà.
La vertenza in atto riguardava complessivamente i biopoteri alimentari e lavorativi. Nel verbale di accordo che concludeva la lunga vertenza, il punto 5 riguardava interventi negli spacci aziendali con funzioni calmieratrici per l’acquisto di generi alimentari, il punto 6 stabiliva la revisione concordata dei cottimi.


Sia sul versante dei costi per i beni primari di vita e sia per i cottimi, si giunse per certi versi con Velio Spano in un campo, assai avanzato, di lotta per i diritti umani alla vita la cui Dichiarazione avvenne il 10 dicembre del 1948, mentre la lunga agitazione pareva estendere fino a lì la portata del proprio campo conflittuale. D’altra parte, quando l’azienda licenziava, restare senza lavoro costituiva un differente rischio di salute e di vita limitata in altri modi.

4 Fra i silenzi di Velio e i discorsi di Nadia: solidarietà di genere e solidarietà fra i generi

Nei licenziamenti erano comprese le donne, come Spano denunciava e come compare a pagina 103 del prezioso libro di Mattone: Hanno continuato operando licenziamenti a danno, non degli elementi superflui, ma degli elementi e delle categorie più deboli, p. es. le donne.
Le donne sono a questo punto nominate per la prima volta e appaiono in questi scritti quasi come un non detto. Possiamo vedere tali silenzi negli scritti di Velio, storicizzandoli adeguatamente come limiti politici. Possiamo considerarli per certi versi come complementari al sorgere di autonomi movimenti progressisti di donne, come per esempio l’Unione Donne Italiane, a cui non era estranea Nadia Gallico Spano, compagna e moglie di Velio. Tuttavia, la stessa Nadia ci aiuta forse a capire meglio tali questioni quando, scrivendo Mabrùk, a pagina 310 afferma:
Per noi, donne comuniste, l’attività quotidiana era estremamente difficile anche perché, come ho già detto, nel Partito molti attribuivano al voto delle donne la grave sconfitta elettorale dell’aprile 1948. Per anni ci siamo sentite accusare di aver favorito la vittoria della Democrazia cristiana. A parole i compagni riconoscevano l’importanza di un’azione tra le donne, ma questa veniva affidata esclusivamente a noi; se i risultati non erano evidenti e ottenuti in tempi brevi, venivamo tacciate d’incapacità.
Vorrei condividere un breve colloquio, donatomi da Nadia il 30 giugno del 1972, in cui risalta l’impegno democratico delle donne di Carbonia contro la fame e contro la grave povertà infantile: problema non estraneo alla nostra contemporaneità
Mi ricordo dei bambini. Dunque dovettero essere trasferiti in continente nel gennaio del Cinquanta. Mi pare, dopo lo sciopero dei 72 giorni. Fu frutto, naturalmente dell’organizzazione. Il trasferimento avveniva tramite l’UDI (Unione Donne Italiane), il sindacato e il partito locale, ma anche dei paesi ospitanti….
Quando c’erano lotte, sul piano sindacale di particolare importanza, allora risorgeva l’iniziativa. Ora se vogliamo è specifico di Carbonia e nello stesso tempo non lo è. Faccio un esempio: quando le donne di Carbonia si ponevano tra i minatori e la polizia non è che lo facessero perché in Emilia si è fatto così, ogni volta si ricrea la tradizione e si rinnova in forme specifiche. Comunque, dobbiamo dire che la polizia non le risparmiava, perché la polizia in quel periodo si scagliava indistintamente su donne, bambini, senza risparmiare nessuno
Nell’ordine del suo discorso, Nadia sembrava accostare o intrecciare due ordini di rischi: sia i rischi della fragilità dell’infanzia povera per la crisi alimentare, nella drammatica condizione delle famiglie operaie durante la cruciale vertenza con l’Azienda, e sia i rischi della repressione poliziesca durante le manifestazioni democratiche. Su entrambi i rischi affrontati delle donne carboniesi vorrei richiamare una particolare attenzione.
Le esperienze di ospitalità dei bambini carboniesi “in continente”, in realtà, erano un’espansione di precedenti e più limitate esperienze locali, come appare dallo spoglio del quotidiano comunista. Il 10 settembre 70 bambini erano partiti da Carbonia, ospitati da famiglie contadine per la “vendemmia della solidarietà” dedicata ai bambini vittime della politica scelbiana. Il 14 settembre erano diventati 85. L’Unità del 18 settembre denunciava che con 20.600 lire di salario non era possibile andare avanti. Il 23 di quel mese i bambini di Carbonia, ospitati dalle famiglie contadine della provincia, attraverso il quotidiano comunista, mandavano saluti ai parenti lontani con una foto.

Poco più di due mesi dopo, 19 novembre, mentre si dispiegava l’offensiva aziendale con il dimezzamento delle paghe, 105 bambini di Carbonia erano scelti per essere ospitati “in continente”. La decisione fu presa nel Convegno nazionale dell’UDI, svoltosi a Firenze. Nadia Spano aveva sollecitato nuove solidarietà per le lotte di Carbonia.

Ospitalità e aiuti economici furono decisi allora, insieme a beni alimentari e igienico-alimentari.

Solidarietà democratiche inizialmente a scala regionale si estesero, per opera delle donne, a livello nazionale con i bimbi di Carbonia. Quasi una settimana prima, il 13 novembre, uno sciopero di 24 ore era stato realizzato in tutte le miniere d’Italia in solidarietà con i lavoratori e la popolazione di Carbonia.
La solidarietà di donne a Carbonia e verso Carbonia risultò forte ed estesa, ma non fu l’unica dimensione dei loro modi d’agire democratici. L’agire solidaristico delle donne non deve occultarne l’intersezione con i comportamenti di fronteggiamento, di contrasto, di opposizione realizzati in proprio e per sé dalle donne stesse contro la repressione poliziesca messa in campo dal Commissario di P.S., ex repubblichino Antonio Pirrone, giunto in città il 19 giugno 1948 che non risparmiava donne e bambini.
Per spiegarmi sulla portata degli scontri delle donne con le forze dell’ordine, anticipo un fine antropologo inglese ancora vivente, Tim Ingold. Egli ci aiuta a vedere che tali donne, mentre operavano nella sottomissione difendendosene in prima persona, agivano attivamente anche su altri piani: sia sulla sottomissione stessa per indebolirla e sia su di sé per affermarsi come soggetti di autonomia e di libertà.
Egli giunge ad affermare acutamente che «il fare nel subire è opposto al subire nel fare». L’attiva padronanza su di sé nelle e contro sottomissioni sprigiona, secondo Ingold, certe capacità di autogenerarsi come persone libere. Il fare per trasformare le sottomissioni è perfino particolare cura di sé, secondo questo antropologo: crea infatti autonomamente un proprio sé di valore, valorizzato nel proprio agire.

Quando Nadia afferma che le donne avevano affinato le proprie capacità democratiche nel concreto agire solidale che non si limitava alla denuncia della fame, possiamo trovarvi il senso delle analisi fatte da Foucault sugli affrontamenti anti-autoritari che realizzano l’emergere di soggettivazioni autonome.
Possiamo rilevarvi anche certe prossimità con le analisi di Ingold che analizza l’agire contrastivo nelle e sulle sottomissioni: un agire specifico che produce d’umanità e che fa umanità contenendo le oppressioni e gli oppressori violenti.
Le donne di Carbonia realizzavano non solo solidarietà democratiche con i lavoratori in lotta, ma anche autonome strategie, in un processo autonomo di sviluppo democratico personale e collettivo. A partire da certe reazioni spontanee dopo l’attentato a Togliatti del 14 luglio nel 1948, esse erano diventate protagoniste non solo nelle dimostrazioni di piazza e nei cortei con repressioni violente, ma anche imputate nei tribunali, recluse nelle carceri, elette nelle istituzioni locali come rappresentanti del popolo. In gran parte ciò era avvenuto attraverso le loro esperienze in contrasto con Pirrone.
Ai fatti di Carbonia del 22 luglio che seguirono l’attentato parteciparono due donne, con l’assalto ai magazzini di Multineddu: Scanu Giulia e Masala Lucia. Non fu un atto di semplice vandalismo. Sarebbe riduttivo. Possiamo anche intravvedervi una logica di proprio contrasto rabbioso contro la stessa Azienda Carbonifera. Egli, infatti, vendeva a prezzi non concorrenziali e maggiorati avvalendosi dei cosiddetti boni fidus, moneta cartacea privilegiata e garantita dall’Azienda che aveva come antecedenti i noti ghignoni diffusi nelle zone minerarie inglesi e usati agli inizi del secolo a Bacu Abis, come ho ricordato lì. Alla rabbiosa devastazione delle Acli, vista come organizzazione fiancheggiatrice della politica aziendale, parteciparono sei donne. Con la sentenza del 24 dicembre del 1949, dopo quasi un anno e mezzo di carcere, due furono assolte: Farris Antonietta e Osanna Genoveffa. Quattro furono invece condannate a 2 anni e 6 mesi di reclusione: Caddeo Eleonora, Pazzaglia Teresa, Pusceddu Cicita, Ledda Luciana. Quest’ultima aveva partorito in carcere.
Per i fatti di Bacu Abis dello stesso luglio dall’Arma dei Carabinieri furono denunciate 8 donne. Furono in seguito rinviate a giudizio 11 donne e furono condannate in 13, sia pure con pene lievi, per aver invaso la sede del partito sardista con violenze e minacce: Aracri Rosa, Bonavento Vitalia, Cadeddu Assunta, Dessì Rosa, Diana Angela, Farris Carmela, Locci Angela, Pinna Francesca, Putzu Barbara, Putzu Petronilla, Sanna Beatrice, Scanu Maria Rosa, Valdés Gisella. Fu una prima fase di spontaneismo, come in altre parti d’Italia.
Nadia parlava esplicitamente di lotte delle donne di Carbonia per il lavoro e per la vita nel libro collettaneo Cari bambini vi aspettiamo con gioia nelle pagine 126-129. Nel suo libro autobiografico, a pagina 325, Nadia Gallico Spano diceva ancora di quelle lotte cittadine definendole per il diritto alla vita e al lavoro. Il diritto alla vita risultava allora in primo piano. pagina 310, Nadia ricordava con orgoglio la combattività delle donne di Carbonia, meglio organizzata sul piano democratico. In particolare, nominava Graziella Marongiu, che divenne moglie di Licio Atzeni poi segretario della Federazione del Sulcis. Ricordava anche Peppina Salaris che divenne consigliera comunale e molti di noi chiamavano Peppina Nieddu.
In quelle popolari lotte cittadine le donne facevano la loro parte importante contro i poteri che limitavano o mettevano a rischio la vita delle persone, affrontando con inedito coraggio le violenze poliziesche quando partecipavano alle manifestazioni per diritti umani vitali. Velio lo sapeva bene.
Le donne di Carbonia in quegli anni seppero andare in prima fila nei cortei fronteggiando le cariche delle forze dell’ordine, ma impararono anche a nascondersi nei cespugli, quando era possibile, per sottrarsi alle violenze delle cariche poliziesche ordinate per sciogliere i comizi dal commissario di P.S. Antonio Pirrone, ex repubblichino, condannato e riabilitato in un clima fin troppo indulgente del post fascismo. Su di lui a Carbonia ho appreso informazioni importanti dal prezioso testo inedito di Alberto Vacca, La repressione del commissario Pirrone contro i comunisti nella città di Carbonia (1948-1949). Egli sciolse così il comizio di Velio il primo settembre del 1948, quello di Nadia il 28 agosto del 1949, quello di Dessanay il 16 ottobre dello stesso anno provocando proteste parlamentari a livello nazionale e regionale. Giunto a Carbonia il 19 luglio del 1948, fu trasferito dalla città il 31 agosto 1949. Fu un tempo assai breve ma, nel ricordo delle molte persone con cui ho parlato, quel tempo era straordinariamente lungo per le violente limitazioni alla libertà subite. Nadia parla delle manganellate da lui ordinate senza risparmiare donne e bambini nella sua autobiografia, a pagina 322. Velio lo sapeva bene.


Dei racconti avuti in città sulla fame rischiosa patita e sulla solidarietà politica incentrata su Velio posso offrire ora solo pochissimi frammenti: mia madre era sempre malata, a capogiro, e il medico diceva sempre che era denutrizione. Erano anni di fame e malattie. in via M ci sono tante famiglie; ci conosciamo dalla A alla Z: una vita uguale alla nostra…La miseria dava una coscienza… Una volta mia zia mi ha portato a uno sciopero, a Bacu Abis… era un corteo soprattutto di donne…Nei periodi di fame non si trovavano neppure erbe selvatiche, era tutto cercato… Eravamo in questo i più attivi della strada, specialmente mia sorella
la figura di Velio Spano come dirigente era popolare perché si spingeva nella lotta ed era sempre fra gli operai… Qui non c’è l’affetto come in paese, ma c’è l’unità politica… L’arresto mio, per esempio, comportava anche il licenziamento. Ma molti, come per i 72 giorni, sono riusciti a ottenere che fossero riassunti. E questa fu una vittoria. Non si sarebbe potuto fare, se gli operai non fossero stati convinti di avere ottenuto un successo.
Le donne democratiche di Carbonia andavano avanti con Velio e con Nadia Spano realizzando un’autonomia che partiva da sé stesse e incrociava gli operai nelle intersezioni delle esperienze subite. Si agiva insieme per indebolire chi limitava o negava sia una vita sicura e sia le libere manifestazioni di dissenso al malgoverno aziendale con proposte alternative. Tali donne creavano nuove solidarietà di genere e nuove solidarietà fra i generi per il proprio avvenire e per quello della città, del territorio locale e regionale e anche oltre, con l’obiettivo di creare una sicurezza vitale che toccava la pace diffusa.
L’asse politico generativo della solidarietà fra i generi riguardava gli innovativi usi pacifici del carbone, allora chimici, incentrati nel Progetto Levi. Gi usi innovativi del carbone come materiale non combustibile e delle stesse miniere è un tema assai attuale e ha nuove declinazioni: dal progetto Aria a una serie di nuovi progetti che vengono elaborati, per esempio, a Nuraxi Figus. Tali progetti non risultano al centro di un dibattito pubblico ampio e diffuso per scelte popolarmente condivise. Non appaiono come punti forti di orientamenti istituzionali per il futuro del territorio carboniese, sulcitano e regionale. Manca la riconoscibile visibilità dei partiti della sinistra, impegnati per innovare il piano produttivo, il piano istituzionale, il piano della rappresentanza degli interessi popolari, che risultano lasciati alla deriva populista. Vari sindaci appaiono soli e costretti a microfisiche mediazioni politiche, in assenza dei partiti. C’è molto da fare dopo le macerie delle rottamazioni e nell’avanzare delle tracotanze autoritarie.
Velio e Nadia sono qui con noi ora. E saranno entrambi presenti, ne sono profondamente convinta, in tutti i nostri impegni di pace con una nuova unità democratica per un futuro vitale condiviso: impegni in cui sappiamo trarre forza e orgoglio dalle storiche esperienze fatte con entrambi, per rigenerare e irrobustire noi stessi e le sinistre, insieme alla città e al territorio, portando a pieno compimento la Costituzione Italiana.

Paola Atzeni

1 L’antropologia dentro le miniere e le miniere dentro l’antropologia

L’antropologia come disciplina scientifica, quindi al di là della sua impropria estensione a etichetta abusata, ha maggiormente studiato le tappe positive e ascendenti del progresso umano attraverso le verificabili esperienze storico-materiali che trasformano la nostra naturale animalità nei modi culturali di farsi umani e di fare umanità, a vari livelli: individuale e sociale, di genere e di specie. Per esempio, dalla stazione eretta e al camminare, dalla manualità alla scrittura e all’arte, dalle attività individuali fino alle cooperazioni familiari e locali. Questo versante dell’antropologia positiva risulta assai ampio rispetto a quello dell’antropologia negativa che, viceversa, studia e documenta le esperienze che negano e sopprimono umanità, altrui e proprie, con varie pratiche e modi anche di violenza. Per esempio dai femminicidi alle guerre, fatti di triste attualità. L’antropologia ha teorie specifiche, nate nel 1871 e mutate nel corso del tempo, pur mantenendo la fondamentale e democratica concezione di cultura che comprende ogni esperienza umana. In quanto disciplina scientifica l’antropologia ha affinato nel tempo la propria metodologia che assomma lo spoglio di fonti scritte e il rilevamento di fenomeni documentabili con la produzione di nuove fonti: scritte e orali, fotografiche, audiovisive e filmiche. Dopo più di un secolo del suo percorso, l’antropologia è entrata nelle miniere e le miniere sono entrate nell’antropologia, determinando nuovi livelli di conoscenza e di approfondimento delle esperienze umane, soprattutto nel sottosuolo. La genealogia di riferimento per tali studi nelle miniere fa capo agli ultimi decenni del Novecento, all’antropologa June Nash e al suo libro edito nel 1979 sulle miniere di stagno boliviane: We eat the mines and the mines eat us. Dependency and exploitation in Bolivian tin mines. Solo agli inizi di questo secolo si giunge all’indicazione di una specifica antropologia mineraria, indicata e perimetrata come campo specialistico in ambito anglofono nel 2003, con il testo The Anthropology of mining di Ballard and Banks.

Nell’espansione dell’Antropologia mineraria non mancavano studi singolari che in ambiti locali indagavano le esperienze minerarie. In Italia, per esempio i primi studi antropologici editi su Carbonia risalgono al 1980 a livello internazionale. Sono infatti documentati negli Atti del Convegno Internazionale di Storia Orale che si tenne ad Amsterdam in quell’anno. Quei documenti, ora assai incrementati, riguardavano produzioni poetiche in sardo espresse prevalentemente da minatori o da loro fatte proprie, sia improvvisate e sia stampate in fogli volanti o in libretti di letteratura popolare ambulante. Fanno parte di un importante corpus documentario poetico, proprio della cultura operaia dei minatori, che può essere messo in dialogo con i documenti di altri centri archivistici o museali minerari, italiani ed europei.

Vorrei sostenere, a partire da questo punto documentario da mettere in un’ampia rete, che le temporalità antropologiche e culturali delle esperienze minerarie non si riducono al solo periodo estrattivo e neppure ad un inerte periodo cosiddetto post-minerario. Mi pare invece necessario partire da quei documenti storici per mettere in luce gli aspetti che concernono l’antropologia del rischio, lavorativo e non solo, individuale e non solo, nel passato e nel presente, avviando un nuovo corso di impegni programmatici di ricerca nelle scuole e nelle università, a partire dai morti in miniera ma estendendo la visione dei rischi e dei modi per farvi fronte democraticamente nei nuovi studi. Riprenderò successivamente il cruciale nodo del rischio e della securitas come ambito di poteri propri nell’esperienza mineraria.

L’approccio volto verso l’antropologia dei rischi a partire da quelli minerari implica l’esigenza di prendere in conto nuovi e attuali dibattiti nei quali l’antropologia mineraria giunge con una recente e più ampia definizione e perimetrazione. Riguarda la cosiddetta Antropologia delle risorse estrattive che fa capo a un libro collettaneo, The Anthropology of Resource Extractions, curato da D’Angelo e PiJpers e pubblicato nel 2022. Rispetto al libro di Luciano Bianciardi e Carlo Cassola, I minatori della Maremma, edito nel 1956 sono trascorsi 66 anni. Dal mio testo pubblicato nel 1989 Tra il dire e il fare. Cultura materiale della gente di miniera un Sardegna, son passati 33 anni. Ribolla per certi aspetti impliciti e Carbonia per altri aspetti più espliciti, sia pure in tutta modestia, possono porgere le ricerche svolte sul loro terreno come etnografie situate come anticipazioni documentarie su mondi di vita e di lavoro sotto la terra che ebbero successivi sviluppi internazionali, specialmente per le perdite di vite umane e di ambienti vitali nei processi lavorativi. Cercherò di mettere in luce come tali processi eccezionali e quotidiani fossero non solo subiti, ma anche governati autonomamente dai minatori, attraverso l’emergere di soggetti di decisione e di scelta: attraverso processi di soggettivazione capaci di agentività, di agency, nonostante le condizioni di dipendenza o assoggettamento ai poteri dominanti.

Dal 2003 al 2022, come ho detto, l’intestazione di antropologia mineraria si è allargata con la dizione di Antropologia delle risorse estrattive, fino a comprendere un vasto complesso di attività di prelievo dalla natura. In tale ambito, in cui gli stessi minerali di discarica rimangono risorse di riabilitazione produttiva e ambientale, appaiono nuove temporalità minerarie. Inoltre, le miniere possono ora materializzarsi anche come specifici centri, idonei per particolari ricerche scientifiche. Tuttavia, rimane faticosamente aperto il problema di ciò che un materiale come il carbone può diventare e diventa storicamente risorsa, e di quale tipo, nei processi di valorizzazione secondo possibilità non solo scientifiche e tecniche, ma anche politiche. Penso al mancato sviluppo degli usi chimici del carbone Sulcis, data l’opposizione monopolistica della Montecatini e la conseguente riduzione del carbone a esclusiva risorsa energetica. Lascio aperta questione del rapporto fra materiali e risorse per seguire il corso generale delle esperienze minerarie. In generale, nel corso del processo di industrializzazione degli ultimi 50 anni l’attività estrattiva è triplicata, con la spinta soprattutto dai Paesi del cosiddetto BRIC: Cina, Brasile, Russia, India. Nuove materie prime, come cobalto e litio insieme a nichel e rame, hanno fatto emergere nuovi protagonisti. Molte miniere impoverite determinano ora maggiori disastri ecologici: per un’oncia d’oro si scassano 30 tonnellate di roccia. Le miniere, comunque, offrono direttamente a 40 milioni di persone opportunità insieme a sfide e rischi di vita. Le attività minerarie sono determinanti negli attuali assetti di consumo, di lavoro e di vita.

Particolarmente in questi ultimi decenni l’antropologia è entrata nelle miniere e le miniere sono entrate nell’antropologia. Numerosi studi antropologici penetrano ora nelle attività, nei processi, negli effetti estrattivi sulla vita quotidiana per capire dinamiche storiche, economiche, sociali, politiche, ambientali, con un approccio integrato. Tali dinamiche in vari casi rimuovono il dato di fondo: che l‘estrazione riguarda risorse non rinnovabili e pertanto esauribili. La dipendenza dai minerali in vari modi cresce e definisce mondi correnti di lavoro e di vita anche in base alla esauribilità dei giacimenti minerari e ai conflitti sul futuro che ricchezze e penurie minerarie acuiscono.

Le esperienze di Carbonia e di Ribolla, per esempio, si possono configurare nell’ambito che è stata definita democrazia del carbone (Mitchell 2011) per indicare il materializzarsi storico di protagonisti con differenti interessi, dipendenze e poteri, in termini di moderne inuguaglianze imposte e di nuove aspirazioni rivendicate. L’antropologia entrando nelle miniere ha colto i nodi di differenze asimmetriche di poteri, anche di vita, nelle umane relazioni lavorative. I mondi globali di macro-livello appaiono pertanto mentre interagiscono con quelli locali e di micro-livello in modi di inuguaglianze che sono per certi versi simili, per altri differenti.
Carbonia e Ribolla sono primariamente accomunate da rischi collettivi di vita subiti, in temporalità di differenti: il 1937 e il 1954. A questo riguardo inizierò prendendo in esame, sinteticamente e selettivamente, documenti ufficiali dei due incidenti mortali collettivi che avvennero in questi due centri carboniferi. Successivamente, prospetterò alcuni passi di ricerca comparativi e integrativi, dinamicamente volti al futuro nei due luoghi minerari oggetto della nostra attenzione.

2 Carbonia

Attingo notizie dalla relazione ufficiale dell’incidente avvenuto a Pozzo Schisòrgiu il 19 ottobre 1937. Redatta il 23 ottobre, tale relazione (reperibile nel testo di Mauro Pistis, edito da Giampaolo Cirronis Editore del 2022 dedicato a questo incidente) descrive il comportamento degli operai che si erano allontanati dal luogo di esplosione dopo aver caricato e acceso 39 mine. L’aria del cantiere era satura di pulviscolo di carbone, atto alla combustione per l’alto tenore di sostanze volatili in un ambiente con un solo fornello d’areazione. Determinante fu l’intensificazione produttiva giornaliera di carbone in quel luogo poco areato, tuttavia, l’incendio e l’esplosione venivano ufficialmente considerati non prevedibili. Alcuni provvedimenti di sicurezza, presi nel periodo successivo alle morti, dicono invece implicitamente le cause che alimentarono i rischi lavorativi vitali che determinarono i gravissimi fatti che fecero contare 14 morti. Tuttavia, nella relazione ufficiale si fece appello a varie ragioni giustificative per l’Azienda carbonifera: dalle maestranze non specializzate alla carenza di personale tecnico direttivo.

I dati importanti raccolti utilmente da Mauro Pistis nel suo libro sui fatti accaduti nella miniera di Schisòrgiu, richiedono però alcune elaborazioni antropologiche per individuare significative temporalità minerarie, a partire dalle morti collettive e individuali che considero ora congiuntamente. Per esempio in epoca fascista dal 1922 al 1943, dalla marcia su Roma alla fine dell’ultima guerra, i deceduti nelle miniere di Carbonia furono 154. Nel periodo della ricostruzione post bellica, dal 1943 al 1954, i morti in miniera furono 124. Dal 1955 al 1992, furono 35. Si tratta di cambiamenti non solo quantitativi, ma che riguardano resistenze e contrasti, assai forti anche in epoca fascista, sui poteri di vita. Entro questa lunga piega conflittuale, troviamo anche elaborazioni e conquiste per nuove sicurezze vitali, realizzate meglio dai minatori in epoca post-fascista, per quanto parliamo ancora generalmente di sicurezze sul lavoro ancora ampiamente disattese. Unendo gli eccidi collettivi alle morti individuali, vorrei mettere in luce due tipi d’intensificazione estrattiva. Il primo di moltiplicazione delle volate in zone di abbattimento non sufficientemente areate. Il secondo di intensificazione del lavoro fisico attraverso i cottimi e l’addomesticamento dei corpi.

In questo secondo percorso io desidero assumere il ‘farsi buon minatore’ o bravo minatore come maestro di vita, i temi del saper fare come saper vivere nel fondo, riferendomi a quell’insieme di pratiche minerarie che Giovanni Contini chiama complessivamente professionalità. Riassumendo al massimo, è utile a tal fine seguire il corso delle relazioni che riguardano i cottimi con le varianti dei Bedaux imposti e, per contro, le resistenze e le contrapposizioni dei migliori minatori che influenzarono comportamenti e valori diffusi nelle miniere specialmente carbonifere in vari decenni dopo l’incidente del 1937 e dopo il fascismo.

Richiamo l’elaborazione del minatore pensante e progettante le armature e le volate sicure per sé e per gli altri, realizzata dai migliori minatori del Sulcis, diffusa pedagogicamente contro la configurazione della «bestia lavorante» che i cottimi minerari imponevano come modello di modernità industriale di ascendenza tyloristica, o americano-fordista come aveva ben visto Antonio Gramsci. Del modello del minatore progettante il lavoro sicuro, per sé e per gli altri, dobbiamo saper cogliere due specifiche valenze. Un verso riguarda la svalutazione della professionalità considerata quantitativamente, cioè come pura “bestializzazione” del lavoratore nei contrasti politico-culturali in miniera. L’altro versante concerne le produzioni di insicurezze nei rischi minerari che l’accelerazione dei ritmi produttivi determinava a scapito dell’attenzione precauzionale. Le interviste a Quirino Melis, a Vincenzo Cutaia, a Delfino Zara, minatori di Carbonia, proiettate nel Museo della Grande Miniera di Serbariu, documentano l’eccezionale valore culturale di carattere universale dei minatori locali come produttori di sicurezze vitali nell’autonomo governo dei cottimi. La produzione materiale di spazi e tempi di lavoro sicuri in miniera da parte dei minatori di Carbonia ha una precisa temporalità storica, come abbiamo visto. Tuttavia, tale produzione di sicurezze vitali permane nel presente non tanto come memoria inerte, ma piuttosto come lascito culturale che può alimentare e orientare nuove risposte in vari rischi di vita del nostro presente. Si tratta di una pagina bianca per una nuova temporalità culturale mineraria, possibile e tutta da scrivere.

In questo quadro la produzione di vita lavorativa sicura è determinata dal farsi buon minatore e, pedagogicamente, dal lavoratore come agente di sicuro lavoro ragionato e pertanto maestro di vita. Successivamente un ruolo fondamentale ha avuto l’ingresso più recente di alcune donne in miniera nel 1980 come aiuto minatrici e nel 2006 con mansioni specifiche di addette alla sicurezza. Importanti documenti audiovisivi e filmici illustrano questa nuova fase securitaria di speciale importanza per la presenza delle donne nel sottosuolo. Tuttavia, nuovi studi devono essere intrapresi. Andiamo ora a Ribolla, cercando contatti e differenze con le esperienze dei minatori carboniesi, esperienze tragiche e non solo.

3 Ribolla

Il 4 maggio 1954 morirono nel sottosuolo di Ribolla 43 minatori, mentre estraevano carbone. L’esperienza mineraria di Ribolla è stata pensata fin qui con profondo impegno scientifico e democratico. Ciò emerge chiaramente da importanti contributi editi. Il libro di Luciano Bianciardi e Carlo Cassola I minatori della Maremma, uscito nel 1956 e ristampato nel 2019, illustra bene la forza e la debolezza dei minatori e delle loro organizzazioni nell’impari conflitto per far riconoscere le responsabilità della Montecatini sul piano giuridico in merito alla morte collettiva in miniera. Alla fine del libro compaiono 17 interviste giornalistiche a protagonisti dei fatti di Ribolla. Le interviste sono assai sintetiche in ragione della scarsa loquacità dei minatori. In realtà il metodo dell’intervista giornalistica, in generale, non è quello dell’incontro e del dialogo antropologico in profondità. Tuttavia, un minatore parla della sua partecipazione allo sciopero contro il Bedaux, ragion per cui fu licenziato. Tre minatori risultano provenienti dalla Sardegna. Due, invece, avevano lavorato in miniere sarde ed erano poi tornati a Ribolla. Appaiono notizie importanti sia sul Bedaux e sia su una certa mobilità dei minatori nelle miniere italiane. I minatori sono presenti nel libro collettaneo intitolato Ribolla una miniera, una comunità nel XX secolo. La storia e la tragedia. In quell’opera, pubblicata nel 2005, era esplicitata anche l’esigenza di continuare ad approfondire alcuni problemi, essenzialmente di ordine storico che non richiamo per brevità.

Cercherò di riprendere ancora in mano il tema, caro Giovanni Contini, ch’egli designa come la professionalità dei minatori. Attraverserò il versante del lavoro a cottimo a Ribolla e la sua rilevanza nelle esperienze dei minatori, attraversando i loro scioperi e vedendolo con la lente dell’antropologia della vita quotidiana che poteva alimentare certe configurazioni individuali e sociali, anche identitarie. Per esempio, poteva alimentare il formarsi di figure di minatori maggiormente produttivi e capaci di più alti guadagni, insieme ad altre figure di lavoratori che controllavano maggiormente i rischi e operavano creando sicurezze per sé e per gli altri, mentre maturavano una coscienza critica che alimentava anche gli scioperi.

Consideriamo nel dopoguerra, precisamente nel 1951 e cioè pochi anni prima della tragedia, un momento cruciale a Ribolla fu costituito proprio dalla lotta al cottimo individuale, introdotto dalla Montecatini. A questo i minatori locali contrapponevano il mitigato e unitario cottimo collettivo con un corollario di proprie concezioni democratiche sul valore del lavoro che attraversava l’Europa. In qual contesto, l’elaborazione di una piattaforma rivendicativa su salario e tempi di lavoro, com’è stato notato da Adolfo Pepe (in I. Tognarini – M. Fiorani, Ribolla una miniera, una comunità nel XX secolo. La storia e la tragedia, Firenze, Edizioni Polistampa, 2005:20), fu una rivoluzione antropologica per una redistribuzione democratica dei poteri, prima che l’espressione di una forza contrattuale sindacale. La redistribuzione democratica dei poteri, specialmente dei poteri di vita, fu la cruciale posta in gioco nelle lotte per i cottimi, sia a Carbonia e sia a Ribolla, perché praticare ritmi di lavoro intensificati poteva distrarre i minatori dall’attenzione ai pericoli e ai rischi.

Forse non è stata adeguatamente messa in luce finora la portata dei poteri che a mio avviso riguardavano sia la forza culturale propria della professionalità securitaria di vita condivisa, sia i poteri di vita in campo (e a rischio) in miniera con i cottimi, come biopoteri. Credo che gli studi di Giovanni Contini, assunti in un’ottica prettamente antropologica, aprano un’utile pista di ricerca in questa direzione di grande portata storico-culturale. Illuminando meglio anche le vicende della tragedia di Ribolla come fatti di interesse globale nella piega dei cottimi, possiamo collegarli al tylorismo e al fordismo, visto attraverso le lenti sia di Antonio Gramsci e sia di Michel Foucault: la bestializzazione umana come de-professionalità connessa ai rischi di vita in miniera. Nel doppio attacco della politica aziendale alla professionalità e insieme alla vita è necessario saper vedere, a mio avviso, la portata dello scontro democratico di quegli anni di crisi, subito dopo che il carbone era servito alla ricostruzione post bellica. Spostiamo un attimo lo sguardo sul carbone. Se il carbone come risorsa energetica poteva apparire in quegli anni già insidiato dal petrolio, rimane da chiedersi perché il carbone è rimasto in tale stato di risorsa come mero combustibile e perché non è stato possibile sviluppare progetti alternativi per gli usi chimici del carbone, mentre il monopolio chimico della Montecatini dettava legge sulle scelte economiche nazionali.

Carbonia e Ribolla con i loro morti hanno distanze temporali e geografiche, ma anche qualche prossimità di esperienze democratiche, almeno per le lotte contro i cottimi che andrebbero forse ancora indagate nelle forme di resistenza, di contrasto, di elaborazioni alternative, secondo i periodi, compreso quello di Consigli di Gestione. Spero che rimanga qualche ulteriore scavo da fare nella direzione delle esperienze di conflitto quotidiano, contrastive e alternative ai cottimi che erano materializzate nel sottosuolo dai minatori.

Procedo in fretta, riprendendo le note sulla professionalità che Giovanni Contini colloca in modo obliquo nel lavoro estrattivo delle cave di Marmo mettendo in luce la sapienza empirica dei capi-cava. Sullo stesso piano empirico si situava la capacità sperimentale, un tempo attribuita solo ai dirigenti mentre nelle gerarchie costitutive dell’organizzazione, detta presuntuosamente scientifica, del lavoro minerario si riduceva l’esperienza operaia alla sola dimensione fisico-manuale. Contini, per sottolineare la professionalità operaia cita Raul Rossetti e il suo Schiena di vetro, pubblicato nel 1989. Usa le citazioni per introdurre la visibilità di uno stile personale di “lavoro ben fatto” che poteva essere acquisito osservando gli altri mentre lavoravano e sperimentando in proprio, come traguardo intellettuale, non solo nelle armature. Ho ricevuto, particolarmente a Carbonia, racconti importanti. Riguardavano, oltre che l’importanza delle armature prodotte e degli stessi disgaggi di rimozione dei pericoli, specialmente le progettazioni delle volate che tenevano conto della variabilità della roccia. Sui saper fare dei minatori che erano realizzazioni di alta professionalità, e anche di alto saper vivere condiviso, ho ricevuto importanti racconti di lavoro e di vita nelle miniere carbonifere.

Contini parla di un’autonomia lavorativa raggiunta dal minatore e ad esso riconosciuta. Io ho raccolto testimonianze di relazioni assai conflittuali per giungere a tali riconoscimenti di autonomia da parte dell’Azienda contro la bestializzazione dei cottimi. Il “bravo minatore” di Carbonia, riconosciuto dai compagni di lavoro anche come maestro, era capace di produrre accuratamente vita per sé e per gli altri. Era quindi capace di produrre spazio e futuro condiviso. Sulla produzione di tempo di vita condivisa come produzione di futuro condiviso bisogna meditare ancora e assai profondamente, perché a mio avviso tale esperienza mineraria costituisce un lascito culturale di viva attualità nei vari rischi vitali del presente. Egli sottolinea giustamente la conoscenza complessiva della miniera da parte dei minatori, conoscenza che permetteva di cogliere gli indizi di pericolo. Tuttavia, egli tiene opportunamente in conto anche l’imprevedibilità dell’ambiente minerario. Per questo aspetto ho appreso dai minatori incontrati che le variabilità della roccia non consentono saperi algoritmizzati, ma un continuo problem solving inventivo, una capacità creativa di trasformare, di volta in volta, i problemi che la roccia impone nei rischi, facendoli diventare opportunità di cambiamento positivo di vita e di futuro condiviso.
Alla luce di un nuovo e doppio sguardo storico e antropologico, multisituato nelle miniere carbonifere di Ribolla e Carbonia, cosa unisce i due centri minerari, oltre le morti collettive e individuali?

Pensieri ravvicinati fra Carbonia e Ribolla

A mio avviso, dobbiamo saper guardare alla carne viva delle loro lotte contro i cottimi come lotte non solo salariali e professionali, ma specialmente per i diritti alla vita e per la produzione di futuro e di spazio democraticamente condiviso. In questa attuale luce Ribolla offre il profilo collettivo degli scioperi, mentre Carbonia porge anche il lato singolare del farsi autonomi in quotidiani conflitti di ogni “bravo minatore”, di un minatore nel farsi soggetto di eccellente professionalità per dare sicurezze di vita a sé stesso e agli altri. Oltre gli scioperi e gli eccidi collettivi come fatti collettivi ed eccezionali, mi pare necessario guardare pertanto in modo complementare anche alle esperienze singolari con le lenti di un’antropologia mineraria della vita lavorativa quotidiana. Insisto nell’incoraggiare gli studi sui mondi minerari quotidiani perché riscontriamo che, nel corso dei 50 anni di studi che hanno alimentato l’antropologia mineraria, si può registrare un ampliamento di ricerche dal lavoro all’impresa mineraria con direttori ed esperti. Tuttavia, l’indagine sulle esperienze della vita quotidiane è ancora considerata imprescindibile per non pochi antropologi e antropologhe.

Il lascito culturale di un’antropologia quotidiana della vita lavorativa mineraria nei rischi e sui rischi, che riguarda i saper fare professionali minerari sicuritari, può essere fatta valere sia come riserva culturale storicamente specifica, sia come paradigma opportunamente declinabile e trasferibile, di autentico saper vivere in condizioni di rischio di vita, non solo subito ma anche governato e governabile perfino in condizioni di estrema sottomissione. Si tratta di produzioni di sicurezze vitali democratiche che toccano il nostro presente.

Questo è il lascito che l’antropologia mineraria o delle risorse estrattive dona all’’antropologia generale, alla storia sociale come alla storia culturale, non solo locale, della nostra contemporaneità. Tale lascito culturale del saper produrre tempi e spazi di vita democraticamente condivisi, apre le miniere chiuse ad una nuova temporalità culturale e antropologica. Si tratta di un lascito non tanto di memoria, ma soprattutto di progetto: come incitamento per elaborare, individualmente e in gruppi, inedite soluzioni per innovativi modi di lavoro e di vita sicuri, di fronte a vecchi e a nuovi problemi ostacolanti le vite, naturali e umane, cioè per produrre, a partire dalle miniere chiuse, innovativi progetti di vite e futuri democraticamente condivisi.

Nell’auspicio che i nostri pensieri che avvicinano Carbonia e Ribolla facciano crescere speciali qualità di iniziative che ravvicinano ancor più e ancor meglio sia associazioni culturali e sia istituzioni locali democratiche vi porgo un affettuosissimo abbraccio.

Cagliari 17 maggio 2024

Paola Atzeni

Crediamo che curare sia un atto finalizzato a far cessare una malattia, ma questo è solo un aspetto tecnico. Il significato vitale è più ampio. La cura in realtà è un “prendersi cura”, cioè un interessarsi al benessere di se stessi, della comunità e dell’ambito in cui si vive. Questo è quanto si comprende leggendo l’opera antropologica di Paola Atzeni “Corpi gesti stili”. Per corpi intende i corpi fisici che si prendono cura del sé. Per gesti e stili intende le attività svolte da quei corpi che vivono, desiderano, programmano, valutano e poi si prendono cura di tutto quanto li circonda. L’opera è una ricerca del significato ontologico della “cura”; significato che può essere sintetizzato nell’affermazione: curo, quindi sono. è un’affermazione simile al “dubito e quindi sono” di Sant’Agostino, o al “penso e quindi sono” di Cartesio.

Corpi gesti stili” è una ricerca scientifica del 1986 ed esamina un mondo “ marginale” vissuto da quattro donne delle periferie rurali del Sulcis. Non parla mai del mondo industriale, parallelo e “privilegiato”, che le ha escluse, però ne fa sentire la presenza incombente.

Nel mondo privilegiato esiste una società ricca, organizzata e altera che, chiusa in un ambito impenetrabile e respingente, ha sottomesso, abbandonato e poi espulso da sé quelle donne del mondo rurale. Il mondo rurale, a sua volta esiste inferiorizzato, senza protezioni fuori dai confini del mondo tecnologico che, al contrario, è racchiuso in un guscio di sicurezze.

I casi delle donne studiate riguardano una prima donna che sa macinare il grano con un’antica macina mossa da un asino; sa cernere la crusca dalla semola e dalla farina fine, e ne fa scambio con i prodotti di altre donne assicurando una riserva alimentare alla comunità. La seconda donna sa impastare e panificare in un forno a legna e rifornisce settimanalmente la piccola comunità; la terza donna sa potare le palme nane per farne scope per l’igiene delle abitazioni, e le vende e scambia in un vasto territorio. Il quarto gruppo di donne si occupa della raccolta dello olive per la fornitura di olio alla comunità.

L’organizzazione sociale in queste comunità di donne è basata su criteri di rispetto, di tutela del prossimo e di democrazia da fare invidia ai filosofi greci del quinto secolo avanti Cristo ad Atene.

Seguendo l’iter dello studio osservazionale, protratto per circa 40 anni, si scopre che le donne del mondo rurale, nel tempo, hanno maturato un duraturo sistema di sopravvivenza superiore a quello del mondo industrializzato, creando un’organizzazione sociale tale da metterle autonomamente al sicuro dai rischi di vita per penuria alimentare, sanitaria e di difesa dalle violenze. I casi studiati dimostrano come quelle donne si siano messe al sicuro prendendosi cura ognuna di sé, della propria famiglia, e delle altre donne della comunità, attraverso l’esercizio della solidarietà.

Questo ambiente antropologico è collocato storicamente negli anni ‘80 del 1900 e, come si vedrà, ha avuto la capacità di saper sopravvivere integro dalla sua origine fino ad oggi.

Gli anni d’inizio dello studio erano quelli in cui nel Sulcis era già avvenuta la transizione dall’economia agricola a quella industriale. I maschi negli anni ‘60-’70 erano stati selezionati per il passaggio dal mondo rurale all’industria mentre le donne degli abitati rurali erano state progressivamente marginalizzate dalla società tecnologica che si stava instaurando, ed erano state costrette a sopravvivere riprendendo metodi produttivi ancestrali basati sulla cura della terra.

Mentre nel mondo “privilegiato” si creava una gerarchia comunitaria basata sullo scambio di danaro e in fabbrica si instaurava una gerarchia del lavoro basata sulla logica della ingegneria sociale, nel mondo “marginalizzato” rurale si creava una convivenza basata sullo scambio di valori. Si trattava di valori non monetizzabili come la capacità e l’abilità nel produrre sicurezza alimentare per sé e per gli altri, lo scambio democratico di privilegi basato sull’alternanza nelle posizioni gerarchiche, il riconoscimento del merito e lo scambio di rispetto e di cura, generatori di felicità. Si erano instaurati due mondi, uno privilegiato e l’altro marginalizzato, con due sistemi etici divaricanti fra essi.

Il contenuto del libro è ben rappresentato nella figura di copertina. Si tratta di un affresco in cui donne, disposte in riga, hanno il busto piegato in avanti e flesso sulle gambe diritte, nell’atteggiamento di chi sta svolgendo un lavoro in basso.

E’ un’immagine ancestrale, già vista molte volte. Rappresenta le raccoglitrici di olive in Sardegna, ma può rappresentare anche le mondine delle risaie, le raccoglitrici del cotone e del tabacco, le cernitrici delle miniere, le raccoglitrici di arselle in laguna, le vendemmiatrici, le potatrici di palme nane per ottenerne scope. Sono tutte immagini di donne al lavoro per portare nutrimento alla famiglia. Quell’affresco ricorda anche la postura delle donne degli asili infantili che assistono i bambini, le donne in divisa da infermiera inchinate sugli ammalati negli ospedali, le assistenti delle RSA chine sui pazienti non autosufficienti. Sono immagini di cura di corpi umani.

Questa immagine di donne chine al lavoro nella cura della terra e degli altri è probabilmente l’immagine più antica della storia dell’Uomo. Nel Mesolitico, al tempo in cui i cacciatori-raccoglitori migravano dal continente africano a quello asiatico ed europeo, ad un certo punto, mentre gli uomini si allontanavano per la caccia, le donne si fermarono per dedicarsi alla cura dei figli e alla produzione di alimenti coltivando cereali e allevando animali addomesticati. Furono le prime immagini di donne chine verso terra per raccogliere o coltivare qualcosa che assicurasse la famiglia dal pericolo di morte per penuria di alimenti. Lì nacquero i primi aggregati di abitazioni rurali e lì si formarono i primi villaggi. Lo fecero per prendersi cura di quei corpi che i loro corpi avevano generato, e lo fecero con gesti e stili che hanno attraversato il tempo fino a noi. Gesti e stili sempre uguali: chine, flesse ad accudire la famiglia e la comunità delle altre donne in un interscambio di cure.

Nella stesura del libro l’autrice non nomina mai la città tecnologica e l’enorme sviluppo industriale del Sulcis di 40 anni fa, tuttavia si percepisce che, col passare dei decenni, in quel mondo sono sopravvenute le crisi: quelle crisi che avvengono «quando il vecchio è morto e il nuovo non riesce a nascere».

Dopo la crisi dell’economia agricola del Sulcis, conseguente al richiamo degli uomini dalla terra all’industria, si passò in pochi anni ad una nuova crisi delle attività produttive; stavolta toccò agli operai delle industrie.

Le industrie vennero delocalizzate in altre aree dell’Europa, dell’Asia e dell’Africa e il Sulcis de-ruralizzato si trovò in breve tempo anche de-industrializzato. Quell’ambito sociale, che era stato privilegiato dallo sviluppo industriale, venne a sua volta “marginalizzato”. Ripresero le emigrazioni degli operai e dei tecnici più giovani. Rimasero i vecchi e i pensionati.

Gli effetti si fecero sentire anche sul Sistema Sanitario Ospedaliero.

Negli anni ‘90 la spesa sanitaria degli Ospedali venne dichiarata insostenibile. Allora ci vennero inviati economisti di stampo bocconiano che ci insegnarono i metodi per ottenere “efficienza ed efficacia” facendoci credere che si potessero ottenere gli stessi risultati di cura riducendo, però, il personale e il finanziamento della sanità.

A causa della riduzione del personale e del mancato aggiornamento degli strumenti, avvenne il calo delle operazioni chirurgiche e dei ricoveri in medicina interna. Comparve per la prima volta la parola “doppioni”, usata per indicare i reparti ospedalieri simili fra Carbonia e Iglesias. Con la motivazione degli “inutili doppioni” si procedette alla soppressione di alcuni reparti a Carbonia e alla chiusura di interi ospedali ad Iglesias; per di più non si tenne conto che nella curva demografica stava avvenendo uno scompenso provocato dalla forte crescita delle età avanzate e, nonostante il forte aumento di tumori e di malattie vascolari, si chiusero posti letto di chirurgia e di Medicina. Fu un’euforia autodistruttiva e gli Ospedali, che sono il fulcro del sistema di cura, entrarono in crisi.

Circa quattro decenni dopo, con l’indagine antropologica di “Corpi gesti stili” siamo ad un’ulteriore svolta storica: siamo definitivamente entrati nella de-globalizzazione degli scambi commerciali e nella globalizzazione della minaccia nucleare. Questo nuovo stato di cose ci trova impreparati e non abbiamo idea di come evolverà la condizione dell’economia in questo angolo di Sardegna.

La citata opera antropologica, che fu portata a termine nel 2019, ci offre, nella terza parte del libro, riflessioni che oggi possono rappresentare un indirizzo per affrontare l’ incerto futuro economico che incombe. A tal fine, l’autrice chiama in causa tre donne scienziate, esperte di organizzazione sociale in condizioni critiche, femministe, filosofe e antropologhe: Carol Gilligan, Judith Butler e Maria Puig de la Bellacasa.

Confrontando le sue ricerche con quelle delle tre scienziate giunge alle stesse conclusioni suggerendo il recupero dei valori del mondo rurale basati sulla “cura della famiglia, del prossimo e dell’ambiente”.

Le quattro scienziate concludono in sintonia che si deve ricostruire una società umana e politica basata sulla “cura vicendevole”, la “buona cura” e la “cura orientata”, cioè deve trattarsi di un rapporto di cura interscambiabile ed esteso all’Ambiente. La Gilligan suggerisce la costituzione di un sistema di cura autoprodotto, autosufficiente e indipendente. Sostiene che l’autonomia della cura è fondamentale per assicurarsi la libertà e la sicurezza; inoltre introduce un principio innovativo con cui avverte che si deve avere la certezza che nessuno possa utilizzare il bisogno di “cura” al fine di instaurare un rapporto di dipendenza a danno di chi usufruisce di quella “cura”. Per non cadere nella soggezione di nessuno essa afferma che le comunità devono esercitare un serrato controllo sull’apparato che elargisce la “cura” e afferma: «Non mettetevi nelle condizioni di dover accettare delle cure che non siano sotto il vostro controllo, pena la dipendenza, la carenza di cure, la mancanza totale di cure o anche l’abbandono».

Sembra una premonizione di quello che sta avvenendo oggi a danno dell’apparato sanitario del Sulcis Iglesiente che a causa della dipendenza da altri è entrato in sofferenza.

Questa lezione dovrebbe costituire la base antropologico-filosofica da cui non possono prescindere i nostri sindaci, nel momento in cui si confrontano con i poteri regionali, perché i poteri sovraordinati sono difficilmente controllabili e, soprattutto, potrebbero essere “interessati ad accrescere se stessi” come afferma Judith Butler citando Nietzsche.

Dopo quasi 40 anni dall’inizio dello studio, e dopo i rivolgimenti politico-economici del pianeta, la nostra studiosa ha verificato che la società tecnocratica, a sua volta emarginata dalla globalizzazione e dalla fine delle industrie, per la propria sussistenza ha nuovamente necessità della terra per l’agricoltura, per l’allevamento, per fini di autoconsumo, e anche per fini turistici.

L’autrice, seguendo le osservazioni della filosofa-antropologa Maria Puig de la Bellacasa, che sostiene la “Permacultura” (equilibrio permanente fra Uomo e Ambiente) invita a porre attenzione sulla “Biopolitica”, e sui “Biopoteri” (quei poteri che condizioneranno la vita sulla Terra oggi che il pianeta, con suoi quasi 9 miliardi di abitanti, ha un forte bisogno di terra utile).

Per sopravvivere in questo contesto umano e planetario ella suggerisce una politica di sviluppo culturale ed economico indirizzato verso la cura di quei luoghi che prima chiamavamo “abitati rurali sparsi” che nello studio sono gestiti da donne. Essi oggi potrebbero essere una via necessaria per la futura “cura” di noi stessi e per sfuggire alla penuria di alimenti e di sicurezza che dovremmo attenderci.

Mario Marroccu

Sarà che ho appena sentito di un paziente, operato al cervello, che ha perso la PEG (il tubino per nutrirsi) e gli è stato negata l’assistenza immediata in una struttura ospedaliera. Sarà che tutti abbiamo appena sentito che sono stata chiuse le Rianimazioni del Sirai e del CTO. Sarà che con questa storia del disegno di legge sull’“autonomia differenziata” si ha la sensazione che alcune ricche regioni vogliano rompere i ponti di condivisione della Sanità pubblica e dell’Istruzione con le altre regioni meno forti. Saranno solo suggestioni ma la sensazione che intorno ai nostri Ospedali sia stia facendo terra bruciata è forte.
Tutto iniziò nel 1992 quando il ministro Francesco De Lorenzo fece approvare una legge che avrebbe trasformato gli Ospedali da Aziende sanitarie pubbliche in Aziende sanitarie di Diritto privato. Quella legge allontanò i Sindaci dalla gestione diretta della Sanità dei loro territori per darla in gestione ad apparati di tipo privatistico, con tanto di Manager, finalizzati al freddo controllo del bilancio. Non si tenne conto che la sola cura del Bilancio, confliggeva con il fatto che l’oggetto amministrato non era fatto di soli numeri ma, sopratutto, di “valori umani” contenuti dentro esseri umani.
Questa trasformazione in pura macchina burocratica dello stabilimento ospedale si aggravò ulteriormente rispetto al peggioramento che aveva sofferto tra il 1992 ed il 2020, con l’avvento del Covid, e fece definitivamente terra bruciata tra l’utenza umana bisognosa di cure ed il Sistema sanitario.
Abbiamo visto la disumanizzazione rappresentata dalle file di persone respinte fuori dagli ospedali durante la pandemia. Certamente era necessario frapporre distanziamenti tra utenti ed apparato sanitario per motivi di igiene, ma non abbiamo visto l’umanizzazione del rigore, anzi abbiamo visto l’assenza di un reale isolamento dal contagio, di sbarramenti al virus, e la messa in pericolo degli altri malati inermi e del personale d’assistenza. Secondo certi calcoli pare che il numero di morti/anno in più per malattie non-Covid, come tumori ed infarti, sia stato pari alle morti da Covid. Eppure la valutazione contabile del Sistema sanitario, basato su una complessa macchina fatta di leggi, regolamenti, norme, piani nazionali e regionali ed un’immensa, complessa burocrazia amministrativa, ha dimostrato con formule matematiche che i risultati sono stati soddisfacenti. E’ necessario precisare che la soddisfazione si divide in due varianti; esiste la soddisfazione dell’apparato contabile e quella ben diversa dei cittadini. Mentre la prima è basata su “numeri”, la seconda è basata sulla percezione del rispetto di “valori”.
Questa differenza, insistentemente ignorata, è all’origine dei fallimenti delle numerose riforme nazionali e regionali della Sanità. Oggi sta per giungere una nuova riforma: quella della digitalizzazione della Sanità. Va molto bene ma ha un difetto: non è stato previsto, nel PNRR missione 6, un capitolo per l’assunzione di personale Medico, Infermieristico e Tecnico degli ospedali. Cioè sono state previste macchine e strutture ma non è stata prevista la ricostituzione della componente umana della Sanità che deve utilizzare quelle macchine e quelle strutture.
La Sanità è un grande contenitore formato dalla tecnostruttura degli ospedali e dall’apparato burocratico che, sebbene fatto di persone, risponde a rigide esigenze di leggi e strumenti digitali. Tale contenitore, tuttavia, dovrà contenere persone con il loro carico di valori. I valori non sono misurabili né monetizzabili. Sono un’entità prodotta dal cervello umano: si tratta di ragionamenti, sentimenti, istinti, che vengono integrati insieme per produrre “giudizi” e i giudizi regolano la vita dell’Uomo, il quale agisce di conseguenza, allo scopo di raggiungere la “felicità”. Il sistema digitale tecnocratico non può capire il sistema delle astrazioni valoriali umane come: la paura, la fiducia, l’ansia, la solidarietà, la compassione, il desiderio, la giustizia, l’equità, il rispetto, l’uguaglianza e la democrazia; quest’ultima è la somma dei valori e rappresenta il riconoscimento condiviso dei valori che una comunità deve rispettare. In questo momento, non ci sono intermediari fra il “sistema dei valori” e l’apparato tecnoburocratico che governa la Sanità. Ecco perché i sindaci, che sono l’entità da tutti riconosciuta come intermediaria fra noi e la macchina amministrativa dello Stato, sono oggi gli unici referenti delle comunità destinati a mantenere i valori umani indenni da ogni forma di offesa. L’offesa nel nostro caso consiste nel non rispondere con empatia al sofferente che si rivolge con animo empatico alla struttura sanitaria chiedendo d’essere preso in cura. Se ai valori non si risponde con altri valori nascono la frustrazione ed il conflitto.
Dagli anni ‘90, con la fine della legge 833/78, esiste l’errore di considerare l’ospedale come un’officina che ripara malati. Ma c’è differenza. Le macchine guaste possono essere sistemate in attesa nel parcheggio al di fuori dell’officina, in una lista d’attesa senz’anima, ma ciò non vale per l’uomo. Il malato non ha bisogno solo d’essere curato; ha bisogno che altri esseri umani se ne “prendano cura”. La materia di cui è costituito il “prendersi cura dell’altro” è formata dal “tempo di dedizione”, dall’“empatia” e dalla “comunicazione”. Proprio questo è il punto: la macchina amministrativa di diritto privato e la macchina tecnologica supportata dall’intelligenza artificiale, ma con deficit di umanità, obbedisce ad algoritmi regolati dalla matematica e non entra in “comunicazione” con il sistema dei valori umani. Stiamo vedendo come siano ignorati.
L’incontro tra chi “si prende cura” e colui che viene “preso in cura” è un fenomeno estremamente complesso ed ha lo scopo di generare “soddisfazione”. La soddisfazione verrà a sua volta elaborata dai centri cerebrali della “ricompensa”, attraverso molecole chimiche dedicate. Questo sistema complesso della “ricompensa” è stato elaborato in milioni di anni, attraverso mutazioni genetiche molecolari, tutt’oggi in corso, che sono capaci di cambiarci ad ogni secondo che passa.
E’ un argomento estremamente difficile che riguarda il quesito del perché esistiamo e come comunichiamo, e che oggi è oggetto di studio delle Neuroscienze. Un quesito che 2.500 anni fa indusse i primi filosofi ad identificare l’esistenza di tre fattori della natura umana che non possono esistere in nessuna macchina, cioè: il Pathos, il Logos, l’Ethos (il sentimento, la conoscenza, e l’etica). Su questi elementi il primo medico, Ippocrate, formulò il suo giuramento.
Dopo filosofi e medici dei primi secoli intervenne il Cristianesimo, che assimilò i corpi dei malati al corpo martoriato di Cristo e sul concetto di “compassione” dette inizio alla fondazione degli ospedali in tutto il mondo occidentale. Millecinquecento anni dopo, gli scienziati Galileo, Cartesio e Leibniz posero le basi del calcolo matematico infinitesimale e furono i progenitori dell’odierna tecnologia digitale.
Uno di questi, Cartesio, oltre al calcolo matematico condusse studi sul significato ontologico del “prendersi cura di se stessi e dell’altro” sviluppando concetti messi a punto da Sant’Agostino. Nei secoli successivi, fino ad oggi, i filosofi-antropologi hanno elaborato il concetto che l’“essere” ed il “prendersi cura” sono fra loro indissolubili, e l’esistenza dell’“essere” è sintetizzato nella formula: «Io esisto perché mi prendo cura». Questo è l’essenza del significato dell’esistere degli ospedali pubblici e della stessa comunità umana.

E’ stato recentemente pubblicato un libro su questo tema straordinario scritto dalla scienziata antropologa Paola Atzeni. Il problema è talmente complesso che si comprende come non possa essere risolto da banali tecnici dell’ingegneria sociale. Platone, che fu il primo a scriverlo su “La Repubblica”, concluse che il governo delle cose umane dovesse essere affidato ai filosofi (escludendo i burocrati).
Questa digressione serve a dimostrare ciò che stiamo vedendo, e cioè che l’uomo malato non è amministrabile con la sola contabilità burocratica potenziata dall’apporto della migliore tecnologia dell’intelligenza artificiale, necessita dell’intervento della parte umana del sistema politico sanitario, con tutti i suoi valori.
E’ necessario prenderne coscienza e tornare allo spirito della legge di riforma sanitaria 833/78 che conteneva tre principi ampiamente inapplicati: Universalità, Uguaglianza, Equità. Tutti valori umani non trasferibili alla tecnocrazia.
Bisogna farlo prima che si faccia terra bruciata intorno agli ospedali di Carbonia e di Iglesias. Soprattutto, bisogna farlo prima che un’inopportuna legge in gestazione sull’“autonomia differenziata” tagli i ponti fra noi e la Nazione.
Bisogna che la Politica, stimolata dall’opinione pubblica, e tramite i sindaci capaci, riprenda in mano la gestione della Sanità ed impedisca che il mercato della salute senza Stato prenda il sopravvento.

Mario Marroccu

E’ stato presentato ieri pomeriggio, nella sala consiliare del comune di Carbonia, il libro “Corpi Gesti Stili – Saper fare e saper vivere di donne eccellenti nella Sardegna rurale” di Paola Atzeni, Ilisso Edizioni. Sono intervenuti l’antropologo Felice Tiragallo, Antonello Cabras ex presidente della Fondazione di Sardegna, Pietro Morittu sindaco di Carbonia, Antonietta Melas assessora della Pubblica istruzione, il medico chirurgo Mario Marroccu, l’imprenditrice Elisabetta Fois e apicoltrice Rosi Pilloni. Cristina e Susanna Maccioni hanno letto alcune riflessioni dell’autrice. 

Ha coordinato il dibattito Paolo Serra, direttore del Centro Servizi Culturali Carbonia della Società Umanitaria.

Al termine abbiamo intervistato Paola Atzeni.

 

Il titolo del libro “L’Europa al bivio” riguarda una pubblicazione, curata da Salvatore Cherchi e Gian Giacomo Ortu, che raccoglie gli scritti dello stesso Ortu, di Christian Rossi, Benedetto Barranu e Omar Chessa, introdotti da Cherchi. Complessivamente, offre ben più che un pamphlet informativo e di un insieme di stimoli importanti per una discussione. Per quanto preceda la guerra in corso che obbliga a ripensamenti non da poco e non solo sul piano politico-istituzionale, storico-giuridico ed economico-finanziario. Impegna, soprattutto, verso nuovi percorsi di pace nelle relazioni non solo fra gli Stati, ma anche dentro ogni Stato. A mio avviso questo testo rappresenta uno sviluppo rispetto al manifesto di Ghilarza che determinò il raggruppamento Sinistra Autonomia Federalismo (SAF). Pertanto, offre una più ampia base di riferimento, per successivi e auspicabili aggiornamenti. Anche nell’immediato questa pubblicazione stimola profonde riflessioni che riguardano ogni gruppo progressista nello schieramento di sinistre sarde, italiane ed europee, per andare oltre l’Europa al bivio, compreso il bivio della guerra nucleare, in un impegno di pace e di giustizia sociale fra gli Stati e negli Stati.

Ho imparato molto da tutti i saggi e anche dalla pregevole introduzione di Tore Cherchi. Ringrazio tutti. In particolare, noto che Tore Cherchi, rispetto al passato, presenta innovative convinzioni e nuove determinatezze con una propria e straordinaria forza culturale e politica che, purtroppo, non emerge nella palude precongressuale del Pd in Sardegna. È utile leggerlo con particolare attenzione politica, per cogliere i suoi nuovi orientamenti. Forse, bisogna pensare a quali associazioni possono promuovere qualche dibattito precongressuale, per conoscere meglio le attuali posizioni in campo nel Pd sardo.

Dico subito che ho attraversato questo testo, come antropologa, con la mia “cassetta degli attrezzi” che verifica vecchie e nuove disumanizzazioni e vecchi e nuovi assoggettamenti, insieme a certe capacità di farsi soggetti autonomi a vari livelli, più o meno istituzionalizzati: individuali e collettivi, di classe e di genere, socio-etnici e della specie umana. Leggendo questo libro ho tenuto conto, in particolare, di una certa antropologia economica e di un suo percorso. Per dirla in breve su questo settore, nel quadro del sistema-mondo, l’antropologia economica alla quale mi sono riferita è diventata antropologia della globalizzazione finanziaria, analizzando processi ed effetti del neoliberismo con innovativi approcci. Appadurai per esempio, con il suo percorso biografico e di ricerca, illustra anche un recente tragitto di questo settore. Egli studiava nel 2011 le aspirazioni democratiche che producono futuro e che richiedono riconoscimenti (Le aspirazioni nutrono la democrazia). Nel 2016, giungeva ad approfondire il filone di studi antropologici che riguarda i fallimenti tecnici, finanziari e di mercato (Scommettere sulle parole. Il cedimento del linguaggio nell’epoca della finanza derivata). Nel 2020 egli passava allo studio dei fallimenti del “finanziarismo” (Fallimento). In questo percorso considerava anche angosce e tossicità che accompagnavano la gig economy, compresi gli investimenti sul rischio e la frammentazione dei soggetti che subivano le crisi.

Di lavori precari e di dequalificazione delle persone e di certi lavori si è occupato, inoltre, David Graebner (Bullshit Jobs, A Theory 2018), antropologo americano alla London School of Economics, morto in Italia ai tempi iniziali del coronavirus. Incoraggio fortemente a osservare la più attuale e innovatrice antropologia, anche nelle riflessioni sul federalismo che vogliamo sostenere.

Vorrei, pertanto, indicare e richiamare ora alcune tematiche che riguardano i processi finanziari e gli impoverimenti dei soggetti umani fino al loro indebolimento, depotenziamento e annichilimento, insieme alle loro esperienze di resistenza e per un cambiamento democratico. Si tratta di temi che Appadurai affronta soprattutto nel suo saggio del 2016. Riguardano esperienze della frammentazione dei soggetti che per certi versi lo avvicinano ad Amartya Sen e ad Antonio Gramsci. Sono questioni presenti nel testo in discussione. Ne parla in un certo modo Giangiacomo Ortu, citando proprio Amartya Sen a proposito di Libertà individuale come impegno sociale. Non a caso si tratta di un’opera particolarmente vicina al Federalismo italiano ed europeo, a partire da Eugenio Colorni e dal Manifesto di Ventotene, in cui il rapporto problematico fra soggettività individuale e collettiva è assai consapevole e ben considerato. Si tratta di un tema di straordinaria importanza che merita di essere approfondito perché, a mio avviso, un nuovo federalismo deve chiamare in causa e implicare la vita di ogni persona, la dimensione soggettiva individuale nella creazione di un soggetto collettivo federale.

Tore Cherchi sostiene che bisogna ritornare a quel pensiero. Condivido tale affermazione, fatte salve, ovviamente, le opportune storicizzazioni su cui dovremmo avviare oggi qualche approfondimento ed effettuare qualche necessaria sottolineatura.

Parto dalle sottolineature. Riprendo due punti, fra i commenti del 1974 di Noberto Bobbio al Manifesto federalista di Ventotene. Uno riguarda la pace e il pacifismo transnazionale. Sono contenuti nella critica, propria del federalismo, alla sovranità assoluta. Questo punto concerne, inoltre, il rapporto fra il federalismo europeo e il federalismo mondiale, in attesa del quale pare a me che non ci si possa limitare alla sola cooperazione europea, per quanto importantissima, come soluzione funzionale e generatrice automatica di pace mondiale (Bobbio 2014:102):

In questo senso il pacifismo europeo non è propriamente una dottrina pacifista, non tanto perché a rigore se è valido il suo sillogismo – la causa delle guerre è la sovranità assoluta, per limitare le guerre bisogna limitare la sovranità – la conseguenza necessaria dovrebbe essere non la federazione europea ma la federazione mondiale (ideale che rimaneva, sì, sullo sfondo, ma non era diventata ancora un programma politico), ma perché la pace non viene considerata in seno al movimento federalista sin dai suoi inizi come il fine ultimo ma come il presupposto, la conditio sine qua non, per la realizzazione di altri fini considerati come preminenti, quali la libertà, la giustizia sociale, lo sviluppo economico e via discorrendo. (sottolineatura mia)

Si tratta di un punto che merita più che una sottolineatura. Per certi aspetti, ci rinvia a Piketty e a certe sue domande che precedono certe sue risposte, utili anche per precisare ora la nostra rotta. Quale federalismo? Per fare che cosa? Si tratta di domande contenute in un suo testo del 2015 che ha per titolo una principale domanda: Si può salvare l’Europa?

Prima di riprendere alcune proposte di Piketty, vale la pena di sottolineare un altro punto importante, indicato da Bobbio. Egli rimarca come il federalismo nasca nel crogiuolo della crisi e della risposta alla crisi con la Resistenza, volta a un nuovo assetto sociale. Egli, affermando il carattere storicamente inventivo della Resistenza e del federalismo, dice così (Bobbio 2014:108).

L’ideale federalistico si pone su questo terzo livello: la resistenza non come restaurazione ma come innovazione. La resistenza che deve chiudere e aprire, distruggere per costruire, essere negazione non in senso formale ma in senso dialettico. Che non deve limitarsi a vincere il presente ma deve inventare il futuro. Il federalismo fu, ed è tuttora una di queste invenzioni storiche. Per questo è legato a quel momento creativo della storia che fu la Resistenza europea. Una delle più alte coscienze della Resistenza italiana, Piero Calamandrei, scrisse: «Tutte le strade che un tempo conducevano a Roma conducono oggi agli Stati Uniti d’Europa». (sottolineatura mia)

Per quanto riguarda la crisi e il rilancio delle istituzioni europee tutti gli autori Rossi, Barranu e Chessa offrono con Tore Cherchi importanti riflessioni critiche e positivamente ponderate, senza autolesionismi. Le condivido con qualche più accentuata preoccupazione, già presente nei loro scritti. Per esempio, Benedetto Barranu mette in luce le importanti attenzioni europee ai parametri finanziari a fronte, tuttavia, della disattenzione verso gli obiettivi di integrazione economica, sociale e civile delle diverse regioni europee. Egli si riferisce a Piketty, ma se ne discosta in certa misura nell’ordine delle proposte. Sull’incremento della pressione fiscale, infatti, mi pare più forte in Piketty l’esplicitazione della progressività fiscale, sia come ordine prioritario e sia come ordine qualitativo, ordine che nello scritto di Benedetto Barranu risulta al quarto posto delle proposte. Mi pare, invece, che questo elemento della progressività fiscale sia considerato cruciale per poter combattere le disuguaglianze partendo dalla distribuzione, sia da Piketty e sia dal suo maestro Antony Atkinson.

Giungo a un punto democraticamente cruciale. Nelle diseguaglianze – come notano questi due autori e come sappiamo – quelle di genere hanno una particolare rilevanza. Tuttavia, particolare attenzione deve essere dedicata anche alle disuguaglianze interne ai generi. Infatti, debbono essere ora considerate con una nuova attenzione, che scientificamente riguarda le “intersezioni”. Detto semplicemente, si tratta di considerare i fili delle condizioni e delle posizioni non solo sociali, ma anche locali, per esempio infrastrutturali e ambientali, specialmente per le donne. Tali intersezioni sono anche individuate come socio-geo-culturali, per esempio considerando le relazioni di genere secondo il colore della pelle e secondo i contesti locali, anche di spopolamento o di abbandono o d’inquinamento. La questione delle disuguaglianze, in particolare di genere ma anche interne al genere, a mio avviso, è un punto dirimente per un nuovo federalismo democratico e partecipativo.

Nelle egemonie vecchie e nuove, considerate dal federalismo che si sta elaborando in Sardegna, pare rimanere in ombra il nesso con le nuove subalternità, generazionali e di genere, determinate dal neoliberismo, imperante anche nelle complessive politiche europee non solo con le politiche di austerità. Negli approcci federalistici finora da noi pubblicati, gli aspetti delle “nuove subalternità” sembrano ancora sottaciuti o impliciti, oscurati o fuori da ogni interesse programmatico di nuovo federalismo. Ovviamente la realtà non è sempre quella che appare e ciò vale anche in questo caso. I ritardi e gli offuscamenti, di cui sono anche io responsabile, sono di varia natura e riguardano anche vari impedimenti personali. Tuttavia, non possiamo restare insufficienti su tali aspetti.

Dobbiamo, evidentemente, fare qualcosa in più e di diverso, per promuovere, specie con studentesse e studenti, nuovi protagonismi di donne e di giovani che siano non conformistici verso chicchessia, ma seriamente rigorosi nei pensieri, nelle iniziative e nelle relazioni. In ogni caso, non possiamo essere soddisfatti di una nostra cornice concettuale generale, fatta in casa, che lascia nella stagnazione e nell’opacità tali aspetti delle nuove subalternità e delle nuove inuguaglianze, specie di genere, diffuse nel mondo ultraliberistico, incontrollato e diventato imperante.

Il federalismo che Sinistra Autonomia Federalismo (SAF) richiede, a mio avviso, proprio nel piano delle nuove subalternità e delle nuove inuguaglianze, una specifica connessione con il pensiero gramsciano sulle subalternità, operante nella cultura politica globale. Vale la pena di affermarlo proprio oggi 27 aprile, in modo non celebrativo a 85 anni dalla sua morte, ma per rivelare la vitalità concettuale e operativa di parti importanti del suo pensiero.

Forse, ma non vorrei mettere troppa carne al fuoco, la nostra riflessione può giovarsi anche di una parte del pensiero berlingueriano. Egli, infatti, guardava all’eurocomunismo e al rapporto fra democrazia e socialismo in un suo orizzonte riformista dell’Europa dei popoli, e della stessa Nato. Posso solo auspicare una riflessione collettiva su tali aspetti di rilettura dell’eurocomunismo berlingueriano. Tuttavia, è necessario ponderare ora su che cosa si può fare di più e meglio in merito alle nuove subalternità e alle nuove inuguaglianze di genere e nei generi, nel nostro progetto di un “democratico federalismo sociale”.

Vorrei tornare ora alle inuguaglianze, perché credo che queste debbano essere declinate non solo a scale limitate in Sardegna, in Italia e in Europa. Penso che le inuguaglianze debbano essere inserite anche in più ampie scale transnazionali, cercando di individuare legami tematici trasversali, dalle politiche di genere a quelle ambientali. A mio avviso, infatti, è necessario far emergere un federalismo sociale, nuovo e avanzato democraticamente, in cui le nuove subalternità e le nuove inuguaglianze siano individuate e connesse fra loro secondo specifiche trasversalità e in cui la pace sia, non presupposta, ma un obiettivo permanente e mai definitivamente compiuto. Penso a un federalismo sociale europeo, gramscianamente aperto al mondo

Nel quadro delle nuove subalternità, credo che tutte e tutti noi dobbiamo dare continuità e sviluppo a un altro versante dell’impegno di Sinistra Autonomia Federalismo, avviato con Laura Pennacchi il 26 novembre 2018, per ripensare la crisi capitalistica, la socializzazione degli investimenti e la lotta agli impoverimenti attraverso la promozione del buon lavoro per tutte e tutti. L’iniziativa del novembre 2018 corrispondeva in parte, sul piano scientifico, al titolo del libro dell’economista keynesiano Hyman Philip Minsky, edito nel 2014, Combattere la povertà. Lavoro non assistenza, in cui Laura Pennacchi pubblicava un saggio introduttivo. In questo testo, come in altri impegni di questa studiosa, si affermava con particolare forza l’importanza dell’autonomia culturale nelle esperienze lavorative in cui i soggetti diventavano autonomamente protagonisti attivi di un cambiamento democratico.

Vorrei, mantenendo il focus sul lavoro, metter l’accento sul fare, sul fare immediatamente possibile che sia Piketty e sia Atkinson rendono evidente per realizzare un’Europa caratterizzata dalla democrazia ugualitaria e dal federalismo sociale. In questa Europa il buon lavoro per tutte e per tutti è un obiettivo fondamentale. Si tratta, infatti, di promuovere un democratico federalismo sociale in cui il lavoro viene garantito a chi lo chiede.

Parto da Atkinson (2015:307-308). Il titolo Sulla disuguaglianza ha come sottotitolo la domanda Che cosa si può fare? La parte finale del testo indica La strada che ci sta davanti. In questa parte egli delinea vari percorsi per andare avanti ed esplicita 15 proposte che è ora impossibile riportare o riassumere. Ne vorrei selezionare alcune, a titolo esemplificativo.

La proposta n. 3 recita: Il governo deve adottare un obiettivo esplicito per prevenire e ridurre la disoccupazione e deve sostenere tale obiettivo offrendo un impiego pubblico garantito a salario minimo a quanti lo cercano.

La proposta 8 dice: Dobbiamo tornare a una struttura di aliquote più progressiva per l’imposta sui redditi delle persone fisiche, con aliquote marginali crescenti per scaglioni di reddito imponibile, fino a un’aliquota massima del 65%, il tutto accompagnato da un ampliamento della base imponibile.

I due punti sono evidentemente connessi, ma vado in fretta e richiamo ancora qualche punto dell’elenco, rinunciando alle esplicitazioni. Per fare progressi democratici egli prevede: al punto 9 uno sconto sui redditi da lavoro; al punto 10 eredità e donazioni con imposta progressiva; al punto 11 l’imposta progressiva sugli immobili, basata sulla valutazione catastale aggiornata; al punto 15 l’assistenza allo sviluppo dei Paesi poveri da parte di quelli ricchi, elevata all’1% del reddito nazionale lordo. Si tratta di questioni all’ordine del giorno anche in Italia.

L’approccio dinamico di Atkinson, teso realisticamente al fare possibile, si riscontra anche nel suo allievo Piketty. Quest’ultimo, con altri studiosi, nel 2017 pubblicò un pamphlet: Democratizzare l’Europa! Per un Trattato di democratizzazione dell’Europa. Egli considerava la fattibilità politica di tale trattato, per la governance economica dell’eurozona. Valutava i possibili cambiamenti dell’assemblea dell’eurozona, anche di fronte a un rifiuto di vari partner. Prospettando un’alleanza fra Francia, Spagna e Italia, forniva una bozza di tale trattato di 22 articoli, che merita indubbiamente un’attenzione particolare, ora impossibile.

Successivamente, nel suo libro edito nel 2020, Capitale e ideologia, Piketty (2020:61) affermava che intendeva «delineare i contorni di un socialismo partecipativo e di un socialfederalismo basato sulle lezioni della storia». Ciò richiedeva, a suo avviso, una ridefinizione radicale dei fondamenti programmatici che sostengono le attuali categorie politiche, intellettuali, ideologiche. Si tratta di affermazioni che hanno per noi un particolare interesse, in questa occasione e in questo clima politico-culturale. Soffermandosi sulle esperienze antidiscriminatorie in India e analizzando l’esperienza delle quote sociali e di genere, egli affermava (Piketty 2020: 414).

Quando un gruppo sociale è vittima di pregiudizi e di stereotipi antichi e consolidati, come le donne un po’ in tutto il mondo o come gruppi specifici nei diversi paesi (per esempio, le caste inferiori in India), di fatto risulta insufficiente organizzare la redistribuzione unicamente in funzione del reddito, del patrimonio o del titolo di studio. In questi casi può essere necessario introdurre sistemi di accesso preferenziale e apposite quote (come le “quote riservate” in ambito indiano) basate sulla pura e semplice appartenenza a specifici gruppi. (sottolineatura mia)

Egli considerava che nel 2016 erano 77 i Paesi che utilizzavano sistemi di quote specifiche per aumentare la rappresentanza femminile nelle assemblee legislative, mentre le democrazie elettorali dei Paesi ricchi registravano la forte diminuzione dei deputati che appartenevano alle classi popolari, in particolare operai e impiegati. Altri problemi di inuguaglianza riguardavano, a suo avviso, gli accesi preferenziali all’istruzione secondaria e universitaria. Idealmente, nella sua concezione il sistema di quote dovrebbe includere e contemplare anche le condizioni del proprio superamento. Comunque, direi che tali problemi di disuguaglianza di genere, in quanto questioni di alto profilo democratico, riguardano anche un nuovo e democratico sociale federalismo della Sardegna, nella disuguaglianza compiuta e nell’uguaglianza incompiuta che caratterizza il XXI secolo. Le inuguaglianze di genere riguardano, fra l’altro, divari salariali occultati in vari modi, ancora persistenti perché le sinistre politiche e sindacali, specialmente in Italia, a mio avviso non le hanno affrontate in modo storicamente adeguato.

Le possibilità di un innovativo e democratico federalismo sociale europeo sono reali e di ampia portata, per Piketty (2020: 1009). Indurre certi Stati alla perdita del privilegio del diritto di veto non sarà facile. Tuttavia, secondo questo studioso, si può insistere sulla regola della maggioranza qualificata per le deliberazioni sui temi fiscali e di bilancio.

Nel raccordo fra sovranità parlamentare europea e sovranità parlamentari nazionali, egli sostiene, bisogna pensare a un vero e proprio trattato per democratizzare l’Europa con un asse costituito da 4 importanti imposte comunitarie: 1 una tassa sugli utili delle società, una sugli alti redditi, una sui patrimoni elevati, una sulle emissioni di CO2. I proventi potrebbero essere così ripartiti: una metà trasferiti agli Stati per diminuire il prelievo che grava sulle classi popolari e medie, l’altra metà per la transizione energetica, per la ricerca e la formazione, per agevolare l’integrazione dei migranti e renderla più condivisa.

Il progetto del federalismo sociale di Piketty è teso verso il futuro. Inoltre, contiene interessanti proposte operative per risolvere il problema della crisi del debito pubblico che probabilmente ora aumenterà, date le guerre in corso. Il suo approccio di federalismo sociale è indirizzato a un gruppo di Paesi europei che intendano attuare un’unione politica e fiscale migliorata e potenziata, che egli chiama Unione Parlamentare Europea per distinguerla dalla attuale Unione europea. Tali Paesi europei possono operare senza metter in discussione l’Unione a 27 Stati, mettendo nel conto l’ovvia opposizione dei Paesi che praticano il dumping fiscale. Tuttavia, si può procedere anche gradualmente, ma tenacemente.

Nei limiti della sintesi necessariamente sommaria che ho potuto abbozzare, alcune proposte di Piketty possono apparire radicali. Invece si iscrivono nel filone del socialismo democratico, superandone varie debolezze in cui certe opzioni socialdemocratiche avevano di socialista solo il nome, come egli dice a un certo punto di quel testo del 2020.

Gli argomenti da lui esposti sotto le etichette del socialismo partecipativo e del federalismo sociale, in realtà, riprendono sviluppi culturali che riguardano i cambiamenti delle disuguaglianze, osservabili in varie parti del mondo, che egli colloca in un’ampia prospettiva storica e mondiale. Si tratta anche di elementi suscettibili di sviluppi culturali che spesso appaiono, anche in contesti limitati, come repertori di idee di equità o come tracce democratiche, a cui attingere nei momenti di crisi.

Su questo piano frammentato, ma che può essere germinativo di cambiamenti democratici, egli afferma di essere condizionato nel suo punto di vista e nel suo percorso personale, dal suo background familiare. Ha visto le sofferenze delle sue due nonne per il modello patriarcale, subito dalla loro generazione. Una, scontenta della sua vita borghese, scomparve prematuramente. L’altra era domestica di campagna già a 13 anni, durante la seconda guerra mondiale. Da una delle bisnonne, invece, Piketty ha avuto i sofferti racconti delle guerre.

Questa genealogia culturale familiare che accomuna acute e storiche sofferenze di donne, a cui egli ricorre giungendo alla fine del libro, dà un senso alle sue opere germinate dalle relazioni intime e affettive con le donne della famiglia. A tali relazioni egli si riferisce per risolvere le nuove subalternità e le nuove disuguaglianze di genere. Attinge da tale genealogia di donne, e dalle loro sofferenze, l’impegno per un federalismo sociale culturalmente partecipato proprio dalle donne con le proprie storie, le proprie motivazioni, le proprie urgenze, individuali e di gruppo.

Le domande e le risposte contenute nel libro curato da Salvatore Cherchi e Gian Giacomo Ortu riguardano un’Europa al bivio delle crisi democratiche e della guerra. Interessano anche quale federalismo scegliamo di realizzare e per che cosa. Fanno, però, sentire la mancanza di un nuovo federalismo sociale, democraticamente partecipativo, che deve necessariamente passare attraverso un ineludibile e urgente scrutinio delle politiche di genere, anche nei nostri impegni locali.

Paola Atzeni