5 December, 2025
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Sono trascorsi più di 40 anni dalla scomparsa di Pietro Doneddu (30 novembre del 1984) e più di 100 anni dalla sua nascita, eppure le due ricorrenze entrambe nel 2024 sono passate inosservate nella nostra città, anche a chi scrive oggi queste righe. Questo scritto, non rimuove evidentemente “un’innocente dimenticanza”, ma vuole essere un modesto contributo per riproporre all’attenzione una figura che nella storia cittadina – come vedremo – non è stata effimera, ma ha lasciato un segno concreto del suo passaggio, nelle diverse attività in cui si è cimentato. Pietro Doneddu, confidenzialmente Piero per amici e compagni, era nato a Pattada il 10 ottobre del 1924, giunge a Carbonia negli anni ’50 docente al Liceo Classico Antonio Gramsci come professore di Storia e Filosofia.

Gli anni ’50 per la Città di Carbonia furono particolarmente drammatici, le difficoltà insorte nel settore carbonifero dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale e la costituzione della CECA, subirono un ulteriore accelerazione nel 1955, con il provvedimento delle Superliquidazioni promosso dalla Carbosarda, al quale seguì negli anni successivi, una fortissima emorragia degli occupati, con una ripresa dei flussi di emigrazione verso le Miniere dell’Alta Lorena in Francia, della Vallonia in Belgio e della Ruhr in Germania e nelle città del triangolo industriale del Nord Italia. Nonostante tutto ciò Carbonia rimarrà per almeno un altro decennio la terza Città della Sardegna, con un destino sempre in bilico tra speranza di riscatto e il pericolo di venire cancellata, rischio scongiurato dalla realizzazione del Polo Industriale di Portovesme.
E’ in questa cornice drammatica, che matura la scelta di Doneddu di aderire al Partito Comunista Italiano tanto da diventare in pochi anni, uno dei più autorevoli rappresentanti nelle battaglie per l’Autonomia e la Rinascita della Sardegna. Viene candidato ed eletto alle elezioni comunali del 27 maggio 1956 è nominato assessore comunale di Carbonia in una giunta guidata da Pietro Cocco. L’esperienza di assessore dura sino alla data delle dimissioni da sindaco di Pietro Cocco il 18 novembre 1958 per ricoprire l’incarico di segretario regionale della CGIL, e in sua sostituzione Doneddu viene eletto sindaco il 24 novembre del 1958.
Le dimissioni di Cocco e l’elezione di Doneddu sono sostanzialmente legate alle dinamiche politiche interne al PCI di quegli anni, in questo ebbero un peso rilevante in questo, gli avvenimenti internazionali, il loro riflesso su scala nazionale e locale: il rapporto Kruscev al 20° congresso del PCUS, i fatti di Ungheria e l’VIII Congresso del PCI nel 1956, i cui effetti, complice anche un arretramento del PCI alle elezioni regionali del 1957, produssero un avvicendamento nel gruppo dirigente comunista sardo. Velio Spano venne sostituito nell’incarico di segretario da Giovanni Lay, nel contempo si affermò un nuovo gruppo dirigente legato a Renzo Laconi, del quale lo stesso Doneddu era espressione. Ne ho ricevuto riprova da Ugo Piano al quale il suo amico Piero, aveva riferito di aver ricevuto proprio da Laconi gli stimoli e la sollecitazione per un impegno politico militante nelle fila del PCI. Doneddu viene rieletto Sindaco alle elezioni comunali del 1960 e rimane in carica sino alla data delle sue dimissioni il 17 luglio del 1963, motivate dall’esigenza di dedicarsi interamente alla professione. Verrà sostituito nell’incarico da Antonio Saba.
Vorrei soffermarmi brevemente su alcuni momenti significativi della sua esperienza alla guida del Comune, sono gli anni dell’avvio del primo Piano di Rinascita della Sardegna per il quale il contributo del comune di Carbonia e dei suoi cittadini è stato rilevantissimo. Il richiamo di questa aspirazione è sempre stato presente nelle sua azione politica, dove Carbonia come nella sua tradizione, svolge un ruolo e una funzione che supera i suoi confini amministrativi, ne sono una testimonianza i suoi interventi in particolare quello pronunciato in occasione della posa della prima pietra della Supercentrale di Portovesme: «Questo problema ora può essere affrontato e può essere risolto, con la creazione di nuove attività industriali che traggano dal basso costo dell’energia la convenienza all’installazione dei loro impianti in questa zona. E’ una vecchia aspirazione di Carbonia e del Sulcis la realizzazione di un’area di sviluppo industriale sulla base della legislazione per il Mezzogiorno che promuova il sorgere di nuove attività e operi perché si trasformino le condizioni economiche e sociali di questi centri».
Si trattava dell’oramai imminente realizzazione dell’area industriale di Portovesme, questo obiettivo costituiva per lui un assillo costante, ne ricaviamo conferma dall’ascolto di uno dei pochi documenti audiovisivi che lo riguardano, un’intervista al rotocalco settimanale d’inchiesta della Rai, TV7, reperibile sul Web, dal titolo “Sardegna-Carbonia: la città del carbone sbagliato”.
Si tratta di una speranza che in concreto guardava lucidamente agli avvenimenti in corso sulla scala nazionale, di lì a poco nel 1962 avverrà la nazionalizzazione dell’energia con la nascita dell’ENEL e sempre nello stesso anno avrà inizio l’attività dell’ EFIM (Ente partecipazioni e finanziamento industrie manifatturiere) alla cui guida verrà chiamato l’avvocato Pietro Sette, già presidente della Carbosarda, dalla cui costola in seguito nasceranno Alsar ed Eurallumina, le principali aziende per la produzione dell’alluminio primario in Italia.
E’ sufficiente, infatti, scorrere le cronache dei giornali dell’epoca (in particolare sulla pagina regionale dell’Unità) per avere conferma del ruolo decisivo dei minatori di Carbonia, per la costruzione della Supercentrale e la realizzazione del Polo Industriale di Portovesme. A questo proposito, vorrei segnalare un inchiesta giornalistica sulla Sardegna a cura di Indro Montanelli, in un capitolo dal titolo: La Supercentrale, nella quale il giornalista, si esprime con un tono non proprio benevolo a proposito di Carbonia e del suo destino, ne ripropongo fedelmente alcuni stralci, l’incipit non è dei più promettenti: «La città a cui esso ha dato il nome è la più triste e squallida di tutta la Sardegna. La investe e la scuote il forte vento dell’Ovest, che vi si carica di un pulviscolo giallo. Sembra qualcosa di mezzo fra un concentramento di profughi e un albergo mal costruito. Le case sono nere e sordide, con l’intonaco che cade a brandelli sotto gli schiaffi del libeccio. Unica nota umoristica, ma che evoca più il ghigno che il sorriso, l’insegna di un caffè che, da “Caffè dell’Impero”, è stata epurata in “Caffè del Pero” per risparmiare la vernice».
In un altro capoverso, però, si sofferma sulla figura del sindaco e si pronuncia con toni davvero lusinghieri nel modo seguente: «Chiudere tutto significa condannare a morte Carbonia: che è una brutta città, costruita sul nulla, ma dove, dei 47.000 abitanti del ’51, ne sono ancora rimasti 35.000. Il sindaco è un professore di scuola media comunista, Doneddu, e bisogna onestamente riconoscere che, nelle condizioni peggiori, amministra nel modo migliore. Il borgo è povero. Vive di seimila occupati e di cinquemila pensionati. Eppure possiede l’ospedale e le scuole meglio tenute dell’isola. Dico malvolentieri queste cose, ma debbo dirle, a monito di tante amministrazioni democristiane che, in condizioni molto più vantaggiose, non sanno fare altrettanto (eppoi si arriva ai risultati elettorali che sappiamo)».
La famiglia Doneddu si è distinta in città a partire dai primi anni ’60, anche per la sua attività imprenditoriale, infatti conclusa l’esperienza amministrativa, coniuga il ritorno alla sua precedente attività professionale che era l’insegnamento, con la conduzione di un’azienda agricola, ubicata nell’agro del comune di San Giovanni Suergiu e destinata alla produzione di pollame da carne e produzione ovicola e un’altra linea dedicata all’attività florovivaistica. Rimarrà impegnato in questa attività sino alla sua scomparsa. Nonostante il distacco netto dall’impegno politico, Doneddu ha mantenuto costante nel tempo, il suo impegno sociale e civile con un attenzione particolare verso situazioni di fragilità attraverso l’interazione con l’E.C.A. (Ente Comunale Assistenza) al quale, con assiduità effettuava delle donazioni materiali da destinare agli strati di popolazione più povera e bisognosa del Comune.
Era dotato di un profilo intellettuale e di una sensibilità culturale molto elevati, è sua la decisione, tra i primi in Sardegna, di istituire nel 1959 la Biblioteca Comunale, concorrendo, con un importante contributo personale, alla donazione di 4.000 volumi circa. La decisione assunta dalla Giunta a guida di Giuseppe Casti nel 2016 di intitolare al suo nome la Biblioteca Comunale di Carbonia, è stato un riconoscimento tangibile della sua opera e una decisione apprezzabile e appropriata.

Tra le principali passioni coltivate da Doneddu vi è stata inoltre l’archeologia, ne fornisce un’accurata descrizione nella guida del Museo Archeologico di Villa Sulcis, Luisa Anna Marras: «Quindi oltre ai materiali riferibili agli scavi di Monte Sirai, gli altri due nuclei espositivi più consistenti del Museo sono rappresentati dalle collezioni Doneddu e Pispisa. Si tratta di due interessanti e cospicue raccolte, composte da oggetti cronologicamente e tipologicamente assai diversi tra di loro, rinvenuti in scavi archeologici o recuperati più o meno avventurosamente da scavi clandestini, oppure frutto di raccolte di superficie effettuate durante decenni di ricerche, L’origine di tutti questi materiali è prevalentemente di ambito sulcitano [… ] La collezione Doneddu è composta da circa duecento oggetti riferibili a diversi ambiti culturali e cronologici. Raccolti dal Prof. Pietro Doneddu, un tempo anche Sindaco di Carbonia, alla sua scomparsa i materiali sono stati donati a Museo dalla famiglia».
Al di là delle cronache dei giornali dell’epoca, non sono disponibili che poche testimonianze scritte a sua firma, tra le quali segnalo, “Carbonia Città di domani” pubblicato nell’edizione Speciale di Rinascita Sarda del 1958 dedicata ai vent’anni di Carbonia (di cui alleghiamo copia del testo) e del discorso inaugurale per la cerimonia della posa della prima pietra della Supercentrale di Portovesme. Scrisse due volumetti, entrambi per conto di Loescher editore Torino, dal titolo: “La produzione mineraria in Italia” e “Le foreste in Europa”, disponibili nella Biblioteca Comunale.
Ho scritto questo breve ricordo con un auspicio e un invito – che vale innanzitutto per me stesso – rivolto a rinnovare l’attenzione sulle principali vicende vissute della nostra città e delle tante personalità che si sono distinte in positivo in tempi difficili della sua breve storia. E la figura Pietro Doneddu è stata indiscutibilmente tra queste.

Antonangelo Casula

 

Discorso del sindaco di Carbonia prof. Pietro Doneddu in occasione della cerimonia della posa della prima pietra del complesso elettrico del Sulcis

Eccellenze, Onorevoli, Signor Presidente della Carbosarda, Signore e Signori, Lavoratori di Carbonia e del Sulcis, io ho l’onore di esprimere oggi qui la soddisfazione della nostra città per l’opera che si inizia.
La nostra città del lavoro saluta questo giorno che permette il termine di un lungo periodo di difficoltà, di insicurezza per il lavoro dei suoi operai, di sacrifici per la sua popolazione, di strettezze per la sua economia, di attese e di delusioni.
La nostra città saluta il complesso che sorge e che può porre le condizioni perché muti una triste realtà e nuovi orizzonti si schiudano per il nostro avvenire.
Oggi si avviano concretamente a soluzione i problemi dell’utilizzazione integrale del carbone, dell’assestamento dell’Azienda e della stabilità del lavoro dei dipendenti.
Ed è un gran passo questo nella storia della nostra comunità operaia e della Sardegna. Un primo passo, fondamentale, necessario perché si possano affrontare e risolvere i gravi problemi di questa nostra terra e della nostra gente e in primo ordine il problema della creazione di posti di lavoro per le diverse migliaia di disoccupati di Carbonia e degli altri centri del Sulcis e per l’assorbimento delle nuove leve del lavoro.
Questo problema ora può essere affrontato e può essere risolto, con la creazione di nuove attività industriali che traggano dal basso costo dell’energia la convenienza all’installazione dei loro impianti in questa zona. E’ una vecchia aspirazione di Carbonia e del Sulcis la realizzazione di un’area di sviluppo industriale sulla base della legislazione per il Mezzogiorno che promuova il sorgere di nuove attività e operi perché si trasformino le condizioni economiche e sociali di questi centri.
A tal fine non può bastare l’intervento sia pure generoso dell’Istituto Regionale, si ha bisogno della più larga capacità dello Stato, ed è giusto sia esercitata nel quadro di attuazione del Piano di Rinascita per la Sardegna, nel cui progetto, invece, non è prevista un’area di sviluppo per il Sulcis. E’ giusto che questa lacuna venga colmata e che abbia inizio qui la strada della Rinascita Sarda.
Su questa strada faticosa che il popolo sardo deve percorrere per rinnovare la sua realtà economica e la sua realtà umana, Signor Presidente della Regione, saranno in cammino insieme agli altri sardi i nostri operai spinti dalla loro sete di giustizia e forti della loro coscienza autonomistica.
Onorevole Ministro, io La ringrazio di essere venuto qui tra i nostri minatori e così ringrazio tutti quanti sono venuti qui e hanno voluto prendere parte al risorgere delle nostre speranze; e mi dispiace non poter rivolgere, perché sarebbe troppo lungo, il ringraziamento segnatamente a tutti, e Le assicuro Signor Ministro che i nostri operai, i nostri tecnici, tutti i cittadini del nostro Paese, vogliono avere nel complesso termoelettrico che oggi si inizia a realizzare, uno strumento per legare il loro contributo di lavoro, di intelligenza, di responsabilità, all’attività che nelle altre parti d’Italia si sviluppa per raggiungere una comune prosperità.
Amici operai tecnici, voi avete estratto il carbone quando l’Italia rovinata dalla guerra ne aveva bisogno per alimentare i resti dei suoi impianti industriali e per rimuovere le sue macchine; l’avete estratto anche quando il nostro carbone è stato deprezzato e respinto; estraetelo d’ora in avanti, con maggiore energia e con fierezza per dare alla nostra isola la forza per la sua rinascita e per consentirle di avanzare verso i livelli delle regioni più progredite e fortunate.
Portovesme 30 ottobre 1960

 

Il 7 ottobre del 1964, sessant’anni fa, moriva a Roma Velio Spano. Era nato a Teulada il 15 gennaio del 1905 e dopo aver trascorso la gioventù al seguito della sua famiglia a Guspini, dove suo padre era segretario comunale, aderisce ancora studente al Partito Comunista d’Italia.
La svolta decisiva della sua vita, raccontata nel saggio “Gramsci Sardo”, pubblicato nel 1937 in occasione della morte di Antonio Gramsci, avviene quando si reca a Roma per gli studi universitari, ed è in quel tempo che conosce e inizia la frequentazione di Antonio Gramsci. Durante la permanenza romana condivide con Altiero Spinelli la direzione del gruppo comunista universitario, successivamente entra in clandestinità a causa della messa al bando dei partiti ad opera del regime fascista, svolgendo la sua militanza politica al nord prevalentemente a Torino.
Sottoposto ad una stretta sorveglianza dell’Ovra nel 1928 viene arrestato e condannato dal Tribunale Speciale fascista, viene scarcerato nel 1932 a seguito dell’amnistia concessa in occasione del decennale dalla “Marcia su Roma”. Da qui inizia una lunga vicenda umana e politica che lo vedrà impegnato su diversi fronti: protagonista della lotta antifascista in Italia e, su incarico del partito, all’estero prima in Francia, successivamente in Spagna con le Brigate Internazionali guidate da Luigi Longo contro le milizie fasciste di Francisco Franco e successivamente in Tunisia contro il regime del maresciallo Petain.
L’esperienza africana è indubbiamente quella più rilevante, nel 1935 lo troviamo impegnato in Egitto a svolgere attività contro la guerra coloniale in Etiopia, tra le truppe italiane di passaggio a Suez, nel 1937 in Spagna, nel 1938 viene inviato dal partito in Tunisia dove svolgerà nel corso degli anni un ‘azione di resistenza contro i nazifascisti a fianco di eminenti figure politiche: Giorgio Amendola, Maurizio Valenzi (che diverrà negli anni ‘70 sindaco di Napoli), Loris, Ruggero, Diana e Nadia Gallico, Marco Vais, i fratelli Bensasson, per citarne alcuni tra i più noti. E’ in questo frangente che sposerà Nadia Gallico che diverrà la sua compagna di lotte e di vita.

Nell’esperienza tunisina esercita in clandestinità l’attività di giornalista e sotto lo pseudonimo di Antiogheddu pubblica diversi articoli rivolti anche alle vicende sarde con un’attenzione particolare alla neonata Carbonia e ai minatori del bacino minerario.
Il Governo di Vichy alleato dei nazifascisti, lo condannerà a morte per due volte in contumacia. A questo proposito vorrei ricordare un curioso aneddoto relativo all’ incontro con il Generale De Gaulle capo della resistenza francese, il Generale francese si presentò al suo interlocutore, con la seguente frase: «Piacere Charles De Gaulle una condanna a morte”, ottenendo in risposta “Velio Spano, due condanne a morte».
Ritornato in Italia dopo l’armistizio, esercita nel Sud Italia, appena liberato, una funzione politica rilevante, partecipa nel gennaio del 1944 al Congresso di Bari all’incontro dei Comitati di Liberazione Nazionale, in rappresenta della delegazione del PCI, insieme ad Eugenio Reale e Marcello Marroni.
Dopo la proclamazione della Repubblica sarà eletto nell’Assemblea Costituente che darà vita alla Costituzione Repubblicana nel 1948, della stessa farà parte sua moglie Nadia Gallico Spano. Una piccola parentesi su Nadia (nella foto) che ho avuto l’onore di conoscere da giovane militante comunista, in occasione delle sue frequenti visite a Carbonia, di lei vorrei sottolineare oltre all’attività di direzione politica esercitata in Sardegna, l’importante funzione politica e sociale nel partito sulla scala nazionale, tra le masse popolari, nelle borgate romane e un’importante attività di organizzazione di salvataggio da fame e miseria di bambini meridionali e sardi pregevolmente testimoniata nel libro: “Cari bambini vi aspettiamo con gioia” e successivamente nella sua autobiografia “ Mabruk”.

Velio Spano fu il primo comunista italiano a recarsi in Cina nel 1949 dove si trattenne per diversi mesi e fu autore per il quotidiano del Partito l’Unità di diversi reportage sulla Rivoluzione Cinese e la conclusione vittoriosa della “Lunga Marcia di Mao Tse Tung”. Nel corso di questa esperienza ebbe modo di entrare in relazione oltre a Mao, con alcuni dei principali dirigenti che segneranno la storia cinese sino alla fine del novecento, Ciu en Lai e Deng Xiao Ping.
Una biografia, la sua, troppo ricca ed impegnativa da raccontare in questo breve spazio per cui mi permetto
di suggerire a chi intendesse approfondirne l’opera ed il pensiero, la lettura di due testi pubblicati dall’editore della Torre nel 1978, a cura dello storico sassarese Antonello Mattone: “Vita di un rivoluzionario di professione” e “Per l’unità del popolo sardo”, ai quali si aggiunge una pubblicazione monografica di Rinascita Sarda del 1994 a trent’anni dalla sua morte, a cura di Giorgio Caredda e Giuseppe Podda, oltre ovviamente ai discorsi parlamentari e alla corposa pubblicazione di articoli sull’Unità, Rinascita, libri e giornali.
L’associazione “Amici della Miniera” in collaborazione in collaborazione con “CSC Umanitaria Fabbrica del Cinema”, il “Circolo Soci Euralcoop”, la “Sezione di Storia Locale di Carbonia”, con le istituzioni locali e con la rete di associazioni che opera nella città, ha deciso di ricordarlo con un convegno nel quale si evidenzia la sua vicenda politica anche attraverso l’ausilio di una mostra di fotografie, giornali e documenti storici suddivisa in diverse sezioni distinte che mettono in evidenza la sua vita attraverso le immagini fotografiche, l’impegno politico dai resoconti dei giornali, il viaggio in Cina nel 1949, Carbonia e lo sciopero dei 72 giorni del quale fu insieme ai minatori, uno dei principali protagonisti, la morte nel 1964 per finire con la sua produzione letteraria.
Velio Spano verrà eletto il 18 aprile del 1948 senatore della Repubblica nel collegio minerario, ma ciò che legherà indissolubilmente la sua figura alla città di Carbonia sarà determinato da un altro avvenimento storico, l’attentato al segretario del Partito Comunista Italiano Palmiro Togliatti (nella foto in un comizio tenuto in piazza Roma, a Carbonia), il 14 luglio del 1948.


A seguito di questo efferato episodio, in tutta Italia si verificarono tumulti, moti di piazza e scontri con le forze dell’ordine, tanto da temere una “ guerra civile” e solo l’invito alla calma da parte di Palmiro Togliatti dal letto dell’ospedale fu decisivo per la loro cessazione; in questo stato di cose Carbonia non costituì un eccezione e bisogna ricordare – tenuto conto doverosamente del contesto in cui si svolsero – che, purtroppo, avvennero anche fatti di degenerazione esecrabili, mi riferisco in particolare alla vicenda dell’aggressione di Fiorito a Bacu Abis nonché a episodi di disordini scoppiati in città.
Tale insieme di circostanze innescò il pretesto per un’azione repressiva della Polizia guidata dal commissario Antonio Pirrone – un passato da fascista e Repubblichino – che culminò con la decapitazione del gruppo dirigente amministrativo, politico e sindacale della città di Carbonia.
Furono spiccati, infatti, mandati di cattura per Renato Mistroni (nella foto in occasione del 50° della città di Carbonia) primo sindaco della città, per Antonio Selliti segretario della Camera del lavoro, che riuscirono ad espatriare in Cecoslovacchia e per Silvio Lecca rappresentante del Partito Sardo d’Azione.

Sono questi anni che verranno ricordati in tutto il paese per l’azione di repressione del movimento operaio e sindacale da parte della Polizia del ministro degli Interni guidata da Mario Scelba.
E’ in questa temperie che Velio Spano che nella sua qualità di senatore della Repubblica godeva dello status dell’immunità parlamentare, viene chiamato a ricoprire l’incarico di segretario della Camera del lavoro e del movimento dei minatori di Carbonia.
Le cronache dei giornali dell’epoca sono utili a ricostruire il clima poliziesco nel quale si operava, già a settembre del 1948 il predetto commissario Antonio Pirrone disperdeva con l’uso della forza pubblica un comizio di Velio Spano e tratteneva arbitrariamente lo stesso, in uno stato di fermo per diverse ore, prima negli uffici del Comune e successivamente dell’Albergo Centrale, vicenda che si concluse con l’intervento di un ufficiale dei carabinieri pienamente consapevole dell’abuso del commissario Antonio Pirrone.
Analoga vicenda si manifestò in occasione di un comizio nel settembre del 1949, questa volta protagonista Nadia Gallico Spano anch’ella parlamentare, circostanza descritta fedelmente nell’edizione sarda dell’Unità del 2 settembre. Ne conseguì anche in questo caso una denuncia alla magistratura per abuso e violazione dei compiti di istituto disciplinati dalla legge e a fine anno del 1949 il commissario Antonio Pirrone concluse la sua esperienza in città e venne opportunamente trasferito da Carbonia a Messina.
Negli anni del primo dopoguerra quindi, Velio Spano con l’elezione a segretario regionale assume in Sardegna un ruolo fondamentale nella direzione del Partito Comunista e nella battaglia per l’Autonomia alla quale imprime una svolta decisiva Palmiro Togliatti nel 1947 con lo storico discorso alle Manifatture Tabacchi alla conferenza dei comunisti sardi. E’ in questo contesto che Velio Spano già affermato dirigente nazionale, diviene insieme a Renzo Laconi (nella foto), il principale interprete nella costruzione del partito nuovo e di una nuova cultura autonomistica in Sardegna.


Mi pare significativo, a questo proposito, richiamare un giudizio esterno relativo a quegli anni, contenuto in un libro a cura di Eugenia Tognotti “Americani comunisti e zanzare”. Nello specifico si tratta di una relazione datata 7 gennaio 1949 (siamo a meno di un mese dalla conclusione dello sciopero dei 72 giorni) commissionata dalla Fondazione Rockfeller che realizzava attraverso l’Erlaas la lotta antimalarica in Sardegna, dalla quale emerge un giudizio su Spano abbastanza lusinghiero considerando che, lo stesso documento con molta probabilità fu redatto da agenti dell’Intelligence USA, del quale riassumo un breve stralcio e del quale segnalo un’imprecisione, Spano non fu mai in Russia in quel periodo: «Ad un certo punto ci fu anche un movimento in favore di un partito comunista sardo separato dal PCI nazionale. Questa situazione venne presto corretta da Velio Spano (alias Paolo Tedeschi) che durante il suo esilio dall’Italia si era impegnato in un’intensa attività politica e di reclutamento nell’Europa Occidentale in Russia e nel Nord Africa. Rapidamente e con grande energia costruì un’organizzazione efficiente, eliminando ogni tendenza alla deviazione o al separatismo. Di conseguenza il PCI in Sardegna è particolarmente sensibile ad ogni accenno di autonomia ed è rigidamente controllato dal quartier generale del partito. Velio Spano che è un sardo del sud di origine medio-borghese, ha una visione molto lucida dello scenario politico sardo: negli anni cruciali del 1945/46 che videro la rapida espansione del comunismo in tutta Italia, il partito in Sardegna ha fatto dei rapidi progressi sotto la sua direzione, specialmente nel Sulcis, dove la politica di infiltrazione in posizioni di prestigio nei sindacati dei minatori, è stata particolarmente efficace».
Potrebbe apparire singolare un’attenzione così interessata da parte americana verso la sinistra e i comunisti, ma dalla lettura di documenti declassificati di recente, provenienti dal National Archives di Washington, provano l’attenzione alle vicende del bacino minerario di Carbonia e Iglesias ebbe inizio fin dal settembre del 1943 dopo l’armistizio e proseguì ininterrottamente nel tempo.
Spano si afferma quindi come una personalità di grande spessore politico ed intellettuale ed è dotato di un carisma riconosciuto nella sua organizzazione politica, tra i minatori, ma lo è altrettanto dai suoi avversari che ne hanno timore e rispetto, c’è tra le altre una vicenda che mi piace ricordare, riguarda il contraddittorio tra Padre Lombardi (noto alle cronache dei tempi come il Microfono di Dio) e Velio Spano.
Il confronto venne ospitato a Cagliari il 4 dicembre del 1948 presso il Cinema di Sant’Eulalia, all’esterno però furono piazzati degli altoparlanti che consentirono a migliaia di persone di assistere alla tenzone con le inevitabili tifoserie. Questa vicenda ebbe una grande risonanza anche nelle cronache del tempo, in Sardegna giunsero inviati di giornali stranieri oltre alle principali testate italiane, ma a noi arriva anche attraverso il racconto letterario: c’è un capitolo del romanzo di Giulio Angioni l’Oro di Fraus che lo celebra e una in poesia in “limba sarda” attraverso una riduzione riassuntiva a cura di Pietro Soru dal titolo evocativo: Roma o Mosca? eseguito secondo la struttura metrica della quartina che, in questo caso, sostituisce quella più tradizionale dell’ottava che, a quei tempi, era una forma di espressione molto praticata nella tradizione orale della poesia sarda.
Questo episodio avviene nel mezzo dello sciopero della non collaborazione dei 72 giorni dei minatori di Carbonia, una lotta importantissima per la sopravvivenza della città, che si concluderà vittoriosamente il 18 dicembre del 1948 a distanza di soli 10 anni dalla sua fondazione.
Per tanti questa data, il 18 dicembre del 1948 è stata concepita come un nuovo inizio, una sorta di rifondazione della città, è un’espressione che ho avuto modo di ascoltare da diversi protagonisti di quella lotta, alcuni dei quali sono stati discepoli di Velio Spano: da Pietro Cocco, Antonio Puggioni, Antonio Saba per citare alcuni dei più noti; Tore Cherchi nel suo libro “Città Industriale e Post Industriale” riassume efficacemente questo concetto: «Due date, il 18 dicembre del 1938 e il 18 dicembre del 1948, fra loro distanti esattamente 10 anni, segnano il primo periodo di storia della città. La prima è l’inaugurazione della città intesa come spazio costruito, l’urbs appunto. La seconda potrebbe essere considerata come conclusiva del progressivo divenire degli immigrati, infine furono cittadini e cittadine per atto di volontà individuale e collettiva, cives non solo per condizione giuridica. Il 18 dicembre del 1948 mostra plasticamente che la civitas è formata.»
Le cronache sui quotidiani del tempo, ricostruiscono con molto realismo la complessità e la drammaticità di quella lotta – compresa la dialettica interna alla CGIL – che mi pare non sia esagerato affermare, assunse una forma epica e così è giunta sino a noi; su tutte ho il piacere di segnalare la prima pagina dell’Unione Sarda del 17 dicembre del 1948 a firma di un giovane cronista di allora Peppino Fiori, che abbiamo poi conosciuto come un affermato giornalista televisivo, scrittore di successo e, infine, senatore della Repubblica eletto come indipendente nella liste del PCI.
La conclusione vittoriosa di quella lotta fu per i cittadini di Carbonia uno spartiacque, anche se le vicende successive degli anni ’50 riproposero nuovi problemi e nuovi dolori, licenziamenti e conseguente emigrazione nel nord Italia e verso le miniere della Francia, Belgio e Germania.
L’impegno istituzionale di Velio Spano in Senato per la Rinascita, il Bacino minerario, rimase costante sino alla data della sua scomparsa, ma occorre dire che l’attenzione per la sorte della città di Carbonia fu un suo continuo cruccio, su questo punto suggerisco in particolare la lettura di un suo discorso al Senato della Repubblica nella seduta del 12 ottobre del 1953, nella quale conclude il suo appassionato intervento con un’esortazione: «Salviamo Carbonia».
Credo che la decisione di ricordarlo a sessant’anni dalla sua scomparsa sia un gesto importante che assume un valore di testimonianza e insieme di gratitudine per il suo impegno politico coerente, per una militanza intesa come servizio e per un’intera vita spesa per affermare i valori di democrazia e di libertà!

Antonangelo Casula

 

In una vignetta del Corriere della Sera esiste un’illustrazione che strappa un sorriso: la porta del Paradiso è stata sfondata da un pallone di calcio sparato da “Rombo di tuono” e San Pietro, il re delle reti, non è riuscito a pararlo. L’ha subito capito: «Sta arrivando Gigi Riva».
Gigi Riva, a Cagliari, è stato ricoverato e prima di sottoporsi ad una procedura di Emodinamica interventistica immediata, ha deciso di attendere il parere-conforto della famiglia. Le sue condizioni, purtroppo, sono rapidamente peggiorate ed è sopraggiunta la morte estesa della muscolatura cardiaca con l’arresto in asistolia.
Il “tempo” che intercorre fra il momento in cui scatta l’emergenza e il momento in cui si inizia a soccorrere, è il fattore essenziale che si frappone fra il vivere e il morire.
La regola della “tempestività” è valida per il campione mondiale come per il comune cittadino del profondo Sulcis Iglesiente. La disuguaglianza tra le possibilità di sopravvivenza concesse a un cagliaritano e a noi Sulcitano – Iglesienti contrasta con la Costituzione (articoli sull’Uguaglianza), con i L.E.A. (Livelli Essenziali di Assistenza), e con i principi etici posti all’introduzione di varie leggi e decreti che regolano la Sanità Regionale Sarda.
E’ noto che la Asl 7 del Sulcis Iglesiente ha diritto ad avere un centro per le Urgenze ed Emergenze vicino alla popolazione. Tale centro, per sua natura, deve fornire assistenza immediata ai nostri ammalati e salvarli. E’ anche noto che la norma imprescindibile della tempestività qui nel Sulcis Iglesiente ha subito deroghe: l’Emodinamica d’Urgenza ed Emergenza deve restare chiusa dalla sera del venerdì, fino a tutto il sabato, tutta la domenica, e fino al lunedì mattino alle 8.00. Negli altri giorni rimane aperta per 8 ore al giorno: dalle 8.00 alle 16.00. Chi arriva al Pronto Soccorso nella condizioni di Riva deve aspettare.
Se l’infarto avviene dalle 8.00 alle 16.00 dei giorni feriali viene curato. Se arriva dopo le 16.00 o nei giorni festivi deve aspettare. Aspettare cosa? Deve aspettare che riapra il Servizio di Emodinamica, oppure deve affrontare il viaggio verso Cagliari perdendo tempo vitale. Perché? Giunto lì deve attendere altro tempo ancora perché si deve aspettare il proprio turno. Esiste infatti un’affluenza numerosa di pazienti in crisi cardiaca diretti all’ unico Centro Cardiologico e provenienti da tutto il territorio provinciale e dalla città metropolitana di Cagliari. Questa storia della iper-affluenza degli ammalati al Brotzu o al Policlinico di Monserrato è stata sperimentata quotidianamente dai fratturati di femore di queste parti a causa del nostro Servizio di Ortopedia chiuso per motivi di carenza di personale. Nei scorsi giorni, tutti coloro che andavano al Brotzu venivano messi in fila, su barelle allineate, in attesa del loro turno. E’ una situazione difficile da gestire, soprattutto per i Medici cagliaritani sopraffatti dall’esorbitante carico di richieste.
Nonostante i loro sforzi l’accumulo di malati provenienti dalla provincia comporta attese prolungate.
Lo Stato, attraverso un ente del ministero della Sanità, che si chiama Agenas, ha pubblicato da anni un documento ufficiale che si chiama “elenco dei LEA”. I “LEA” sono i “Livelli Essenziali di Assistenza”. Si tratta cioè del minimo essenziale di assistenza sanitaria che si deve fornire ai cittadini.
Tra questi, ci sono tutte le emergenze che compromettono la vita o la funzione di un organo. Ebbene, i LEA non possono rispettare i tempi della fisiopatologia ma devono piegarsi ai tempi della burocrazia.
Quale burocrazia? Quella che controlla la spesa e riduce i servizi essenziali. Così il cerchio si chiude: il diritto ai LEA è riconosciuto per legge ma non può essere erogato per motivi di bilancio.
Ciò che è successo al Campione per sua scelta, succede a tutti i malati cardiologici e ortopedici urgenti della nostra provincia: bisogna aspettare che qualcuno ti curi e nel frattempo, se è il caso, morire.
Il caso della legge sulla “Autonomia Differenziata tra Regioni” del Nord e quelle del Sud e Isole, è già concretamente rappresentato nella “Autonomia sanitaria differenziata” fra le ASL dei capoluoghi di Cagliari e di Sassari, e le ASL delle Province. Apparentemente siamo tutti uguali; in realtà esiste una forte discrepanza fra l’impiego di fondi nei due centri e nelle altre 6 ASL provinciali. A ciò si aggiunge, per quanto ci riguarda, l’assenza del potere di assumere personale, di programmare spese, e di spendere autonomamente per le nostre diverse esigenze. Significa, praticamente: non esistere come entità. Ciò ha portato alla paralisi della Sanità nel Sulcis Iglesiente, come nel Nuorese, nell’Oristanese, etc..
La citazione delle leggi che segue è noiosa ma è necessaria per capire il disastro sanitario che si prepara in aggiunta a quello attuale.
Esiste una legge regionale che genera discriminazioni: è la legge 24/2020. E’ la legge che istituì la ARES (un ente gestionale autonomo che ha risucchiato tutte le funzioni amministrative delle ASL).
In premessa, quella legge assicura equità e uguaglianza nel trattamento sanitario dei cittadini, però dispone che le ASL non abbiano gli strumenti per gestirsi. Questo è già di per sé un fatto gravissimo. Con l’avvento della “Autonomia Differenziata” avremo a che fare con una nuova legge che, seguendo la stessa logica dei LEA, creerà una situazione identica a quella appena descritta sulla Sanità Regionale. Si tratta del previsto elenco dei L.E.P. (Livelli Essenziali di Prestazioni). Cosa sono le prestazioni di cui si deve preparare l’elenco? Sono le prestazioni intorno all’Assistenza sanitaria, alla Giustizia, all’Istruzione, ai Trasporti, etc.. Praticamente, tutto ciò che riguarda i servizi che lo Stato deve fornire al cittadino. Dopo l’esperienza dei LEA con la Sanità si capisce cosa avverrà con i i LEP in tutti i Servizi pubblici. Si può ragionevolmente supporre un altro crollo del Sistema Sanitario e degli altri Sistemi sociali che sono alla base della Unità nazionale.
La nuova legge della “Autonomia Differenziata Regionale” avrà due effetti immediati:
1 – Cancellerà l’Autonomia speciale della Sardegna;
2 – Sopprimerà il “Fondo Perequativo” delle Regioni (che è quello che ci consente di avere ancora Sanità e Istruzione).
Noi Sardi per avere il nostro Statuto ci abbiamo messo molti secoli. Ora in pochi mesi potremmo perdere tutti i vantaggi dell’Autonomia speciale della Sardegna.
L’embrione della “Autonomia speciale della Sardegna” venne generato nel 1793, quando una delegazione di 5 saggi sardi si recò a Torino per chiedere al Re le “5 domande”. Si trattava di 5 richieste per dare un po’ di autonomia amministrativa alla Sardegna al fine di permetterle uno sviluppo economico dignitoso e attenuarne lo sfruttamento.
Il Re ignorò i sardi e se ne andò a caccia a Tenda. La delegazione rimase in attesa fuori dal palazzo reale per 6 mesi. Al ritorno il Re non la ricevette e rispose un “No”.
I sardi, tornati a Cagliari, si organizzarono in circoli intellettuali pseudo-rivoluzionari e infiammarono la popolazione fino al 28 aprile 1794. Il dissenso dei sardi sfociò nella cacciata del viceré Balbiano e di tutta la corte piemontese da Cagliari. Fu “Sa die de sa Sardigna”. L’unica vera rivoluzione fatta dai sardi.
In seguito quelle “5 domande” furono la base su cui si fondò l’azione dei politici sardi un secolo e mezzo dopo alla fine della II Guerra Mondiale. Quei parlamentari sardi parteciparono alla stesura del testo della Costituzione e discussero la forma da dare all’articolo 116 primo e terzo comma e all’articolo 119 contenente il principio del “Fondo Equiparativo”. E’ la legge madre sull’autonomia delle Regioni a Statuto speciale e quelle a Statuto ordinario.
Le motivazioni per la richiesta di Autonomia speciale alla Sardegna vennero scritte da Renzo Laconi e Emilio Lussu. Il motivo fu l’estrema povertà della Sardegna dopo 4 secoli di dominazione spagnola e due secoli di piemontese. Da lì emerse lo “Statuto Sardo”.
Nello Statuto, all’articolo 8, sta scritto che una parte consistente dei fondi raccolti con le tasse sarebbero rimasti in Sardegna. Così pure si riconobbe alla Sardegna il diritto a godere di un’elevata percentuale derivante dagli utili prodotti dalla produzione e distribuzione di fonti energetiche e di energia (parte mai applicata secondo una pubblicazione dell’ufficio IVA della Regione Sarda – d.ssa Tagliagambe – che oggi sarebbe interessante riportare in discussione).
Venne riconosciuta la necessità di costituire un “fondo perequativo”. Di cosa si tratta? Si tratta di un fondo formato dalla contribuzione delle regioni più ricche da utilizzare per garantire un equo ed uguale sviluppo tra cittadini delle regioni avvantaggiate e cittadini di regioni storicamente e strutturalmente svantaggiate e povere.
Oggi, con la legge sulla “Autonomia Differenziata regionale” è stato preparato il terreno normativo per ridurre, o abolire, il contributo delle regioni più ricche a favore dei servizi pubblici nelle regioni pi svantaggiate. Con i fondi che le regioni più ricche che da ora tratterranno per sé, le stesse regioni finanzieranno i propri programmi scolastici, sanitari, dei trasporti, etc. Dando titoli di studio (lauree) e Sanità superiori per valore ai nostri (chi vincerà tra i concorrenti tra un laureato a Cagliari e uno a Milano?)
Senza entrare nel merito di cosa sia equo ed eguale, e cosa no, si può già prevedere, con la fine del fondo perequativo, quale inverno sanitario stia per iniziare in Sardegna. Abbreviare il più possibile il “tempo” fra l’inizio del malore e l’inizio delle cure è costoso. Quel “tempo” costa, ed è evidente che quando i fondi diminuiranno, diminuirà anche la possibilità di sopravvivenza dei sardi, soprattutto in provincia (a dispetto dell’articolo 119 della Costituzione che garantisce a tutti uguale godimento dello “esercizio dei diritti basilari” compreso il diritto alla Salute).

L’Autonomia riconosciuta a noi sardi in Costituzione ha ragioni molto diverse da quelle che oggi sono alla base del recente disegno di legge sull’“Autonomia differenziata”. La prima fu approvata per generare coesione nazionale e sussidiarietà. La seconda invece pare avere principi e finalità differenti.

L’Autonomia sarda derivò dall’esperienza di tre secoli di sottomissione alla Spagna, da un secolo di resistenza ai piemontesi e da un altro secolo di guerre e battaglie per fare l’Italia. I sardi inventarono l’“Autonomia” per porre fine alla povertà indotta dal feudalesimo. Nei tre secoli in cui la Sardegna era stata sottoposta al dominio spagnolo, la sua amministrazione era basata su una gerarchia molto semplice.

Esisteva il “vassallo” del re che, per diritto feudale, era proprietario di tutto: delle terre, delle persone, degli animali, dei mari e dei pesci, dei boschi, insomma di tutto. L’economia era semplicissima: dentro il feudo avvenivano la produzione, il consumo e la vendita o lo scambio dei prodotti della terra; il commercio finiva lì. In un sistema economico e culturale chiuso, senza scambi col mondo esterno, la povertà era assicurata. Una siffatta povertà si è poi radicata in modo strutturale e persistente. Fino all’anno 1714 la Sardegna e il ducato di Milano furono parte integrante dell’impero spagnolo. Il regime di controllo politico a cui erano sottoposti i sardi e i milanesi era simile, ma in Sardegna la vita era infinitamente peggiore. Nel 1702, dopo la morte dell’imperatore di Spagna Carlo II, che non lasciava eredi, era scoppiata una guerra di successione terrificante tra la Francia e il resto d’Europa (Inghilterra, Sacro Romano Impero e piccolo Ducato di Savoia). Alla fine, con il trattato di Ramstatt del 1714, l’impero spagnolo venne spezzettato. Con la spartizione la Sardegna venne assegnata al duca di Savoia, il Lombardo-Veneto invece venne assegnato agli Austriaci.

La nobiltà sarda, di genealogia spagnola, mantenne in vita il regime feudale con le note conseguenze sociali, economiche e culturali di arretramento. Il Lombardo-Veneto invece fu molto più fortunato perché, nonostante mancasse la libertà politica, il regime feudale finì e l’economia, la burocrazia, la cultura e l’organizzazione sociale si adeguarono all’evoluzione post-feudale di tutta l’Europa.

Fino al 1730 circa il duca di Savoia evitò di interessarsi di Sardegna ignorando lo stesso titolo di re che gli era piombato addosso. Dal 1730, con l’intervento del primo viceré sabaudo barone di Saint Remy e, soprattutto, dal 1756 con l’opera riformatrice del conte Lorenzo Bogino, iniziarono i cambiamenti. Fu soprattutto con la nuova cultura illuminista, che proveniva dalla Francia, che i sardi cominciarono a prendere coscienza dei diritti naturali dell’Uomo e del Cittadino. A Cagliari, alla fine del 1700, nel rione di Stampace, si formarono in segreto circoli illuministi di stampo giacobino e iniziò a prendere corpo l’idea di autogovernarsi secondo i principi di uguaglianza e di libertà. Contemporaneamente esisteva un vasto movimento autonomista in Corsica alimentato da Pasquale Paoli e si instaurarono contatti fra i movimenti delle due isole. Pasquale Paoli dapprima combatté i Genovesi per liberare la Corsica dal loro dominio, poi si ribellò anche ai Francesi, divenuti i nuovi padroni. Quella ribellione non si è mai spenta completamente tanto che Paoli tutt’oggi è considerato il padre della patria corsa. Similmente anche i sardi rifiutarono di finire sotto il nuovo padrone francese, e successivamente cacciarono i Piemontesi maturando l’idea di Autonomia del popolo sardo. Tutto iniziò nel 1793. A gennaio di quell’anno le navi da guerra francesi inviate dal Comitato rivoluzionario di Salute pubblica di Parigi, al comando dell’ammiraglio Truguet, occuparono le isole di Carloforte e Sant’Antioco. Come primo atto gli occupanti-liberatori vi fondarono la prima repubblica italiana: “La Rèpublique de la Libertè”. I Carlofortini, dapprima accettarono, ma i Calasettani e gli Antiochensi no.

Una volta occupate militarmente le due isole sulcitane, le truppe francesi iniziarono la marcia su Cagliari passando dall’istmo di Santa Caterina. Allorché le truppe si inoltrarono nell’istmo vi fu un’incredibile reazione da parte di sei abitanti della zona che, saltati a cavallo e caricati gli schioppi, attaccarono i soldati francesi e in men che non si dica ne uccisero 20. Il fatto interruppe l’avanzata francese e dette tempo al cavalier Camurati, piemontese, di organizzare le sue truppe nella terraferma e di ricevere l’appoggio di armati inviati dalla curia di Iglesias. Questi erano una milizia privata bene armata e, infervorati fa un frate guerriero, un tal padre Arrius, erano pronti a tutto, pur di fermare i francesi rivoluzionari anticlericali. L’ammiraglio francese, vista quella micidiale resistenza, dimise subito l’idea di raggiungere Cagliari per quella via, reimbarcò le truppe sulle navi ancorate nel Golfo di Palmas e procedette per via mare. Dopo pochi giorni la flotta da guerra francese cannoneggiò Cagliari e sbarcò le sue truppe d’assalto nella marina di Quartu. Le guardie svizzere che proteggevano il Castello di Cagliari, si asserragliarono chiudendo i ponti levatoi. Il popolo, lasciato solo, si armò e, organizzato da leaders improvvisati come Vincenzo Sulis e Girolamo Pitzolo, sorprese i soldati invasori nelle paludi di Quartu e del Poetto e ne fece strage. I Francesi rinunciarono e ripartirono. In quelle due battaglie, quella di Santa Caterina nel Sulcis e quella di Quartu, si era manifestata, dopo molti secoli di rassegnato torpore medioevale, un nuova entità guerriera che avrebbe fatto la storia: il “popolo sardo”.

Il re piemontese in tutta risposta premiò le guardie svizzere che si erano asserragliate in Castello e ignorò il popolo che aveva difeso sé stesso e anche la sede del viceré Balbiano. I coscritti dei circoli stampacini, approfittando dei meriti maturati in quel momento, organizzarono un Commissione per chiedere udienza al re a Torino e proporgli le cosiddette “cinque domande”. Si trattava di richieste apparentemente molto semplici ma che contenevano fondamentalmente il riconoscimento e la legittimazione del “popolo sardo” come nuovo soggetto da prendere in considerazione e introdurre nell’apparato per l’amministrazione e la difesa della Sardegna. Si trattava, di fatto, del primo abbozzo scritto dell’idea di “Autonomia” sarda. Il re Vittorio Amedeo III, molto regalmente, ignorò la Commissione e la lasciò in attesa fuori dal suo palazzo per 6 mesi, poi respinse le “5 domande”. Fu una grande umiliazione.

A Cagliari, nel quartiere di Stampace, per reazione fervèttero ancor di più le riunioni dei circoli giacobini allo scopo di creare una coscienza popolare rivoluzionaria. Qui, un anno dopo le battaglia contro i francesi, maturarono i fatti di “Sa Die de Sa Sardigna”: il 28 aprile 1794. Quel giorno, non potendone più degli arresti e delle provocazioni delle guardie del Viceré, il popolo si rivoltò e puntò armi e cannoni contro Castello. La battaglia fu intensa, con morti da ambo le parti, è finì con la conquista della piazzaforte e con lo “Scommiato”, cioè la cacciata da Cagliari dei Piemontesi che vennero imbarcati su navi dirette a Genova. Con questi eventi violenti il popolo sardo entrò nel vortice delle rivoluzioni della fine del 1700 e con la sua rivolta contro i Savoia divenne attore di primo piano nello stesso violento scenario storico per portò all’Indipendenza degli Stati Uniti di America con Giorgio Washington e al Terrore di Parigi con Robespierre. Il re di Sardegna si trovò all’improvviso dentro la Rivoluzione che stava agitando l’Europa; capì la situazione e accettò immediatamente le “5 domande”. Fu la prima pietra storica dell’edificio giuridico che in 150 anni avrebbe sancito l’Autonomia Speciale della Sardegna. In quella storia di rivoluzione e riscossa avvenne un triste fatto emblematico dell’insofferenza del popolo sardo. Due dei Commissari sardi, rappresentanti del movimento patriottico, che si erano recati a Torino e avevano concordato i termini della compartecipazione della Sardegna alla nuova gestione, il marchese della Planargia e Girolamo Pitzolo, accettarono dal re incarichi e privilegi personali, diventando di fatto collaborazionisti dell’apparato di controllo politico straniero. Furono cioè cooptati nel sistema di potere piemontese. Tale posizione era in netto contrasto con le idee più radicali di Autonomia rappresentate da Giovanni Maria Angioy. Ciò creò nei sardi, che si sentirono traditi, un forte risentimento che esplose in una rivolta sanguinosa con il massacro dei due, avvenuto a Cagliari nel luglio 1795.

Il sogno dell’autonomia coltivato dai sardi con “Sa Die de sa Sardigna del 1794” non fu facile da realizzare; dopo l’accettazione delle “5 domande” quel sogno fu represso da frustrazioni dolorose che andarono avanti per tutto il 1800. I sardi, per le doti guerriere che avevano dimostrato, erano diventati, per il re di Sardegna, un esercito di soldati professionisti, fedeli, coraggiosi e micidiali, da utilizzarsi in battaglia. Furono impiegati efficacemente a fianco dei Francesi contro i Russi in Crimea nel 1853-56. Subito dopo Napoleone III accettò di aiutare il regno Sardo nella Seconda guerra d’Indipendenza. Da allora i sardi rappresentarono il nerbo delle forze speciali in tutte le guerre che seguirono. Questo non fu dimenticato.

Fin dall’inizio del 1800, al centro dell’interesse, nella vita civile dei sardi, vi era sempre stata la rinascita dell’Isola, partendo dall’agricoltura. Il dibattito che ne era seguito in sede di governo aveva generato l’editto delle “chiudende”, nella convinzione che la distribuzione al popolo delle terre dei Salti o ademprivi, avrebbe favorito una nuova economia imprenditoriale.

Tale metodo di distribuzione del latifondo reale era stato sperimentato nel regno Unito con qualche successo. In Sardegna fu un fallimento, perché le terre finirono nelle mani dei più ricchi e i poveri rimasero senza pascoli e senza terra libera da coltivare, perché i salti vennero inglobati nel latifondo privato. L’uscita dalla mentalità feudale si rivelò difficilissima. Durante tutto il secolo vennero istituite diverse commissioni parlamentari che svolsero inchieste per trovare una soluzione alla cronica povertà dell’Isola. Nel 1897 venne approvata la prima legge speciale per la Sardegna. Ad essa seguirono le leggi speciali del 1902 e 1914. Alla fine si approdò alla legge nota come “Legge del Miliardo” con cui si disposero spese per l’esecuzione di opere pubbliche finalizzate ad ottenere una maggiore produzione e migliorare il tenore di vita della popolazione.

L’Italia neonata aveva continuato ad utilizzare i sardi in prima linea in tutte le guerre che seguirono. Da quelle in Africa a quelle in Europa. I sardi furono messi al centro del fronte di tutte le battaglie dell’Isonzo nella prima Guerra mondiale, e furono essi, con la Brigata Sassari, i temuti “diavoli rossi”, che protessero le truppe italiane in fuga dai cacciatori austriaci nella ritirata di Caporetto. Dai reduci di quella guerra nacque il Partito sardo d’Azione con un programma Autonomistico. L’Autonomia sarda non fu bene accetta dal Fascismo ma riprese vigore alla fine della Seconda Guerra Mondiale, con la richiesta di introdurre in Costituzione il riconoscimento della Sardegna come regione ad Autonomia Speciale.

Il riconoscimento avvenne il 26 febbraio 1948, con la legge n. 3. I padri Costituenti che presentarono le motivazioni per la concessione dell’“Autonomia Speciale” alla Sardegna furono Emilio Lussu e Renzo Laconi. La sintesi delle motivazioni fu: «Povertà secolare per una storica sottomissione che ne ha impedito lo sviluppo economico».

I Costituenti Repubblicani tennero conto delle diverse istanze provenienti dalle regioni e optarono per concede ad alcune di esse l’Autonomia speciale, nel rispetto del principio di indivisibilità della Repubblica e della sussidiarietà tra le regioni.

Vennero riconosciute “Regioni a Statuto speciale” la Sicilia, la Sardegna, la Val d’Aosta, il Trentino alto Adige ed il Friuli Venezia Giulia.

Le motivazioni erano basate su ragioni storiche, geografiche, economiche, per contenere spinte autonomistiche e per la tutela delle minoranze linguistiche.

Ai Consigli regionali delle regioni elencate venne riconosciuto potere legislativo con la possibilità di produrre leggi concorrenti con lo Stato. Fu altresì riconosciuta a tali regioni la competenza ad imporre tributi propri e la capacità di trattenere per i propri bisogni una percentuale del gettito fiscale di alcune imposte statali che poteva essere anche del cento per cento (per esempio sulla produzione e consumo di energia).

Ora questo privilegio, che fu concesso per necessità, è in pericolo.

Una trentina d’anni fa un nostro conterraneo sulcitano, rappresentante sardista, venne invitato ad una cena politica organizzata dal leghista Roberto Maroni in una città del Nord. In quella cena i leghisti vantarono la loro superiorità morale, economica e politica rispetto al Sud. Il nostro uomo prese la parola e rispose: «…evidentemente non sapete che se voi oggi esistete come popolo libero e ricco lo dovete a noi sardi che nel 1859, quando voi eravate l’estrema periferia dell’impero austro-ungarico, con le battaglie di Solferino, di San Martino e di Magenta, vi liberammo dall’oppressore e vi facemmo assaporare l’indipendenza; con la libertà conquistata da noi avete potuto diventare quello che oggi siete».

Questa fu la posizione del sardo quel giorno. Oggi è vecchio e continua a pensare allo stesso modo; non so se le nuove generazioni abbiano la stessa consapevolezza della nostra storia.

Il direttivo del circolo del Partito democratico di Sant’Antioco nella seduta del 28 marzo scorso ha approvato all’unanimità la proposta di intitolazione della sezione a Renzo Laconi.
Nato a Sant’Antioco il 29 giugno 1916, Renzo Laconi è stato uno dei 75 Padri Costituenti della nostra Carta Costituzionale, deputato e tra i politici che hanno profuso il maggior impegno sulla questione meridionale e sui temi dell’autonomia della Sardegna.
«Uomo di grande spessore e alto valore morale, Renzo Laconi ha basato la sua azione non solo sui grandi temi regionali e nazionali, ma soprattutto sulla giustizia sociale e sui diritti dei più deboliha detto il segretario cittadino Mariano Gala -. Sono queste le personalità politiche alle quali facciamo riferimento e alle quali intendiamo ispirare il nostro agire politico, oggi e sempre.»

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Il 7 giugno l’Associazione Amici della Miniera ricorda la figura di Aldo Lai, sindaco di Carbonia negli anni della lotta per il passaggio all’Enel della miniera di Serbariu con le sue maestranze. In occasione di questo ricordo, pubblichiamo una rievocazione della mobilitazione di Carbonia alla metà degli anni ‘60, conclusasi positivamente.

Nel 1963 si sviluppa a Carbonia un movimento nuovo, che sorge lentamente dal basso, per il passaggio della SMCS all’Enel, l’Ente di recente formazione, che già stava incorporando concessioni minerarie in alcune regioni della Penisola. Le prime azioni di lotta degli operai attraverso picchetti nei piazzali e marce tra Seruci e Carbonia, mentre il Sindacato è da tempo impegnato nel rinnovo contrattuale e nella battaglia per un piano di riqualificazione della manodopera.

Testimonianza ancora viva di quel movimento restano i documenti del tempo, a partire da un Comitato della Federazione del PCI, settembre 1962, in cui il Segretario regionale Renzo Laconi si sofferma sulle “rivendicazioni sostanziali”, che riguardano in particolare i problemi dell’energia elettrica. A dimostrare quanto la nazionalizzazione delle società elettriche non potesse non ascriversi al successo dell’impegno di Sinistre e Sindacati italiani, nelle lunghe lotte contro le grandi imprese produttrici di energia, in regime di monopolio assoluto.

E le prime assemblee ed i primi scioperi, nei documenti della Camera del Lavoro, del 28 gennaio 1964, che cominciano lentamente a delineare le tappe dell’azione in riferimento ai “lavoratori addetti alla perforazione del sottosuolo”, fino a prefigurare un allargamento ai minatori di Carbonia del Contratto Collettivo dei lavoratori elettrici, come stava già avvenendo in altre miniere della Penisola. E del 1 settembre 1964, in cui alla piattaforma rivendicativa sul Contratto integrativo si affianca la rivendicazione del passaggio all’Enel di tutti i lavoratori di Carbonia, quelli della miniera e quelli dell’esterno. Fino al documento che annuncia lo sciopero generale per l’8 marzo 1965, nei giorni dell’insediamento della nuova Giunta di Centro Sinistra.

La città risponde con le prime adesioni agli scioperi, alle manifestazioni di protesta e all’occupazione dei pozzi, mentre sorgono i nuovi organismi rappresentativi delle varie categorie riunite nei Comitati di difesa e sviluppo del Sulcis, e quelli dei disoccupati che sottoscrivono una vera e propria Carta rivendicativa, mentre numerosissimi si susseguono i convegni indetti dall’Amministrazione comunale e le sedute aperte del Consiglio stesso, quelli organizzati dalle Commissioni interne e poi dalle associazioni femminili e giovanili, uno per tutti, il 5 febbraio 1966.

Già la lettera del sindaco di Centro Sinistra Aldo Lai, 5 marzo 1965, scritta subito dopo l’insediamento e destinata agli onorevoli Nenni, De Martino e Matteotti, sembra voler prefigurare il quadro complessivo dell’intervento politico a tutti i livelli. Intanto, con la richiesta diretta al Partito Socialista di sostegno e di appoggio, il problema «il più urgente, il più attuale è il passaggio all’Enel per il quale la nostra Direzione Nazionale e i compagni di governo si sono battuti e sono convinto si batteranno fino in fondo». E poi il documento di Programma della Giunta «Il passaggio all’Enel è rinascita per la città a garanzia della stabilità della modesta manodopera rimasta, verso la costruzione di industrie manifatturiere che creino nuova occupazione nel territorio». E poi il coinvolgimento si allarga ai consiglieri regionali e al presidente Efisio Corrias, come dimostra il considerevole carteggio fra le due amministrazioni.

Delegazioni cittadine presso la Giunta regionale e a Roma, che portano le richieste dei lavoratori e della città, come nell’ordine del giorno del Consiglio regionale, 15 ottobre 1965, in preparazione dell’incontro del Sindaco Lai e del Presidente Corrias con i Ministri per il Mezzogiorno e per l’Industria, uno dei tanti che punteggiano questo lungo e impegnativo iter del “passaggio all’Enel”. Il 1965, l’anno del passaggio all’Enel per almeno tremila dei minatori di Seruci e Nuraxi Figus, esclusi quelli di Serbariu, più precisamente a seguito dell’intervento diretto della Corte dei conti.

Sarà la delegazione del 1966, a definire il trasferimento di tutti i lavoratori di Carbonia, proprio mentre si concludeva la marcia dei minatori su Cagliari, ancora preceduta da mobilitazioni e convegni, tra i più significativi quello dell’Amministrazione comunale, il 12 e 13 febbraio 1966: una massa che muove dalla città che raccoglie la solidarietà di molti comuni, da Domusnovas ad Assemini, presso la cui Sala consiliare si svolge l’assemblea conclusiva, prima che la delegazione parta per Roma, dove si compie l’atto finale.

«In una sola seduta – testimonia il sindaco Aldo Lai – Andreotti impose il Contratto Enel anche ai più recalcitranti tra i ministri e i dirigenti dell’Ente.»

Gianna Lai

 

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L’Amministrazione comunale di Sant’Antioco ha stanziato 350.000 euro per la realizzazione del “Programma di interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria del mando stradale per ripristinare le condizioni minime di sicurezza per veicoli e cittadinanza”. Una cifra che va ad aggiungersi alle somme già stanziate nel 2018, grazie alle quali sono state messe in sicurezza una trentina di strade. Con il Piano del 2019 si interverrà sia in ambito urbano (principalmente) sia in ambito extra-urbano.

«Sin dal nostro insediamento abbiamo indicato tra le priorità – commenta il sindaco Ignazio Locci – quella di mettere mano alle strade di Sant’Antioco che necessitano urgentemente di interventi di ripristino, liberando importanti risorse: l’anno scorso oltre 300mila euro, quest’anno 350mila. Siamo consapevoli che anche con il progetto del 2019 non riusciremo a concludere l’intero Piano dell’asfalto, ma proseguiremo su questa strada.»

Con i fondi frutto del ribasso di gara dell’appalto 2018 ed in attesa che prenda avvio il Piano appena approvato, intanto, nelle prossime settimane si procederà con la bitumazione di via Matteotti, da via Renzo Laconi fino all’intersezione con viale Trento, e da viale Trento fino all’incrocio con via Campidano.

«Nel 2019 – spiega l’assessore dei Lavori pubblici Francesco Garau – si interverrà prioritariamente sui tratti di strade presenti in centro urbano che, a causa dei continui lavori di adeguamento dei sottoservizi a cui si aggiungono i danni prodotti dalle abbondanti precipitazioni autunnali, manifestano una scarsa tenuta del manto stradale, con conseguenti problemi di sicurezza e percorribilità. L’elenco delle strade è ampio e, per citare alcuni esempi, si rifarà la centralissima via XXIV Maggio, nonché il tratto non ancora ripristinato di viale Trento, da via Nazario Sauro fino a via Campidano, mentre in ambito extra-urbano si provvederà a bitumare l’ultimo tratto di via Golfo di Palmas, a Maladroxia.»

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La Giunta comunale di Sant’Antioco ha approvato il progetto di completamento del “Piano di interventi di messa in sicurezza straordinaria del manto stradale” che, nei mesi scorsi, ha consentito di rifare il tappeto a ben 22 strade cittadine. Il completamento, che utilizza le economie derivanti dal ribasso di gara, prevede la bitumazione di via Matteotti, a partire da via Renzo Laconi fino all’intersezione con via Campidano, comprendendo, dunque, anche il tratto di viale Trento particolarmente usurato. «Portiamo a conclusione un ampio progetto di messa in sicurezza di un’arteria particolarmente battuta dalle automobili – commenta l’assessore dei Lavori pubblici Francesco Garau – iniziato con la rimozione dei pini, che negli anni avevano creato numerosi avvallamenti ed evidenti problemi di sicurezza, e la realizzazione di nuovi marciapiedi».

L’obiettivo più generale è quello di aumentare il livello di sicurezza dei cittadini e riqualificare, dal punto di vista ambientale e funzionale, il complesso del sistema viario nel tratto terminale di via Matteotti e di viale Trento. «L’asfalto, infatti, non è l’unico intervento in programma – chiarisce l’assessore Francesco Garau – recentemente abbiamo deliberato l’utilizzo di nuovi spazi finanziari stanziando 150 mila euro per il potenziamento dell’illuminazione pubblica: tra le operazioni da mettere in cantiere, anche la creazione dei punti luce nella porzione di viale Trento in cui sono assenti, dall’intersezione con via Matteotti all’incrocio di via Campidano». 

Ma non solo: nel corso del 2019 si metterà definitivamente in sicurezza tutta la dorsale di viale Trento. «Presto manderemo in appalto un nuovo Piano dell’asfalto – conclude l’assessore dei Lavori pubblici – che, con un investimento di oltre 300 mila euro, ci permetterà di bitumare, nel corso del 2019, un consistente numero di strade. Tra queste, appunto, anche il tratto di viale Trento su cui ancora non siamo intervenuti: dall’intersezione con via Nazario Sauro all’intersezione con via Campidano. La dorsale verrà così completata e messa definitivamente in sicurezza».

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Hanno preso avvio questa mattina, a Sant’Antioco, i lavori di riqualificazione di via Matteotti, arteria cittadina particolarmente battuta dalle automobili e zona della città densamente popolata. Le opere, in questa fase, prevedono la realizzazione dei marciapiedi ed il rifacimento delle pavimentazioni stradali degradate. Il progetto di riqualificazione è iniziato nel febbraio scorso con il taglio dei 78 pini posti sul ciglio della strada che avevano assunto dimensioni tali da impedire il transito pedonale, rappresentando un rischio sia per la viabilità stradale, sia per i cittadini. Le imponenti radici, oltre ad aver letteralmente mandato in frantumi i marciapiedi, hanno creato pericolosissimi avvallamenti anche nella carreggiata.

«Il nostro obiettivo – spiega l’assessore dei Lavori pubblici Francesco Garau – è aumentare il livello di sicurezza dei cittadini e riqualificare, dal punto di vista ambientale e funzionale, il complesso del sistema viario. Con questo intervento, infatti, riusciremo ad assicurare la percorribilità della strada in sicurezza sia alle automobili, sia ai pedoni.»

Nello specifico, i lavori si riferiscono principalmente alla sostituzione parziale del manto di via Matteotti, nelle parti interessate dal logoramento causato soprattutto dalle radici degli alberi ed alla ricostruzione dei marciapiedi da via Renzo Laconi all’incrocio con viale Trento. Non solo: i lavori di costruzione dei marciapiedi proseguiranno anche nel lato opposto della strada (lato sinistro in direzione viale Trento), dove ancora non sono stati realizzati. Per il futuro, con apposito progetto di completamento, si prevede la bitumazione completa della carreggiata di via Matteotti, da via Renzo Laconi fino a viale Trento, un ulteriore potenziamento dell’impianto di illuminazione pubblica e la predisposizione della segnaletica stradale.

«Invito i cittadini, in particolare i residenti della zona di via Matteotti – commenta il sindaco Ignazio Locci – a portare pazienza, in quanto i lavori in corso comporteranno l’inevitabile spegnimento dei lampioni stradali posizionati sui marciapiedi. Faremo in modo che l’illuminazione pubblica venga ripristinata nel più breve tempo possibile.»

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Il comune di Sant’Antioco investirà 160mila euro per la manutenzione e la messa in sicurezza della viabilità nel tratto terminale di via Matteotti e di viale Trento. L’obiettivo è aumentare il livello di sicurezza dei cittadini e riqualificare, dal punto di vista ambientale e funzionale, il complesso del sistema viario con la realizzazione dei marciapiedi e il rifacimento delle pavimentazioni stradali degradate. Il progetto ha preso il via con il taglio dei 78 pini di via Matteotti che avevano assunto dimensioni tali da impedire il transito pedonale, rappresentando un rischio sia per la viabilità stradale, sia per i cittadini. Le imponenti radici, oltre ad aver letteralmente mandato in frantumi i marciapiedi, hanno creato pericolosissimi avvallamenti anche nella carreggiata.

«Interveniamo in via Matteotti, un’arteria particolarmente battuta dalle automobili e zona della città densamente popolata – commenta l’assessore ai Lavori pubblici Francesco Garau – con un ampio progetto di manutenzione dei marciapiedi e della strada, il cui appalto è attualmente in fase di aggiudicazione.» 

«In particolare – aggiunge l’assessore Francesco Garau – i lavori si riferiscono principalmente alla sostituzione parziale del manto di usura di via Matteotti, interessato da un evidente logoramento nella parte superficiale causato soprattutto dalle radici degli alberi, e alla ricostruzione dei marciapiedi lungo tutto il tratto interessato dal taglio degli alberi: da via Renzo Laconi all’incrocio con viale Trento. Non solo: i lavori di costruzione dei marciapiedi proseguiranno anche nel lato opposto della strada, e in un tratto di viale Trento: tutta via Matteotti sarà così finalmente percorribile dai pedoni senza il rischio di inciampare in pericolosi avvallamenti.»

Per il futuro, infine, con apposito progetto di completamento, si prevede la bitumazione di via Matteotti da via Renzo Laconi fino a viale Trento, un ulteriore potenziamento dell’impianto di illuminazione pubblica e la predisposizione della segnaletica stradale.